Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Caris    11/03/2017    1 recensioni
"Anche se non è vero, spesso e volentieri: si è già diventati un’opera d’arte, a modo nostro, come qualsiasi opera d’arte, dopotutto, un bozzetto a carboncino su carta pregiata che, in sé, ha già tutta la potenzialità di un vero e proprio capolavoro"
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
You're still young, that's your fault

 “I was once like you are now, and I know that it's not easy to be calm when you've found something going on, but take your time, think a lot. Why? Think of everything you've got for you will still be here tomorrow, but your dreams may not”. 1

In un colore sbiadito, in una, cento, mille parole non comprese, in tanto impegno non ricompensato, in tante, troppe speranze spese a vuoto, e tra tomi e pagine polverosi.

Il problema dell’essere giovani è questo: non capire chi siamo, cosa stiamo facendo, dove stiamo andando, cosa faremo nel nostro domani.

Oppure, ahinoi, comprenderlo fin troppo bene.

E temere quel domani così inesorabilmente lontano, ma anche fin troppo vicino.

Perché si teme quel che si diventerà.

Si teme di non essere all’altezza, quando l’asticella degli standard si alza troppo, e di deludere chi si ha intorno.

Senza capire che quelle stesse persone sono al loro posto, al tuo fianco, proprio per aiutarti a rialzarti dopo una brutta caduta.

Perché dopo le cadute ci si rialza, si impara a farlo, col tempo.

Sempre.

Ma quando si è giovani ed ancora questo non si è compreso, è difficile, tanto, troppo difficile.

I vestiti ci stanno stretti, sformati e scoloriti su una figura che ancora non ha trovato sé stessa.

Anche se non è vero, spesso e volentieri: si è già diventati un’opera d’arte, a modo nostro, come qualsiasi opera d’arte, dopotutto, un bozzetto a carboncino su carta pregiata che, in sé, ha già tutta la potenzialità di un vero e proprio capolavoro.

Ma noi non lo capiamo, e quel foglio ben levigato, candido e bellissimo, lo appallottoliamo e lo gettiamo da parte, dimenticandolo.

I libri ci sembrano noiosi, polverosi e pesanti, anche se in quel mare di carta ed inchiostro, lettere e sillabe, perderemmo volentieri noi stessi, con la sola paura di non riemergere mai.

Senza nemmeno sapere se sarebbe davvero una benedizione, sì, quella di sparire tra le righe di quel pesante tomo, la copertina rigida ed ornata.

E no, la risposta non è MAI quella di sparire: la nostra vita appartiene anche alle tante persona che abbiamo intorno e che ci vogliono bene.

E bisogna imparare che il vuoto che lasceremmo è troppo grande per essere colmato, anche se si pensa di non valere nulla, di essere facilmente sostituibili.

Certo che lo siamo: ognuno di noi lo è, ma, al contempo, è una piccola gemma sulla vita di un altro.

Quindi non pensare di sparire: non servirebbe.

La vita, dopotutto, è bella proprio perché va vissuta, fino in fondo, nel bene e nel male, un po’ come il matrimonio.

“Your life is not your own. Keep your hands off it.”.2

L’impegno non ci sembra mai abbastanza,  MAI, sebbene ci sembra di non fare altro che questo: impegnarci, sì, allo stremo, per qualcosa in cui crediamo e che amiamo.

Eppure quell’obiettivo, quella meta, si allontana ogni giorno di qualche passo, diventando utopica e distante.

Lottare per raggiungerla, però, sarà la soddisfazione che avremo infine una volta giunti.

Dove?

A casa.

Dove apparteniamo e dove sempre avremmo voluto stare.

Perché, di questo dobbiamo essere certi, ci arriveremo.

Passioni che scorrono, come fotografie sbiadite e parole solitarie su una pagina, la penna che non riesce a scrivere.

Eppure noi VORREMMO farlo.

Vorremmo vedere, sentire, scrivere, fare.

Ma qualcosa ce lo impedisce.

Non sappiamo ancora, probabilmente, che quel qualcosa siamo noi stessi.

Che ci mettiamo di fronte, costantemente, piccoli-grandi ostacoli, come una prova continua contro noi stessi.

Impareremo, un giorno, che per andare avanti dobbiamo solo imparare a volerci bene per quelli che siamo.

Perché quello che siamo è l’unica cosa che conta.

Non contano i pareri, le voci, le paure, gli esami, gli insuccessi, ma solo quello che NOI siamo e sappiamo di essere.

E di questo dobbiamo imparare ad andare fieri.

Se non ci amano per quello che siamo, semplicemente, lo sbaglio non risiede in noi, ma negli altri: a modo nostro siamo già perfetti come siamo.

Certo, ciò non esclude che si possa ancora crescere, migliorare, imparare.

Siamo giovani, dopotutto: il tempo non ci manca, l’energia nemmeno.

L’autocritica e la volontà di migliorarsi sono buone, ma senza eccedere.

Perché senza quel pizzico di amor proprio non impareremo mai che a tarparci le ali siamo proprio noi stessi, da soli, con le nostri mani, che, per paura, insicurezza, timore, ci impediamo, ogni giorno, di spiccare il volo.

Anche se ce lo meriteremmo.

Procedendo per luoghi comuni potremmo dire: la vita è un esame.

Crescendo impareremo quanto è vero.

E quanto questo vada interpretato come sfida, mai come sconfitta.

Tutto ciò che vorremmo dire, ogni giorno, ci resta impigliato in gola, semplicemente, perché temiamo di essere giudicati.

Quando siamo giovani, l’ALTRO è un ostacolo, una paura, una sofferenza.

Poi, magari, impareremo che l’ALTRO è solo ricchezza.

Che dalle cattiverie si impara e dall’amicizia di (ri)nasce, ogni giorno.

Nel ripetersi dei giorni, di pagine, messaggi, pasti e paure, ci sentiamo sempre uguali a noi stessi, inesorabilmente, e non capiamo quanto siamo speciali, troppo occupati ad osservare quanto lo sono gli altri.

Altro luogo comune: l’erba del vicino è sempre più verde.

Beh, invece di temere che il vicino ci derida per la nostra erba magari ancora un po’ spelacchiata, che non si è ripresa da una brutta gelata, chiediamo allo stesso vicino cosa ha fatto per rendere la propria così rigogliosa.

La risposta, come la gentilezza, spesso ci stupirà.

La paura, infine, costante e tremenda, di essere abbandonati, di sentirsi soli, di non aver nessuno accanto a cui raccontare le più piccole cose: cosa hai fatto oggi, cosa hai mangiato, cosa hai letto, cosa hai acquistato, cosa hai detto, scritto, pensato.

Perché l’affetto si nasconde nelle piccole cose, ma noi, tutt’oggi, non lo capiamo.

Spesso temiamo di essere lasciati, senza capire che, così, involontariamente, lasciamo andare, noi, per primi, per timore di essere feriti.

Solo allora capiamo che è meno doloroso lasciare, anche se, di questo, non dobbiamo farci vanto: lasciare fa meno male, ma, dopotutto, pensiamo a chi lasciamo indietro?

“It's easier to leave than to be left behind: leaving was never my proud”.3

Finchè, almeno, non si incontra qualcuno più testone di noi, che, inesorabilmente, ci resta vicino in tutto e per tutto, stupendoci ed aiutandoci ogni giorno.

Non sempre pensiamo che chi abbiamo di fronte potesse essere esattamente come noi e che possa quindi capire.

Ma è giusto: crediamo nell’unicità di noi stessi, per quanto la possiamo percepire sbagliata.

Solo che non è MAI sbagliata: nel nostro essere unici, siamo già perfettamente compiuti.

E qualcuno che lo capirà, prima o poi, arriverà.

Forse è già arrivato e noi nemmeno lo sappiamo.

Ogni mattina, svegliandoci, pensiamo ai sogni che stiamo lasciando svanire.

Dovremmo imparare a corrergli dietro, a quei sogni, senza arrendersi: non sapremo, dopotutto, se domani saranno ancora lì ad aspettarci.

In una lunga predica come questa, che non vuol essere né apologia né rimprovero, solo pensieri, sparsi, triturati, forse, triti e ritriti, soprattutto, si può individuare una sola colpa: essere giovani.

Perché essere giovani è bello, forse, sì, come dicono gli anziani, senza rughe e con tanta energia, ma fa anche decisamente schifo.

Semplicemente perché ci si sente incompleti, soli, stupidi, spaventati, incapaci, ma, in realtà, si è solo e soltanto giovani.

 

 

NdA: A Simona, che, ogni giorno, col suo essere meravigliosamente sé stessa, mi fa comprendere un po’ meglio me stessa. Tu sai a cosa mi riferisco e cosa voglio dirti, anche se, probabilmente, te l’avrò già detto mille volte.

*Il titolo della storia viene dal testo della canzone “Father&Son”, Cat Stevens, “Tea for the Tillerman” (1970).

1 “Father&Son”, Cat Stevens, “Tea for the Tillerman” (1970).

2 “The Case-Book of Sherlock Holmes”, A. Conan Doyle (1927).

3 “Leaving New York”, R.E.M, “Around the Sun” (2004).

 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Caris