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Autore: Black Swallowtail    14/03/2017    0 recensioni
Nelle profondità dei Labirinti Phtumeriani, attraverso lunghe, intricate gallerie oscure ed abbandonate, si nasconde quel che resta di un dono di creature irraggiungibili dall'uomo. Attraversando questa antica tomba, un gruppo di scolari di Byrgenwerth scopre ciò che metterà in moto gli eventi che cambieranno il mondo — il Sangue Antico.
I giovani studiosi, con in mano la chiave di volta per trascendere l'umanità, daranno il via ad una catena di eventi che li porterà a lacerare il velo che divide umanità da bestialità, che aprirà i loro Occhi su quel che risiede sopra di loro.
Anni prima degli eventi di Bloodborne, si snoda la storia di Gehrman, Maria, Laurence, Micolash, Caryll e Willem — gli Scolari del Sangue Antico.
"Se solo avessimo saputo a cosa stavamo andando incontro, forse ci saremmo fermati.
O forse, come falene attirate da una fiamma, avremmo seguito fino all'ultimo il pallido fantasma di una sapienza cosmica, trascendentale.
Forse, eravamo destinati a bruciare fin dal principio. "
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gehrman, Lady Maria, Laurence, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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V —“Curse the fiends, their children too.”

 

“Eccolo… il Villaggio di Pescatori.”

Gehrman mi indica con un secco cenno del capo l'agglomerato di case su palafitte, dall'aria malandata e divorata dal mare, che sembrano a malapena reggersi in piedi. In un'insenatura direttamente sul mare, si estende il centro abitato, casupole che in lontananza non brillano nemmeno di una singola luce. L'intero luogo è avvolto nel buio, a stento illuminato dal riflesso lunare che faticosamente si fa strada tra le ultime nubi temporalesche. Mi mordo il labbro nervosamente, ma il mio mentore sembra calmo, senza nemmeno un accenno di dubbio o nervosismo, in quello che stiamo facendo.

Gli ho spiegato la situazione mentre eravamo nella carrozza che ci ha lasciati non troppo lontano dal paese, gli ho raccontato le parole gridate dalla paziente, come sembrassero perfettamente combaciare con la morte del Grande Essere chiamato Kos, quasi, in qualche modo, fosse riuscita a sentirla, ad avvertirne la morte; come se lei stessa fosse precipitata nel fondo del mare, gettata nelle profondità oscure degli abissi dove il corpo della divinità risiedeva, prima di essere portato sulla spiaggia dalla tempesta, ma nonostante ciò non si è scomposto. Mi ha semplicemente guardato negli occhi con un mezzo sogghigno, una sorta di sorriso che si riserva ai bambini troppo fantasiosi, “Limitiamoci a fare il nostro lavoro,” ha risposto, senza prestarmi troppa attenzione, “Lascia che siano Laurence e Micolash ad occuparsi di quello.”

Ma le parole della donna non vogliono abbandonarmi. Per quanto possa essere stata una coincidenza, sarebbe prendersi in giro catalogarla come tale; ogni volta che ci ripenso, un leggero brivido serpeggia sulla mia pelle, come un gelido tocco invisibile e devo chiudere gli occhi per scacciarlo. Ma Gehrman ha ragione, non possiamo permettere alla suggestione o alle parole deliranti di una paziente di ostacolarci, né agli scrupoli di porci un limite. Siamo andati troppo avanti, per abbandonare la strada che abbiamo intrapreso – se tornassimo indietro, sarebbe stato tutto un inutile spreco. Ora che la verità ci sembra così vicina, ora che un Grande Essere è alla nostra portata, non possiamo assolutamente permetterci di vacillare. O di dubitare.

Gehrman mi passa il suo cannocchiale, “Dà un'occhiata.”

Obbediente, lo porto agli occhi, puntandolo contro le casette fatiscenti, bagnate dal mare, probabilmente a causa della alta marea e della furia scatenata dalla tempesta, che ha fatto alzare il livello dell'acqua fino a lambire e quasi a sommergere molti edifici. Aggiusto il fuoco, nel tentativo di osservare il dettaglio indicatomi, sulla pallida spiaggia che, da questa distanza, è solo una striscia di sabbia biancastra. Tuttavia, seguendo il suo indice, riesco a scorgere qualcosa, una forma indefinita, come una massa mortalmente pallida, abbandonata, come una sorta di creatura marina immobile, depositata probabilmente dalla rabbia di un'onda più furiosa delle altre.

Gli getto un'occhiata, una tacita domanda alla quale risponde con un secco cenno del capo. Quello è il nostro obbiettivo, in fondo al villaggio, il cadavere del Grande Essere conosciuto come Madre Kos. Non sappiamo esattamente come verremo accolti dagli abitanti del Villaggio, o se ne siano rimasti ancora vivi. È probabile che siano tutti morti, massacrati dalla punizione divina, dal maremoto che li ha riempiti di acqua. Il mare agonizzante per la perdita della sua regina li ha distrutti.

“Sei pronta?” allunga la mano sull'arma poggiata alle spalle, l'inquietante falce contorta, forgiata per essere divisa, trasformarsi in una sciabola, quel tipo di arma che lui definisce “Trick Weapon”, facendola scattare, allungandone il manico con un secco rumore di giunture, “Non avremmo alcuna pietà, per nessuno.”

“Se qualcuno è rimasto in vita.” puntualizzo, poggiando la mano sulla Rakuyo, “Non ho visto luci o movimenti, con il cannocchiale. Possibile che il mare li abbia uccisi tutti?”

“Lo scopriremo tra poco.”

Iniziamo la discesa lungo il fianco ripido della collina, inerpicandoci giù per un sentiero serpeggiante e ghiaioso, punteggiato di rocce erose dal vento e dalle intemperie. Il tifone sembra essersi placato ed ora la cappa di nuvole nere e pesanti riposa silenziosa sulle nostre teste, piangendo, di quando in quando, qualche gelida goccia che cade senza suono attorno a noi. La notte è sinistramente silenziosa, nessun rumore sembra spezzare l'aria di sospensione, quasi di irrealtà, che ci avvolge, mentre ci avviciniamo sempre di più al Villaggio. Stiamo per incontrare un Grande Essere… o meglio, il suo cadavere. Quindi, sono creature che possono morire, non importa quanto siano potenti, magnificenti, quasi divini, rimangono pur sempre esseri mortali, che soccombono ad una flotta di pescatori, di semplici uomini armati di fiocine.

Mano a mano che la distanza diminuisce, riesco ad intravedere dei dettagli che, dalla distanza, non ero riuscita ad individuare. L'acqua salmastra sembra scura, quasi torbida, e molti edifici sono ricoperti di cirripedi e cozze, come se il mare stagnasse in questo luogo da molto tempo, ormai. Probabilmente, il cadavere è spiaggiato tempo addietro, ma la notizia è giunta alle nostre orecchie solo ora. Le notizie, dopotutto, viaggiano lentamente, in particolare se provengono da un villaggio di pescatori sperduto sulla costa e rinchiuso nel proprio piccolo, soffocante mondo.

Mi tornano in mente le giornate alla corte di Cainhurst, il tempo passato tra i soffocanti ricevimenti, una vita composta di ipocrisia e falsità, un continuo, distorto tentativo di elevare il proprio edonismo e la propria perversione, di lottare per un potere inutile, di avvicinarsi alla Regina Annalise solo per una briciola di rilevanza. Fuori dalle sontuose, ma così vuote stanze del castello, al di là delle mura innevate e delle torri barocche, fuori dal poderoso cancello che fungeva da spartiacque tra il dorato e lussuoso mondo aristocratico ed il resto della realtà, non sapevo cosa ci fosse davvero. E probabilmente, nemmeno tutti quei pomposi nobili sprezzanti ne avevano idea, esattamente come i semplici, rozzi abitanti di questo Villaggio. Il paragone mi fa sorridere amaramente, perché, alla fine, per quante arie si potessero dare, per quanta presunzione li permeasse, non c'era differenza sostanziale tra i sangue blu agghindati in abiti sontuosi e dei pescatori.

Il Villaggio non è molto esteso, per la maggior parte si tratta di ampie case di legno divorato dall'acqua marina, paludosa e torbida, che arriva fino alle caviglie, bagnando i nostri pantaloni e insinuandosi nelle scarpe, rendendo a volte difficoltoso il movimento. Non c'è nessuno ad accoglierci, nessuno che ci guarda dagli edifici, nessuno per quel che rimane delle stradine fangose. Gehrman schiocca la lingua, osservandosi cautamente attorno, probabilmente chiedendosi dove potrebbero essere tutti gli abitanti. Stringe le labbra, pensoso, osservando le scale fatiscenti, abbattute, le finestre sfondante ed i tetti crollati: tutto è in uno stato di distruzione ed abbandono che va al di là del semplice disastro naturale. È come se, dopo la marea, nessuno si sia preso la briga di ricostruire alcunché. Possibile che nessuno di loro sia sopravvissuto?

“Cosa sono quelli?”

Il mio sguardo viene catturato da una massa brulicante e biancastra, che si dimena al di sotto della superficie dell'acqua, che ricopre il legno marcito, che sguazzano tra due corpi accasciati e per metà divorati, sangue nerastro che cola dai loro corpi, la pelle raggrinzita e le bocce spalancate in un urlo silenzioso, spento nel momento del dolore. Mi piego su un corpo, girandolo a pancia in alto con un calcio deciso, che non provoca alcuna reazione negli esseri biancastri, che continuano a strisciare e contorcersi senza alcun terrore; richiamo il mio mentore con un cenno della mano, mostrandogli l'enorme quantità di quegli esseri vermiformi, vivi e proliferanti, che si accatastano sui corpi, banchettando con le loro carni, divorandone pezzo per pezzo, come farebbe un qualunque verme o parassita.

Ma non si tratta di semplici divoratori di cadaveri. Sono creature che non ho mai visto, ma che, quando stringo tra le mani, mi mandano una sensazione orribile, come se la mia mente stesse vibrando, osservando qualcosa di familiare, ma al tempo stesso lontanissimo… la stessa sensazione cosmica che ho provato stringendo tra le mani l'Augure trovato nel Labirinto di Isz.

Questi esseri parassitari, che divorano i cadaveri, sguazzando nell'acqua putrida e proliferando in enormi colonie, strisciando di rovina in rovina, aggrovigliandosi a rocce e assi … “Sono auguri di Madre Kos. O meglio, sono come parassiti.”

“Parassiti di Kos, mh?” mormora Gehrman, schiacciandone uno tra le dita, osservandone il liquido trascendentale, così simile a sangue, colare tra le sue dita, “Una punizione per il loro peccato. La maledizione di Madre Kos a questi assassini di divinità?” sogghigna, pulendo le dita sporche sulla giacca, “Decisamente adatto, non trovi?”

Continuiamo a proseguire guardinghi, ora più all'erta di prima, in attesa di un pericolo imminente. Qualunque cosa questi Parassiti di Kos facciano, agli organismi ospitanti, è sufficiente a prepararmi ad uno scontro. È meglio temere l'ignoto, piuttosto che caderne preda a causa di eccessiva temerarietà – sopratutto quando si tratta di creature ostili e maledette. I resti degli edifici tutt'attorno sono solo l'ennesima conferma dell'orribile fato degli abitanti, che hanno abbandonato ogni sentore di umanità, trasformandosi in qualcos'altro. Non c'è dubbio che la maledizione li abbia colpiti, li abbia mutati.

La conferma arriva un attimo dopo, quando, rannicchiati dietro ai resti di un muro collassato, osserviamo un folto gruppo di abomini piangere ed ululare al cielo, disperati, contorcendosi nel dolore. In loro c'è ancora qualche caratteristica umana, ma è talmente flebile che fatico a trovarne; il parassita, attorcigliandosi attorno a loro, li ha mutati in ributtanti creature marine, ricolme di squame e cirripedi che succhiano il loro sangue, aggrappandosi alla pelle marcita e grondante. I loro occhi, acquosi e nerastri, sembrano quasi ciechi, e riescono a malapena a vedere dove camminano, reggendo tra le mani dalle dita affilate, quasi artigliate, spaccate e piagate, rudimentali fiocine arrugginite e sporche di sangue rappreso.

Si lamentano, invocando un nome con voce gutturale, quasi indistinguibile, che tuttavia, ha ancora un vago sentore umano. Gehrman li indica, raggruppati attorno ad un pozzo, a rotolarsi nell'acqua, divorati dai Parassiti che strisciano sui loro corpi, nelle loro bocche, senza che loro possano ribellarsi, ma solo grattarsi, contorcersi, divorati da quegli esseri sovrannaturali, figli di un Grande Essere che hanno massacrato, pieni della loro ignoranza, della loro stupidità.

“Sono stati toccati da un Grande Essere.” si alza in piedi, iniziando a camminare, lentamente, verso di loro, la falce poggiata contro la schiena, pronta a stracciare le loro carni, ad abbeverarsi del loro malato sangue, “Non ci faranno passare.”

“Dobbiamo ucciderli?”

Mi lancia uno sguardo gelido, completamente privo di umana compassione, scevro da ogni dubbio, “Non possiamo fermarci, Maria. La Verità Ultraterrena è vicina. Quelli non sono più esseri umani...” mi poggia una mano sulla testa, come a volermi calmare, a volermi sostenere, con fare quasi paterno, “Sono bestie. Mostri che soffrono, condannati dalla loro stessa brutale stupidità. Ucciderli è un atto di pietà.”

Non possiamo fermarci ora. Ci sono sacrifici che vanno compiuti e questi pescatori maledetti non sono altro che creature mutate, non più umani; com'è possibile, dopotutto, che un essere umano possieda una forma tanto rivoltante e bestiale?

Non sprecheremo tutte le vite che abbiamo spento. Non smetteremo di cercare la Verità. Questa è al cosa giusta da fare…

Vero?

Avanziamo lentamente, senza farci prendere dalla fretta, passo dopo passo, le armi già pronte a mieterli, a fare strage di questi goffi ibridi, che ci osservano con attenzione, gli occhi quasi ciechi, mentre ci avviciniamo a loro. Le loro fiocine si puntano contro di noi, fendendo l'aria con fare minaccioso, una sorta di avvertimento, un gemito indecifrabile che emerge dalle loro gole divorate dai Parassiti di Kos. Che esseri ripugnanti, deviati… La stupidità è stata la loro rovina. Non avevano Occhi per vedere, per comprendere quello che stavano facendo.

Ha ragione Gehrman, ucciderli è un atto di pietà. Nulla più che un atto di pietà.

“KOOOOOOO—” l'urlo che fuoriesce dalla gola del primo, che si getta in avanti con la lancia pronta a colpire, si interrompe bruscamente quando viene lacerato da un colpo secco della Lama della Sepoltura. Un fiotto di sangue sprizza in aria, insieme ad una cascata di Parassiti che fuoriescono dalle sue carni straziate, torcendosi nel dolore. Lo stivale di Gehrman li schiaccia, con nulla più che il rumore dell'acqua infranta.

Esitano, indietreggiando di un passo, osservandoci mentre, come segugi, ci avventiamo su di loro. Troppo veloci, troppo letali, non importa quanto maldestramente attacchino, quanto debolmente tentino di difendersi, è facile scivolare sotto la loro guardia, per farli a pezzi, tranciarli, strapparli, epurarli, liberarli. La Rakuyo affonda, ancora ed ancora, con eleganza e precisione, in una mortale danza di acciaio, arabeschi di morte tracciati dalla spada e dal pugnale, facendone a pezzi uno, due, tre. Le loro urla sono terribilmente umane. Qualcuno, più cosciente degli altri, implora pietà, ululando, il volto distorto che tenta di assumere un'espressione disperata.

Ma che pietà possono volere, abomini come voi?

Solo un'onesta morte.

Alcuni appaiono più umani di altri. Alcuni non sono ancora sufficientemente infettati per risultare come mostri. Ma non posso esitare, non posso fermarmi, nemmeno quando le lacrime rigano le loro guance, quando chiedono di essere risparmiati, quando squarcio le loro gole e strappo le loro teste, piegandomi su di esse per aprirle, scavare al loro interno con il coltello, spaccandone le ossa fino a raggiungere il cervello, alla ricerca di Occhi.

Nessuno di loro ne possiede, nessuno di loro, toccato dal Parassita, sembra essere più che un essere umano. È un processo meccanico, quello della strage e della ricerca. Gehrman si dirige verso una casa, sfonda la porta con un calcio, avventandosi contro coloro che sono rannicchiati al suo interno, tremanti contro una parete, che si lamentano sdraiati su cumuli di spazzatura, sdraiati tra le rovine delle loro case. Qualcuno tenta di difendersi, stringono rastrelli, coltellacci, oggetti per la pesca o per l'uso quotidiano, perfino delle forchette, ma non sono un problema, perché la loro carne si taglia e lacera come qualsiasi altra. Di fronte alle creature dei Labirinti, questi ululanti, indifesi non sono nulla.

Trapasso uno di loro, esattamente al centro del petto, lacero la sua testa, cerco al suo interno, ma non trovo Occhi. Non ce ne sono, non importa quanti ne cerchiamo, ma non è un lavoro che possiamo trascurare – perché, non c'è dubbio, qualcuno di loro deve averne.

Due, tre, quattro, accatastati uno sopra all'altro. Nessuno di loro.

“Prendi quella a destra,” mi ordina, seccamente, prima di scivolare nell'edifico accanto, lasciandomi di fronte ad una porta socchiusa, una casa relativamente intera, che l'acqua ha invaso ma non ha distrutto.

Spingo delicatamente l'uscio, l'interno è fiocamente illuminato da un'unica lanternina appoggiata su un tavolo ricolmo di cibo marcito, di piatti spaccati, di sedie scagliate a terra. Pile e pile di stracci e spazzatura sono accatastate negli angoli, forse brandine riempitesi di sporcizia. Un forte odore di corpo marcente riempie le mie narici, come un pugno allo stomaco; non si tratta solo di pesce, no, è carne umana, carne divorata dalla corruzione del tempo, dell'acqua fangosa.

Alle mie orecchie arriva un singhiozzo sommesso, una voce spezzata che sussurra qualcosa, una sorta di preghiera a bassa voce, una supplica angosciante. Prendo in mano la lanterna, tenendola bene in alto, dove la luce pallida possa fendere le tenebre, rivelando lo sfacelo della stanza, poco meno di una discarica… e sopratutto, uno di quegli esseri inginocchiati accanto al letto.

Come altri, non è abbastanza mutato da essere del tutto mostruoso, ma conserva ancora qualche tratto umano distinguibile, nonostante il suo volto sia deformato e ricoperto di cirripedi e altri parassiti marini. Una delle sue cavità orbitali è vuota, dalla quale un Parassita di Kos si agita, prima di sparire nuovamente al suo interno. Arrivo al suo fianco, illuminando con la luce esitante e stanca del lume la cosa sul quale è piegato.

Poggiati sul letto, ci sono due corpi, irriconoscibili dagli altri, mutati come innumerevoli altre creature che ho massacrato; ma lui, piange disperato sui corpi scannati, stringendoli al petto, scuotendoli, come a volerli svegliare, sussurrando frasi mostruose ed incomprensibili, un gorgoglio che non sembra avere nulla di umano. Eppure, nonostante questo, disperato, è lì che stringe i corpi mutilati, ululando di dolore.

Due abomini che abbiamo massacrato fuori, che ha trascinato all'interno, come in un folle tentativo di proteggerli. Ma ormai, sono morti. Ormai, ho strappato la loro vita, com'era giusto che facessi…

“MA...LED...TITUTT...MOS...VI PR...SVEGL...TE...” la sua testa crolla sul petto di uno delle creature. Con disperazione, con un grido pieno di dolore assoluto, di dolore terribilmente umano, stringe la testa di uno di loro, aperta, scavata orribilmente alla ricerca di Occhi, al suo petto.

Congelata, rimango ad osservare quella scena ripugnante.

Non è possibile…

Perché?

Perché?

Perché?

—Sono solo abomini. Non possiamo fermarci ora, non posso gettare tutto alle ortiche, non ora. La Verità, così vicina, non posso lasciarla sfuggire. Cosa sono questi rimorsi, ora? Cos'è questo senso di colpa? Ne abbiamo uccisi tanti, sperimentando, nei laboratori. Stringo i denti.

La Verità… è troppo grande per abbandonarla ora.

Con uno strano disgusto nello stomaco, trapasso la sua testa, da parte a parte, spaccando in due il cranio. Non mi do la pena di cercare Occhi. L'idea mi dà la nausea.

Prima di uscire, getto un ultimo sguardo a quei corpi.

“Dannazione.”

Sbatto la porta, lasciandomi alle spalle quella scena orripilante. Gehrman mi aspetta poggiato contro la bocca del pozzo, la Lama della Sepoltura ancora grondante di umori, le mani ancora sporche di liquido cerebrale, segno dell'ennesima ricerca in qualche cranio. Mi porto una mano al viso, nascondendo un improvviso conato di vomito, reprimendolo nel fondo del mio stomaco, ma non credo di averlo ingannato. Nessuno mi conosce meglio di lui.

“Stai bene, Maria?”

“Sì.” rispondo, senza guardarlo in viso, tenendo lo sguardo basso.

Mi stringe la spalla, una presa gentile, ma sicura, un blando tentativo di sorreggermi, “Lo facciamo per un bene superiore. Per la nostra Verità Ultraterrena, per l'evoluzione dell'uomo. L'evoluzione senza coraggio sarebbe solo un fallimento.”

“Lo so.” stringo la Rakuyo, mordendomi il labbro, “Non possiamo fermarci ora.”

Dietro di noi, lasciamo solo i resti di un Villaggio di Pescatori massacrato, distrutto dal mare, dai Parassiti, dall'ira di Madre Kos.

Kos è abbandonata, penosamente, sulla spiaggia, una enorme figura biancastra, più pallida della morte, il corpo straziato da innumerevoli arpioni, ancore, fiocine, che trapassano la carne, aprendosi una via attraverso il suo corpo. Gli squarci sparsi per tutto il suo corpo gelatinoso e senza vita sono le ultime testimonianze del sacrilegio compiuto da questi stessi che ora la pregano, disperati, piangendo. Una schiera di tritoni, dal corpo squamoso e fragile, con code posticce e mal sviluppate che si allungano dal bacino, stanno in preghiera, inginocchiati a rispettosa distanza dal cadavere emettono un basso mormorio, indistinguibile, come se alzassero una supplica straziante in una lingua diversa, superiore alla nostra, comprensibile solo a quel Grande Essere che hanno spento rabbiosamente. Pentiti, piangenti, si sono resi conto del loro errore, hanno capito di aver commesso uno dei più grandi peccati che si possano concepire – Deicidio. L'assassino di una divinità, di un essere superiore, di colei che dormiva nel profondo del mare.

Uno dopo l'altro, uccidiamo anche loro. Li falcidiamo, senza che emettano rumore o smettano di pregare; ignorano la morte che li circonda, finché non piomba su di loro, completamente assorbiti dal pianto per quella salma riportata dal mare, il mare che li nutre, il mare che è la loro casa. Il mare che hanno offeso.

“Non ci credo...” sussurro, il respiro che sembra quasi spegnersi, a quella visione ultraterrena, “Questo è… un Grande Essere.”

Osservarne uno direttamente è qualcosa che ferisce. Perfino noi, abituati ormai a lavorare attorno a questa Verità Ultraterrena, a scrutare nel suo ventre, a toccare il Sangue Antico, i Fantasmi, i resti Phtumeriani, sentiamo la nostra mente urlare per un secondo, minacciare di spaccarsi, infrangersi. I nostri Occhi non sono ancora sufficienti, la nostra carne è troppo debole, la nostra mente troppo limitata. Solo la volontà ci sorregge, ci impedisce di andare in pezzi, di fronte a quel corpo esanime, enorme, orribilmente allungato e sdraiato, gentilmente poggiato dalla corrente marina, orribilmente profanato. Il suo viso, parzialmente quasi umano, non sembra avere un'espressione, semplicemente è neutro, privo di emozioni… O forse, è la nostra cecità ad impedirci di osservarle.

Ci avviciniamo, in religioso silenzio, solo il rumore dei nostri passi sulla sabbia, sotto una enorme luna spuntata attraverso le nuvole, a guidare i nostri piedi verso il Grande Essere che abbiamo cercato tanto a lungo, verso uno di coloro che sono al di sopra di noi, verso Madre Kos. Morta, uccisa da semplici esseri umani.

L'intera scena sembra quasi strapparmi il cuore dal petto. Una sorta di profonda tristezza, di dolce malinconia, nell'osservare il corpo gelido di Kos, si deposita sulle mie spalle, come una cappa pesante, schiacciante. Alcuni Parassiti strisciano fuori dalla carcassa, stanchi, morenti, come se privi di una motivazione di rimanere in vita, ora che nessuno è più maledetto, ora il che il Villaggio dei Pescatori è vuoto. Non è rimasta anima viva, se non noi.

“Maria… Guarda.” Gehrman, piegatosi sul corpo di Kos, indica con volto, per la prima volta, stupefatto, qualcosa che non riesco a vedere. Qualcosa sul corpo, una sorta di rigonfiamento, di grossa sacca, quasi pulsante, che sotto al mio esitante tocco, sotto alle mie dita tremanti—No, non è possibile.

Possibile..?

Ci scambiamo uno sguardo di intesa, di meraviglia, di infinita sorpresa.

Kos… era incinta. Prima di morire, portava un bambino nel suo grembo. Il feto di un Grande Essere che vive ancora, lì dentro, anche se la sua amata madre è morta, assassinata.

Per quanto sopravviverà? Credevamo che i Grandi Antichi non potessero riprodursi. Credevamo perdessero il loro figlio. Potrebbe morire da un momento all'altro. Potrebbe spegnersi nel momento in cui vedrebbe la luna. Potrebbe perfino non uscire mai dal grembo materno.

“—Facciamolo.”

Una sensazione di nausea orribile sale dal mio stomaco, fino alla mia gola, pungente. Il rigetto, la consapevolezza di ciò che stiamo per fare.

Stiamo per compiere il peggiore dei peccati che esistano a questo mondo, il più orribile che l'uomo concepisca. Gehrman stringe la Lama della Sepoltura, avvicinandola al ventre pulsante della defunta Kos.

Uno sguardo è quello che ci serve.

Il taglio è preciso, netto, e il liquido argenteo, quasi trasparente, che fuoriesce non è sangue, ma qualcosa di diverso, che bagna il terreno, le nostre mani, rovesciandosi al di fuori del suo corpo che va perdendo anche l'ultima scintilla di vita – quella del figlio che portava in sé.

Il corpo dell'Orfano di Kos è osceno, deformato, eppure molto più alto di un essere umano. Il suo viso è sformato, la pelle grinzosa, che al tatto sembra quasi deformarsi e piagarsi. Si contorce, senza rumore, preso dagli spasmi di una nascita così brutale, di una vita così breve, mentre i suoi occhi scuri, che ancora non distinguono il mondo, si puntano istintivamente verso il mare, verso la luna che ci osserva, indifferente, mentre ci prepariamo a commettere l'atrocità.

Mentre è a terra che geme e rantola, preparo l'arma a strapparlo dal cadavere di Kos. Un colpo di Rakuyo recide il cordone ombelicale, in uno sprizzo di sangue trasparente, lasciando che quel pezzo di carne nerastro ed inerme cada a terra, prima che Gehrman lo raccolga prontamente. Stringendone tra le mani, si può ancora sentire il vago sentore di vita che lo permea, strappandogli un profondo sospiro.

Siamo pronti a fare quel che è necessario, con le armi già strette tra le dita, mentre quel figlio morente spalanca la bocca malformata in un gemito silenzioso, un richiamo ad una madre che non può rispondere. È nato completamente solo, a questo mondo. È nato per morire, per osservare la luna, il mare da cui proviene, e poi sparire, incapace di invecchiare, di vivere.

È il nostro compito, dopotutto, quello di spegnere la sua vita, in nome della Verità che perseguiamo. Delle vite bruciate per essa.

Ci pieghiamo sull'Orfano, le lame poggiate sul suo collo.

Un solo taglio è sufficiente.

Un urlo disumano, antico quanto il mare, quanto il cosmo, risuona potente nelle nostre menti, nelle profondità, negli abissi dell'oceano, scuotendolo profondamente, un grido di dolore, di un bambino che è stato ucciso ancor prima di poter aprire gli occhi.

Il grido di chi accusa i suoi uccisori.

Il grido di chi maledice un assassino.

—Abbiamo commesso il più grave dei peccati. Abbiamo ucciso un Grande Essere, un dio.

Deicidio.

E una maledizione ricade su di noi, ululata da mille voci, ed una sola, da gutturali cori disumani, simili a quelli di un bambino morente, di un Grande Essere ucciso.

Mentre lasciamo il Villaggio di Pescatori con il corpo, posso sentire quella maledizione cadermi addosso, scolpirsi nella mia mente, perseguitarmi come un fantasma, mandarmi brividi lungo tutto il corpo.

 

Ancora oggi, ricordo perfettamente quelle parole.

Le parole della nostra maledizione.

È stato da quel giorno… che abbiamo iniziato a bruciare.

Siamo stati maledetti—

Perché abbiamo peccato.

 

“Siano maledetti i mostri, ed i loro figli, ed i figli dei loro figli… Per sempre.”

 

 

   
 
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