Libri > Altro
Ricorda la storia  |      
Autore: Tinotina    14/03/2017    1 recensioni
[Wired]
Questa è la storia di un nome bruciato, trovato e poi perduto. La storia di un uomo che ha dovuto morire, per poter vivere. La storia di come la vita di Kenneth Ward finì.
[Wired Saga - Mirya]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Capitolo Unico
 
I rumori esterni erano confusi, la testa ancora ovattata, ma la sensazione di isolamento che provava stava scomparendo. Non riusciva a capire dove si trovasse e non aveva idea di come ci fosse arrivato. Era morto e nessuno se ne era accorto? No, impossibile. Non poteva essere morto. I morti non sentono nulla e lui, invece, sentiva tutto.
Bruciava.
Il suo corpo era preda dei più atroci dolori. Tutto, in lui, era esposto alla sofferenza, alla morte. La sua carne martoriata, i suoi nervi lesionati. Era lancinante. Era l’inferno. Il cuore martellava furioso, desideroso di sopravvivere. Non riusciva a capire come il suo corpo potesse resistere a tutto ciò.
Continuava a bruciare.
Il suo cervello stava impazzendo per i troppi impulsi, che continuavano ad arrivare senza sosta. Provò a muoversi – a scappare – ma i suoi arti non rispondevano. Per quanto ci provasse, gli sembrò di essere diventato lui stesso dolore, nella sua forma più viscerale. Era preda immobile di un odio profondo. Nessun’altra cosa ad eccezione dell’odio poteva averlo ridotto in quello stato.
Stava morendo.
Cercò di chiedere aiuto ma la voce gli graffiava la gola. «A… u… o… A… e…».
I suoni vocalici che riuscì a emettere non erano sufficienti per formulare una frase, né per chiedere aiuto, eppure quel singolo tentativo lo privò di tutta la sua energia. Non aveva più nulla, ormai. Nessuna forza, nessuna speranza, nessun futuro. La sola cosa che gli era rimasta da fare era morire: non ci sarebbe voluto molto.
«Ma cosa fa! Signorina Xaho, le avevo detto di fare attenzione ai liquidi!»
Il suo ultimo pensiero logico prima di sprofondare nuovamente in quell’abisso ovattato da cui era emerso era che morire non ricordandosi non solo la propria vita ma anche il proprio nome era davvero la cosa più disumana che si potesse provare prima della fine.

***

Non si aspettava di riprendere coscienza una seconda volta. Non si aspettava di essere ancora fastidiosamente vivo quando l’unica cosa che voleva era porre fine a quel dolore che non voleva abbandonarlo. A quanto sembrava, però, morire non era una cosa che gli fosse concessa.
Questa volta non provò a riprendere il controllo del suo corpo: non poteva permettersi di sprecare le forze in un tentativo inutile. L’unica cosa che sembrava sotto il suo controllo era la sua mente ed era quella che aveva intenzione di usare: sarebbe stata lo strumento per ricordare chi fosse, che cosa gli fosse accaduto, chi l’aveva ucciso.
I frammenti di un’esistenza iniziarono ad affollargli la testa. Una scuola, una casa; un gruppo di ragazzi, una famiglia. Forse la sua famiglia. O forse stava solamente delirando. Le immagini erano confuse, sfuocate, probabilmente create dal suo stesso dolore. Gioia e disperazione iniziarono a mischiarsi nel suo animo: non riusciva a distinguere i suoi sentimenti. Provava qualcosa per quelle figure che vedeva? Non lo sapeva. Due figure maschili lo stavano osservando, stoiche. Non c’era alcuna espressione sui loro volti. Alla loro destra, una donna. No, una ragazza. Si sentiva attratto da lei, anche se non capiva bene il perché. Forse era per i suoi capelli, così biondi da sembrar bianchi, o per quegli occhi grigi, che lo guardavano amorevolmente, o per la risonanza di una musica timida che sembrava emanare da lei. La risonanza di una vita che sembrava così lontana, intrappolata dietro un muro di fumo. Voleva gridare alla ragazza a cui apparteneva quel volto di raggiungerlo, di spiegargli, ma non riusciva a parlare. La giovane donna si limitava a guardarlo e a sorridergli. Lo sforzo mentale per rimanere concentrato lo stava prosciugando di tutte le energie. La sua forza era sempre più debole. Prima di perdere i sensi nuovamente la sentì pronunciare una parola e lui seppe immediatamente che quella parola era, in realtà, il suo nome.
Kenneth.

 
***

Con il passare dei giorni, sentiva il suo corpo farsi via via più forte. Il dolore era diventato sopportabile, allontanando la presa della morte; i momenti di lucidità erano sempre più frequenti e duraturi, permettendogli di andare a rifugiarsi tra le braccia della giovane donna. Dalla prima volta che l’aveva trovata nella sua mente, infatti, aveva fatto di tutto per non lasciarla andare. Lei rappresentava la speranza che qualcuno, alla fine di quell’incubo, lo stava aspettando. Era la luce chiara che invitava alla felicità. Era l’acqua cristallina che donava vita all’assetato. E lui aspettava solamente di poter avere la sua parte di lacrima.
Gli bastava solamente rifugiarsi nella sua mente e dimenticarsi del mondo per rivederla nei suoi occhi. Rivedere i suoi capelli, il suo sorriso e quei gesti che non cambiavano mai. Ogni volta, prima di riuscire a guardarlo in faccia, lo sguardo della giovane donna scivolava verso il basso, verso la punta dei suoi piedi nudi. Dopodiché le sue mani, da dietro la schiena, venivano avanti. Lasciava che le braccia si stringessero introno al suo grembo, proteggendosi. Tra le dita nascondeva un legno traforato, tenuto stretto. E solo alla fine, forse dopo aver deciso che lui non rappresentava una minaccia, portava lo strumento alle labbra e cominciava a suonare. Kenneth non riusciva a ritrovare il suo nome, tra le sue memorie. Sapeva solo che le note che stava suonando con quel flauto, in qualche modo, gli appartenevano. Quasi tutti i wired consideravano gli strumenti musicali degli oggetti superati, da quando esistevano programmi in grado di creare musica matematicamente perfetta. La melodia che stava creando quella ragazza non era precisa - non respirava in maniera corretta per mantenere la lunghezza delle note, non manteneva il corpo nella giusta posizione - eppure era la cosa più bella che avesse mai sentito. Lui non le concedeva di fermarsi nemmeno un attimo: non voleva perdere la sua pace per nulla al mondo.
Avrebbe voluto solo rimanere lì ad ascoltarla per l’eternità, perché questo è quello che i sogni dovrebbero sempre essere: pace. Voleva solamente tenerla in quel sogno con lui. Ma non era un sogno, era un ricordo. Ormai aveva capito che quella donna non era frutto della sua fantasia, ma era esistita davvero: si erano vissuti, si erano amati. Avevano costruito una casa per loro, senza sapere di averla costruita solo per farla distruggere.
Tu eri la mia casa, e ti hanno distrutta.
No, non era morto. Era bruciato per lei.
Ti avevo promesso un nuovo mondo per noi, ma ho fallito.
Urlò.

***
 
Trentatré giorni erano iniziati e finiti da quando si era svegliato dal suo coma. Trentatré giorni in cui aveva dovuto razionalizzare con il fatto che lei non sarebbe mai ritornata. Martia, l’unica che aveva il permesso di avvicinarsi al suo capezzale, gli aveva raccontato brevemente che cosa gli fosse accaduto. Il tradimento, il fuoco, la morte. Claire – così si chiamava – aveva subito una riprogrammazione, ma non era stata in grado di spiegargli più di questo.
«Mi dispiace», aveva detto. Una parola vuota, senza sentimento, senza profondità. Decisamente inadatta per tamponare lo squarcio che gli si era aperto nel suo petto.
Perduta.
Trentatré giorni per venire a patti con il fatto di non avere più tempo: la sua vita, la vita di Kenneth Ward era finita. Non era stato facile da accettare. Si era opposto, gridando che per cancellare il suo tocco dalla pelle, avevano dovuto bruciargliela. Urlò il suo dolore così a lungo, così forte, da far sanguinare i polmoni non ancora pienamente ristabiliti. Nel pieno della disperazione, implorava attimi come fossero bolle d’aria a cui aggrapparsi. Se solo gli avessero concesso altri cinque minuti. Se solo gli avessero concesso di stringerla tra le braccia per un istante. Se solo gli avessero concesso di dirle un’ultima volta quanto l’amava. Se solo…
Ma ormai quella vita era diventata inafferrabile. Piano piano, la sensazione del suo ultimo bacio sarebbe scomparsa, il ricordo della sua musica sarebbe svanito nel nulla. L’unica cosa che gli era rimasta da fare era nasconderla dentro di sé, per non cercarla mai più. Martia era stata irremovibile: era la soluzione migliore, la soluzione più logica. E allora lui si rese conto di che cosa stava dicendo. Era stato debole, era stato umano. Troppo umano. Aveva permesso alle emozioni di sconfiggerlo e per questo, per il suo errore, avrebbe dovuto indossare un altro nome.
Il nome che lei gli aveva restituito doveva morire.
Era Eleazar Preaman, ora.
 
 

Era da tanto, troppo che non scrivevo. E tornare a farlo per questo contest è stato veramente bellissimo. Ci è voluto tanto a scrivere queste poche parole, ma spero di aver fatto un buon lavoro. Dai, siete arrivati a leggere fino a qui, quindi qualcosa di buono devo averlo fatto. Oppure volete solamente mandarmi a cagare, il che va bene lo stesso. Ho cercato di essere il più fedele possibile alle indicazioni presenti nel libro riguardo questo particolare momento, ma se trovate qualche svista: perdooooono.

Questa fanfiction partecipa al contest Una fanfiction per Wired indetto da Mirya.



 
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Altro / Vai alla pagina dell'autore: Tinotina