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Autore: sissir7    15/03/2017    2 recensioni
Fondamentalmente, John e Sherlock rappresentano tutto quello che un amore non dovrebbe essere, tutto quello che un amore non dovrebbe pretendere. Ma come si sa, alla fine è l'amore a decidere tutto: vita, morte, gioia, dolore. Sherlock non è mai stato così sensibile e John non è mai stato così se stesso.
Questa è la mia visione di due persone fittizie che non sono mai state così reali.
Questa è la visione di un amore che dopo 130 anni non è stato dimenticato.
E mai lo sarà.
P.S. Vorrei tanto che venissero ascoltate le canzoni citate perchè sono quello che le mie parole non riusciranno mai a descrivere.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Appena John uscì da Covent Garden Station già si pentì di quella sua scelta. Si fermò per un attimo di fronte a un negozio di fiori, c’erano dei girasoli bellissimi, pensando se fosse il caso di presentarsi con una sorta di regalo o almeno con qualsiasi cosa pur di non essere troppo in imbarazzo dopo tutto quel tempo che era passato, quei quattro anni durante i quali non aveva mai smesso di pensare di andare lì dove c’era la bellissima e prestigiosa Royal Ballet School. Lì dove avrebbe trovato Sherlock.

Non aveva pretese, non si aspettava nulla da Sherlock appena lo avesse visto, né abbracci o feste o sorrisi. Non voleva fargli cambiare idea se mai ancora avesse qualche idea riguardo a alla loro situazione e né era lì per metterlo in difficoltà o dirgli qualcosa in particolare. Sentiva solo la sua mancanza. Sentiva solo la necessità di rivederlo, anche solo se per due minuti, anche solo se da lontano, non importava. Doveva rassicurarsi, assicurarsi che stesse bene, che ancora poteva sentire la sua voce anche se non diretta a lui. Voleva semplicemente vederlo vivere, vederlo camminare, respirare, cose così. Niente di più e poi se ne sarebbe tornato a casa, con un peso in meno. Con la certezza che in questo mondo c’era ancora Sherlock Holmes. Era un desiderio che aveva ignorato da tempo e più lo ignorava più le paranoie lo assillavano. Immaginava che gli fosse successo qualcosa, che stava male e la situazione era diventata ridicola.

Lasciò perdere i fiori e comminando deglutì come se quei quattro anni gli fossero rimasti proprio tra la gola e lo stomaco ed effettivamente provò una sensazione di liberazione dopo averlo fatto. Ormai era lì, il coraggio di tornarsene a casa non lo aveva e quando si incamminò per Floral Street accelerò il passo come se una corda lo tirasse, come se le gambe non avevano bisogno della sua volontà per muoversi. Sapevano che era la cosa giusta da fare, da anni. Si trovò quindi di fronte all’elegante entrata dell’accademia il cui stemma spiccava in alto, sul vetro, come segno di riconoscimento e come se da lì si entrasse in un altro regno. Un regno fatto di disciplina e costanza e sudore, tutte cose che John aveva sopportato ma era un altro discorso, non era certo un ballerino, ma erano cose che lo accomunavano a Sherlock. Non lo aveva mai visto in vita sua e non era di certo mai stato in un luogo così prestigioso che solo anche dalla porta d’entrata ti faceva sentire fuori luogo. Se non sei qui per vocazione e con un conto in banca illimitato per quale motivo sei qui? Sembrava dire questo quell’edificio a John, che ancora stringeva la maniglia nelle sue mani.

Nella sua mente aveva la risposta a quella domanda, era semplice, era un nome.

Spinse piano con timore che quella lastra di vetro potesse frantumarsi al suo tocco troppo deciso ma non si mosse di un millimetro. Una donna col caschetto gli sorrise da dietro a quella che sembrava una sorta di reception come quella degli alberghi di lusso e gli indicò con l’indice la sua destra. John all’inizio la guardò inclinando la testa cercando di decifrare il gesto. Poi si voltò e vide il citofono e annuì alla donna che ancora gli sorrideva. Suonò e fu proprio lei a rispondergli. Quella situazione era imbarazzante.

“Salve, la posso aiutare?”

la sua voce era squillante e per niente in sintonia con il suo aspetto robusto.

“ehm, sì. Sono venuto a trovare un mio amico, Sherlock Holmes. Lavora qui.”

In realtà John non sapeva se Sherlock era davvero lì quella mattina ma aveva letto sui giornali che la sua compagnia di ballo era tornata da poco dalla Russia dopo un tour mondiale nei teatri di maggior prestigio e che per i prossimi mesi sarebbe stata finalmente “a casa” in Accademia a preparare il prossimo spettacolo.

“Ah sì, il Signor Holmes. Mi dia un paio di minuti per avvisarlo che lei è qui. Il suo nome?”

“John Watson.”

“Perfetto.”

E con queste parole vide la donna abbassare il telefono da cui gli stava parlando e sparire nel corridoio. Incredibile. Mi ha lasciato qui fuori, pensò John. Tuttavia sapeva che la sicurezza era fondamentale per il primo ballerino della Royal Ballet School che godeva di fama internazionale ed era ovvio che non avrebbero fatto entrare uno sconosciuto che chiedeva specificatamente di lui. Fortunatamente non aspettò molto e rivide la donna che da dietro al bancone gli aprì la porta. John entrò ed un profumo di lavanda e miele lo avvolse. Lavanda e miele.

“Oh” sospirò. Sapeva esattamente cos’era quel profumo e per un attimo si stupì di sentirlo proprio lì ma allo stesso tempo lo rassicurò, lo fece sentire al posto giusto.

“Mi scusi per l’attesa Signor Watson, ma la sicurezza non è mai troppa. Mi segua.”

“Non si preoccupi, capisco.”

Rispose John e si incamminarono per un lungo corridoio con lampadari eleganti e molto probabilmente di cristallo. I muri erano ocra e rosso scuro. Tutto urlava “lusso” lì dentro e non riusciva proprio immaginare Sherlock in un ambiente del genere anche se aveva sempre avuto un’ inclinazione ad essere regale, altezzoso e sicuro di sé.

“Sa, abbiamo avuto spiacevoli incontri con paparazzi troppo curiosi che si fingevano familiari, provenienti dall’Italia o da chissà dove, amici e cerchiamo di evitare altri problemi.”

La donna camminava sicura e non incrociava lo sguardo di John che sorpreso di quelle notizie la rassicurò dicendo che non aveva assolutamente cattive intenzioni. Lo disse sorridendo. Arrivarono all’ascensore e la donna si voltò verso di lui sorridendogli in risposta e aggiunse:

“Da come ha sorriso il Signor Holmes al suo nome sono sicura che lei gli può fare di tutto tranne che del male. Non lo vedevo sorridere così da tempo e se la sua presenza può renderlo meno scontroso e irritante del solito beh, lei è sempre il benvenuto qui. Vada al terzo piano, ultima aula a destra.”

Lei chiamò l’ascensore per John e se ne andò senza neanche aspettare una risposta, anche perché non l’avrebbe mai avuta visto che John era visivamente scioccato da quelle parole. Sentì un calore invadergli il colo e il volto. Quando realizzò che la donna non era più al suo fianco urlò “Grazie!” ma lei non si voltò. Irritante Sherlock lo era di sicuro ma scontroso non lo rispecchiava molto, pensò John mentre l’ascensore saliva. Sebbene poteva farti perdere la pazienza in meno di due secondi era comunque sempre gentile e anche se a suo modo, lo era davvero. Le porte si aprirono e si trovò in un ambiente luminoso, con due enormi lucernari che facevano da fonte di luce. Era una giornata bellissima e il sole era caldo e lo sentiva sul suo volto come una carezza. Attraversò quella che era una passerella sospesa nel vuoto e il piano di sotto si vedeva chiaramente.

C’erano ragazzi con borsoni che andavano probabilmente a lezione e le ragazze avevano tutte i capelli perfettamente acconciati e i ragazzi sembravano angeli senza ali. John li guardava avanzare con eleganza e con sorrisi composti e pensava che così ci devi nascere. Così armonioso. Così, come se fossi una musica che cammina. Li guardava con invidia ma non un’invidia eccessiva. Avrebbe solo voluto avere quella … non sapeva neanche lui bene come descriverla l’aura che avvolgeva quei ragazzi. Di certo non aspirava ad essere un ballerino di danza classica e anche se avesse voluto il suo fisico non glielo avrebbe mai permesso, ma non avere il dono di possedere gesti sempre così giusti e delicati era qualcosa per cui a volte si arrabbiava anche. Con questi pensieri continuò a camminare, quasi dimenticando dov’era.

C’era un silenzio quasi preoccupante. Si aspettava di sentire della musica o chiacchiere provenire dalle altre aule ma nulla. Si guardò in torno e non c’era nessuno. Il parquet sotto i suoi piedi era l’unico che gli parlava ad ogni suo passo. Quando si trovò alla fine del corridoio si girò verso la porta dell’aula che cercava e bussò un paio di volte. Era un edificio molto antico ma tenuto come un gingillo e le porte erano di un bianco candido e di legno per cui non ricevendo risposta pensò di non aver bussato abbastanza forte. Bussò un altro paio di volte con più forza e sentì dei passi farsi sempre più vicini. La maniglia dorata si abbassò e la porta si aprì.

Un sorriso e la luce forte di quel mattino lo avvolsero e sinceramente non riusciva neanche a distinguere le due cose o quale delle due fosse più bella.

“John …”

John sentì il suo volto come sciogliersi, come se il volto e la voce profonda di Sherlock gli avessero fatto una magia.

“Ciao Sherlock. N-non vorrei disturbarti...”

“Nessun disturbo. Prego, entra. Appena Elisabeth mi ha detto che eri tu non ci volevo credere.”

Sherlock si spostò dalla soglia per farlo entrare. John entrò piano come si entra in luoghi sacri e quello aveva tutto l’aspetto e l’atmosfera di esserlo. L’aula era enorme e tre vetrate sormontate da archi facevano da padrone a tutto l’ambiente che era più bianco del bianco. L’unico colore era il verde degli alberi del grande giardino che abbracciava l’edificio. Alcuni dipinti erano disposti uno dopo l’altro e quei ballerini e ballerine ritratti sembravano ballare tutti all’unisono. “wow” fu tutto quello che John pensò e che poi disse. Su un lato della sala c’era uno specchio che occupava tutto il muro e John incrociò lo sguardo di Sherlock proprio attraverso di esso.

“Sì, è bellissima. Questa è l’aula più bella di questo piano ed è fondamentalmente qui che passo la mia vita.”

Sherlock rise piano a quelle parole e poggiò le mani ai fianchi. John si voltò verso di lui. Dio, quanto era cambiato. Dio, se era bellissimo. Ancora più di quanto già lo era il che a John sembrava improbabile. I ricci castani non erano cambiati e John fece un sospiro di sollievo quando lo realizzò. Gli cadevano sulla fronte come sempre, come anni fa, come un ricordo che non può mai svanire.

“Ti trovo … davvero davvero bene, Sherlock.”Il suo volto era velato di stanchezza ma i suoi occhi, due pietre acquamarina, erano luminosi, vivi.

“Stanco ma felice.” Disse Sherlock e incrociò le braccia.

“E tu John …” Si avvicinò al suo vecchio amico. “Come stai?” lo disse così piano e con così tanta apprensione che John quasi si commosse.

Era davvero Sherlock? Era davvero quel suo irritante e iperattivo amico che mai, mai in vita sua, gli aveva mai chiesto come stava? E invece ora era lì a chiederglielo, di fronte a lui con il corpo più forte, più armonioso, più strutturato di prima. Con le spalle più larghe, quella vita stretta e quelle gambe eleganti. La calzamaglia nera lo avvolgeva come se fosse nata per farlo e la maglietta bianca aderiva al suo petto scolpito. Sembrava ancora più alto. E poi c’era lui, John. Di qualche centimetro più basso, il corpo proporzionato ma normale, usuale, nella norma, sano ma non speciale come quello di Sherlock. Per niente armonioso, per niente bello, neanche lontanamente paragonabile al corpo di un ballerino di danza classica. Per niente paragonabile a Sherlock. La sua pelle era più scura, capelli corti e chiari, totalmente vestito di nero. Un punto scuro in tutto quel bianco, un punto superfluo, qualcosa che lì non apparteneva. La vita di Sherlock era completamente diversa ora, lui era diverso. Cosa ci faceva lì John. Cosa ci faccio qui, questo pensava. E la sua preoccupazione e tensione lo stavano tradendo. Strinse i pugni e distolse lo sguardo da quella scultura di marmo che lo guardava con la fronte arricciata.

“John tutto bene?”

John. John Watson. Sherlock lo guardava e pensava solo a quanto il suo amico non era per niente cambiato. Il volto era più maturo, lo sguardo più deciso ma per il resto nulla, nulla era diverso. Era sempre John, con la camminata un po’ goffa e adorabile. Il suo corpo era nascosto dai vestiti ma Sherlock sapeva com’era, sapeva che era ancora forte e caldo e profumato. Sherlock si perse in queste osservazioni nelle quali la sua mente sembrava annegare e allo stesso tempo cercava di trattenere il suo istinto, impulso di abbracciarlo. Strinse più forte le sue braccia incrociate.

John fece spallucce e disse: “Sì, sì sto bene. È solo che … insomma, è tutto diverso ora. Stavo solo pensando a questo, a quanto tutto questo…” John allargò le braccia. “…sia tu ora. È la tua vita. Ed io non so che ci faccio qui.” Rise, ma era un sorriso amaro. E quasi triste.

Sherlock sospirò. Sentiva il cuore stringersi. “Sono passati tanti anni, John. Sono successe tante cose. Siamo diversi, siamo cresciuti. Non significa che non siamo più gli stessi in fondo.”

Sorrise dolcemente. John annuì. In fondo. Intendeva nel profondo, loro come persone, come personalità con preferenze, gusti, pregi e difetti e John fu lieto di sentirglielo dire.

“E’ solo che il tuo cambiamento esteriore …” John lo squadrò alla testa ai piedi.

“Fa sembrare tutto diverso. Eri così esile. Ora sei così … mi fa strano, tutto qui.”

“Le passioni ti cambiano.”

“Beh credo proprio che hai ragione. E con te hanno fatto un bel lavoro.”

Lo aveva detto davvero. Lo aveva detto e non poteva riavvolgere il nastro ormai.

“Oh, grazie.” Disse Sherlock.

“Voglio dire … sei più in forma. Per la salute fa bene.”

Cercò di aggiustare la situazione con queste parole. Si guardarono per qualche secondo poi John trovò subito qualcosa di cui parlare, ovvero la prima cosa che gli venne in mente.

“Ho visto uno stemma giù, sopra la porta d’entrata. Non pensavo che un Accademia di ballo avesse uno stemma.” A Sherlock non sembrò una domanda così inutile come la sembrò a John, anzi. Era una cosa molto importante per gli allievi.

“Sì è … una sorta di segno di riconoscimento. Un falco e un cigno, il nostro motto: forza e grazia. È ciò che ci guida, ciò a cui aspiriamo e ciò che mi ha anche tormentato.” Il suo volto si rabbuiò un po’. Quello di John fece di conseguenza, senza neanche volerlo probabilmente.

“Per molti una meta irraggiungibile e due parole che fanno paura. Ecco, devi essere più forte di quella paura e solo allora raggiungi la grazia: attraverso la forza. È una conseguenza, capisci?” Sherlock ne parlava con così tanta passione e convinzione che John mai avrebbe immaginato che la danza fosse diventata una cosa così seria per lui.

“Sembra molto difficile ma è un concetto molto bello. Quindi sono queste le due parole scritte, forza e grazia?”

“Esattamente.”

John gli sorrise.

“E tu le hai.”

“Non è una domanda. Pensi che io le abbia?”

Sherlock aspettava con ansia la riposta, glielo si leggeva nello sguardo divenuto più accesso. Anche se era diventato il migliore della compagnia di ballo, anche se era acclamato in tutto il mondo, anche se aveva avuto i maestri più conosciuti nel campo della danza che glielo avevano sempre detto, detto da John era un altro paio di maniche. Era qualcosa che andava oltre la danza, oltre la sua bravura. Era una verità che mai nessuno gli aveva fatto credere fino in fondo e i dubbi e quel tormento di cui parlava si basava proprio su di essa ma se lo pensava John, se lo sentiva dalla bocca di John forse si sarebbe tormentato un po’ meno.

“Ma certo, le hai sempre avute.”

Disse John come se fosse una cosa scontata. Il viso di Sherlock si addolcì e dentro sentiva che John gli era mancato più di quanto pensava.

“E’ il complimento migliore che mi potresti mai fare. Grazie.”John scosse la testa.

“Mettitelo nella testa che purtroppo sei speciale. Non riesco proprio a capire come … come tu possa ancora dubitare e cercare conferme. Soprattutto da me che sono l’ultima persona competente in questo campo. È ridicolo che tu sia così felice di sentirmelo dire.”

“Sì ma sei anche la persona che mi conosce meglio di chiunque altro. Se lo dici tu allora deve essere proprio vero. Nessuno, neanche con le parole o le recensioni migliori che ho ricevuto mi ha mai convinto che valgo la pena di tutto questo. Il privilegio di tutto questo.” Indicò l’aula e metaforicamente il suo successo e tutto quello che aveva guadagnato economicamente.

“Non pensi di meritarlo? Sherlock, io ho letto di te, dei tuoi infortuni, delle difficoltà che hai passato per ciò che la gente ha detto. Eppure sei qui, davanti a me con forza e grazia. Non dubitare mai dello splendore che sei.” Sherlock deglutì rumorosamente e soffocò le lacrime. Neanche un quarto d’ora e già John lo faceva sentire più vivo di quanto mai era stato in quei quattro anni.

“Ma dove sei stato tutto questo tempo, John …” Sherlock gli accarezzò il viso con la mano. Non gli importava neanche di chiedergli cosa pesava di quello che diceva la gente visto che lo sapeva. Non era un momento da sprecare in questioni del genere. Fu un gesto veloce ma John lo sentì eterno.

“I - impegnato anche io in Accademia.” Disse sorridendo.

“Anche io ho … ho avuto parecchio da fare. E vorrei raccontati così tante cose.”

Sherlock incrociò di nuovo le braccia come a tenersi su dopo quella folata di emozioni. John era perso in quegli occhi e nella disperata voglia di parlare e parlare senza sosta di tutto quello che Sherlock ha fatto, ha visto, ha vissuto. Era così curioso. Voleva parlargli di ciò che lui ha fatto. Voleva solo far parte della vita di Sherlock di nuovo.

“Senti Sherlock …” Basta aspettare, si disse John. Basta avere rimpianti. Basta.

“Pensi sia inopportuno se andassimo a cena e magari tu mi racconti com’e andato il tour mondiale con la compagnia ed io magari ti annoio con qualche discorso sull’arte e sulla letteratura. In Accademia ce ne fanno parecchi, non è giusto che annoino solo me.”

John poi si schiarì la voce aspettando una risposta.

“Non devi essere in imbarazzo John.” Sherlock a quella proposta cambiò atteggiamento. John aveva visto gli occhi lucidi per la felicità di rivederlo diventare più distaccati. Eccolo. Sapevo che lo Sherlock irritante e senza tatto era ancora lì da qualche parte, pensò John.

“Quattro anni fa è successo quello che è successo e penso che dovremmo parlarne altrimenti tu non lo supererai mai e poi la questione per me sarà chiusa e potremmo andare avanti e” Sherlock parlava come se stesse semplicemente facendo l’elenco della spesa, come se quelle parole fossero senza peso, ovvie ed ovviamente per lui era così.

“e … non sarà più come prima. Realizzalo. Accettalo. La nostra amicizia è compromessa ma non finita. Diamoci da fare.” John annuì. Che altro fare?

“Immagino sia un sì.”

“Sì, assolutamente sì.”Poi Sherlock poggiò le mani sulle spalle di John e iniziò a parlare piano, di nuovo come se provasse emozioni.

“Non voglio vederti così. Non voglio essere il motivo di una preoccupazione per te. Non voglio che pensi a me con rabbia o tristezza, okay? E non dire che non è così perché è così e non lo sopporto. Quindi, ora mi vesto e andremo a fare una passeggiata. Ti va?” John detestava il fatto che Sherlock fosse così empatico e così incredibilmente bravo a capirlo, farlo agitare per poi farlo tranquillizzare in meno di trenta secondi.

“Mi sbagliavo. Non sei cambiato per niente.” Sherlock fece spallucce e disse: “E’ una cosa negativa.”

Non una domanda ma un’affermazione. Come se fosse qualcosa che veramente niente e nessuno può cambiare. E lo era. Le sue mai ancora sulle spalle del suo amico che sorrideva calmo.

“Tu sei … solo una cosa a cui ci si deve abituare. E spesso le abitudini sono piacevoli. Come la pizza il venerdì sera. Il caffè la mattina. Cose che nonostante si ripetano non stancano mai. Le amerai sempre.” Puntualizzò John.

“E tu ti ci sei mai abituato?” domandò Sherlock quasi come a provocarlo.

Ovviamente parlava di lui. John pensava che stesse flirtando in quel momento, o almeno era quello che lui desiderava stesse facendo.

“Sei sempre stata la mia abitudine preferita, Sherlock.”

Sherlock non potette nascondere di essere compiaciuto da quella frase.

“Mh. Niente male come risposta Signor Watson.” John non sentì più quell’inadeguatezza che quel posto gli provocava. Sherlock non era quel posto. Sherlock non lo avrebbe mai fatto sentire al posto sbagliato, mai.

“Ora che abbiamo rotto il ghiaccio posso abbracciarti, vecchio amico?”

John intuì il sarcasmo e tra la sorpresa e la felicità sorrise scuotendo la testa in rassegna. Il viso di Sherlock era rilassato e forse neanche lui credeva alle sue parole. Ma riabbracciare John era qualcosa a cui non poteva assolutamente rinunciare, non dopo che erano passati anni dall’ultima volta che aveva potuto sentire e godere del calore di una persona che era sempre stata la sola di cui aveva mai accettato la compagnia nella sua vita, l’unica a fargli capire quanto in fondo tutti abbiamo bisogno di qualcuno che renda la nostra vita meno noiosa. Meno facile. Sherlock strinse le braccia intorno al corpo di John che ricambiò la stretta. Sherlock chiuse gli occhi.

“Questo profumo. Hai infestato tutto l’edificio con il tuo profumo. Lavanda e miele.”

“Wow John, sei attento ai dettagli. Allora ti ho insegnato qualcosa. Ed hai migliorato la memoria, bene.”

“Non cambiarlo mai.” Disse John con un tono più serio, come se fosse di vitale importanza.
“Come?” chiese Sherlock non trovando neanche un motivo per farlo. Era il suo preferito.

“Tu non cambiarlo, okay?” Sherlock continuava a non capire.

“Okay, John.” Sherlock sentì nostalgia nella voce di John. Nostalgia di loro.
“Fu un tuo regalo. E non c’è stato giorno in cui non l’ho messo così almeno mi hai fatto compagnia anche se non c’eri. Capisci bene che non lo cambierei con nulla la mondo, non preoccuparti.”

“Bene” biascicò John sorridendo con il volto immerso nel collo di Sherlock.

Sherlock non disse nulla, si godeva la sensazione di John su di lui ma dopo un po’, mentre si stavano ancora abbracciando come se il tempo non fosse importante, come se fosse veramente relativo, disse:

“John, posso dirti una cosa tremendamente seria e a cui non saprai come rispondere?”

L’abbraccio si sciolse e John lo guardò. “Assolutamente sì. Mi mancano i tuoi discorsi seri e a cui non so rispondere.” Sorrise.

Sherlock però rimase concentrato e il suo sguardo fisso su John. Si stavano stringendo le mani, piano. Come per appoggiarsi l’uno all’altro.

“Non prenderla come una dichiarazione o un mio momento di debolezza visto che la tua presenza qui mi fa, devo ammetterlo, un certo effetto ma prendi queste parole come un fatto, una circostanza a cui io sono soggetto e che non posso evitare di pensare. È … una cosa che voglio che tu sappia. Tutto qui, non devi neanche rispondere.”

John era tranquillo, lui era Sherlock e faceva sempre così. Ingrandiva sempre le cose, ti preparava al peggio nel modo in cui solo lui sa fare.

“Ti giuro che non do di matto e che lo accetterò come semplice verità. Va bene?”

“Perfetto”

Sherlock non aveva neanche mai immaginato di poter dire quelle cose che stava per dire a qualcuno se non a John; anche se lì e in quel momento, dopo quattro anni che non si vedevano, dopo tutto quello che non gli aveva detto quattro anni fa, non sembrava proprio opportuno. Ma sentiva che doveva. La sua mente molto più del suo cuore gli diceva che doveva chiarire quelle cose ora. Fissò per un attimo le loro mani intrecciate e sorrise. Sorrise sinceramente e nulla sembrava più opportuno.

“John, io sento che tutto, tutto nella mia vita mi ha portato a questo momento ma non solo, a tutti momenti che abbiamo condiviso. Le mie scelte, i miei dolori, i miei rimorsi. Tutto. E ora che siamo qui insieme il mio passato … sembra che ne sia valsa la pena di sopportarlo perché se avessi fatto anche solo una cosa in modo diverso, se avessi sbagliato di meno o se avessi fatto la cosa giusta, come chiamarti, cosa che non ho mai fatto e ciò fa parte dei miei rimorsi per essere precisi, forse non ti avrei mai incontrato di nuovo. C’è un motivo per cui hai voluto rivedermi e non voglio saperlo, sul serio. Eri confuso e non sicuro di venire, era ovvio, appena ti ho visto l’ho dedotto, ma va bene così. Va bene. Non tutto ha senso. Non tutto deve averlo e l’ho capito solo perché tu hai dato senso a tutto. Che sia chiaro, non in modo romantico, non ne sono capace e non sto dicendo che sei il mio mondo o la mia ragione di vivere, non lo sei, ma sei ciò che la mia vita richiede e necessita e per questo io non posso farci nulla. E devi accettarlo anche se non ti sta bene.”

John non poteva fare altro che ascoltare e lasciarlo finire. Sherlock però si fermò per un attimo. Prese fiato.

“Devi accettare che anche se non hai scelto me quattro anni fa, io sceglierò sempre te.”

Il vento fece aprire una finestra e l’aria fredda accarezzò il corpo poco coperto di Sherlock e lo fece rabbrividire. Ma i brividi li aveva ancora prima, li aveva quando ha visto John, li aveva quando John gli parlava, li aveva perché era John.

“E meno male che non sei romantico.”

“John sono serio!”

“Lo so che sei serio, calmati.”

Sherlock sospirò. Sembrava visibilmente scosso o per lo meno senza forze. Ed effettivamente per lui quello fu uno sforzo molto più consistente di qualsiasi altro sforzo fisico che aveva fatto per diventare un ballerino pressoché perfetto.

“Senti Sherlock” John gli passò una mano tra i capelli, sempre morbidi. Questo gesto mi è mancato così tanto. Lo pensarono entrambi.

“Tutto questo era quello che volevo evitare. Non volevo una tua reazione, non avevo pretese quando ho deciso di venire qui né volevo che tu ti sentissi … in dovere di dire qualcosa e”

“Allora perché sei qui? Sai come gestisco male queste cose. Perché venire dopo tutto questo tempo e farmi sentire di nuovo … così.”

Ora Sherlock le lacrime non riuscì a trattenerle e sul suo viso di marmo ne cadde una lentamente.

“Non ci credo…Come puoi pretendere che io non senta più nulla, John. Eppure sai, sai cos’è per me conviverci.”

John aveva scelto decisamente le parole sbagliate e sottovalutato quanto avesse cambiato Sherlock.

“Mi manchi, Sherlock. Mi sei mancato e … volevo solo vedere che stavi bene. Voglio che tu stia … bene.” La voce di John era bassa, rotta.

“Come pretendi che io stia bene dopo che la persona con cui ho fatto praticamente tutto ciò che c’è di importante da fare nella vita ha deciso di non darmi un’opportunità. Ed ora si presenta qui, chiaramente ancora coinvolto emotivamente ma ancora non sicuro … di ciò che noi potremmo essere.”

Sherlock parlava sfinito, stanco, deluso senza girarci troppo attorno. Anche se faceva male. Si portò una mano alla fronte.

“Di cosa diamine abbiamo parlato fin ora, eh? Cosa vuoi da me? Cosa …”

“Sherlock voglio solo riavvicinarmi, passare di nuovo le mie giornate con te. Riviverti.”

Sherlock annuiva. “Quindi, vuoi provarci. Quando ti ho dato io la possibilità, quando veramente le cose andavano bene ed erano perfette ed eravamo felici e liberi non hai voluto mentre ora che … ora che non ho neanche il tempo di”

“Ovvio, si tratta sempre di te. L’avevo dimenticato. Perché tutto deve andare secondo i paini di Sherlock Holmes, devi sempre controllare ogni singola cosa!” John alzò inaspettatamente la voce e Sherlock lo guardò esterrefatto.

“John, non osare alzare la voce qui. E non con me.” Il silenzio si fece ancora più pesante di prima.

“Dici che si tratta sempre di me. Dici che sono egoista ed è vero. Se non lo fossi, succederebbe esattamente quello che sta succedendo ora. Delusioni. Vane speranze. Tempo sprecato.”

“Tempo sprecato …” ripeté John ridendo.

Poggiò le mani sui fianchi e fissava il pavimento bianco. Il cielo si stava ingrigendo e il sole non illuminava più nulla.

“Se non fosse stato per me quattro anni fa saresti morto, dannazione. Io ho sprecato il mio tempo per salvarti da te stesso. Sei qui perché ti ho amato e perché sapevo che se non l’avessi fatto ti avrei perso sul serio.”

John fece dei passi indietro dicendo quelle atroci parole che si inchiodarono nella mente di Sherlock che piano cercava di controllare il respiro.

“Tu mi hai perso sul serio, John.” John alzò il volto. Qualcosa gli morì dentro. Sherlock continuò.

“Non ti ho chiesto di amarmi né ti ho chiesto di fingere di amarmi per salvarmi. Non l’ho mai preteso e mai lo farò. È stata una tua scelta e per questo dovrei ringraziarti, quindi, vero John? Dovrei ringraziare te per questi altri quattro anni di vita che sinceramente sono stati atroci. Pensi di avermi salvato ma a quanto pare non hai fatto un bel lavoro perchè avrei preferito morire piuttosto di vivere questa cazzo di inutile vita. Senza te, tra l’altro. Il che ha solo peggiorato le cose.”

Se per Sherlock quello era il momento di buttarsi in faccia tutto il peggio di quello che provavano l’uno per l’altro allora John ricambiò a tono.

“Non ti sei mai chiesto perché non volevo sposarti, Sherlock? Non ti sei mai chiesto il perché?”

“Eravamo troppo giovani e tu eri spaventato a morte.”

“No Sherlock, il mio perché. Non il perché dei fatti, quella può essere la motivazione di tutti. Il mio.”

A Sherlock ci vollero sei secondi per capirlo ma non poteva credere che John voleva veramente che lo dicesse, ad alta voce.

“Perché non mi amavi. Lo hai” si fermò per focalizzare l’immagine di John sfocata dalle lacrime. “… appena detto.”

La conversazione era diventata insostenibile per entrambi.

“Esatto. Almeno non abbastanza. E se l’avessi capito prima ti saresti risparmiato questa scenata” John si strofinò gli occhi e si sedette a terra, gambe incrociate. Poggiò i gomiti sulle ginocchia.

“Non sarei dovuto venire.”

L’unica cosa che c’era nella mente di Sherlock era la confusione e l’unica cosa chiara era che sapeva che stava finendo, tutto. La loro amicizia, la sua possibilità di essere amato, di avere una casa con la persona che amava, di fare un viaggio con John, di ridere con John, di vivere con John, di avere John. John, John solo e sempre John. Di avere qualcosa di vero e profondo oltre alla danza che ultimamente non faceva altro che prosciugargliela la vita più che donargliela. John era ancora seduto e reggeva la testa nelle sue mani. Sherlock si asciugò le guance rigate dalle lacrime di poco fa e guardò il suo John (suo, lo sarà sempre) rannicchiato su sé stesso lì a terra, proprio lì dove anche lui si era sempre rannicchiato dopo le prove per uno spettacolo, sfinito, prosciugato e mai soddisfatto, con il fiatone e il corpo a pezzi. Sempre. Lì al centro di quell’aula dove piangeva quasi ogni sera perché la danza, come la sua vita, non raggiungeva mai quello a cui lui aspirava, sognava.

E allora se ne stava fino a notte fonda su quel pavimento freddo, bianco come la neve di dicembre, a guardarsi allo specchio cercando di capire come aggiustare tutte le crepe che vedeva in lui. I difetti fisici che vedeva in lui. Si guardava e a volte arrivava a pensare come quell’orrore potesse piacere così tanto alla gente, alle donne e, lo aveva potuto appurare, anche agli uomini che gli erano costati le prime pagine di riviste di gossip e commenti omofobi; a volte fischi e qualche insulto sussurrato dal pubblico mischiati agli applausi. Tutte cose che giravano il coltello nella piaga. Le sue gambe erano ciò che più odiava. Non lo avevano mai portato da nessuna parte. Faceva chilometri ballando, allenandosi correndo ma alla fine cosa raggiungevano? Non lo sapeva neanche lui cosa pretendeva da sé stesso. Ed ora era davanti alla possibilità di fermare quell’agonia, di metterla in pausa e pensarci più tardi e invece no, non poteva più. Era tutto rovinato e lui rassegato. Di nuovo.

Sherlock si sedette e appoggiò la schiena allo specchio. Distese le gambe che gli facevano male da giorni, forse mesi ma non lo avrebbe saputo dire per quanto ci era abituato e i centododici spettacoli che aveva portato in scena li sentiva tutti, su ogni centimetro della sua pelle, della sua anima. John era silenzioso e lui non aveva intenzione di aprire di nuovo il discorso se John non voleva. Tutto si aspettava tranne di vederlo alzarsi e andare via, semplicemente. Sarebbe stata la cosa più facile da fare e John non l’avrebbe mai fatta quindi Sherlock aspettava, qualsiasi cosa sarebbe successa. Aspettava. Sperava rassegnato, contraddicendosi. Tutto per lui era una contraddizione in quel momento: quello che provava, pensava, ciò che era. Appena sentì John parlare sobbalzò.

“Sai, avevo visto dei girasoli di fronte alla stazione, in quel fioraio su James Street. È un fioraio bellissimo e quei girasoli erano altrettanto meravigliosi. Volevo prenderli in segno di … pace? Non lo so. Ho ricordato che erano i tuoi fiori preferiti e che magari ti avrebbe fatto piacere riceverli dopo tutti quei mazzi di scontate rose rosse dopo ogni spettacolo a teatro.” Un piccolo sorriso fece capolinea sulle labbra sottili di John.

“Ma non li ho comprati. So che li avresti trovati inutili.” Alzò lo sguardo e incrociò quello di Sherlock.

Guardò quel corpo gettato lì all’angolo come un fantoccio e si chiese cosa mai lo tormentasse così tanto. Guardava ogni parte rilassata di quel marmo che rimaneva comunque scolpita, solida; ogni linea che definiva un muscolo era ben visibile, soprattutto sulle gambe avvolte in quella sottile stoffa nera e John le seguiva con lo sguardo immaginando quanti sforzi quel corpo ha fatto per essere così.

“Che c’è John … Mi guardi con pietà. Smettila. Mi basto io.” Disse freddo, arrogante.

“Mi hai mentito, prima. Stanco ma felice, hai detto. Guardati. Stanco lo sei ma felice … non prendermi in giro. Felice non ti si addice proprio e vorrei solo sapere” John scosse la testa e addolcì lo sguardo. “perché. Perché mai mi sto rendendo conto che sei diventato l’involucro prezioso ma svuotato di ogni bellezza che possedeva che mi sta davanti.”

La voce di John non era arrabbiata né accusatoria o compassionevole. Era sincera. Sherlock lo capì e capì che valeva la pena dire la verità se mai poteva porre una tregua tra loro due.

“Questo mondo, caro John, è un incubo vestito da paradiso. Io sono andato avanti perché lo volevo, la voglia di farlo ardeva forte. Forse troppo se mi ha ridotto così eppure è stato un percorso bellissimo. Ma come tutte le cose belle, è finito. Svanito poco a poco. Questo tour è stato il colpo di grazia. Più mi elogiavano più sapevo che l’invidia nella compagnia cresceva così come ora è cresciuta ancor di più l’aspettativa su di me e di me verso me stesso.”

John annuiva ma non bastava.

Voleva sapere tutto nei dettagli, ogni cosa, così rimase in silenzio per spronarlo a continuare e Sherlock, fissando fuori dalla finestra come se stesse rivedendo quello che ha passato, continuò.

“Ho fatto cose brutte, John. A me stesso. Di conseguenza ho ferito e allontanato anche gli altri ed è semplicemente diventato ogni giorno sempre più difficile fidarmi, comportarmi come se tutto andasse a gonfie vele, come se non sentissi quel vuoto che ti lascia … l’aver toccato il fondo.”

Gli occhi ancora lontani, persi. John si iniziò a preoccupare di come stava andando la conversazione. Ha fatto cose brutte a sé stesso. Il solo pensiero gli gelava il sangue perché non avrebbe mai voluto che Sherlock gli raccontasse cose del genere ma cercò di rimanere razionale per poter capire meglio la situazione e magari anche aiutarlo se glielo avesse lasciato fare.

“Aspetta, hai parlato di invidia ma non avrebbe senso. I tuoi allievi sanno che sei il loro maestro. Non competi più con loro per le audizioni o cose del genere qui all’Accademia. Dovrebbero rispettarti e ringraziare il cielo di poterti essere vicini.” Sherlock sorrise quasi divertito e disse:

“Rifletti. Io mi sono diplomato poco meno di un anno fa e il direttore O’Hare dopo due mesi mi ha affidato la compagnia, un ruolo di prestigio qui come primo ballerino, un ruolo di prestigio nella compagnia stessa come coreografo. Mi ha dato carta bianca su tutto. E di conseguenza sono arrivati i soldi grazie alla fama, al posto come maestro qui e in tutto questo voglio precisare che ho solo tre anni più di loro e ho iniziato anche fin troppo tardi a ballare. Come potrebbero dei giovani ventenni non covare un’aspra invidia per me?”

“Okay ma devono accettarlo. Loro non saranno mai come te, devono farsene una ragione e capire che esistono prodigi, geni, persone speciali, chiamale come le vuoi chiamare, a cui devono sottostare e non perchè valgono meno ma perché l’unica cosa da fare è imparare. Dovrebbero sfruttare le loro forze per cercare di imparare il più possibile da te invece che invidiarti o essere antipatici. So che tu non gli avrai agevolato il lavoro ma … non è mai troppo tardi. Potresti parlargli e chiarire le cose. È ovvio che dopo un anno a praticamente convivere con loro ne esci distrutto psicologicamente oltre che fisicamente. Come pensavi di poter sopportare ancora tutto questo?”

Quelle parole colpirono Sherlock che non gli dava tutti i torti. E ancora una volta John gli aveva dimostrato quanto lui aveva bisogno della sua saggezza.

“Hai, hai ragione. Devo creare un dialogo con loro altrimenti non si fideranno mai di me. Mi temeranno soltanto come hanno fatto fin ora.”

John all’improvviso sembrò vedere tutte quante le responsabilità, le preoccupazioni e i pensieri che incombevano sulle spalle curve di Sherlock come una grossa nube nera. Decise di mettere da parte l’orgoglio che non aveva mai portato nessuno da nessuna parte. Si alzò piano e andò verso Sherlock che alzò lo sguardo quando John gli fu di fronte.

“Non volevo litigare.” Disse piano John, che gli porse la mano. Sherlock la afferrò deciso e si tirò su.

“Ma ciò che ti ho detto lo penso ancora. Penso ancora che io merito meglio di tutto questo, ma non significa che ho la forza di lasciarti. Arrendermi.”

“Lo so.” Rispose Sherlock lasciandogli la mano.

“Anche io non voglio arrendermi. Però magari i girasoli, non so, potevi sforzarti di comprarli. Qui sarebbero stati davvero bene.”

“Sherlock …” lamentò John ridendo piano.

“Era per dire.”

Sherlock fece spallucce e si voltò verso la finestra ancora aperta. Un raggio di sole pallido camminò lento sul pavimento fino ai loro piedi e piano saliva, toccando anche i loro corpi vestendoli di una fioca luce gialla ma calda.

“Sta uscendo di nuovo il sole.”

Disse Sherlock facendo un profondo respiro non distogliendo lo sguardo dal cielo che si apriva e mostrava ora un po’ di azzurro. John respirava quel profumo che gli invadeva la gola e che sapeva di bei ricordi, guardava il profilo regale di Sherlock, quelle labbra forti e delineate come dei petali di rosa poggiati su del marmo e guardava quelle lunghe ciglia che di profilo sembravano ancora più lunghe che facevano da cornice alle iridi cristalline di Sherlock. Eccome se gli era mancato ammirare tutto quello.

“Sherlock”

Lui si girò velocemente e sussurrò un “Dimmi”.

John gli prese le mani fredde nelle sue e le accarezzava per riscaldarle.

“Io devo sapere che se me ne vado, se dopo che abbiamo fatto questa passeggiata che dovevamo fare circa mezz’ora fa, tu continuerai a prendere in considerazione quello che ti ho chiesto, ovvero passare del tempo con te. Rivederti. Capire come io posso aiutarti in questo periodo di cui mi stavi parlando perché sinceramente non posso permetterti di stare male di nuovo e stavolta ti giuro sulla mia vita che se sento che il mio amore non è abbastanza non ti lascerò e sarò sincero fin da subito. Non voglio rivivere quello che è successo quattro anni fa, non me ne andrò. E per me è questa la cosa che tu devi accettare, come io accetto il fatto di essere comunque la tua scelta. Okay? Devi accettare il fatto che se non mi avrai nella tua vita come compagno io ci sarò come … come meglio tu vorrai. Come ritieni giusto che io faccia parte della tua vita, non importa cosa sarò ma ci devo essere. Hai bisogno di me comunque, lo sai”

Sherlock serrò le mascelle un paio di volte seguendo quelle parole, per scaricare la tensione. Abbassò lo sguardo.

“Okay John, faremo a modo tuo.” Lo disse consapevole del fatto che John gli stava chiedendo di accontentarsi.

“Hey …” John gli prese piano il volto nella sua mano, un gesto dolcissimo, e glielo sollevò per guardarlo. Gli occhi di Sherlock erano disarmanti.

“Non mettermi il broncio ora. Prendi il lato positivo: per una volta nella tua vita non avrai il controllo, per una volta potrai semplicemente goderti quello che verrà. Senza pensare che le conseguenze possano essere colpa tua. Non lo saranno. Sarà … la vita.”

John cercava di sorridere nascondendo la tensione.

“La vita sarà ingiusta. Come sempre.” Rispose Sherlock calmo, e appoggiò la sua mano su quella di John che ancora sosteneva la sua guancia.

John corrugò per un attimo la fronte e in quel momento si giurò che avrebbe fatto di tutto per rendere il cinismo e il pessimismo di quell’uomo un lontano ricordo. Avrebbe fatto di tutto per guarirlo da tutto il marcio che aveva sopportato ignorando che non poteva farlo ovviamente perchè non si guarisce da certe cose. Provarci però probabilmente lo avrebbe fatto sentire meno in colpa.

“Beh, pensa che sarà ingiusta con entrambi stavolta.”

Stavolta.

Ciò voleva dire che era stata ingiusta solo con lui? pensò Sherlock. Che John aveva sofferto ma non quanto lui. Ovvio. Lui non lo amava. Non così tanto come lui pretendeva. Annuì sorridendo nascondendo la reazione di dolore che quei pensieri gli procurarono.

“Ora vado a farmi una doccia e poi faremo questa benedetta passeggiata, se ti va ancora.”

“Certo. Possiamo anche andare a pranzo se vuoi. Ci sarà un ristorante decente da queste parti.”

“C’è il Crush Room Restourant qui vicino. Ti ci porto. Ma …”

Sherlock squadrò John dalla testa ai piedi.

“Ch- che c’è?”

“Non penso tu abbia una giacca con te. Ma almeno puoi togliere il maglione e rimanere in camicia. Sarà più appropriato.” Lo disse poco convinto.

“Oh ma andiamo, sul serio?”

“Ho sempre odiato i tuoi maglioni e lo sai.”

John alzò gli occhi al cielo divertito. Così continuò la conversazione ancora per parecchio in realtà prima che Sherlock andasse a prepararsi. Sembravano tornati alla spensieratezza di quattro anni fa quando parlavano sinceramente di tutto, quando litigavano e dopo cinque minuti era tutto apposto. E loro neanche se ne accorsero che ora erano tranquilli, che stavano parlando sciolti, come se stessero di nuovo a casa davanti una buona tazza di tè. Si abbracciarono di nuovo, rimasero stretti per un po’, si accarezzavano le mani, piccoli gesti come se facessero fatica a distaccarsi. Le dita di John non resistettero a intrecciarsi di nuovo con i ricci di Sherlock per una seconda volta ma andava bene così, Sherlock non aveva mai obiettato a quel gesto, né ora né in passato. Come se lo avesse aspettato per tutti e quattro quegli anni. Si sfiorarono anche la punta del naso mentre parlavano di come la primavera in Provenza, dove Sherlock era stato durante il tour, fosse meravigliosa.

“E’ un luogo incantevole. Ci sono dei campi stracolmi di fiori profumati. E tante api, sai che adoro le api.”

A quelle parole Sherlock appoggiò la fronte a quella di John.

“Deve essere davvero bello.” disse con un sussurro John, mettendogli le braccia sulle spalle e incrociando le sue dita dietro al collo di Sherlock.

Un gesto che un amico decisamente non farebbe ma John non resisteva, Sherlock era lì ed era ancora suo, lo voleva ancora suo e prenderlo tra le sue braccia era inevitabile.

“Ma scommetto che il tuo profumo rimarrebbe ancora il mio preferito” aggiunse.

Sherlock si limitò a sorridere e a chiedere perché era fissato con il suo profumo.

“Nessuno porta più quel profumo e solo dio sa come fai ancora a trovarlo. E quindi il perché è semplice: potrei sempre ritrovarti, ovunque. Saprei che sei tu.” Bacialo. Era tutto quello che ogni cellula di Sherlock urlava. Ma non poteva. Non doveva.

“Mi mancava la tua dolcezza. Tanto.” Non riuscivano trattenersi.

Come se si desiderassero esattamente come la prima volta che si sono visti, con la certezza che qualcosa sarebbe successo. Ma quella mattina non successe nient’altro se non quella litigata e quella riappacificazione che sembrava più una promessa. Non successe nient’altro se non un ottimo pranzo in quel ristorante di lusso che divenne il preferito di John, anche se non si sarebbe mai potuto permettere di pagare il conto se mai avesse voluto andarci da solo per cui se mai ci fosse riandato sarebbe stato esclusivamente con Sherlock. E quella limitazione non gli dispiaceva affatto. Il pranzo fu veloce e si scambiarono sguardi più che parole anche perché volevano evitare assolutamente di parlare del futuro soprattutto. Si godevano il momento. Entrambi avevano bisogno di staccare la spina, non pensare agli impegni del giorno dopo e nessuno dei due poteva sperare di farlo in un modo migliore se non con l’altro. La loro complicità era sempre stata qualcosa che aveva salvato la loro amicizia più e più volte e il fatto che si fosse trasformata in qualcosa di più anni fa aveva per loro dato senso a tutto, come un bellissimo e sudato traguardo raggiunto dopo tanti sforzi. Tuttavia le cose si complicarono ed ora erano lì uno di fronte all’altro a discutere sul vino migliore da abbinare a quel piatto che avevano appena finito. Ma a loro mancavano anche queste piccole sciocchezze.
Finito di mangiare lasciarono il ristorante con calma.

“Non mangiavo così bene da mesi.” Disse John aprendo la porta per Sherlock.

“Grazie. Sono felice che apprezzi ancora la cucina sofisticata. Se non ti portavo io al ristorante avresti mangiato solo fish and chips per settimane.”

“Vero. Mi hai sempre fatto apprezzare le cose bella della vita che non potevo permettermi. Non è stato poco.”

Passeggiavano su Bow Street lentamente e passo dopo passo si avvicinavano sempre più. John incrociò il suo braccio a quello di Sherlock che si accostò a lui sorridendo a quel gesto.

“Eri l’unico amico con cui valeva la pena condividerle. In realtà eri l’unico e basta.”

John ebbe la pelle d’oca a quella frase.

L’unico.

Questa parola porta con sé una pesantezza che molti sottovalutano e che probabilmente non conoscono. La sua etimologia spiga bene quanto sia bella. Unico = lat. UNICUS da UNUS uno. Solo del suo genere. Che non ha altri della sua specie; fig. Raro, Eccellente. Deriv. Unicamente; Unicissimo; Unicità. Una parola niente male. Un complimento niente male e John ci pensò per giorni da romantico quale era. Fu davvero l’unico capace di tracciare uno spiraglio nella solida armatura che Sherlock indossava perché oltre quella c’era un mondo che unicamente John aveva visto. Provato. Vissuto. E la prima volta che riuscì a trasformare quello spiraglio in una crepa più larga e a svestire totalmente Sherlock di quel suo spesso involucro di razionalità e freddezza fu quell’estate di quattro anni fa.
Quell’estate che pose fine e inizio a tutto.
   
 
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