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Autore: Fandoms_Are_Life    16/03/2017    2 recensioni
One-shot | 6.508 parole secondo LibreOffice Writer | Modern!AU | Lime | Contenuti forti | Katniss!Centric
[OS liberamente ispirata a "Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" e "Christiane F. La mia seconda vita"]
Prima una sigaretta. Poi l'hashish. Dopo gli acidi e le pasticche. Infine l'eroina. Katniss Everdeen, da due anni, è schiava di una dipendenza mortale. Dopo essere stata scoperta da sua madre, è costretta ad andare in terapia dal dottor Aurelius. Lì, durante la sua prima seduta, racconterà la storia di come la droga ha preso possesso di lei.
Dal testo:
"So che mi sta guardando in faccia, per questo chino il capo in modo da far cadere i capelli davanti al viso e coprirmi. Non voglio che nessuno mi fissi in viso. Non voglio che nessuno mi fissi, punto. Non dopo quello che è successo. Nemmeno io riesco a sostenere il mio sguardo allo specchio. Sono un cadavere ambulante, più bianca di un cencio, più magra di un osso, più distrutta di un cuore infranto. Desidero solo diventare invisibile per tutti."
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dottor Aurelius, Katniss Everdeen
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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La stanza in cui mi trovo è completamente bianca. Dalle pareti al mobilio, tutto possiede la tonalità più chiara possibile. È come se questo luogo fosse circondato da un alone di purezza, di incontaminazione. Chiunque mi vedesse in questo momento capirebbe subito che io non appartengo ad un posto del genere.
I miei occhi si spostano frettolosamente da un punto all'altro della sala, evitando accuratamente di posarsi sul volto dell'unica persona che, in un momento del genere, dovrebbe avere tutta la mia attenzione. Dottor Aurelius, mi pare che si chiami. Me lo ha riferito mia madre questo pomeriggio, prima di portarmi nel suo studio, ma non faccio molto caso a quello che dice da molto tempo. Questo è proprio uno dei problemi per cui sono finita qui, ma non il più importante. No, non si avvicina minimamente al guaio più grosso che ho mai combinato in vita mia.
- Katniss, accomodati, prego. Non stare impalata davanti alla porta, è una posizione scomoda per parlare - mi dice il terapista con tono gentile, indicando il divano davanti alla poltrona su cui è seduto lui. Riluttante, acconsento, collocandomi rigidamente proprio dove mi è stato detto.
So che mi sta guardando in faccia, per questo chino il capo in modo da far cadere i capelli davanti al viso e coprirmi. Non voglio che nessuno mi fissi in viso. Non voglio che nessuno mi fissi, punto. Non dopo quello che è successo. Nemmeno io riesco a sostenere il mio sguardo allo specchio. Sono un cadavere ambulante, più bianca di un cencio, più magra di un osso, più distrutta di un cuore infranto. Desidero solo diventare invisibile per tutti. A ben pensarci, c'è un modo in cui potrei far sì che questo accada.
- Allora, Katniss, come stai? - domanda il dottore, interrompendo le mie elaborate elucubrazioni e facendomi trasformare nuovamente nel pezzo di ghiaccio che sono da due anni a questa parte.
Deglutisco a vuoto per la completa mancanza di saliva. - Male - rispondo laconica. Odio questo genere di domande retoriche: servono solo per far perdere tempo alla gente.
- Ti va di parlarne? - chiede ancora lui, e con la coda dell'occhio noto che afferra il block-notes, immancabile per ogni medico, a quanto pare.
Stavolta non rispondo. Persino dire un semplice “No” mi costa fatica. Sono combattuta: potrei farmi aiutare oppure potrei lasciarmi andare. Le scelte non sono mai state il mio forte. Perdo sempre troppo tempo a valutare i pro ed i contro di una situazione. Mi chiedo perché, al terzo anno di liceo, non ho fatto lo stesso con quella roba.
Lo sento sospirare. Forse si è stancato. Ha capito che con me è inutile fare giochi del genere, che sono oramai un caso perso.
- Katniss, so che non è piacevole ripercorrere il genere di esperienza che hai avuto, ma tu hai bisogno di aiuto. - Il suo tono è quasi supplichevole, ma non provo compassione. Non provo più niente.
Dopotutto, però, posso soddisfare questa sua richiesta. Posso raccontargli come è iniziato tutto, ma non come è finito, perché non c'è mai una fine, ed io lo so meglio di tutti. Così comincio: - Avevo sedici anni…

Da un po’ di tempo a quella parte, mi stava andando tutto male. A scuola avevo una media insufficiente in gran parte delle materie, le rispostacce che rifilavo ai professori mi avevano fatto finire in presidenza decine di volte, la mia concentrazione era andata a farsi fottere, quindi il pensiero di fare i compiti non mi sfiorava nemmeno di striscio, tantomeno quello di ascoltare le solite tiritere dei professori su questo o quell’argomento. A pensarci bene, il tempo che trascorrevo a casa era così minimo che potevo benissimo definirmi una senzatetto. A volte, marinavo anche la scuola: c’erano giorni in cui non mi presentavo affatto in classe, mentre altre mattine mi rompevo i coglioni dopo un paio d’ore di lezione e, durante la pausa, me la svignavo inosservata, vagando senza meta fino a tarda sera, senza mai rispondere al cellulare. Lo tenevo silenzioso, così la suoneria non poteva disturbarmi mentre ero intenta a fumare.
Avevo iniziato quasi per caso: un giorno avevo trovato il pacchetto di Marlboro di uno degli ex compagni di mia madre sul tavolo, completamente dimenticato. Vuoi per curiosità, vuoi per noia, ne ho afferrata una, sono uscita sul balcone di casa, l’ho accesa con l’accendino che avevo trovato adagiato accanto all’involucro ed ho tirato la prima boccata della mia vita. C’è mancato poco che mi strozzassi. Ho tossito per interi minuti, temendo di soffocare da un momento all’altro. Quando, finalmente, il mio petto ha smesso di minacciare di squarciarsi in due, ho osservato la canna che avevo in mano, col respiro affannato. Meno di un secondo dopo, era posata nuovamente sulle mie labbra. In fondo si sa: la prima volta è sempre orribile.
Dopo una decina di minuti, sono rientrata in casa. Mi sentivo strana, avvertivo al contempo un forte giramento di testa ed un senso di pace interiore. Be’, se mi faceva quest’effetto, non doveva poi essere così male, no?

- E così è iniziato tutto con una sigaretta - sintetizza Aurelius, scribacchiando qualcosa sul suo blocco per gli appunti prima di tornare a posare gli occhi su di me.
Annuisco quasi con riluttanza, tornando a spostare lo sguardo ovunque pur di non incontrare il suo. - Non fumavo tanto, all’inizio. Una a settimana era il mio massimo. Non lo sapeva nessuno. Mi nascondevo sempre. Per un certo periodo, neppure Clove e Peeta ne sono stati al corrente, ma poi ho deciso di confidare tutto almeno a loro.
- Clove e Peeta? - mi interrompe il dottore, sistemandosi gli occhialini sulla radice del naso e scrutandomi con interesse.
- I miei migliori amici - spiego sbrigativamente, mentre sento una fitta al cuore. Pensare a come è finita con loro due mi fa ancora stare male, sebbene sia passato parecchio tempo da quando li ho sentiti per l’ultima volta. Pensavo che la nostra fosse una di quelle amicizie che sarebbero durante in eterno, ed invece…
Stringo le mani a pugno e serro i denti. Non voglio continuare a riflettere su questo. È l’ennesima pagina oscura della mia esistenza, ed è anche una di quelle che mi fanno più male.
Il dottor Aurelius sembra percepire il mio disagio nei confronti di questo argomento, così fa scorrere rapidamente il suo sguardo sul block-notes, prima di domandarmi: - Hai detto che hai cominciato a comportarti in questo modo solo da un certo periodo della tua vita in poi. Come mai è avvenuto questo cambiamento?
Deglutisco. - Mio padre… è morto circa sette anni fa. A quell’epoca, mia madre si era già ripresa, ed aveva cominciato a frequentare altri uomini. So che, in fondo, erano passati ben cinque anni, ma non mi è mai andata giù questa cosa, e Prim era d’accordo con me, anche se era troppo buona per dirlo alla mamma. Cercava sempre di dare almeno un’opportunità alle persone che lei ci presentava. Io, invece, non concedevo loro nemmeno quella. Si vedeva lontano un miglio che non la meritavano. Mia madre ha sempre avuto un pessimo gusto in fatto di uomini. Ancora non riesco a capire come abbia fatto ad innamorarsi di papà, o, più che altro, come sia riuscito lui a ricambiarla.
Scrive velocemente qualcosa sul suo taccuino, poi mi dice: - Hai sempre avuto brutte esperienze con gli uomini di tua madre?
Improvvisamente, vengo percorsa dai brividi. Mi stringo le braccia attorno al corpo, quasi come se una folata di vento gelido mi avesse investito, ed impedisco alle lacrime di cadere ed alla nausea di avere il sopravvento mentre mi tornano in mente gli occhi da serpente di Coriolanus Snow, le sue mani viscide, la pressione della sua lingua contro la mia pelle.
- È stata colpa di uno di loro se ho iniziato a drogarmi - sussurro flebilmente.
Aurelius smette di tamburellare le dita sul bracciolo della poltrona. I suoi occhi si fanno attenti, indagatori, mentre le sue sopracciglia si aggrottano. - Cosa intendi dire? Era uno spacciatore?
Scuoto la testa. - No, lui non faceva parte del… di quel mondo. - A stento mi sono trattenuta dall’affermare “del mio mondo”. Perché, in fondo, è di questo che si tratta.
- Puoi spiegarti meglio, per favore? - Si sistema più comodamente sulla sua poltrona, in posizione di ascolto.
Mi mordo il labbro con una forza tale che, dopo poco, comincia a sanguinare. Lecco quel liquido rosso scuro, lasciando che il suo sapore metallico mi invada la bocca e scenda giù per la gola, fino a propagarsi all’interno del mio corpo. - Si chiamava Coriolanus Snow. Era molto più vecchio di mia madre. Aveva circa ottantasei anni la prima volta che io e Prim l’incontrammo. Per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Era impossibile che mia madre si fosse innamorata di un rudere decrepito come lui. Eppure era proprio così. - Sento la rabbia tornare a scorrermi nelle vene, gelida, implacabile. - Aveva sostituito mio padre con un rottame, un viscido rettile corroso dal suo veleno fino al midollo.
Il terapista appoggia i gomiti sulle ginocchia, sporgendosi per osservarmi meglio in volto. - Cos’è successo, Katniss? - domanda, scandendo lentamente ogni singola lettera.
A quel quesito, immagini che avrei voluto seppellire nei meandri della memoria secoli fa si ripresentano vivide davanti ai miei occhi. Un conato improvviso mi fa piegare in avanti, ma riesco a trattenerlo.
- Ti senti bene? - mi chiede, con una nota di preoccupazione.
Non rispondo a quest’ultima richiesta, bensì comincio a raccontare la parte più traumatica della mia vita, quella che mi ha segnato nell’animo e nel corpo. - Lui… mi ha… stuprata. - Mi umetto le labbra. - Più volte. - Le lacrime pungono sempre di più, ma le ricaccio indietro. - Succedeva quasi ogni notte. - A fine frase, il mio tono si spezza.
Per un attimo, il silenzio regna sovrano nella stanza, ed io posso illudermi di non esistere, di non essere stata ascoltata, vista. Ma dura solo un secondo. Infatti, subito dopo, la voce del medico si fa risentire: - Tua madre lo sapeva?
Fisso tutte le piastrelle del pavimento, ad una ad una, e nel mentre rispondo: - No. Non potevo dirlo a nessuno. Mi ha minacciato. Ha detto che avrebbe fatto del male a Prim. Non avrei potuto sopportare di perdere anche lei.
I ricordi prendono il sopravvento.

Quella notte, non riuscivo a dormire. Mi giravo e rigiravo nel letto senza essere in grado di trovare una giusta posizione nella quale assopirmi. Tuttavia, quello smise di essere il mio problema principale non appena sentii la chiave girare nella toppa della serratura. Il momento seguente, Snow aveva fatto il suo ingresso nella mia camera. Si era voltato in modo da poter chiudere a chiave prima di posare i suoi freddi occhi su di me. Uno scintillio lussurioso gli attraversò lo sguardo, ed io, istintivamente, mi coprii di più con il lenzuolo.
- Cosa vuoi? - domandai sgarbatamente, riuscendo a nascondere il mio timore alla perfezione. Strano, non ero mai stata un’ottima attrice.
Si posò un dito sulle labbra, prima di cominciare a ridacchiare sommessamente. - Non vorrai svegliare tua madre e tua sorella, spero.
Il mio battito cardiaco accelerò nell’udire quelle parole. Ero sempre più spaventata, e le mie scarse doti recitative cominciarono a cedere. - Ti ho chiesto che ci fai qui - ribattei, con la voce tremolante.
Lui, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo, si avvicinò con calma al mio letto, mentre io mi ritiravo sempre più contro il muro.
- Credo che tu sappia già il perché della mia visita - rispose, e di nuovo le sue iridi furono attraversate da una scintilla maliziosa. Dio mio!
- Vattene! - esclamai, col respiro affannato.
Con uno scatto sorprendente per un uomo della sua età, mi raggiunse in men che non si dica e mi tappò la bocca con la mano. - Shhh - ripeté. - Ti conviene stare al mio gioco se non vuoi che alla tua adorata sorellina capiti qualcosa di molto brutto. - A quella frase seguì un ghigno di pura malvagità.
Dopo qualche istante, mi lasciò andare, lasciando però il suo viso sempre a pochi centimetri dal mio. - Non dovrai dire a nessuno ciò che accade qui dentro la notte, e dovrai soddisfare i miei desideri ogni singola volta che te lo chiederò, altrimenti ci saranno conseguenze serie sia per Primrose sia per tua madre, mi sono spiegato? - sibilò, ed il suo alito emanava un odore misto di rose e sangue che quasi mi fece rimettere.
Capii che non avevo altra scelta se non subire passivamente. Non c’erano vie di fuga. Inoltre, mia sorella era la cosa più preziosa che avevo, e non potevo permettere che me la portassero via. Meglio io che lei.
Così, tremante, mi lasciai spogliare da quel diavolo infernale che mi avrebbe condannata ad una dannazione eterna. Le sue mani sfiorarono i miei fianchi, le sue labbra orrendamente piene lasciarono marchi sulla mia pelle che se ne sarebbero andati dopo poco, ma le ferite che stava infliggendo al mio animo sarebbero state indelebili.
Quando entrò in me, il dolore che provai fu talmente grande che credetti di potermi spezzare in due da un momento all’altro. Quando finii, ero talmente scossa che non riuscivo nemmeno a sfogarmi con un pianto.
Questa tortura si ripeté per mesi, e fu la causa principale delle mie assenze sempre più assidue da casa. Quando, finalmente, Coriolanus morì di vecchiaia, riuscì a tornare a dormire nel mio letto senza più il timore che si ripresentasse alla mia porta, impedendomi di ribellarmi al suo volere. Purtroppo, però, non potei gioire appieno di questa liberazione: oramai, infatti, ero diventata schiava dell’eroina.

- Cosa succedeva quando non eri a casa con lui e la tua famiglia, Katniss? Dove andavi? Frequentavi ancora Clove e Peeta?
Tutte queste domande a raffica mi fanno venire il mal di testa. Mi massaggio le tempie, cercando di scacciare gli orribili ricordi che sono stata costretta a rivivere, e tento di formulare delle risposte sensate. - Avevo smesso di frequentare regolarmente le lezioni. Clove e Peeta spesso venivano a cercarmi, e mi tempestavano di telefonate quando non mi trovavano. Se non rispondevo, passavano ai messaggi: aggressivi quelli di lei, pieni di preoccupazione quelli di lui. Non rispondevo a nessuno dei due. Preferivo fumare hascisc, in quel periodo. Ad iniziarmi era stato Marvel, un ragazzo che veniva in classe con me e che era stato bocciato. Non ci eravamo mai frequentati molto ma, quando ha iniziato a vedermi sempre più spesso in giro per la città durante gli orari scolastici, si è incuriosito ed è venuto a parlarmi. Piuttosto che sballarmi da sola, ero disposta ad intrattenermi persino con uno come lui. Quando mi ha proposto per la prima volta di fumare hascisc, ero riluttante. “È solo erba” continuava a ripetermi, così alla fine ho ceduto, più per accontentarlo che per altro. Invece, incredibile a dirsi, mi è piaciuto, e da matti anche! In breve tempo, non potevo trascorrere più di tre giorni senza fumare almeno una canna di hascisc.
- Ne eri dipendente a tal punto da essere pronta a sacrificare tutto il resto? - domanda il medico, poggiandosi la mano sul mento.
Mi intreccio una ciocca di capelli tra le dita. - A quel tempo non capivo. Volevo solo fuggire dalla mia situazione familiare. L’hascisc mi è sembrata una via di fuga. Solo dopo sono arrivati gli acidi. Le pasticche di LSD mi spedivano in un trip che non sembrava voler mai finire, e che mi rilassava completamente, facendomi dimenticare di tutto quello che dovevo subire quasi ogni sera. Mi venivano offerte dagli amici di Marvel: Glimmer, Finch, Thresh… Oramai ero entrata a far parte del loro gruppo. Quando mancava l’LSD, mi sballavo con quello che potevo trovare: valium, efedrina, mandrax… Tutto pur di non pensare neanche per un secondo a Snow ed a quello che mi stava facendo. Di certo, però, non pensavo che una serata trascorsa in discoteca potesse portarmi a diventare un’eroinomane. Eppure è proprio così che è andata.
Il mio sguardo si fa vacuo, mentre ripercorro gli istanti che hanno definitivamente segnato la mia vita.

- Questa musica è troppo forte! - gridai, tappandomi le orecchie. Era l’unico modo per riuscire a farmi sentire in mezzo a tutto quel caos.
- Non ci pensare! Divertiti e basta! - mi rispose Marvel, indirizzandomi uno dei suoi migliori sorrisi prima di raggiungere Glimmer sulla pista da ballo ed avvinghiarsi a lei come un polipo.
Finch e Thresh erano seduti davanti al bancone. Bevevano qualcosa di tanto in tanto, ma più che altro osservavano svogliatamente gli sconosciuti che si stavano scatenando a pochi metri da loro, scambiandosi qualche parola vuota in momenti di noia assoluta.
Decisi di raggiungerli, così mi misi a spintonare sconosciuti a destra e a manca per riuscire a passare in mezzo a quella calca assurda.
Una volta compiuta la mia impresa, mi accomodai di fianco a loro ed ordinai la prima cosa che mi venne in mente al barista, che si era subito precipitato di fronte a me per prendere la mia ordinazione. Dopodiché, mi girai ed iniziai a conversare con loro. Erano i più tranquilli della compagnia, e non mi sono mai sentita a disagio nel trovarmeli accanto.
Ad un certo punto, si avvicinò a noi un tizio che non avevo mai visto prima. Magrissimo, con un volto scavato ed emaciato ed uno scintillio folle negli occhi. Il classico tipo dal quale, un tempo, mi sarei tenuta alla larga. Oramai, però, non possedevo più inibizioni di alcun genere, perciò lo inclusi nella conversazione.
- Ciao - dissi, rivolta verso di lui. Mi guardò per un po’ senza dire niente, poi, con meticolosa lentezza, estrasse una siringa, un cucchiaio ed un sacchetto pieno di polverina marrone. Anche se non mi era mai capitato di vederla dal vivo, capii immediatamente che si trattava di ero: i giornali ed i notiziari ne parlavano in continuazione, in quel periodo.
- Volete sniffare? - ci domandò semplicemente lo sconosciuto, rivolto anche alla rossa ed al moro.
Ci fissammo negli occhi per alcuni istanti, poi Thresh chiese: - Quanto costa un grammo?
Il ragazzo si guardò attorno. - Stasera ci sono troppe persone che non mi piacciono in giro. - Ci indico un gruppetto di uomini ben vestiti che scrutava con molta attenzione la sala. - Credo che siano poliziotti in borghese, perciò non ho tempo di fare i conti: datemi cinque dollari a testa, il resto me lo darete quando ci incontreremo di nuovo.
Non gli chiesi perché era così convinto di rivederci. Pagai la mia parte senza fiatare. Ancora non sapevo che, quando si è eroinomani, ci si trova sempre e comunque, in un modo o nell’altro.
Corsi in bagno e, cercando di ricordare le istruzioni che ci aveva detto quel tizio, sniffai per la prima volta una piccolissima quantità di ero. Immediatamente, il mondo cominciò a sembrarmi più traballante. Uscì a fatica dalla cabina e tornai in pista completamente fuori controllo. Mi accasciai su di una sedia per un solo istante, prima di scattare in piedi e buttarmi in mezzo alla mischia. Ballai come una forsennata per tutta la sera, pensando che non ero mai stata così su di giri. Decisamente, quella prima sniffata mi aveva soddisfatto. Perché non riprovare?

Il dottor Aurelius scrive qualcos’altro sul suo block-notes prima di chiedermi: - Quando hai iniziato ad iniettarti eroina direttamente nelle vene?
Frugo nella mia memoria per ricordarmi di un altro momento che mi ha segnato indelebilmente. - Circa un paio di mesi dopo quella serata. Ero frustrata perché mia madre aveva trovato ancora una volta un uomo che non mi piaceva affatto, ed avevo bisogno di non pensare a niente. Corsi a cercare Ray, il ragazzo della discoteca. Era diventato il mio spacciatore di fiducia. Non mi faceva mai pagare troppo. Era gentile. Mi disse come fare per spararmi una pera di eroina sul braccio, ed io eseguii senza fare storie. Dopo, mi sentii così bene che non potei evitare di rifarlo ancora, ed ancora, ed ancora…
- Clove e Peeta non hanno mai fatto niente per fermarti?
Mi passo una mano tra i capelli. - Clove si era trasferita per una decisione improvvisa dei suoi genitori. Non abbiamo mantenuto i contatti a lungo. Con Peeta ci siamo persi di vista mano a mano che cominciavo a frequentare sempre più spesso Marvel e gli altri. - Ennesima stretta allo stomaco. Dio, è così doloroso parlarne!
- Quindi… hai cominciato a frequentare luoghi di ritrovo per gli eroinomani? - mi domanda.
Annuisco lentamente, mentre altri ricordi si affacciano alla mia mente. - È così che ho conosciuto Cato.
Aurelius inarca un sopracciglio. - Cato? E chi sarebbe?
Un sorriso dolceamaro mi spunta in volto mentre ripenso a lui. - Faceva parte del giro da più tempo di me, ma sapeva controllarsi. Non si è mai trovato a rota, almeno prima di conoscermi. Ci siamo conosciuti il giorno in cui un tizio già con un piede nella fossa a causa dell’eroina voleva rubare la dose che avevo appena acquistato.
Mi perdo ancora una volta nelle memorie che conservo, stavolta con un filo di malinconia.

Ero alla ricerca di un bagno per potermi sparare il mio grammo di eroina in santa pace, quando all’improvviso uno sconosciuto mi si para davanti. Aveva gli occhi sporgenti, era magro come un chiodo e tremava incessantemente.
Aggrottai le sopracciglia e cercai di aggirarlo, ma lui mi afferrò per le spalle. - Hai l’ero? - mi chiese con un tono disperato.
Feci un cenno d’assenso, cercando di divincolarmi subito dopo, ma, per quanto fosse minuto, aveva una stretta d’acciaio. Del resto, tutti quelli in astinenza sono capaci di fare qualsiasi cosa pur di procurarsi la droga.
- Dammela, subito! - mi ordinò. Lo spintonai e riuscii ad allontanarlo da me, ma con un ringhio lui si aggrappò ai miei capelli, tirandoli fino a farmi gridare di dolore.
- Ti ho detto di darmela! Ora! - urlò, non mollando la presa.
Proprio mentre stavo allungando la mano verso il pacchetto, lui mollò la presa. Si sentì un tonfo, ed io mi girai di scatto per capire cosa fosse successo.
Un tipo alto e massiccio teneva l’eroinomane inchiodato al muro, fissandolo torvamente. - Gira al largo, Steven - gli disse, perentorio. - Qui non c’è niente per te. - Dopodiché, lo lasciò andare, e quello se ne sgattaiolò via alla chetichella, così com’era venuto.
Lo sconosciuto si voltò e mi puntò addosso i suoi magnetici occhi azzurri come il ghiaccio. - Che ci fai in giro, ragazzina? Non dovresti essere a scuola?
Aggrottai la fronte. - Senti chi parla - replicai. Era parecchio più alto e robusto di me, è vero, ma non poteva avere più di diciotto anni.
Un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra. Decisamente, lo stavo divertendo parecchio, e questa cosa mi stava facendo innervosire.
- Senti, grazie per prima, ma adesso sono di fretta. - Detto ciò, lo scansai e mi diressi al bagno, fortunatamente poco distante da dove ci trovavamo.
Una volta chiusa la porta alle spalle, mi sparai il mio grammo in vena e tutta l’incazzatura passò subito, quasi come se non fosse mai esistita.
Uscii un po’ traballante, ma ancora conscia di ciò che accadeva intorno a me. Infatti, quando lo vidi appostato accanto all’ingresso, con una spalla poggiata sullo stipite, mi accostai a lui. - Sei ancora qui? - gli domandai, senza utilizzare però il tono scorbutico di prima. Ero più rilassata.
Fece un mezzo sorriso. - Non ti conviene andare in giro da sola dopo esserti fatta di ero in questo quartiere. Come hai potuto constatare, girano brutti ceffi qua intorno.
- E tu sei uno di loro? - domandai, incrociando le braccia sotto il seno e donandogli il sorriso più sbruffone della mia collezione.
Scoppiò a ridere, ed a quel punto mi sembrò davvero bello. Senza pensarci, gli chiesi: - Com’è che ti chiami?
- Cato - rispose. - E tu?
- Katniss - dissi. Dopodiché, senza aggiungere una parola, ci incamminammo insieme fuori dal bagno.

- Siamo diventati amici. Frequentavamo sempre il giro insieme, ed a volte dividevamo persino le dosi che avevamo. Non passò molto tempo prima che ci baciassimo per la prima volta. - Sorrido, riportando alla mente quel ricordo.
- Così… vi siete fidanzati - dice il medico.
Annuisco. - È riuscito a farmi dimenticare l’accaduto con Snow. Accanto a lui mi sentivo felice, come se fossi tornata ai tempi in cui tutto era ancora a posto nella mia vita. - Sorrido, rievocando tutti i momenti che ho condiviso insieme a lui. Uno in particolare inizia a farmi battere il cuore talmente forte che temo che la cassa toracica mi possa esplodere da un momento all’altro. - Abbiamo fatto l’amore - mormoro con un tono quasi dolce, così strano per me.
Il terapista sembra sorpreso. - Solitamente, persone che hanno vissuto una situazione come quella creatasi tra te ed il tuo patrigno impiegano anni prima di fidarsi nuovamente di qualcuno in quel senso.
- Forse ci mettono così tanto tempo perché non hanno la fortuna di trovare un individuo che li capisca davvero, che li faccia stare bene - ribatto. - Cato mi ha aiutato ad andare avanti. Senza di lui, adesso probabilmente non sarei qui a parlare con lei.
Chiudo gli occhi e ripenso a quel magico momento, a quella notte. La nostra notte.

Avevo il respiro affannato e tremavo impercettibilmente, ma non volevo darglielo a vedere. L’ultima cosa che desideravo era che pensasse che fossi una codarda o cose simili. Avevo paura, però: era innegabile. E lui, oramai, mi conosceva talmente bene che gli bastò semplicemente guardarmi dritto negli occhi per capire che c’era qualcosa che non andava.
- Ehi, se non vuoi non dobbiamo farlo per forza. Posso aspettare. Se non ti senti pronta, ti capisco - disse, accarezzandomi una guancia.
Deglutii. - Io… non so… - balbettai, e mi sentii talmente patetica in quel momento che non potei impedire a due lacrime di solcarmi le guance.
Cato si limitò a far passare i suoi polpastrelli su di esse, cancellando ogni traccia della scia che mi avevano lasciato sulla pelle. - Non preoccuparti - sussurrò. - Va tutto bene. - Dopodiché, mi strinse a sé.
Mi rannicchiai contro di lui e cominciai a piangere in silenzio, singhiozzando appena. Cato, semplicemente, non mi lasciò andare, ma continuò ad accarezzarmi i capelli fino a quando non mi fui completamente calmata. A quel punto, trovai io stessa la forza di scostarmi da lui per asciugarmi il viso e guardarlo nuovamente in volto. Un secondo dopo, poggiai le mie labbra sulle sue, in un bacio dapprima casto e che, via via che il tempo scorreva, divenne sempre più passionale.
Il biondo si staccò da me dopo qualche minuto per riprendere fiato. - Katniss… - Era visibilmente confuso, e potevo capirlo. Da quando assumevo sostanze stupefacenti, i miei costanti cambiamenti d’umore disorientavano in continuazione le persone che si trovavano attorno a me.
Gli sorrisi. - È tutto a posto. Sono pronta - affermai. - Avevo solo bisogno di sfogarmi.
La sua espressione rimase dubbiosa ancora per un po’, ma quando mi accostai nuovamente a lui ogni incertezza sparì. Mi prese il viso tra le mani e mi baciò ancora ed ancora. La sua bocca scese fino al mio collo, mentre le sue dita si insinuavano sotto l’orlo della mia maglietta. In breve tempo, me la tolse, ed io feci lo stesso con la sua. Continuammo a stuzzicarci fino a quando non fummo completamente nudi l’uno di fronte all’altra. Solo allora mi penetrò. Dopo il leggero dolore iniziale, provai solo un senso di forte piacere ed una gioia assoluta.
Facemmo l’amore più volte, quella notte, e per la prima volta riuscii a stare lontana dall’eroina per qualche ora, sebbene, una volta sveglia la mattina seguente, mi ritrovai quasi a rota. Ma, per una volta, non m’importava più di tanto: ero felice, finalmente.

- Presumo che tu e Cato vi frequentiate ancora - dice Aurelius, interrompendo il mio flusso di ricordi.
Improvvisamente, tutta la contentezza provata nel rievocare quei momenti scompare, lasciando solo il posto ad un’amarezza senza fine ed ad un dolore sordo nel petto. - No - rispondo laconica.
Aggrotta la fronte. - Come mai? Lui fa ancora parte del giro? Non vuole provare a smettere?
Mi stringo nuovamente le braccia attorno al corpo. È come se il freddo pungente di quel pomeriggio oramai lontano fosse tornato ad investirmi completamente, portando con sé tutto ciò che di brutto è accaduto nella mia vita.
Deglutisco a vuoto. - Dopo qualche mese, notai che stava sempre peggio. Le dosi di eroina erano aumentate, oramai non poteva resistere più di sei ore senza assumerne qualche grammo per endovena. - Il mio tono si fa arrabbiato, velenoso come quello di Snow. - Suo padre aveva cominciato a trattarlo come una pezza da piedi. Non che prima il loro rapporto fosse migliore. La madre di Cato è morta quando lui aveva appena cinque anni, e da quel momento il padre aveva cominciato a disinteressarsi quasi completamente di lui. Era un figlio di puttana - sibilo alla fine.
- Non sapeva nulla dell’eroina che assumeva Cato? - chiede, scrivendo qualcos’altro sul suo taccuino.
Emetto un verso sprezzante. - Si può dire che era praticamente il suo spacciatore personale. Si drogava da molto più tempo di lui. Era un cocainomane fatto e finito. Per quel che ne so, lo è ancora. A volte si faceva anche degli speedball: mischiava eroina o morfina con cocaina o crack. Però non condivideva le sue dosi volentieri con Cato: litigavano sempre di più per questo motivo, ed a volte erano arrivati anche alle mani. Era una situazione di merda, lui era un pezzo di merda, oltre che una grandissima testa di cazzo: se solo quello stronzo non fosse stato così assuefatto dalle droghe che assumeva, a quest’ora Cato… - Non riesco a concludere la frase. Fa troppo male ricordare. Eppure la mia mente riporta in vita quel giorno che ho tentato con tutta me stessa di seppellire nei meandri più bui della mia memoria.

Non sentivo Cato da una settimana. Avevo provato a contattarlo in tutti i modi: l’avevo chiamato, gli avevo scritto migliaia di messaggi, ero andata a casa sua, avevo chiesto ai suoi amici dove fosse finito, mi ero precipitata in tutti i luoghi che frequentava di solito sperando di trovarlo, ma niente. Di lui non c’era la minima traccia da nessuna parte, e stavo cominciando a preoccuparmi.
Erano le cinque del pomeriggio, e faceva tremendamente freddo. Stavo camminando senza meta, e nel frattempo pensavo a dove potevo trovarlo quando mi imbattei in un’edicola. Il proprietario stava svogliatamente sfogliando un giornale, incurante della mia presenza. Forse non si era nemmeno accorto che mi ero fermata di fronte a lui. Il titolo di testa di una gazzetta mi aveva attirato. Era scritto a caratteri cubitali, e recitava: OVERDOSE FATALE PER UN DICIOTTENNE.
Mi avvicinai ulteriormente, col cuore che batteva all’impazzata ed il respiro affrettato. Quando lessi il suo nome, il mondo mi crollò addosso.
Cato Hadley, diciotto anni, morto dopo essersi iniettato cinque grammi di eroina per endovena la notte scorsa.”
La sua foto, minuscola, campeggiava accanto all’articolo.
A quel punto, credetti veramente di sentire il mio cuore fermarsi.
Ero sconvolta. Mi allontanai dall’edicola con passo incerto, quasi come se fossi una bambina che stava imparando a camminare. Dopo qualche metro, la mia camminata si fece più frettolosa. Iniziai a correre senza alcun preavviso, ritrovandomi a casa poco dopo.
Mi sbattei la porta dell’ingresso alle spalle e mi precipitai in camera mia, gettandomi sul letto. Respiravo con la bocca aperta, ed il mio petto si alzava ed abbassava in modo irregolare.
- Katniss? - Prim fece capolino dentro la mia stanza. - Tutto bene? - Aggrottò le sopracciglia, assumendo un’espressione preoccupata. - Perché stai piangendo?
Con fatica, sollevai una mano fino a tastarmi le guance, scoprendole completamente bagnate. Lacrime calde colavano lungo il mento, fino a bagnarmi la maglietta. Tutto quello che le dissi fu: - Torna dalla mamma, Prim.

Le lacrime scendono giù anche adesso, ma le spazzo via con una mano, furiosa per essermi mostrata così fragile di fronte ad uno sconosciuto.
Il dottor Aurelius mi fissa senza dire una parola. Apre e chiude la bocca per un paio di volte. L’ho proprio messo in difficoltà, a quanto pare. Alla fine dice: - So bene che le mie parole sono del tutto inutili, ma… mi dispiace.
Il mio sguardo torna a posarsi sul pavimento. - Anche a me.
A queste mie parole seguono attimi di silenzio che non fanno altro che accrescere il mio dolore. Subito dopo, però, il medico mi fa un’altra domanda, quella che stavo aspettando dall’inizio di questa seduta: - Tua madre quando si è accorta che facevi uso di eroina?
Giocherello un po’ con i miei capelli prima di rispondere: - Due anni dopo l’inizio di tutto. Praticamente, pochi mesi fa.

Dal giorno della morte di Cato, tornavo a casa sempre a tarda notte. Oramai ero stata ufficialmente espulsa dalla scuola per le mie troppe assenze ingiustificate. Avevo aumentato le mie dosi di eroina, e, quando capitava, prendevo anche pasticche di LSD, oppure mi ubriacavo. Tutto pur di non sentire il dolore.
Una sera, tornai a casa prima del solito. Era passata da poco la mezzanotte, ed ero convinta che sia la mamma sia Prim stessero dormendo. Invece, non appena feci ingresso in casa, mia madre mi si parò davanti. - Dove sei stata? - mi chiese con tono duro, fulminandomi coi suoi occhi azzurri.
- In giro - risposi evasiva, cerando di svignarmela in camera mia. Lei, però, me lo impedì strattonandomi per un braccio. Dopodiché, il suo sguardo si posò sulla mia borsa a tracolla. - Cos’hai lì dentro? - domandò, autoritaria.
- Cazzi miei - dissi, provando a divincolarmi dalla sua stretta. Con una mossa imprevista, però, mi tolse la sacca di dosso e ne rovesciò il contenuto sul pavimento. Quando vide la siringa, il cucchiaio ed i pacchetti di eroina, sembrò che avesse appena ricevuto un pungo in pieno petto.
Tremante, sollevò lo sguardo fino ad incontrare i miei occhi. - Tu… ti droghi - disse con voce stridula, prossima al pianto.
Le rivolsi un sorriso beffardo. - Te ne sei accorta presto - replicai, sarcastica.
Il rumore dello schiaffo rimbombò per tutto il corridoio. Ne fui sorpresa: solitamente non dimostrava mai di avere carattere. Tuttavia, subito dopo si accasciò a terra, singhiozzando come una disperata e chiedendosi cosa aveva sbagliato con me, ritornando quella di sempre. Io, nel frattempo, la osservavo dall’alto con indifferenza.

- … e così eccomi qui - concludo.
Il dottor Aurelius finisce di scrivere qualcosa sul suo block-notes, dopodiché mi rivolge la sua completa attenzione. - Hai avuto un percorso di vita molto travagliato, ed hai dovuto subire diverse ingiustizie. È stato questo a trascinarti nel mondo dell’eroina.
- Mi dica qualcosa che non so già - replico, sprezzante, incrociando le braccia sotto il seno.
- Hai bisogno di aiuto, Katniss. Da quanto mi ha detto tua madre, nonostante lei ti avesse scoperto hai continuato a fare uso di sostanze stupefacenti fino alla settimana scorsa, se non erro.
- L’ultima pera me la sono fatta stamattina - lo correggo, godendo nel vedere la sua espressione affranta.
- Questo conferma il mio giudizio: dovrai frequentare un’organizzazione che ti aiuti ad uscire da quest’incubo ed a tornare ad avere una vita normale.
Non so come, ma riesco a trattenermi dallo scoppiargli a ridere in faccia. - Se è convinto che possa aiutarmi… - dico, ironica.
- Parlane con tua madre. Cerca di instaurare nuovamente un rapporto con lei, poi passerai a tutti gli altri. Magari tu, Clove e Peeta tornerete ad essere il gruppo affiatato di un tempo…
Mi alzo in piedi, dirigendomi verso la porta senza dire una parola.
- Ci vediamo fra tre giorni - è l’ultima frase che sento prima di abbandonare, finalmente, quella stanza troppo bianca.
In breve tempo, sono all’aria aperta. Cammino distrattamente per i vari vicoli della città, fino a raggiungere casa mia. Mi frugo nelle tasche e tiro fuori la chiave. La infilo nella toppa ed entro.
L’assenza di rumore mi fa presumere che non ci sia nessuno. Dopo un rapido giro di perlustrazione, la mia ipotesi viene confermata.
Mi dirigo in camera mia, piazzandomi davanti allo specchio posto di fronte alla parete. E quello che vedo mi spaventa. Davanti a me c’è una ragazza con gli occhi spenti, i capelli arruffati, talmente magra che si riescono a vedere le costole persino attraverso la maglia che indossa, col volto scavato ed un colorito che oscilla tra il cadaverico ed il verdognolo. Le braccia sono ricoperte di lividi violacei lì dove mi sono iniettata tutte le dosi di eroina. Probabilmente, quasi tutte le vene del mio corpo sono andate a farsi fottere.
Cosa mi è rimasto? Niente. Nessuno. Papà se n’è andato. Mamma ha paura di me, ed ha allontanato Prim perché teme che possa avere una cattiva influenza su di lei: si è trasferita a casa di mia zia, e sono quasi due mesi che non la vedo. Clove abita a trecento chilometri di distanza. Per Peeta sono oramai un’estranea. Cato è morto. Che senso ha andare avanti?
Sono queste riflessioni che mi convincono a fare ciò che ho in mente da molto tempo. Lentamente, mi avvicino al mio letto, e tiro fuori da sotto l’imbottitura la mia fedele siringa, con l’immancabile cucchiaio ed una dose talmente eccessiva di eroina che, se sarò fortunata, mi manderà al tappeto subito.
Mi dirigo in cucina con passo cadenzato per prendere del succo di limone, dopodiché vado in bagno e mi piazzo davanti al lavandino, chiudendo la porta alle mie spalle. Tiro fuori l’eroina dal sacchetto e la metto sul cucchiaio. Fatto ciò, aggiungo il limone ed aspetto che il liquido si solubilizzi. Dopo, lo aspiro tutto nella siringa, e ripongo tutti gli altri oggetti utili al mio consueto rituale uno accanto all’altro. Mi fisso un’ultima volta allo specchio, e mi sorrido: è il sorriso di uno scheletro vivente, di qualcosa che non dovrebbe neanche esistere.
Mi fisso le braccia, cercando una vena ancora utilizzabile. Fortunatamente, riesco a trovarne una in un tempo relativamente breve. Non esito nemmeno per un attimo, neppure quando sento la porta di casa aprirsi e mia madre chiamarmi: inserisco la siringa e spingo giù lo stantuffo. Non so cosa mi aspetta: forse il paradiso dei drogati, forse l’inferno, forse il nulla. Fatto sta che, pochi secondi dopo, stramazzo al suolo senza emettere un solo fiato. Ho gli occhi talmente sgranati che credo che possano uscirmi fuori dalle orbite da un momento all’altro. Ma continuo a sorridere. Finalmente è finita. Forse nell’altro mondo la mia esistenza sarà migliore.
L’ultima cosa che vedo è la porta del bagno che si apre, quella che sento è l’urlo di terrore misto a dolore di mia madre.
Dopo, c’è solo buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice: Salve a tutti! Questa è una one-shot che avevo in cantiere da molto tempo: precisamente, da inizio gennaio. Avevo finito da poco di leggere “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, e la storia di Christiane mi aveva colpito a tal punto che non riuscivo a smettere di pensarci. Così, un giorno, mi si è presentata in mente l’idea di scrivere qualcosa di simile riguardante i personaggi di Hunger Games, per permettere a chi non ha ancora letto quel libro di conoscerlo, o magari di guardarsi almeno il film. Tuttavia, non mi sentivo pronta per scrivere qualcosa di così complesso, perciò ho accantonato questo lavoro fino a ieri sera. Infatti, ho appena finito di leggere il “seguito” del libro citato poc’anzi, “Christiane F. La mia seconda vita”, realistico e crudo come il primo. Allora mi sono detta: perché non provare a concludere ETIAW? Quindi mi sono data da fare ed è uscito fuori questo mattone di tredici pagine. Spero veramente che la lettura di questa OS non vi abbia creato particolare fastidio e di non aver fatto errori riguardanti le tematiche delicate che essa tratta. Infine, vi consiglio assolutamente di leggere i libri che mi hanno spinta a scriverla, perché possono veramente aprirvi gli occhi sul mondo della droga e della prostituzione giovanile. Faccio delle piccole precisazioni: le parti scritte in corsivo sono dei flashback, mentre le altre sono ambientate in tempo reale, ed i termini come “pera”, “trip” ed “ero” fanno parte del gergo dei drogati; inoltre, non ho aggiunto la nota OOC perché… be’, c’è la droga, una sostanza in grado di farci fare cose che, se fossimo pienamente coscienti, non saremmo mai in grado di fare. Ringrazio in anticipo chiunque la leggerà ed anche le buone anime che decideranno di lasciare un commento o aggiungerla ad una delle loro liste. Baci da Fandoms_Are_Life.

   
 
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