Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Lost In Donbass    17/03/2017    1 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAPITOLO UNDICI: HO IMPARATO A GIOCARE, FRATELLO MIO

Tom non sapeva quanto potesse risultare convincente con quella vecchia Polaroid appesa al collo, una sigaretta in bocca, la borsa anni ’50 appesa alla spalla, la vecchia giacca di pelle bucherellata e i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle. Non era nemmeno sicuro di quanto potesse spacciarsela da fotografo di cimiteri, ma, ecco, gli era sembrata la scusa più plausibile da usare con il vecchio guardiano per non sembrare un necrofilo pervertito che girellava oziosamente per Friedenau in una giornata di pioggia appiccicosa e nebbia che saliva inquietantemente su dall’erba umida e avvolgeva le lapidi come sottili mani di fumo che sembravano voler ghermire anche lui, solitario visitatore del grosso cimitero, con il suo mazzo di viole blu, e i suoi occhi assonnati e gonfi. Che poi, dalla fioraria era pure riuscito a sembrare un perfetto tossico, con la sua faccia da morto di sonno e la sua ostinazione nel farsi dare quei fiori introvabili, per poi uscire di corsa inseguito da uno spelacchiato mazzolino di viole blu.
Tom sospirò, passandosi una mano tra i capelli unti, fingendo di scattare una foto a una grossa tomba familiare dove incombeva un enorme angelo di marmo nero che pareva solamente una crudele apparizione che voleva fagocitarlo, e aumentò il passo in mezzo alla selva di morti che si estendevano sotto i suoi piedi. Più la nebbia saliva, più aveva la fastidiosa sensazione che i grossi angeli lo stessero seguendo e che i morti cominciassero a parlottare appena superava la loro tomba, che le piante facessero in modo di diventare un’intricata prigione naturale nel quale rinchiuderlo. Ok, forse stava definitivamente impazzendo. Bill gli stava dando alla testa, si stava lasciando condizionare dalla sua follia, dai fantasmi del suo passato misterioso, dalle sue paturnie mentali da schizoide, aveva lasciato che i problemi mentali del biondo attecchissero alla sua mente stanca e divorata dall’amnesia, che germinassero per farlo impazzire del tutto, per frustare quel poco di normalità che aveva ancora per farlo diventare pazzo a sua volta. Veniva tranquillamente a patti con sé stesso, oramai: aveva degli squilibri mentali. Certo, rispetto a Bill erano nulla, ma lui la normalità manco pensava di averla mai davvero vista. Sembrava ossessionato da tutto quello che vedeva in televisione, aveva paura del buio a ventisette anni suonati, soffriva di brutte amnesie e di un’insonnia così terribile da torturarlo da quando era un bambinetto, era così eccitabile che pure un cimitero in un giorno di pioggia poteva condizionarlo. E si era pacificamente fidanzato con uno schizofrenico suicida con gravi patologie dissociative e manie di persecuzione. No, così non andava per niente. Ma quando mai qualcosa era andato bene per Tom, che doveva lavarsi i capelli e mangiava solo patatine fritte?
Scivolò rapidamente tra le lapidi della zona nord-ovest, girandosi ogni tanto nel terrore che, come nel Doctor Who, apparissero a sopresa qualche angelo piangente male intenzionato o qualche morto vivente, come in Wayward Pines. Oh sì, doveva smetterla di guardare la tv alle due del mattino. Si guardò intorno, percorrendo silenziosamente le strette stradine che si dipanavano ovunque e portavano a tombe tutte uguali eppure tutto diverse, con le loro storie, i loro segreti, tradimenti, amori, amicizie, rimpianti. Non gli sarebbe dispiaciuto raccogliere in un libro le storie di tutte quelle persone che riposavano per l’eternità attorno a lui. Scavare nelle loro storie, raccontarle, tenerli vivi. Per chi non aveva nessuno, Tom avrebbe voluto esserci, a narrare al mondo la presenza di quel povero diavolo morto senza nessuno. Guardava ogni lapide, leggeva ogni nome, tremando quando leggeva di bambini, sospirando quando leggeva di giovani, chinando il capo quando leggeva di vecchi. In fondo, in morte, non diventiamo tutti esattamente uguali? Tutti polvere, non cambiava nulla. Polvere di stelle da disperdere nelle città. Cercava le due tombe gemelle da sistemare e sulle quali deporre i suoi sparuti fiori, e le trovò una vicina all’altra, sotto le grande quercia nell’angolo più a ovest, verso il sole morente. Due tombe uguali, di brutto granito, così semplici da essere rozze; vi si inginocchiò vicino, facendosi un rapido segno della croce, osservando rapito le due lapidi, grossolane, il granito scurito dalla pioggia e dall’usura del tempo inclemente di Berlino, il retro mangiato dall’edera e dal muschio. C’erano incisi due nomi, Hansi Schadenwalt e Holly Lachmann, male, di fretta, due date di nascita e morte storte e poco curate, quei ventitre anni di vita di entrambi nemmeno considerati, giusto abbozzati come se non fossero stati altro che ombre nella loro vita. Tom sospirò, sedendosi sul terreno umido, di fronte alle due foto rovinate incastrate dietro a due vetri scheggiati. Sotto quelle due lapidi, riposavano il loro eterno sonno la più grande dannazione di Bill e una ragazza forse troppo buona. Guardò tristemente quelle date e quei nomi incisi in fretta, senza la minima cura, nemmeno un semplice R.I.P. ad accompagnare i tratti duri del granito. Guardò le foto, passandoci delicatamente le dita sopra, osservandole con attenzione con un’inquietudine che non riusciva a levarsi di dosso. Stava guardando il passato di Bill, attraverso quelle due foto e quelle due tombe. Si stava pericolosamente affacciando negli incubi del suo angelo, spoergendosi pericolosamente in un intrico di rovi pungenti dove non vi era alcuna rosa, ma solo i petali ammuffiti di una bambola coi capelli tinti di biondo e le lacrime che scorrevano sulle guance incavate. Non sapeva se continuare a sporgersi e rischiare di cadere nel roveto senza più alcuna possibilità di risalita o se tirarsi indietro all’ultimo e rimanere però sempre con il desiderio folle di ferirsi con le spine. Ci pensò un secondo, immerso nella nebbia di Friedenau, tra angeli di marmo e fiori finti. Ma d’altronde non era semplicemente un ragazzo senza niente da perdere, con lo skate e la morale di periferia da insegnare a nessuno, la testa da filosofo squinternato, le patatine in mano e un ricordo che giocava a rimpiattino nel fondo della sua anima? E per i rovi … beh, Tom era sempre stato un po’ masochista, in fondo. Sospirò rumorosamente, buttandosi giù dalla torre nel roveto del passato di Bill. Passò un dito timidamente sulla vecchia foto di Hansi, un ragazzo magro, magro ai limiti dell’anoressia, i capelli quasi bianchi da quanto erano biondi lunghi fino ai fianchi, la sigaretta tra le mani lunghe, appoggiato a un muro dove dietro campeggiava a bella vista la scritta fresca “Blood&Honour”, la bomboletta ancora in mano. Era bello, decise Tom. Bello come lo era Bill, bello di quella bellezza perversa e demoniaca che aveva il fratello minore, bellissimo eppure solo da quella vecchia foto era percepibile la sottile malvagità di quel ragazzo. Lo leggeva nel leggero ghigno sul viso affilato, qualcosa che anche da una semplice foto faceva correre un brivido di ansia nella spina dorsale del ragazzo, lo sguardo perforante che anche attraverso il passato sembrava voler trasmettere tutto il suo carisma e la sua cattiveria maligna. Poteva capire Bill, ponderò, deglutendo rumorosamente. Faceva paura quel ragazzo, anche a distanza di anni dalla sua morte, quello sguardo che per quanto poteva essere distrutto dall’eroina rimaneva cattivo, maligno, perverso. Distolse nervosamente lo sguardo da quello fisso di Hansi, e passò a guardare la foto di Holly. Così diversa dal suo fidanzato, non poté fare a meno di pensare Tom, sentendo il cuore stringersi in una morsa di tristezza a vedere il sorriso aperto e felice di quella ragazza chiaramente incinta seduta su un’altalena, i capelli platino cotonati, i seni prosperosi schiacciati in una camicetta strettissima, come la gonna vertiginosa. Sembrava così dolce, così affettuosa, a vedere quel viso truccatissimo e giocondo che brillava di luce propria anche da dietro il vetro scheggiato. Forse lei era stava davvero buona con il piccolo Bill, forse era davvero lei una specie di angelo.
Abbassò lo sguardo sulle due lapidi rovinate dalle intemperie ma accuratamente sistemate, con le candele nuove e vecchi fiori che avevano bisogno di essere cambiati. Tom sospirò, prendendo il mazzolino di viole blu e le divise a metà, mettendone alcune a lei e alcune a lui, sostituendo i fiori vecchi e appassiti, che sapevano di pioggia e di muschio. Guardò curiosamente e con un misto di reverenziale timore quello che era accuratamente sistemato sulle tombe dei due ragazzi, tremando appena per la pioggia sottile che si infiltrava sotto ai vestiti. C’erano alcuni vecchi bigliettini oramai rovinati e cancellati sulla lapide di Holly, alcune frasi ancora visibili, quegli “Holly, ci mancherai”, “Sei sempre nel mio cuore”, “Non ti dimenticherò mai, sarai sempre la mia migliore amica”, “Ti voglio bene, bionda”, “Scusa se non ti ho salvato, amica mia” i vecchi ricordi di amicizie distrutte da anni, e Tom si chiese come mai nessuno le avesse più portato nulla, perché i bigliettini erano tutti vecchi e bagnati dalla pioggia, alcuni addirittura illeggibili. E c’erano alcune candele, un piccolo peluche distrutto e divorato dal tempo. E poi c’era un disegno, bello, nuovo di zecca, sicuramente nato dalla pazzesca abilità di Bill nel fare ritratti, con la ragazza sorridente e il Bill coi capelli neri abbracciati uno all’altra, una scritta in complessi caratteri gotici a coronare il piccolo ritratto a carboncini ed acquerelli così delicati da sembrare un soffio di zefiro nella cupa oscurità del cimitero “Mi manchi, sorella”, e poi, più sotto “Perché hai ucciso anche i tuoi figli? Sapevi che c’ero io, perché me li hai portati via?”. Giusto, a quello che avevano scoperto con la Lega Dei Kebab, Holly era incinta quando si era impiccata. Forse Bill voleva solo i suoi nipoti, anche se Tom non riusciva a capacitarsi di come avrebbe potuto un angelo fuori dal tempo crescere un bambino. Sospirò, accarezzando delicatamente il bel viso della ragazza, una tomba anonima e volgare per un’ombra che sembrava non avesse mai calcato quel suolo. Ma d’altronde, a chi importa il suicidio di una eroinomane di periferia? Non c’era giustizia, come non ce n’era per gli angeli, per gli smemorati e per clan di kebabbari investigatori.
Guardò la tomba di Hansi, i biglietti vecchi e rovinati come sulla tomba della fidanzata, che inneggiavano a frasi naziste, vari “Non possiamo fare a meno delle armi”, “Siamo tenuti a essere leali, corretti, fedeli, camerateschi soltanto con coloro che hanno il nostro stesso sangue: Hansi, sarai sempre il nostro camerata”, “Hansi, l’onore non tramonta e il tuo non tramonterà mai”, una svastica ritagliata su un pezzo di stoffa con delle firme sotto oramai assorbite dalla stoffa lercia, e … Tom strabuzzò gli occhi, prendendo timidamente un grosso volume posato sopra ai biglietti, da dove sbucavano fogli, foglietti, fotografie, e lo aprì, piano, nel terrore che tutti quei ricordi si sciogliessero tra le sue mani callose come polvere di stelle e si involassero nel turbinoso cielo berlinese che continuava a piangere sulla storia di un angelo senza ali. Tom stava così, inginocchiato per terra come stesse pregando, i capelli scoli che gli cadevano mollemente attorno al volto, gli occhi malinconici e persi nelle loro variabili impossibili da risolvere, in mano quel grosso scrigno di memorie che Bill aveva raccolto durante tutta la sua giovane e squinternata esistenza. Non riusciva semplicemente a capacitarsi di cosa volessero dire quei disegni, uguali a quelli che aveva visto nel blocco che Bill stava finendo la notte in cui si erano messi insieme, quei disegni che sembravano raccontare un’infinita quantità di storie d’amore tra i … due fratelli? Si grattò il retro del collo, incerto, osservando le fotografie ammonticchiate di Hansi, di Holly, dello stesso Bill, di un gruppo di ragazzi con le espressioni scavate dall’eroina. Era una storia raccontata dal silenzio, dalle immagini, dalle lacrime e dalla nostalgia che impregnavano ogni singolo carboncino, ogni singola immagine. Sfogliò con il cuore in gola quelle brevi lettere ammonticchiate una sopra all’altra, finché il suo occhio stanco non colse una frase che lo fece sobbalzare, incredulo e stupito, avvolto dalle cupe nebbie del cimitero.
Perché quel “Ti amo tanto, fratello mio” suonava vagamente perverso alle sue orecchie. Si concentrò sulle lettere oramai rovinate dalla pioggia e dall’umidità, l’inchiostro sciolto che macchiava le pagine giallognole e accartocciate, leggendo pazientemente quello che si poteva comprendere in quel tripudio di chiazze nere e parole scritte in una lingua che non esisteva né in cielo né in terra, un nuovo codice angelico che sembrava differire completamente da tutte le lingue che la testa matta di Tom riusciva a imparare alla perfezione senza, almeno quelle, dimenticarle. Bill aveva inventato una lingua, decise. E non sapeva se considerarlo un segno latente di psicosi o di inguaribile genio.
“… e lo sai che ti ho sempre ammirato, Hansi, fratello mio. Non riesco ancora a capacitarmi di come tu possa essertene andato dalla mia vita. Tu eri tutto per me, lo sai, e ora che te ne sei andato non so più dove sbattere la testa. Mi sembra che tutto mi si stia rivoltando contro, da quando la tua protezione è venuta a mancare tutti i mostri sono tornati in massa a torturarmi. Dove sei, amore mio? Perché mi hai lasciato da solo? …”
“… ho provato a suicidarmi, oggi, Hansi.” Tom non poté fare a meno di soffocare un conato di vomito “Ho tentato di tagliarmi le vene, come quel pomeriggio di tanti anni fa, ti ricordi? Ma anche questa volta non sono morto. Sono proprio stupido, fratello mio, me l’hai sempre detto. Che nullità sono se non riesco nemmeno a suicidarmi? L’ho fatto per te, sai, voglio tornare da te ma sono sicuro che hai impedito tu che in qualche modo mi salvassi. Non mi vuoi più vedere? Ti sei stufato di me? Ti prego, Hansi, non dire così. Ti amo, ti amo, ti amo con tutto me stesso. Non abbandonarmi ancora come hanno fatto tutti.”
“… avevo provato a salvare Holly e i bambini. Certo, lo so che a te non è mai importato nulla di lei e che non avresti mai nemmeno degnato i gemelli di uno sguardo, ma non importa. Ho tentato di proteggerla come ho potuto, perché lei ha sempre meritato molto di più di quanto tu fossi mai stato disposto a darle. Io sono l’unica persona adatta a te, Hansi, l’unico capace di sopportare i tuoi abusi e la tua violenza con amore, sono l’unico che ti capiva e che avrebbe potuto amarti sopra ogni cosa, non importa cosa mi avessi fatto. Però nessuno mi ha creduto, e Holly e i gemelli sono morti, esattamente come sei morto tu. Ti ha ucciso, ma lo sai che non lo avrebbe mai fatto davvero. Non arrabbiarti con la piccola Holly, fratello. Lei è solo una vittima della situazione da incubo nella quale siamo precipitati tutti quanti. Indovina chi ha trovato il suo cadavere che dondolava impiccato nella camera da letto? Io, ovviamente. Io, che ho visto mio fratello, la mia unica amica e i miei nipoti morirmi davanti nel giro di un mese. Io, che sono rimasto solo, vittima dei miei demoni senza più nessuno che mi possa salvare. Non ce la faccio più, Hansi, fratello e unico amore della mia triste esistenza. Non ce la faccio più. …”
Tom boccheggiò, incredulo. Quelle erano squinternate, assurde, lettere d’amore che avrebbe potuto scrivere a un ragazzo d’oltreoceano, non il genere di cose che scrivi a un morto come se fosse perfettamente in grado di risponderti. Certo, forse Bill era davvero convinto che Hansi vivesse, in qualche misterioso Iperuranio tutto suo. Ma quello era … inquietante, grottesco, assurdo. Si scostò una ciocca unticcia dal viso, sbattendo incredulo le ciglia. Quello era amore, grondava a chili da quelle lettere, un amore perverso, incestuoso, estremo e a senso unico. Chiuse gli occhi stanchi, segnati dalle mille notti insonni che costellavano la sua squinternata esistenza. Poteva fare qualcosa per lui. L’aveva giurato a sé stesso, e non era il tipo di ragazzo che si arrendeva di fronte a delle difficoltà, avrebbe reagito, in qualche modo tutto suo, campato in aria come la sua stessa esistenza, senza una vera logica, con  anni di sonno arretrato e una cultura televisiva che non serviva a nessuno, troppe lingue che galleggiavano nella sua testa matta, stralci di ricordi scoordinati con betulle nane che non sapeva più dove piantare. Era come se l’intera, bollente, umida Berlino fosse diventata un labirinto di reminiscenze e suoni scoordinati nella quale lui doveva districarsi, per arrivare al centro, dove lo aspettava Bill, con le sue ali a pezzi e i suoi occhi allucinati, due coppe in mano e una risata inesistente, una tacita richiesta di scelta. Scegli me, la mia devozione, il mio amore incondizionato, la mia fedeltà eterna e indistruttibile, scegli la mia dedizione cieca e appassionata e ti sacrifichi alla follia più pura, all’illogicità e all’impalpabile irrealtà di cui sono fatti i sogni, o scegli la realtà, la vita vera, le gioie e i dolori della carne e della tua pelle, perdendomi per sempre nelle sabbie del tempo e dei mondi che si susseguiranno? Era quella la domanda che gli aleggiava nella testa, e a cui non sapeva rispondere. Non era normale, e lo sapeva, ma forse era ancora abbastanza lucido da scegliere per la seconda opzione. Gustav glielo diceva sempre: ci sei già tu che sei psicotico, Tom, non ti serve qualcuno che lo sia più di te. Ma non aveva capito che Tom era fatto per complicarsi la vita, per andarsi a ficcare in casini molto più grossi e uscirne sempre per il rotto della cuffia? Però se la sarebbe sentita di sopportare il mondo reale sapendo che da qualche parte nel mondo si aggirava un angelo che gli aveva promesso l’immortalità? Come sarebbe sopravvissuto pensando a Bill che si era disciolto come il sale nel Baltico? Come poteva semplicemente concepire una vita senza ricordarsi di Bill, che si sarebbe andato a confondere nella sua mente contorta? Perché tanto lo sapeva che se lo sarebbe scordato, prima o poi. Avrebbe guardato forse delle foto e si sarebbe chiesto chi era quel ragazzo biondo che non ti guardava mai davvero negli occhi perché le sue pupille cercavano sempre qualcosa dietro di te. No, inconcepibile. Tutto da rifare, come all’esame di maturità che aveva dovuto sostenere gli esami di inglese di tutta la classe. Prese il pacco di lettere, rimettendole distrattamente in ordine, impilandole con calma, guardando con un sorriso smorto il ritratto di Kurt Cobain ad acquerelli che scivolò fuori dai fogli cancellati. A quel punto, il quadro poteva quadrare alla perfezione. Se ipoteticamente Holly avesse involontariamente spinto Hansi giù dalla finestra, Bill si sarebbe auto denunciato al suo posto per proteggere i suoi futuri nipoti, ma lei si era comunque sucidata. Perfetto, il giro di vite era completo. Ecco che il più debole della compagnia era l’unico ad essere uscito vivo da quel massacro, ferito, distrutto, folle, ma vivo. Era quello che contava. Guardò le foto dei due ragazzi, facendosi il segno della croce e aggiustando le violette malaticcie con un certo imbarazzo. Non sapeva come sarebbe risultato dall’esterno, un tizio impegnato a leggiucchiare delle lettere chino su due vecchie tombe di eroinomani e a scattare Polaroid malconce, ma non gli importava poi molto, sotto la bollente pioggia umida berlinese. Anzi, quando si alzò per tornare da Bill gli dispiacque quasi abbandonare quel tempio di misera sacralità maledetto dalla solitudine e dai licheni che si mangiavano il granito. Gli parve quasi di sentire un triste lamento femminile, il pianto di due bambini appena nati e la risata graffiante di un ragazzo mentre si allontanava, guardando ancora una volta quei due stralci di vita di Bill incastonati a Friedenau.
 
-Signor Kaulitz, io credo che lei non si renda conto della situazione.
Tom stava perdendo la sua proverbiale e inestinguibile pazienza zen, in quel momento. Guardava il medico col naso camuso che lo guardava da sopra le lenti degli occhiali, nell’asettico studio del Bach Hospital. Stavano litigando sulla situazione di Bill, ovviamente. Quando era entrato nella stanza lo aveva trovato seduto per terra impegnatissimo a disegnare un suo enorme autoritratto in cui giaceva in una vasca da bagno piena di sangue, canticchiando tranquillamente Rearmirror, quella dei Pearl Jam come se non stesse illustrando il suo suicidio. Non aveva nemmeno registrato la sua presenza, guardandolo senza vederlo, senza concepire null’altro che non fosse il perfetto autoritratto. Non aveva colto nulla, nemmeno quando gli aveva accarezzato debolmente i capelli. Ma a Tom non importava poi molto, in fondo. Era fatto così, gli piacevano anche quei suoi lati fuori dal mondo. Era perfetto, nella sua imperfezione.
-Io ho capito benissimo il punto, dottore. E non mi interessa.- oramai, lui e il medico erano arrivati ai ferri corti. – Bill … Bill non è cattivo. Non è pericoloso, non è nulla di quello che gli volete dipingere addosso. E’ solamente una persona che ha bisogno di aiuto, e non di questo tipo di aiuto.- precisò, scuotendo i lunghi capelli scuri. Perché quando si trattava di lottare, Tom non si era mai risparmiato in nulla: non era cresciuto con Joe Strummer per niente, oh no.
-Non le sto dicendo che Bill sia cattivo, che lo faccia apposta, o altro.- il medico sospirò, accavallando le gambe, e Tom si rese semplicemente conto che quello che stava facendo forse era vero follia. Non aveva senso lottare per un motivo del genere. Ma non si sarebbe arreso – Le sto solo spiegando che il suo … ehm, il suo compagno non può stare da solo, deve essere controllato, tenuto sotto osservazione. Si renda conto che non è un semplice caso di depressione, o chissà cos’altro. Questo ragazzo è problematico, per sé, come per gli altri, non possiamo sapere come possa reagire. E non lo sa nemmeno lei, signor Kaulitz.
Tom si morse la lingua, sospirando rumorosamente. Certo, poteva anche mollargli un cazzotto e proseguire nel pestaggio, a quel punto, e farsi arrestare ma poi il povero Bill cosa avrebbe fatto da solo?
-Non sto dicendo che Bill sia normale, dottore, ma … non gli serve nulla che non sia io! L’ha detto lei stesso, è imprevedibile, e sono d’accordo, nemmeno io posso prevedere le sue reazioni, ma posso calmarlo. Mi conosce, sono un suo punto fermo, io sono in grado di fare quello che voi non riuscireste nemmeno tra un milione di anni.- non sapeva quanta maturità ci fosse in quel discorso ma, ehi, Guerre Stellari serviva a qualcosa – Vuole mettersi in testa che Bill ha bisogno di una stabilità che solo io gli posso dare? Non potete darlo in pasto a degli psichiatri che non farebbero altro che drogarlo di valium e lo spaventerebbero a morte. Bill è … è come un bambino. Se fuori è buio, e il bambino da solo, ha paura. Ma se c’è qualcuno con lui che lo tiene per mano, non ne ha più. Beh, forse il paragone lucreziano lascia un po’ a desiderare, ma il concetto è quello. Se lo lasciate solo, verrà completamente sopraffatto da quel terrore che si trascina dietro da quando è nato, ma se ci sono io a tenergli la mano, non dico che la paura scompaia, ma almeno riesce ad affrontarla, ad andare avanti. Non serve sedarlo, controllarlo, o che ne so io, serve che qualcuno lo tiri fuori dal buio. Questo è il mio ruolo, non potete portarmelo via!
-Senta, io capisco che è difficile, posso immaginare che lei … ehm, ami sinceramente il suo compagno, ma questo suo amore incondizionato, se posso definirlo così, è senz’altro ammirevole ma ottenebra la sua razionalità, io …
-Ma ottenebra sto cazzo!- Tom oramai era arrabbiato. Era sempre stato un ragazzo normale, in fondo, la cui esistenza si era mollemente trascinata avanti senza nesusn colpo di scena che non fosse la sua amnesia retrograda. Mai una novità, mai un cambio di programma, mai niente di niente. E ora che era arrivata anche per lui la possibilità di riscattarsi curando le ali di un angelo, glielo volevano strappare via? Non era pronto ad accettarlo, non in quel momento dove tutto sembrava aver assunto una nuova piega – Il fatto che io lo ami, non c’entra così tanto come lei vorrebbe far credere. Mi sto semplicemente prendendo cura di un ragazzo malato, non dovrebbe essere questo il vostro compito?
Il medico lo guardò, una compassionevole misericordia che a Tom non riuscì ad andare giù, e scosse lentamente la testa
-Mi permetta, lei quanti anni ha?
Tom rimase un attimo interdetto, prima di rispondere, circospetto
-Ventisette … perché? Importa?
-Appunto; lei è ancora giovane, non si rende conto di quello che potrebbe comportare sobbarcarsi il peso di Bill.- prima che Tom potesse ricominciare a sindacare, lo psichiatra lo zittì con un gesto della mano, fissandolo con severità – Non è un semplice ragazzo disturbato o depresso. Il suo compagno è schizofrenico, cerchi di capire. Schizofrenico. Penso se ne sia già accorto da solo: non è in grado di comportarsi come un uomo normale. Soffre di allucinazioni visive e uditive, di manie ossessivo-compulsive, in primis la sua fissazione per sé stesso e per la musica grunge. Ha tentato di suicidarsi, a vedere dagli esami che gli abbiamo effettuato ha più volte tentato di tagliarsi le vene, le T.A.C. alla testa rivelano che l’episodio in  cui ha tentato di rompersi la testa contro il muro non è poi una novità. Il suo corpo non è mai stato curato accuratamente, le lesioni interne ed esterne mai sottoposte a cure mediche sono molte, fanno presupporre ad … abusi, in età adolescenziale. In più, e ciò non ha a che fare con la sua schizofrenia, soffre di un grave disturbo bordeline della personalità. In questo, la sua evidente intelligenza brillante è solo che un grosso problema, siccome sembra che lui decida, addirittura, quando cambiare personalità. È la sua protezione verso il mondo esterno. Mi dica, ha un lavoro?
-E’ un giornalista. Per il Flugel, ha presente, la rivista no global.- mormorò Tom, bianco come un cencio. Non gli importava che Bill fosse schizofrenico, che fosse bipolare, che fosse quello che volevano, lui continuava ad amarlo come lo amava prima, nulla avrebbe potuto smontare questi suoi sentimenti. Poteva anche scoprire che forse era stato davvero lui l’assassino di Hansi, che non gli sarebbe importato. Non lo dicevano anche le t.A.T.u. quando cantavano “nas ne dogonyat”? Non poteva andare bene anche per la loro squinternata situazione?
-Ne sono felice.- commentò il dottore, girando una matita tra le dita nodose – Il fatto che abbia un impiego fisso è sicuramente qualcosa di positivo.
-Ma scusi, a maggior ragione, se Bill è bipolare, non è meglio che stia con qualcuno che lo conosce bene, che sia capace di calmarlo e che non gli nuocia alla salute come farebbero tutti quei sedativi che gli verebberro somministrati?- commentò Tom, guardando malissimo il medico da sotto i ciuffi di capelli sfuggiti alla coda. Lo sapeva che si stava arrampicando sugli specchi, che si stava ampliando rapidamente il suo castello con quante più carte poteva ma non gli importava poi così tanto. La sua razionalità sapeva, capiva, che il dottore aveva tutte le ragioni del mondo per tenere Bill in un ospedale psichiatrico, forse non era nemmeno una cosa così sbagliata, ma lo spirito predominante di Tom, quello coraggioso e scanzonato, premeva eroicamente per esternarsi. Come se non l’avesse capito da solo, che uno schizofrenico con disturbi della personalità multipla e un insonne affetto da amnesia retrograda che vivevano in periferia e ascoltavano musica grunge non avrebbero fatto altro che ammonticchiarsi della pila dei rifiuti umani. Lo erano, perché rifiuto umano ci nascevi, non lo diventavi e non te lo insegnava nessuno. Lui e Bill, come i G&G e Julia e Becca erano fatti così, per vivacchiare nel loro mondo personale costruito su musica illegale e marijuana coltivata sui terrazzini di alluminio, leggendo Kerouac e scrivendo racconti che nessuno leggerà mai, e Tom sapeva che non avrebbe barattato la sua sconclusionata vita per nulla al mondo. Non gli interessa nulla che non fossero tutte le lingue che sapeva, in una distorsione mentale impossibile, il vecchio Levi e la sua libreria che sapeva tanto di Oliver Twist, la sua periferia e l’immancabile Brecheisen con i suoi succosi pettegolezzi urbani, i suoi migliori amici e la televisione alle tre del mattino, la sua insonnia perenne e gli album di fotografie da sfogliare nei ritagli di tempo per rivedere la sua esistenza, la sua lotta contro il mondo e il suo angelo a cui avevano tarpato le ali. Tom non voleva altro che quello che la vita gli aveva dato, non si pentiva e non l’avrebbe mai fatto.
-Io … signor Kaulitz, ne parleremo meglio domani. L’orario delle visite è finito, sarebbe preferibile … che se ne andasse.
Tom avrebbe quasi giurato che mentre gli stringeva la mano e se ne andava strascicando i piedi, la sigaretta spenta già in bocca, i capelli arruffati e l’espressione disperata, l’uomo avesse grugnito, tra i denti “e si porti con lei quel mostriciattolo tinto di biondo”. Oh, non sapeva quanto avrebbe voluto farlo, alla faccia di tutti.
 
Bill poteva anche essere pazzo, ed era sempre stato il primo a dirlo. Ma non era affatto stupido, e anche quello lo avrebbe sostenuto sino alla morte, perché, insomma, si era mai sentito parlare di angeli stupidi? Appunto.
Guardò la stanzetta dell’ospedale che stava per abbandonare furtivamente nella bollente notte berlinese, e sorrise, quel suo largo sorriso infantile e luccicante.
Facciamo un gioco, fratellino. Tu ti nascondi e noi ti veniamo a cercare. Se riusciremo a trovarti, dovrai fare quello che ti diremo, se invece riesci ad arrivare alla Grande Quercia senza farti trovare, ti darò un bacio. Forza, fratellino: cominciamo a contare, vatti a nascondere.
Bill batté le mani, silenziosamente, finendo di allacciarsi gli stivali e afferrò la borsa, infilandoci dentro tutti i disegni e i documenti che la dottoressa Ziemann gli aveva fornito sulla storia dell’ospedale. La luce lunare gli illuminava i capelli biondo platino, un po’ spettinati, brillando sul sorriso inquietantemente crudele ed esaltato che si era dipinto sulle sue labbra.
-Vado, Hansi. Vado a nascondermi.- sussurrò, infilando la chiave che aveva previdentemente rubato alla grassa infermiera che era venuta a dargli da mangiare (come se lui poi mangiasse qualcosa!). Il clack leggero della porta lo fece sorridere ancora di più, mentre apriva con circospezione la porta e spiava l’enorme corridoio del reparto psichiatrico, vuoto e silenzioso, interrotto solo dai pianti spezzati di un qualche paziente. Scivolò fuori, in equilibrio sui tacchi a spillo, chiudendo piano la porta a chiave, una solitaria ed eterea figura che barcollava incerta in un corridioio inondato di luce pallida che lo incoronava come se fosse l’imperatore degli incubi, il sorriso vittorioso e le lunghe gambe magrissime che scivolavano sicure e veloci verso l’imponente scalone che portava all’uscita.
Scappa, Bill, corri, corri come se avesse il diavolo alle calcagna.
-Devo nascondermi, adesso.- cinguettò a mezza voce, appiattendosi contro i muri e scrutando accuratamente i corridoi alla ricerca di qualche infermiera di passaggio – Dove può scappare un coniglio in fuga?
Barcollò pian piano fino all’atrio, seguendo i cartelli che indicavano l’uscita, schiacciandosi contro ogni muro e nascondendosi dietro alle porte ogni volta che vedeva qualcuno, trattenendo il fiato, la voce di Hansi che gli rimbombava in testa come un lamento
Non farti trovare, fratellino. Se ti troviamo, giocheremo con te fino a vederti agonizzante per terra. Forza, fratellino: tu sei l’ebreo, noi siamo i nazisti. Tu sei la feccia dell’umanità, noi siamo la ragione e la giustizia. Scappa, piccolo ebreo.
Come se nessun medico avesse notato le profonde ustioni mai assorbite che il ragazzo aveva sulla schiena, graffi di giochi infantili vissuti nel terrore più tragico e drammatico. Bill si guardò intorno, ridendo tra sé e sé. Era stato tutto estremamente facile, sia rubare le chiavi di riserva da quella stupida infermiera menefreghista come scappare dal reparto che tutti temevano più di tutti. E fate bene, pensò il biondo, sorridendo. Non potete incatenare gli angeli. Sarebbe tornato da suo fratello, da Holly, voleva tornare a giocare come quando era bambino.
-Ho imparato, Hansi, fratello mio.- miagolò tra i denti, mentre correva fuori, nell’afa di Berlino appiccicaticcia e soffocante, correndo più veloce che poteva per scappare dai demoni con gli occhi verdi che dormivano sotto il suo letto, e che scomparivano solo quando Tom dormiva con lui. – Ho imparato a giocare, adesso. Non troverai il piccolo ebreo, non questa volta. Vincerò quel bacio, Hansi, lo vincerò stanotte!
Chissà perché nessuno fece caso a un ragazzo che correva nella notte berlinese ridendo tutte le sue lacrime, in fuga dall’ospedale verso il cimitero di Friedenau.
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lost In Donbass