Parte
Seconda
"Ever tried. Ever
failed.
No matter.
Try again. Fail again.
Fail better."
S. Beckett
.
29
In noctem
"I'm
frozen to the bones, I am
A soldier on my own, I don't know the
way
I'm riding up the heights of shame
I'm waiting for the
call, the hand on the chest
I'm ready for the fight and fate."
[Iron – Woodkid]
19 Aprile, Villa Stark
Villa
Stark era più silenziosa del solito. Il mare si abbatteva
scrosciando con tenace insistenza contro la scogliera su cui era
arroccata l'enorme edificio, con la spuma che riluceva sotto la luna
in tenui nastri argentei. Le onde si ritiravano con forza, per poi
tornare ad
abbracciare la roccia rossastra con altrettanto impeto. Era l'unico
suono che si diffondeva nelle stanze vuote ed echeggianti.
La luce
lunare filtrava timidamente nel salotto ancora devastato, illuminando
qualche scheggia di vetro superstite, e si riversava appieno nella
terrazza slanciata sull'oceano. Qui riluceva anche sulle protesi
metalliche di Tony, seduto sul bordo di un'aiuola di ginestre,
intento a scrutare l'orizzonte marino e la campagna circostante
illuminata quasi a giorno. Osservò la luna, una pallida
perla a cui
mancavano ancora un paio di falci per essere perfetta. Doveva essere
quasi mezzanotte. Forse era più tardi, non avrebbe saputo
dirlo.
Si
era seduto in terrazza nel tardo pomeriggio senza alcuno scopo preciso,
barcollando come
sempre, ma stavolta con insolita lentezza e cautela. Si era ritrovato
ad ammirare l'oceano d'un blu profondo, che si era poi striato di
pennellate dorate, poi rosse, infine tinto della sfumatura
verdognola del crepuscolo, fino a calare in un nero denso e mobile. A
quel punto stava per rientrare, quando il riflesso argenteo della
luna non aveva illuminato nuovamente le creste delle onde. Ed era
rimasto lì, ad ammirarne la lenta ascesa in cielo, nell'aria
dolce
di fine aprile.
Una raffica di vento un po' più sospinta portò
con sé una scia di salsedine intensa e fece dondolare
leggermente i
piccoli fiori gialli della ginestra, che assecondarono con flessibile
grazia quell'improvviso turbamento. Tony inspirò a fondo
quel
profumo salmastro e familiare, e per una volta non fu accompagnato
dal ricordo spiacevole dei suoi sogni tormentati di... molto tempo
prima, ma non abbastanza.
Cominciava ad avvertire una leggera fame, ma era riluttante
ad abbandonare quella quiete. Si sentiva bene.
In effetti non
sentiva nulla, ma lo considerava un miglioramento rispetto alle sue
ultime vicissitudini. La sua mente era attiva e in costante fermento,
ma era un'attività tenue e controllata, proprio come la
risacca del
mare calmo. Non era in bonaccia, ma la tempesta era lontana, impigliata
all'orizzonte. Era un mare navigabile e non per questo meno
infido, ma un capitano esperto poteva attraversarlo senza sforzo. E
ultimamente aveva avuto modo di conoscere fin troppo bene la sua
mente, mappandola con più precisione di quanto avesse mai
fatto in vita sua. Per questo, quando captò l'ombra di un
sentimento
inquieto
far capolino sotto la superficie, si limitò a respingerla
con
fermezza verso i fondali, senza scomporre il suo naviglio
improvvisato.
Con estrema lentezza prese le stampelle, una delle
quali un po' piegata, vi incastrò gli avambracci e si
tirò su
facendovi leva, avvertendo la protesi anteriore che premeva
spiacevolmente sui punti di sutura. Poggiò appena la gamba
destra, ma il dolore
sordo
che seguì lo fece desistere. Cambiò gamba
d'appoggio e, lanciando
un'ultima occhiata malinconica al cielo riflesso nel mare,
rientrò
nel salone buio chiudendo la porta-finestra dietro di
sé. JARVIS
attivò le luci in modo soffuso, rischiarando le stanze senza
renderle eccessivamente luminose. Negli ultimi giorni era diventato
fotosensibile, non sapeva dire esattamente per quale motivo, ma non
riusciva a sopportare più di tanto le violente luci
artificiali
della villa, tantomento quelle al neon del laboratorio. Ian aveva
detto che poteva essere lo stress – e non lo metteva in
dubbio –
ma Tony era abbastanza convinto che avesse a che fare anche con il
palladio. Non vi aveva dato comunque troppo peso: era sopportabile e
comunque sembrava scemare col passare del tempo. O forse era solo lui
che vi si stava abituando.
Si appoggiò un po' affaticato allo
schienale del divano, riprendendo fiato senza mettersi fretta. Non
c'era niente e nessuno che lo aspettasse, in quel momento: poteva
seguire i suoi tempi.
Gli era mancato stare da solo.
Era una
conclusione a cui era arrivato dopo giorni di disperazione per la
partenza di Pepper, adesso probabilmente chiusa nella sua stanza
sull'Helicarrier a qualche chilometro d'altezza. Era il tipo di
conclusione che portava con sé un po' di amarezza, ma non
poteva
negarne la verità. No, non avrebbe voluto che se ne andasse.
Sì,
ammetteva, aveva avuto perfettamente ragione a farlo: poteva
sopportare la sua sfrontatezza e incostanza, i suoi scoppi d'ira, le
sue crisi depressive e tutte le parole che diceva ma che in fondo non
intendeva per davvero. Poteva anche sopportare che distruggesse mezza
casa – quello era anche colpa di Bruce, in realtà
– e che si
sbronzasse senza ritegno. Non avrebbe dovuto sopportare il male che le
aveva fatto, eppure era tornata per l'ennesima volta, concedendogli di
rivolgerle delle scuse inadeguate e zoppicanti come lo era lui, poi...
poi aveva superato il limite. L'aveva
superato molte volte, così aveva creduto, ma c'era una
differenza
sostanziale tra il varcare il limite della sopportazione degli altri
e quello sacro, inviolabile, della propria vita. Non era il tipo di
azione che si potesse semplicemente rimproverare o comprendere o
dimenticare. Era un gesto che tracciava altri limiti, altri confini;
che troncava fili tessuti nel corso di anni.
Sì, capiva
perfettamente perché se ne fosse andata, ed era per questo
che,
dopotutto, non aveva neanche cercato di contattarla. Era lei il
motivo per cui aveva scelto di vivere quando era ormai troppo tardi,
era la sua figura quella che aveva obbligato il suo inconscio a non
lasciarsi andare, ma dirglielo avrebbe solo complicato le cose.
L'aveva percepita andar via, discretamente: la sua àncora di
salvezza veniva levata e lui rimaneva alla deriva, solo in mezzo al
mare. Però
continuava a galleggiare. Con un po' di tempo e fortuna, forse
avrebbe anche toccato terra, un giorno, e non avrebbe più
avuto
bisogno di ancore provvisorie.
Per ora stare in solitudine aveva
allentato una tensione che non si era reso conto di sopportare. C'era
solo lui, là dentro. Nessuno che lo guardasse, nessuno con
cui dover
sfoggiare un'apparenza noncurante, nessuno da ferire. Era
liberatorio. Da due settimane si sentiva in vacanza, ed era una
consapevolezza che lo faceva sentire un ingrato. Ingrato,
sì, ma un
ingrato sereno.
«Signor Stark, ha un messaggio sulla segreteria
telefonica, ricevuto alle 19:12. Ho ritenuto più sopportuno
non
disturbarla fino a quando non fosse rientrato.»
Incredibilmente,
persino JARVIS aveva acquisito un'insolita dose di tatto.
«Da
chi?» volle sapere subito.
Raramente aveva ricevuto chiamate o
messaggi, se non saltuariamente da Kyle, che si era dimostrato
insolitamente incline a soprassedere sugli ultimi eventi –
esperienza personale? si era chiesto Tony – e da Ian per il
suo
check-up settimanale. Il medico, al contrario, sembrava trattarlo con
ripugnanza e svolgeva il suo dovere con rapida
professionalità,
senza dilungarsi né aprir bocca se non per un "dica
trentatré",
per poi lasciare Villa Stark a passo di marcia. Di Pepper nessuna
notizia, ma sperava in cuor suo che fosse un buon segno. Se ci
fossero stati problemi l'avrebbero informato... no?
«È sulla
linea criptata dello SHIELD» l'annuncio di JARVIS
portò qualche
ombra sul suo volto, ma non si scompose.
«Oh, che gioia. Si sono
ricordati che esisto.»
"Chissà se
anche stavolta vogliono mandarmi un regalino verde..."
«Sentiamo,»
sospirò, e si decise a sedersi sul divano.
Uno schermo olografico
azzurrino fu proiettato dinanzi a lui: era un messaggio video, a
quanto pareva. La figura di Fury si delineò, un po'
tremolante a
causa delle interferenze. Si chiese da quale angolo remoto del mondo
lo stesse chiamando, e se davvero fossero notizie su Pepper.
Sperò
di no, o forse di sì, o forse entrambe le cose.
«A quanto pare sei troppo impegnato per rispondere al
telefono, qualunque cosa tu abbia da fare laggiù che sia
più
importante di una chiamata dei tuoi datori di lavoro,»
esordì Fury,
palesemente seccato, tanto che Tony si aspettava di vedergli saltare
la benda da un momento all'altro.
L'allusione ai "datori di
lavoro" non gli piacque affatto. Era lui che si metteva a
disposizione dello SHIELD, e non era certamente sotto contratto.
Tanto più che, fuor di metafora, era sull'orlo del
licenziamento da
mesi.
«Comunque, sei sparito dai nostri radar un po' troppo a
lungo, così manderemo uno dei nostri a controllare che sia
tutto più
o meno in ordine. E,
se fosse necessario, a
tenerti d'occhio per un po',» aggiunse l'ultima frase come se
ci
avesse pensato in quel momento.
Tony incrociò le braccia,
accigliandosi profondamente mentre fissava con insistenza la barra di
riproduzione del video che arrancava ancora verso la metà;
si chiese
cos'altro dovesse mai dirgli.
«Come potrai immaginare, Rogers non
smania per vederti. Banner potrebbe ridurti in poltiglia dopo gli
ultimi fatti, Thor è attualmente oltre il Bifrost, l'agente
Coulson
è ancora sconvolto per lo stato in cui ti ha ritrovato e la
signorina Potts... beh, non te lo devo spiegare.»
Tony abbassò
involontariamente lo sguardo. Era comunque affascinante vedere come
fosse riuscito a mettersi contro tutti i Vendicatori in un batter
d'occhio. Non conosceva i le usanze asgardiane, ma era probabile
che anche Thor non vedesse l'ora di piantargli Mjöllnir in
testa per
quello che aveva tentato di fare.
«L'agente Romanov era disposta
a prendersi l'incarico, ma l'ultima missione è stata
più dura del
previsto e si sta ancora rimettendo. Al posto suo si è
offerto
l'agente
Barton. Non che avesse molta altra scelta,»
puntualizzò, lapidario.
«Aspettati una visita domani, probabilmente nel
pomeriggio,»
concluse Fury, chiudendo la chiamata, e lo schermo ridivenne azzurro
per poi sparire in uno sfarfallio.
Tony notò come Fury non avesse
dato in realtà degli estremi molto precisi per la visita,
probabilmente per impedirgli di "prepararsi". Non che ne
avesse bisogno. Non aveva nulla da nascondere: l'alcool era sparito
per far posto a quantità industriali di clorofilla e non si
sentiva
così bene da... da mesi, ora che ci pensava. Il massimo
pericolo che
Barton poteva incontrare era un'approfondita descrizione dei metodi
di fusione dell'unobtanium o una sua stretta di mano un po' troppo
energica. D'altronde, l'agente era sempre stato piuttosto incline
a farsi i fatti propri; anche quando si era dichiarato contrario alla
sua permanenza nei Vendicatori, sapeva che l'aveva fatto in spirito
puramente oggettivo, tanto più che aveva poi cambiato
posizione al
riguardo. A mente fredda, se si fosse trovato dall'altra parte non
avrebbe mai permesso a se stesso di rimanere nel Progetto Vendicatori,
o almeno non di parteciparvi attivamente. Sì, era grato che
Fury mandasse Hawkeye. Parlare con
Natasha sarebbe forse stato più piacevole, magari si sarebbe
mostrata più comprensiva – ne dubitava –
ma tra loro c'era quel
grado di confidenza in più che l'avrebbe fatto sentire
giudicato.
Per non parlare di Bruce. Scacciò il pensiero, consapevole
di aver
profondamente deluso l'amico, e si alzò zoppicando.
Raggiunse la
cucina, dove si fece preparare dai robot una confezione di noodles
pronti che trangugiò in pochi minuti, stranamente affamato,
poi filò
a letto senza passare per il laboratorio. Negli ultimi giorni i
progressi tecnici erano stati minimi e poco incoraggianti –
una
stretta di bullone qua, un cavo messo a posto là, magari un
piccolo
miglioramento della struttura del piede – ma non se ne
crucciava.
Aveva un braccio più o meno funzionante, la gamba era
praticamente
un peso inerte e inutile che riusciva a malapena a muovere, ma
svolgeva la sua funzione d'appoggio e lo bilanciava quel tanto che
bastava per rimanere in piedi qualche secondo se necessario. Non
aveva realmente bisogno di nient'altro, per ora, a parte
riposarsi. Si era piuttosto dedicato con crescente inquietudine
alla progettazione di un nuovo modello di reattore con alimentazione
alternativa al palladio, con poco successo visto che lavorava sempre
dal
salotto, senza sedersi fisicamente al tavolo da lavoro –
d'altra
parte, non aveva neanche voglia di tornare nel posto in cui si era
quasi tolto la vita.
Sdraiato sul letto, sbirciò l'area
circostante il reattore. Le venature bluastre non erano sparite, ma
sembravano, se non diminuite, almeno un po' meno spesse. Forse
aumentare ancora le dosi di clorofilla si era rivelata una scelta
vincente, anche se gli toglieva totalmente l'appetito. Certo, a lungo
andare avrebbe potuto fare la controfigura per Hulk, ma meglio che
morire intossicato.
"A lungo andare... chissà quanto,
ancora."
Si addormentò con quel pensiero, che era tornato ad
assumere una connotazione minacciosa e non malsanamente attraente
come poco tempo fa. Meglio così.
Dormì sonni tranquilli,
svegliandosi di tanto in tanto per il dolore ai moncherini con una
sensazione di vuoto al petto, ma riaddormentandosi quasi subito
rassicurato dal tenue chiarore azzurrino del reattore.
***
20 Aprile, Villa Stark
Clint
arrivò, o meglio, comparve dal nulla nel tardo pomeriggio,
mentre
Tony era impegnato in una partita di scacchi virtuale con JARVIS;
considerando che lo aveva impostato per seguire gli schemi di
Kasparov stava andando anche meglio del previsto, e stava perdendo
meno miseramente del solito. Scacciò l'ologramma con un
colpo
svogliato della mano e si voltò a guardare il nuovo arrivato
senza
alzarsi dalla poltrona.
«Buonasera, Agente Barton. Cominciavo a
preoccuparmi: ero sicuro che ti saresti presentato alle sei del
mattino.»
«Sono partito a quell'ora da Rio de Janeiro,»
replicò
asciutto lui, lasciando intendere il suo scarso buonumore per
l'alzataccia.
Si
fermò nel bel mezzo del salotto e sembrò
improvvisamente a disagio
nel vedere il muro divisorio crollato per metà.
«Quello...»
cominciò, esitante, e Tony lo anticipò:
«Sì, è opera di
Banner, cioè Hulk. A sua discolpa, aveva i suoi buoni motivi
per essere
arrabbiato.»
«Immagino.»
«No, non immagini. Credimi.»
Tony
si lasciò sfuggire un breve sbuffo e tamburellò
con le dita sui
braccioli della poltrona, mentre l'altro ammutoliva di nuovo e
riprendeva a guardarsi intorno con aria a metà tra il
distratto e
l'assonnato. In realtà, ne era certo, aveva registrato ogni
minimo
dettaglio della villa che fosse nel suo campo visivo. Hawkeye era
stranamente in borghese, con indosso una semplice felpa verde
militare e un paio di jeans un po' logori, ma assicurata alla cintura
si intravedeva la sua balestra portatile. Gliel'aveva progettata lui
stesso: un'arma estraibile completa di dardi compressa in una
scatoletta che a una prima occhiata sembrava una macchina
fotografica. Era stato uno degli ultimi lavori che aveva svolto per i
Vendicatori. Le sue dita smisero di colpire ritmicamente la stoffa
beige della poltrona, contraendosi appena.
Adesso sarebbe
cominciato l'interrogatorio, da un momento all'altro. Si chiese cosa
stessero aspettando: voleva concludere quella prassi il prima
possibile, ma Clint era più taciturno del solito e se ne
stava
impalato in mezzo alla stanza, osservando la villa con un interesse
ingiustificato. Dopo quella che gli parve un'eternità, Tony
decise di non poterne più:
«Vogliamo arrivare al dunque o hai
intenzione di fissare il muro finché Fury non ti
richiama?» sbottò,
fancendogli al contempo un cenno verso il divano per invitarlo a
sedersi.
Barton alzò le spalle in un gesto noncurante, anche se
si scorse un lieve fastidio attraversare il suo volto; non si sedette
e si piantò di fronte a Tony, incrociando le braccia.
«Francamente,
Stark, non so neanch'io cosa dovrei fare,»
snocciolò, cogliendolo di
sorpresa.
Si riprese in fretta.
«Pensavo dovessi "tenermi
d'occhio".»
Mimò le virgolette con le dita in modo
sarcastico.
«E perché mai?»
Clint sembrò
sinceramente
perplesso dalla domanda. Tony iniziava a non raccapezzarsi
più.
«Senti, Legolas, non so per quanto tempo sei stato disperso
in Amazzonia, ma pensavo ti avessero fornito almeno i dati
essenziali. Tipo che ho poco brillantemente cercato di porre fine
alla mia esistenza un paio di settimane fa.»
Dirlo ad alta
voce lo
faceva sembrare un evento quasi irreale, ma in qualche modo anche
più
gestibile.
«Lo so,» replicò Clint, lapidario.
«Non vedo
comunque il motivo di farti la guardia.»
Tony battè stolidamente
le palpebre. Dopotutto, doveva esserci un motivo se
Barton era
un agente che si limitava a eseguire gli ordini nonostante fosse
teoricamente un Vendicatore. O forse risentiva semplicemente del
jet-leg. Non avrebbe saputo dirlo: il suo volto era imperscrutabile e
temprato da anni di interrogatori. Si rassegnò a rispondere,
scandendo le parole e cercando di smorzare il sarcasmo che
però gli
uscì spontaneo:
«L'ipotesi più quotata è che potrei
essere leggermente instabile. Un po' di depressione, forse anche
qualche problemino di autocontrollo. Magari sotto sotto ho anche
voglia di riprovarci. Inezie del genere.»
Fece un gesto
noncurante
con la mano meccanica. Hawkeye sembrò forse irritato dal suo
tono, ma dalla sua voce non trapelò la minima emozione.
«Al
momento non mi sembra che tu abbia nessuno di questi
problemi,»
dichiarò piattamente.
Di nuovo, Tony stentò a credere alle sue
orecchie. Quella era buona. C'era veramente qualcuno che non lo
ritenesse uno schizzato depresso?
«E lo deduci da cosa?» chiese
ironico, iniziando a sentirsi preso in giro.
«Dal fatto che io
sono qua in piedi mentre tu resti lì seduto, e che la cosa
ti sia
indifferente.»
Stavolta Tony rimase interdetto, la bocca
semiaperta che aveva dimenticato come volesse replicare. Distolse lo
sguardo. Sentiva la tentazione rispondere con una battuta, ma la
soffocò, perché aveva intuito benissimo dove
voleva andare a parare
Barton. E non avrebbe mai ammesso apertamente quanto, in effetti,
avesse colto nel segno, dimostrando un'acutezza che esulava dalla
semplice abilità di arciere.
Solo qualche settimana prima sarebbe
scattato in piedi al primo trillo del campanello, fregandosene della
protesi malmessa e della sua andatura zoppicante, si sarebbe
probabilmente imbottito di antidolorifici pur di camminare senza
risentirne sul momento e sarebbe andato incontro all'ospite con passo
ridicolmente baldanzoso, come se non avesse un solo problema al mondo
nonostante il suo aspetto trasandato dicesse ben altro.
Adesso se
ne stava sprofondato nella poltrona, la protesi stesa sul poggiapiedi
per far riposare il moncherino, con un thermos di clorofilla a
portata di mano e nessuna intenzione di alzarsi. Nonostante
indossasse i soliti pantaloni da lavoro e un paio di ciabatte
più
vecchie di lui, la maglietta era pulita e aveva ripreso a radersi
alla meno peggio – per quanto gli consentisse la protesi
senza
recidersi la giugulare – e a sistemarsi i capelli diventati
un po'
troppo lunghi.
E no, non gli importava di non potersi alzare
in piedi, perché in effetti non voleva
alzarsi in piedi. Era
una differenza sostanziale che aveva cominciato a realizzare nel
corso delle ultime due settimane, quando aveva cominciato ad
apprezzare i pregi della solitudine. Non aveva sentito neanche il
bisogno di scusarsi o di mettere in chiaro che non dipendeva da lui;
non aveva neanche pensato di dover in qualche modo ricordare
all'altro quanto facesse schifo la propria situazione con qualche
commento pungente o una battuta autoironica. La sua situazione era
abbastanza evidente senza bisogno di parole superflue.
Si accorse
di sorridere appena, un'ombra di quel sorrisetto sardonico che
aleggiava spesso sul suo volto in tempi più sereni. Hawkeye
ricambiò
con un'occhiata forse meno fredda del solito.
«Va bene, hai fatto
i compiti a casa, dopotutto,» commentò infine
Tony.
«Adesso però
siediti davvero, ti prego. Mi fai stancare solo a guardarti,»
aggiunse in tono leggero.
Clint acconsentì senza dire una parola
e si accomodò sul divano di fronte a lui, lasciando vagare
lo
sguardo come se non avesse già perfettamente memorizzato
ogni angolo
del suo salotto; e notava benissimo come di tanto in tanto gli
scoccasse un'occhiata quasi casuale, ma di un'intensità
evidente.
Dopotutto, lo stava tenendo d'occhio.
Decise di rompere il
silenzio: meglio parlare con Barton piuttosto che perdere un'altra
partita a scacchi.
«Quindi, tu che ne pensi?» esordì
cautamente
e, in fondo, con sincera curiosità che però
trasparì solo dal suo sguardo.
Il suo tono rimase quasi noncurante.
«Di cosa,
esattamente?»
Era molto difficile capire se Barton facesse il
finto tonto o meno, ma la cosa iniziava a irritarlo e divertirlo allo
stesso tempo.
«Di questa faccenda. Cioè, non
di questa,
ma di quella di due settimane fa,» puntualizzò,
con un gesto della mano a dare enfasi.
«Non pensi che
debba essere internato in un centro di igiene mentale, e già
così
ti poni contro il buon senso di tutti i tuoi colleghi. Sarebbe il
colmo se pensassi anche che io non sia stato un idiota a fare... beh,
a quasi fare quello che ho fatto.»
Barton sembrò esitare,
come se fosse riluttante a intavolare il discorso. O forse trovava
semplicemente strano che qualcuno chiedesse la sua opinione. Infine
intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò la
caviglia sul ginocchio,
come decidendo che, se proprio doveva parlare, tanto valeva stare
comodi.
«Certo che penso che ti sei comportato da idiota. Ma chi
sono io per giudicarti?»
La sua espressione rimase neutra e
indecifrabile come sempre.
«L'hai appena fatto,» lo rimbeccò
Tony.
«Mi hai chiesto un parere. Se pensi che ti dica quello che
vuoi sentirti dire, parli con la persona sbagliata. »
«Allora
spiegami perché pensi che sia un idiota.» Tony
intrecciò a sua
volta le dita sul ventre, in ascolto. «Premettendo che hai
perfettamente ragione e che penso anch'io di essere stato un
idiota,»
aggiunse a mo' di chiarimento.
«Tu perché lo pensi?» replicò
Barton.
Sembrava che Clint avesse seri problemi a distinguere un
interrogatorio da una conversazione normale, e cercasse di lasciar
trapelare meno informazioni possibili da parte sua, nel tentativo di
spostare il discorso su un terreno sicuro.
«Il suicidio non è una
risposta ai problemi,» si costrinse a dire, un po'
meccanicamente. «E
mi ci sono praticamente costretto con le mie mani. Avrei dovuto
cercare di andare avanti, invece di...»
«Tu mi stai dicendo
perché gli altri pensano che tu sia un
idiota. O la società
in generale. Nessuno vuole che la gente si suicidi,
no?»
Clint non
era davvero tipo da girare intorno alle questioni, né gli
piacevano
troppo i giochi di parole. Parlava schiettamente, senza dargli
modo di replicare.
«Io però ti ho chiesto perché tu
pensi di essere un idiota.»
Tony rimase interdetto, prima di
tutto perché era la prima volta che lo sentiva pronunciare
più di
due frasi di fila. L'agente Barton gli era sempre sembrato il tipo di
uomo che svolgeva i suoi doveri senza farsi troppe domande e che in
generale evitava di pensare troppo. In realtà, si rese
conto, di lui
non sapeva proprio nulla. Al contrario degli altri Vendicatori,
Barton era per lui un grande punto interrogativo, così come
Natasha,
anche se in misura minore. Forse era per quello che erano
così
affiatati, quei due.
Si prese del tempo per riflettere. La
prima risposta che gli balenò in mente fu Pepper. Era per
lei che aveva deciso
di
vivere. Ed era lei a considerarlo un idiota
più di
tutti gli altri. Nonostante la cosa lo imbarazzasse un poco, stava
per dirlo, quando si bloccò, come folgorato.
Certo, voleva vivere
anche per lei. Lo faceva stare bene, provava
sentimenti per
lei su cui aveva deciso di non soffermarsi in modo serio, ma che
puntavano decisi verso una direzione inconfutabile; erano sicuramente
legati da un profondo affetto consolidato negli anni, ma... era
veramente tutto ciò
che lo
teneva ancorato in questo mondo? Trovava il pensiero confortante in
sé, ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto
quell'ormeggio
fosse labile. Essere legato alla vita solo tramite un'altra persona
lo faceva sentire vulnerabile. Le persone avevano la tendenza ad
allontanarsi, ferire, tradire, essere imprevedibili. Alla fine
scomparivano, che fosse per colpa di un'auto difettosa o di una
stretta un po' troppo salda sul braccio. Erano troppo
fragili.
Un'improvvisa consapevolezza scese su di lui, emersa
insieme a quella parte buia e ancora bruciante di sé che
teneva a
bada ogni giorno.
Lui doveva vivere, ed era questo pensiero
che lo aveva spinto a non mollare quando credeva di aver perso tutto.
Era per quello che non si era arreso all'idea che Iron Man fosse
morto, ed era per quello che si sentiva così prepotentemente
furioso
con se stesso e col mondo che sembrava ostacolarlo ad ogni passo che
faceva. Per quello, dopo il disastro sfiorato che aveva perpretato
con le sue mani, si era svegliato con un profondo senso di disgusto
verso se stesso.
Spiò l'uomo seduto scompostamente di fronte a
lui: Barton aspettava paziente la risposta, per nulla turbato dal suo
lungo silenzio.
«Mi è stato detto di non sprecare la mia
vita,»
disse infine a mezza voce, come togliendosi un gran macigno dalle
spalle che poi, lo sapeva, sarebbe tornato a pesare più di
prima. «Ho
troppi debiti con questo mondo: non posso permettermi il lusso di
abbandonarlo di mia volontà e lasciarli insoluti.»
Hawkeye annuì
brevemente, forse non capendo appieno il contesto delle parole di
Tony, ma cogliendone il concetto. Tony realizzò di essersi
forse
scoperto un po' troppo e accennò un sorrisetto spavaldo:
«E tu,
Robin Hood? Perché tu credi che sia un
gesto da
idioti?»
Clint sembrò divertito dall'improvviso risvolto della
situazione, ma ciò trasparì solo dal fulmineo
contrarsi delle sue
labbra, un sorriso troncato sul nascere. Per un istante Tony credette
che non avrebbe risposto, ma fu smentito:
«La vita non è stata
molto generosa con me, all'inizio,» esordì vago.
«Ho avuto
più di un buon motivo per
farla finita. In realtà ne avrei ancora adesso, ma sono
semplicemente troppo cocciuto per mollare tutto. E ci sono delle
persone che contano su di me e mi ricordano per cosa valga la pena
vivere,»
alzò le spalle,
come a scusarsi per quella banalità, poi si fece
più
serio. «E poi sono
un sicario. Sarebbe piuttosto ironico se mi ammazzassi,
no?»
Esprimere ad alta voce quel pensiero parve rabbuiarlo, e
sprofondò in un silenzio che Tony non volle interrompere.
Rimasero
muti così a lungo che ormai entrambi avrebbero trovato
strano
riprendere il discorso, anche se forse avevano ancora qualcosa da
aggiungere. Clint finì con l'assopirsi, a braccia incrociate
e con
la testa reclinata all'indietro sullo schienale del divano –
Fury
sarebbe stato fiero del suo lavoro di sorveglianza.
Tony avrebbe
voluto alzarsi, ma si sentiva troppo indolente; d'altronde, non aveva
nulla d'urgente da fare. Ma, nella sua indolenza, iniziò ad
annoiarsi. Quasi gli venne da alzare gli occhi al cielo per la sua
stessa incoerenza, ma si decise a scendere di soppiatto in
laboratorio.
Un po', doveva ammetterlo, gli mancava.
***
L'aria
era stantia e c'era odore di ferro bruciato e polvere. Era tutto
esattamente come l'aveva lasciato: i componenti sparsi sui tavoli da
lavoro, la cartacce sul pavimento, le apparecchiature per la fusione
dell'unobtanium in un angolo, la parete delle armature schermata.
Solo la sua sedia era innaturalmente distante dalla scrivania, come
se qualcuno l'avesse scostata con forza. Sentì le sue membra
formicolare d'inquietudine, reali e artificiali, ma fu l'unica reazione
del suo corpo che
registrò. Non avvertendo altri segnali negativi
avanzò proprio fino
a quella sedia, chiedendosi se volesse veramente prendervi posto.
Era
la sedia su cui aveva passato forse la maggior parte del suo tempo
quando stava a casa. Su di essa aveva avuto idee brillanti, momenti
di scoraggiamento, aveva riso, battibeccato con Pepper e JARVIS,
passato ore e ore a progettare, scrivere e navigare tra schermi e
ologrammi. Era la sedia che lo aveva accolto di ritorno
dall'Afghanistan e su cui si era seduto come tra le braccia di una
madre. Lì sopra aveva visto per la prima volta l'interezza
delle
sue ferite, riflesse in uno schermo spento. Seduto lì sopra
si era
mostrato per la prima volta debole a Pepper, quando aveva creduto di
non farcela. Passò la mano sensibile sui braccioli usurati,
sulla
pelle nera ormai screpolata.
Da quel giorno in poi, tutto era
andato disgregandosi sempre più: il suo mondo, la sua mente,
i suoi
affetti – uno più di tutti – fino ad
essersi trovato
nuovamente seduto lì, senza reattore e senza speranza. Si
accorse di stare affondando le dita nell'imbottitura morbida e si
riscosse, come da un
sogno.
Squadrò la sedia: era una sedia, realizzò con
improvvisa
ovvietà.
Solo una sedia.
Si sedette senza più esitazioni e
accese i monitor con uno schiocco di dita, dimentico di tutto
ciò
che tentava di emergere dentro sé per riportarlo verso il
basso. Si
fece proiettare da JARVIS un modello del braccio: non aveva voglia di
impegnarsi troppo col progetto della gamba e preferiva svagarsi
apportando qualche modifica estetica di poco conto. Fino ad allora la
protesi era sempre stata una struttura di metallo vistosa e
abbastanza tozza, attraversata da fasci di cavi di svariati colori
che attiravano inevitabilmente lo sguardo; ogni tanto si sentiva un
Replicante piuttosto malriuscito. Forse era il momento di darle un
aspetto un po' più definitivo: la spalla e il gomito
funzionavano,
solo la mano era ancora in fase di sviluppo e doveva essere lasciata
aperta per ulteriori modifiche.
Tony prese a modellare gli
ologrammi con tocchi un po' svogliati della mano sana. Dopo una
decina di minuti iniziò ad avvertire una certa sonnolenza,
ma
non
voleva lasciare a metà il lavoro. Si rese conto di quanto
iniziasse
ad accusare l'astinenza da caffeina, ma si impose di non indulgere in
una tazza di caffè almeno fino al mattino dopo.
Quando modificò
l'ultimo dettaglio sull'avambraccio diede un colpetto soddisfatto al
modello 3D, facendolo roteare su se stesso in una piroetta
vittoriosa. Sembrava una di quelle protesi che si vedevano nei film
di fantascienza: affusolata, con dei rilievi morbidi che celavano i
cavi e i circuiti dando l'illusione che sotto alla placcatura
metallica vi fossero dei muscoli. Certo, adesso la mano incompleta
avrebbe stonato decisamente rispetto al resto, ma avrebbe rimediato in
futuro. Forse il giorno dopo si sarebbe messo al lavoro per
realizzare quegli ultimi miglioramenti.
Salvò il modello,
poi ci
ripensò e modificò il colore del rivestimento.
Aveva pensato di
farla di metallo cromato, ma forse lasciarla di quel nero antracite
tipico della fibra di carbonio sarebbe stato meno vistoso. Magari col
tempo si sarebbe convinto a rivestirla di pelle artificiale come gli
aveva suggerito tempo addietro Ian, anche se al momento trovava
l'idea piuttosto disturbante. Fissò con improvvisa
consapevolezza
la figura che galleggiava di fronte a lui. Stava davvero rimuginando
sul colore della sua
protesi? Fino a tre mesi prima gli sembrava impossibile anche solo
pensare di farsene
impiantare una. Strinse il pugno davanti al volto e la mano
eseguì
il suo comando, sebbene in ritardo. Gli sembrava impossibile di
averla creata lui stesso. Non era perfetta, non ancora, ma poteva
diventarlo. Si rese conto che un giorno avrebbe potuto far finta che
niente fosse mai successo. La sua stretta si serrò un poco e
il
suo volto si tirò, amareggiato. Quelle estraneità
metalliche
facevano parte del suo corpo e del suo essere, così come il
reattore: non avrebbe mai potuto dimenticare. Però poteva
andare
avanti.
Colto da un pensiero improvviso, selezionò con un tocco
preciso un'icona nell'ologramma dinanzi a lui, aprendo la cartella
PH.01 X – avrebbe davvero
dovuto rinominarla – in cui erano raccolti e catalogati i
vari
schizzi e progetti della protesi, ai quali si aggiungevano le miriadi
di bozzetti cartacei disseminati per tutta la casa. Ne
selezionò
alcuni, trascinandoli da parte e ordinandoli cronologicamente. Li
guardò a lungo, a metà tra l'incredulo e il
compiaciuto. Non
riusciva a realizzare che dal primo progetto, una sorta di struttura
metallica rozza e grossolana, con dei pistoni al posto delle dita, si
fosse generata la meraviglia che era attaccata al suo corpo e che
riusciva a muovere con tanta naturalezza.
Il suo entusiasmo scemò
rapidamente. Come aveva potuto gettare al vento tutto quel lavoro?
Non riusciva a capire come fosse riuscito a sprecare così
tanto
tempo prezioso che avrebbe potuto utilizzare per fare progressi, per
portare avanti quei progetti. Se non si fosse smarrito, se avesse
mantenuto la calma, se non si fosse ammalato nel corpo e nell'animo,
forse in quel momento sarebbe stato capace di reggersi in piedi, magari
di
camminare liberamente.
Aveva ritardato ancor di più un
possibile
ritorno di Iron Man. Per un suo stesso capriccio e per la sua
testardaggine si trovava confinato quasi sempre su divani, sedie e
letti, col solo ausilio delle stampelle e continui dolori ai
moncherini, che dopo tutti gli scossoni subiti avevano deciso di
fargli patire le pene dell'inferno. Sapeva di aver commesso molti
errori; spesso ne aveva avuto la consapevolezza nel momento stesso in
cui aveva pronunciato una parola di troppo o compiuto un gesto
avventato; sapeva di aver ferito persone a lui care, di essersi
ferito lui stesso e di aver causato più guai in quei pochi
mesi che
in una vita intera. Ma non aveva mai pensato al tempo perso e alle
ore sprecate a lavorare cocciutamente senza raggiungere alcun
risultato perché era troppo stanco, troppo distratto, troppo
furente
per prestare la dovuta attenzione a calcoli e schemi.
Quanto tempo
aveva effettivamente perso? Forse qualche settimana. Si sarebbero poi
tramutate in anni? La vecchiaia gli balenò dinanzi agli
occhi
prematuramente, accelerata dai quei congegni salvifici e allo stesso
tempo venefici che disseminavano il suo corpo. Se mai vi sarebbe
arrivato.
I suoi pensieri corsero e alla discussione con Hawkeye e
si chiese come avesse potuto dimenticare il suo debito. Le parole di
Yinsen risuonavano chiare nella sua mente, esalate nel suo ultimo
respiro: non
sprecare la tua vita, Stark.
Si
sovrapposero inaspettatamente ad altre parole, molto più
vecchie,
che si era sentito ripetere fino allo sfinimento in tono duro: non
perdere tempo, Anthony.
Una figura alta,
allampanata, ferma sulla soglia di una porta che non varcava mai fece
capolino nella sua memoria. Scacciò
quell'immagine con rabbia e non poté star seduto un secondo
di
più.
"Perché deve avere sempre ragione?" si ritrovò
a pensare mentre se ne stava in piedi appoggiato alle stampelle.
Salì
al piano di sopra scosso, con l'intenzione di fare due chiacchiere
per distrarsi, ma mise piede in un salotto immerso nella penombra
serale e deserto. Clint se n'era andato inosservato, così
com'era
venuto. Sul tavolino del salotto, messo bene in vista, c'era un
foglio spiegazzato recuperato chissà dove, su cui si
intravedeva il
disegno scartato di una gamba meccanica. Sotto di essa, in una
calligrafia
affrettata e decisa, era scarabocchiato un conciso "Buon
lavoro. H."
Tony era sorpreso, ma
allo stesso tempo si rallegrò per quella
solidarietà
inaspettata. Si mise il biglietto in tasca, per poi voltarsi verso
la vetrata dalla quale si vedeva il mare. Si era fatto mosso: tirava
un vento teso che trascinava le foglie delle palme e scagliava i
cavalloni contro la spiaggia e la scogliera con fragore violento. Il
vetro era costellato di goccioline d'acqua che si rincorrevano in
torrentelli imprevedibili. Stette ad osservarli per un po', fissando
di tanto in tanto la linea agitata dell'oceano grigio plumbeo che
calava pian piano nell'oscurità, finche non
iniziò a dolergli la
gamba e dovette sedersi sulla poltrona.
Rimase vicino alla vetrata
a lungo, sorseggiando clorofilla, ancora una volta calmato dal buio
della notte e dall'oceano, che trovava confortante nel suo essere
inquieto e scosso da tumulti invisibili. Di tanto in tanto brontolava
un tuono lontano, e ne avvertiva la vibrazione nelle pareti e nelle
ossa. Lasciò che il suo sguardo venisse trascinato e cullato
dalle onde ormai
appena
distinguibili nella notte inquieta e velata da spesse nubi.
Si
risvegliò con un lieve fremito, senza avere la minima idea
di quanto
tempo fosse passato, col collo rigido e dolorante. Una sottile
linea rosata all'orizzonte accolse il suo occhio ancora assonnato, e
la guardò inspessirsi e diventare più intensa,
mentre il sole
sorgeva invisibile alle sue spalle, rischiarando a poco a poco il
cielo e il mare di riflessi caldi nell'aria pulita dopo il temporale.
Quando i colori virarono sul rosso-arancio fu colto da un'improvvisa
malinconia e si decise ad abbandonare la sua postazione per bere una
tazza di caffè.
Dopo qualche minuto di pigra indecisione si
lasciò guidare dall'istinto e scese in laboratorio. I suoi
passi
zoppicanti lo portarono dinanzi alla parete delle armature e come in
sogno premette un tasto per eliminare il vetro schermato. La Mark II
si rivelò dinanzi a lui, con lo sguardo vacuo fisso dinanzi
a sé
come in attesa di ordini. Ai suoi lati, simili a sentinelle cadute,
vi erano gli ammassi informi della Mark I e della Mark III. Le
accarezzò con lo sguardo, nostalgico.
Oltre alla consapevolezza
delle responsabilità legate a indossarla, si affacciava in
lui
l'infantile desiderio di volare. Quelle sensazioni di
libertà
erano lontane nel tempo e sembravano ancora più
inconcepibili se
pensava che adesso riusciva a malapena a stare in piedi e che gli
sembrava un grandissimo risultato anche solo barcollare in giro senza
capitolare a terra troppo spesso. Si sarebbe sentito molto
più
protetto, molto più forte, se solo avesse potuto indossarne
una.
Poggiò una mano sul vetro, all'altezza della
cavità del
reattore nella sua amata Mark II argentata: la sua prima, vera
armatura. Ricordava ancora quel senso di piacevole vertigine nel
librarsi in aria e sfrecciare nel cielo, senza alcun freno.
Brandelli
di visioni oniriche aleggiavano remoti nella sua coscienza: ricordi
di un altro vetro, di un riflesso troppo perfetto e della propria
caduta. Le scacciò con veemenza. Non era quello il momento
per
cadere. Piantò gli occhi nelle fessure vuote dell'elmo
impassibile.
Il lieve ronzio del reattore sembrava riverberare in tutto il suo
corpo, rassicurante. La sua nostalgia si affievolì,
sostituita da
una fermezza del tutto nuova.
"Non perdere tempo. Non sprecare la
tua vita."
Si staccò dal vetro, saldo sulle gambe.
Non aveva
sempre bisogno dell'armatura, per essere Iron Man.
Note Dell'Autrice:
Ssssalve :)
A causa degli svariati rimaneggiamenti del layout dei capitoli, le note originali di questo sono andate perse per una mia svista. Erano un papiro più o meno dettagliato sui motivi che ci avevano allontanate dalla storia, che adesso a pensarci bene hanno perso d'importanza.
Basti sapere che da questo capitolo in poi non si tratta più di una storia a quattro mani, ma portata avanti in singolo da me (Light), con qualche saltuario input da parte della mia ex-collega (nello specifico per questo capitolo e il prossimo). Gran parte degli sviluppi successivi è stata ideata da me in modo indipendente, il resto l'ho rielaborato a partire da vecchi appunti comuni, quindi la proprietà intellettuale rimarrà sempre di entrambe :)
Per chi ha iniziato a leggere di recente probabilmente il cambio di stile non sarà così netto, in quanto i capitoli precedenti sono stati da me sottoposti a revisione completa previa approvazione di MoonRay. Diciamo che la storia era invecchiata maluccio (iniziammo a scriverla a 15 anni, e credo che ciò basti come spiegazione :'D) ed era doveroso mettere qualche toppa qua e là.
Per quanto riguarda il capitolo in sé, credo sia piuttosto esplicativo anche senza aggiungere nulla e segna l'inizio di un lento, lentissimo recupero psicofisico per Tony. Non sarà facile né leggero e di batoste dovrà subirne ancora molte, ma è pur sempre un inizio.
La storia ha dovuto necessariamente "cambiare tono" dopo una pausa così lunga; oltretutto, ho deciso di inserire qualche "letimotiv" in più, quale il padre di Tony che qui fa già capolino, più insistenza sulla figura di Yinsen e su quella di Stane e varie ed eventuali supercazzole che esulano da protesi&co.
Ritengo improbabile che vecchi lettori ripassino di qui, ma mi sembra doveroso aprire una parentesi di ringraziamento: che seguiate ancora o meno, che abbiate recensito o no, è anche merito vostro se la storia è arrivata fin qui e se viene portata avanti oggi,
Un grazie speciale ad Alley, che all'epoca si prese l'onere di recensire tutti i capitoli di fila in modo meraviglioso, a Sherlock_Watson, che fu una delle primissime lettrici e segnalò la storia per le scelte (cosa di cui mi sono accorta ORA, tra l'altro) e continua a seguire tutt'ora e a Yavanna Norrey, che ci lasciò la prima recensione in assoluto seguendoci poi assiduamente <3
Una nota di ringraziamento a parte va ad _Atlas_: è grazie a lei se ho deciso di riprendere Phoenix dopo una pausa di quasi 3 anni e non finirò mai di ringraziarla per questo <3
Au revoir, vi auguro un buon proseguimento di lettura :)
-Light-
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