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Autore: ___MoonLight    17/03/2017    3 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Parte Seconda

 

ASHES



"Ever tried. Ever failed.
No matter.
Try again. Fail again.
Fail better."
S. Beckett




.

29


In noctem





"I'm frozen to the bones, I am
A soldier on my own, I don't know the way
I'm riding up the heights of shame
I'm waiting for the call, the hand on the chest
I'm ready for the fight and fate."

[Iron – Woodkid]





19 Aprile, Villa Stark

Villa Stark era più silenziosa del solito. Il mare si abbatteva scrosciando con tenace insistenza contro la scogliera su cui era arroccata l'enorme edificio, con la spuma che riluceva sotto la luna in tenui nastri argentei. Le onde si ritiravano con forza, per poi tornare ad abbracciare la roccia rossastra con altrettanto impeto. Era l'unico suono che si diffondeva nelle stanze vuote ed echeggianti.
La luce lunare filtrava timidamente nel salotto ancora devastato, illuminando qualche scheggia di vetro superstite, e si riversava appieno nella terrazza slanciata sull'oceano. Qui riluceva anche sulle protesi metalliche di Tony, seduto sul bordo di un'aiuola di ginestre, intento a scrutare l'orizzonte marino e la campagna circostante illuminata quasi a giorno. Osservò la luna, una pallida perla a cui mancavano ancora un paio di falci per essere perfetta. Doveva essere quasi mezzanotte. Forse era più tardi, non avrebbe saputo dirlo.
Si era seduto in terrazza nel tardo pomeriggio senza alcuno scopo preciso, barcollando come sempre, ma stavolta con insolita lentezza e cautela. Si era ritrovato ad ammirare l'oceano d'un blu profondo, che si era poi striato di pennellate dorate, poi rosse, infine tinto della sfumatura verdognola del crepuscolo, fino a calare in un nero denso e mobile. A quel punto stava per rientrare, quando il riflesso argenteo della luna non aveva illuminato nuovamente le creste delle onde. Ed era rimasto lì, ad ammirarne la lenta ascesa in cielo, nell'aria dolce di fine aprile.
Una raffica di vento un po' più sospinta portò con sé una scia di salsedine intensa e fece dondolare leggermente i piccoli fiori gialli della ginestra, che assecondarono con flessibile grazia quell'improvviso turbamento. Tony inspirò a fondo quel profumo salmastro e familiare, e per una volta non fu accompagnato dal ricordo spiacevole dei suoi sogni tormentati di... molto tempo prima, ma non abbastanza.
Cominciava ad avvertire una leggera fame, ma era riluttante ad abbandonare quella quiete. Si sentiva bene.
In effetti non sentiva nulla, ma lo considerava un miglioramento rispetto alle sue ultime vicissitudini. La sua mente era attiva e in costante fermento, ma era un'attività tenue e controllata, proprio come la risacca del mare calmo. Non era in bonaccia, ma la tempesta era lontana, impigliata all'orizzonte. Era un mare navigabile e non per questo meno infido, ma un capitano esperto poteva attraversarlo senza sforzo. E ultimamente aveva avuto modo di conoscere fin troppo bene la sua mente, mappandola con più precisione di quanto avesse mai fatto in vita sua. Per questo, quando captò l'ombra di un sentimento inquieto far capolino sotto la superficie, si limitò a respingerla con fermezza verso i fondali, senza scomporre il suo naviglio improvvisato.
Con estrema lentezza prese le stampelle, una delle quali un po' piegata, vi incastrò gli avambracci e si tirò su facendovi leva, avvertendo la protesi anteriore che premeva spiacevolmente sui punti di sutura. Poggiò appena la gamba destra, ma il dolore sordo che seguì lo fece desistere. Cambiò gamba d'appoggio e, lanciando un'ultima occhiata malinconica al cielo riflesso nel mare, rientrò nel salone buio chiudendo la porta-finestra dietro di sé. JARVIS attivò le luci in modo soffuso, rischiarando le stanze senza renderle eccessivamente luminose. Negli ultimi giorni era diventato fotosensibile, non sapeva dire esattamente per quale motivo, ma non riusciva a sopportare più di tanto le violente luci artificiali della villa, tantomento quelle al neon del laboratorio. Ian aveva detto che poteva essere lo stress – e non lo metteva in dubbio – ma Tony era abbastanza convinto che avesse a che fare anche con il palladio. Non vi aveva dato comunque troppo peso: era sopportabile e comunque sembrava scemare col passare del tempo. O forse era solo lui che vi si stava abituando.
Si appoggiò un po' affaticato allo schienale del divano, riprendendo fiato senza mettersi fretta. Non c'era niente e nessuno che lo aspettasse, in quel momento: poteva seguire i suoi tempi.
Gli era mancato stare da solo.
Era una conclusione a cui era arrivato dopo giorni di disperazione per la partenza di Pepper, adesso probabilmente chiusa nella sua stanza sull'Helicarrier a qualche chilometro d'altezza. Era il tipo di conclusione che portava con sé un po' di amarezza, ma non poteva negarne la verità. No, non avrebbe voluto che se ne andasse. Sì, ammetteva, aveva avuto perfettamente ragione a farlo: poteva sopportare la sua sfrontatezza e incostanza, i suoi scoppi d'ira, le sue crisi depressive e tutte le parole che diceva ma che in fondo non intendeva per davvero. Poteva anche sopportare che distruggesse mezza casa – quello era anche colpa di Bruce, in realtà – e che si sbronzasse senza ritegno. Non avrebbe dovuto sopportare il male che le aveva fatto, eppure era tornata per l'ennesima volta, concedendogli di rivolgerle delle scuse inadeguate e zoppicanti come lo era lui, poi... poi aveva superato il limite. L'aveva superato molte volte, così aveva creduto, ma c'era una differenza sostanziale tra il varcare il limite della sopportazione degli altri e quello sacro, inviolabile, della propria vita. Non era il tipo di azione che si potesse semplicemente rimproverare o comprendere o dimenticare. Era un gesto che tracciava altri limiti, altri confini; che troncava fili tessuti nel corso di anni.
Sì, capiva perfettamente perché se ne fosse andata, ed era per questo che, dopotutto, non aveva neanche cercato di contattarla. Era lei il motivo per cui aveva scelto di vivere quando era ormai troppo tardi, era la sua figura quella che aveva obbligato il suo inconscio a non lasciarsi andare, ma dirglielo avrebbe solo complicato le cose. L'aveva percepita andar via, discretamente: la sua àncora di salvezza veniva levata e lui rimaneva alla deriva, solo in mezzo al mare. Però continuava a galleggiare. Con un po' di tempo e fortuna, forse avrebbe anche toccato terra, un giorno, e non avrebbe più avuto bisogno di ancore provvisorie.
Per ora stare in solitudine aveva allentato una tensione che non si era reso conto di sopportare. C'era solo lui, là dentro. Nessuno che lo guardasse, nessuno con cui dover sfoggiare un'apparenza noncurante, nessuno da ferire. Era liberatorio. Da due settimane si sentiva in vacanza, ed era una consapevolezza che lo faceva sentire un ingrato. Ingrato, sì, ma un ingrato sereno.
«Signor Stark, ha un messaggio sulla segreteria telefonica, ricevuto alle 19:12. Ho ritenuto più sopportuno non disturbarla fino a quando non fosse rientrato.»
Incredibilmente, persino JARVIS aveva acquisito un'insolita dose di tatto.
«Da chi?» volle sapere subito.
Raramente aveva ricevuto chiamate o messaggi, se non saltuariamente da Kyle, che si era dimostrato insolitamente incline a soprassedere sugli ultimi eventi – esperienza personale? si era chiesto Tony – e da Ian per il suo check-up settimanale. Il medico, al contrario, sembrava trattarlo con ripugnanza e svolgeva il suo dovere con rapida professionalità, senza dilungarsi né aprir bocca se non per un "dica trentatré", per poi lasciare Villa Stark a passo di marcia. Di Pepper nessuna notizia, ma sperava in cuor suo che fosse un buon segno. Se ci fossero stati problemi l'avrebbero informato... no?
«È sulla linea criptata dello SHIELD» l'annuncio di JARVIS portò qualche ombra sul suo volto, ma non si scompose.
«Oh, che gioia. Si sono ricordati che esisto.
»
"Chissà se anche stavolta vogliono mandarmi un regalino verde..."
«Sentiamo,» sospirò, e si decise a sedersi sul divano.
Uno schermo olografico azzurrino fu proiettato dinanzi a lui: era un messaggio video, a quanto pareva. La figura di Fury si delineò, un po' tremolante a causa delle interferenze. Si chiese da quale angolo remoto del mondo lo stesse chiamando, e se davvero fossero notizie su Pepper. Sperò di no, o forse di sì, o forse entrambe le cose.
«A quanto pare sei troppo impegnato per rispondere al telefono, qualunque cosa tu abbia da fare laggiù che sia più importante di una chiamata dei tuoi datori di lavoro,» esordì Fury, palesemente seccato, tanto che Tony si aspettava di vedergli saltare la benda da un momento all'altro.
L'allusione ai "datori di lavoro" non gli piacque affatto. Era lui che si metteva a disposizione dello SHIELD, e non era certamente sotto contratto. Tanto più che, fuor di metafora, era sull'orlo del licenziamento da mesi.
«Comunque, sei sparito dai nostri radar un po' troppo a lungo, così manderemo uno dei nostri a controllare che sia tutto
più o meno in ordine. E, se fosse necessario, a tenerti d'occhio per un po',» aggiunse l'ultima frase come se ci avesse pensato in quel momento.
Tony incrociò le braccia, accigliandosi profondamente mentre fissava con insistenza la barra di riproduzione del video che arrancava ancora verso la metà; si chiese cos'altro dovesse mai dirgli.
«Come potrai immaginare, Rogers non smania per vederti. Banner potrebbe ridurti in poltiglia dopo gli ultimi fatti, Thor è attualmente oltre il Bifrost, l'agente Coulson è ancora sconvolto per lo stato in cui ti ha ritrovato e la signorina Potts... beh, non te lo devo spiegare.»
Tony abbassò involontariamente lo sguardo. Era comunque affascinante vedere come fosse riuscito a mettersi contro tutti i Vendicatori in un batter d'occhio. Non conosceva i le usanze asgardiane, ma era probabile che anche Thor non vedesse l'ora di piantargli Mjöllnir in testa per quello che aveva tentato di fare.
«L'agente Romanov era disposta a prendersi l'incarico, ma l'ultima missione è stata più dura del previsto e si sta ancora rimettendo. Al posto suo si è offerto l'agente Barton. Non che avesse molta altra scelta,» puntualizzò, lapidario. «Aspettati una visita domani, probabilmente nel pomeriggio,» concluse Fury, chiudendo la chiamata, e lo schermo ridivenne azzurro per poi sparire in uno sfarfallio.
Tony notò come Fury non avesse dato in realtà degli estremi molto precisi per la visita, probabilmente per impedirgli di "prepararsi". Non che ne avesse bisogno. Non aveva nulla da nascondere: l'alcool era sparito per far posto a quantità industriali di clorofilla e non si sentiva così bene da... da mesi, ora che ci pensava. Il massimo pericolo che Barton poteva incontrare era un'approfondita descrizione dei metodi di fusione dell'unobtanium o una sua stretta di mano un po' troppo energica. D'altronde, l'agente era sempre stato piuttosto incline a farsi i fatti propri; anche quando si era dichiarato contrario alla sua permanenza nei Vendicatori, sapeva che l'aveva fatto in spirito puramente oggettivo, tanto più che aveva poi cambiato posizione al riguardo. A mente fredda, se si fosse trovato dall'altra parte non avrebbe mai permesso a se stesso di rimanere nel Progetto Vendicatori, o almeno non di parteciparvi attivamente. Sì, era grato che Fury mandasse Hawkeye. Parlare con Natasha sarebbe forse stato più piacevole, magari si sarebbe mostrata più comprensiva – ne dubitava – ma tra loro c'era quel grado di confidenza in più che l'avrebbe fatto sentire giudicato. Per non parlare di Bruce. Scacciò il pensiero, consapevole di aver profondamente deluso l'amico, e si alzò zoppicando.
Raggiunse la cucina, dove si fece preparare dai robot una confezione di noodles pronti che trangugiò in pochi minuti, stranamente affamato, poi filò a letto senza passare per il laboratorio. Negli ultimi giorni i progressi tecnici erano stati minimi e poco incoraggianti – una stretta di bullone qua, un cavo messo a posto là, magari un piccolo miglioramento della struttura del piede – ma non se ne crucciava. Aveva un braccio più o meno funzionante, la gamba era praticamente un peso inerte e inutile che riusciva a malapena a muovere, ma svolgeva la sua funzione d'appoggio e lo bilanciava quel tanto che bastava per rimanere in piedi qualche secondo se necessario. Non aveva realmente bisogno di nient'altro, per ora, a parte riposarsi. Si era piuttosto dedicato con crescente inquietudine alla progettazione di un nuovo modello di reattore con alimentazione alternativa al palladio, con poco successo visto che lavorava sempre dal salotto, senza sedersi fisicamente al tavolo da lavoro – d'altra parte, non aveva neanche voglia di tornare nel posto in cui si era quasi tolto la vita.
Sdraiato sul letto, sbirciò l'area circostante il reattore. Le venature bluastre non erano sparite, ma sembravano, se non diminuite, almeno un po' meno spesse. Forse aumentare ancora le dosi di clorofilla si era rivelata una scelta vincente, anche se gli toglieva totalmente l'appetito. Certo, a lungo andare avrebbe potuto fare la controfigura per Hulk, ma meglio che morire intossicato.
"A lungo andare... chissà quanto, ancora."
Si addormentò con quel pensiero, che era tornato ad assumere una connotazione minacciosa e non malsanamente attraente come poco tempo fa. Meglio così.
Dormì sonni tranquilli, svegliandosi di tanto in tanto per il dolore ai moncherini con una sensazione di vuoto al petto, ma riaddormentandosi quasi subito rassicurato dal tenue chiarore azzurrino del reattore.


***


20 Aprile, Villa Stark

Clint arrivò, o meglio, comparve dal nulla nel tardo pomeriggio, mentre Tony era impegnato in una partita di scacchi virtuale con JARVIS; considerando che lo aveva impostato per seguire gli schemi di Kasparov stava andando anche meglio del previsto, e stava perdendo meno miseramente del solito. Scacciò l'ologramma con un colpo svogliato della mano e si voltò a guardare il nuovo arrivato senza alzarsi dalla poltrona.
«Buonasera, Agente Barton. Cominciavo a preoccuparmi: ero sicuro che ti saresti presentato alle sei del mattino.»
«Sono partito a quell'ora da Rio de Janeiro,» replicò asciutto lui, lasciando intendere il suo scarso buonumore per l'alzataccia.
Si fermò nel bel mezzo del salotto e sembrò improvvisamente a disagio nel vedere il muro divisorio crollato per metà.
«Quello...» cominciò, esitante, e Tony lo anticipò:
«Sì, è opera di Banner, cioè Hulk. A sua discolpa, aveva i suoi buoni motivi per essere arrabbiato.»
«Immagino.»
«No, non immagini. Credimi.»
Tony si lasciò sfuggire un breve sbuffo e tamburellò con le dita sui braccioli della poltrona, mentre l'altro ammutoliva di nuovo e riprendeva a guardarsi intorno con aria a metà tra il distratto e l'assonnato. In realtà, ne era certo, aveva registrato ogni minimo dettaglio della villa che fosse nel suo campo visivo. Hawkeye era stranamente in borghese, con indosso una semplice felpa verde militare e un paio di jeans un po' logori, ma assicurata alla cintura si intravedeva la sua balestra portatile. Gliel'aveva progettata lui stesso: un'arma estraibile completa di dardi compressa in una scatoletta che a una prima occhiata sembrava una macchina fotografica. Era stato uno degli ultimi lavori che aveva svolto per i Vendicatori. Le sue dita smisero di colpire ritmicamente la stoffa beige della poltrona, contraendosi appena.
Adesso sarebbe cominciato l'interrogatorio, da un momento all'altro. Si chiese cosa stessero aspettando: voleva concludere quella prassi il prima possibile, ma Clint era più taciturno del solito e se ne stava impalato in mezzo alla stanza, osservando la villa con un interesse ingiustificato. Dopo quella che gli parve un'eternità, Tony decise di non poterne più:
«Vogliamo arrivare al dunque o hai intenzione di fissare il muro finché Fury non ti richiama?» sbottò, fancendogli al contempo un cenno verso il divano per invitarlo a sedersi.
Barton alzò le spalle in un gesto noncurante, anche se si scorse un lieve fastidio attraversare il suo volto; non si sedette e si piantò di fronte a Tony, incrociando le braccia.
«Francamente, Stark, non so neanch'io cosa dovrei fare,» snocciolò, cogliendolo di sorpresa.
Si riprese in fretta.
«Pensavo dovessi "tenermi d'occhio".»
Mimò le virgolette con le dita in modo sarcastico.
«E perché mai?»
Clint sembrò sinceramente perplesso dalla domanda. Tony iniziava a non raccapezzarsi più.
«Senti, Legolas, non so per quanto tempo sei stato disperso in Amazzonia, ma pensavo ti avessero fornito almeno i dati essenziali. Tipo che ho poco brillantemente cercato di porre fine alla mia esistenza un paio di settimane fa.»
Dirlo ad alta voce lo faceva sembrare un evento quasi irreale, ma in qualche modo anche più gestibile.
«Lo so,» replicò Clint, lapidario. «Non vedo comunque il motivo di farti la guardia.»
Tony battè stolidamente le palpebre. Dopotutto, doveva esserci un motivo se Barton era un agente che si limitava a eseguire gli ordini nonostante fosse teoricamente un Vendicatore. O forse risentiva semplicemente del jet-leg. Non avrebbe saputo dirlo: il suo volto era imperscrutabile e temprato da anni di interrogatori. Si rassegnò a rispondere, scandendo le parole e cercando di smorzare il sarcasmo che però gli uscì spontaneo:
«L'ipotesi più quotata è che potrei essere leggermente instabile. Un po' di depressione, forse anche qualche problemino di autocontrollo. Magari sotto sotto ho anche voglia di riprovarci. Inezie del genere.»
Fece un gesto noncurante con la mano meccanica. Hawkeye sembrò forse irritato dal suo tono, ma dalla sua voce non trapelò la minima emozione.
«Al momento non mi sembra che tu abbia nessuno di questi problemi,» dichiarò piattamente.
Di nuovo, Tony stentò a credere alle sue orecchie. Quella era buona. C'era veramente qualcuno che non lo ritenesse uno schizzato depresso?
«E lo deduci da cosa?» chiese ironico, iniziando a sentirsi preso in giro.
«Dal fatto che io sono qua in piedi mentre tu resti lì seduto, e che la cosa ti sia indifferente.»
Stavolta Tony rimase interdetto, la bocca semiaperta che aveva dimenticato come volesse replicare. Distolse lo sguardo. Sentiva la tentazione rispondere con una battuta, ma la soffocò, perché aveva intuito benissimo dove voleva andare a parare Barton. E non avrebbe mai ammesso apertamente quanto, in effetti, avesse colto nel segno, dimostrando un'acutezza che esulava dalla semplice abilità di arciere.
Solo qualche settimana prima sarebbe scattato in piedi al primo trillo del campanello, fregandosene della protesi malmessa e della sua andatura zoppicante, si sarebbe probabilmente imbottito di antidolorifici pur di camminare senza risentirne sul momento e sarebbe andato incontro all'ospite con passo ridicolmente baldanzoso, come se non avesse un solo problema al mondo nonostante il suo aspetto trasandato dicesse ben altro.
Adesso se ne stava sprofondato nella poltrona, la protesi stesa sul poggiapiedi per far riposare il moncherino, con un thermos di clorofilla a portata di mano e nessuna intenzione di alzarsi. Nonostante indossasse i soliti pantaloni da lavoro e un paio di ciabatte più vecchie di lui, la maglietta era pulita e aveva ripreso a radersi alla meno peggio – per quanto gli consentisse la protesi senza recidersi la giugulare – e a sistemarsi i capelli diventati un po' troppo lunghi.
E no, non gli importava di non potersi alzare in piedi, perché in effetti non voleva alzarsi in piedi. Era una differenza sostanziale che aveva cominciato a realizzare nel corso delle ultime due settimane, quando aveva cominciato ad apprezzare i pregi della solitudine. Non aveva sentito neanche il bisogno di scusarsi o di mettere in chiaro che non dipendeva da lui; non aveva neanche pensato di dover in qualche modo ricordare all'altro quanto facesse schifo la propria situazione con qualche commento pungente o una battuta autoironica. La sua situazione era abbastanza evidente senza bisogno di parole superflue.
Si accorse di sorridere appena, un'ombra di quel sorrisetto sardonico che aleggiava spesso sul suo volto in tempi più sereni. Hawkeye ricambiò con un'occhiata forse meno fredda del solito.
«Va bene, hai fatto i compiti a casa, dopotutto,» commentò infine Tony. «Adesso però siediti davvero, ti prego. Mi fai stancare solo a guardarti,» aggiunse in tono leggero.
Clint acconsentì senza dire una parola e si accomodò sul divano di fronte a lui, lasciando vagare lo sguardo come se non avesse già perfettamente memorizzato ogni angolo del suo salotto; e notava benissimo come di tanto in tanto gli scoccasse un'occhiata quasi casuale, ma di un'intensità evidente. Dopotutto, lo stava tenendo d'occhio.
Decise di rompere il silenzio: meglio parlare con Barton piuttosto che perdere un'altra partita a scacchi.
«Quindi, tu che ne pensi?» esordì cautamente e, in fondo, con sincera curiosità che però trasparì solo dal suo sguardo.
Il suo tono rimase quasi noncurante.
«Di cosa, esattamente?»
Era molto difficile capire se Barton facesse il finto tonto o meno, ma la cosa iniziava a irritarlo e divertirlo allo stesso tempo.
«Di questa faccenda. Cioè, non di questa, ma di quella di due settimane fa,» puntualizzò, con un gesto della mano a dare enfasi. «Non pensi che debba essere internato in un centro di igiene mentale, e già così ti poni contro il buon senso di tutti i tuoi colleghi. Sarebbe il colmo se pensassi anche che io non sia stato un idiota a fare... beh, a quasi fare quello che ho fatto.»
Barton sembrò esitare, come se fosse riluttante a intavolare il discorso. O forse trovava semplicemente strano che qualcuno chiedesse la sua opinione. Infine intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò la caviglia sul ginocchio, come decidendo che, se proprio doveva parlare, tanto valeva stare comodi.
«Certo che penso che ti sei comportato da idiota. Ma chi sono io per giudicarti?»
La sua espressione rimase neutra e indecifrabile come sempre.
«L'hai appena fatto,» lo rimbeccò Tony.
«Mi hai chiesto un parere. Se pensi che ti dica quello che vuoi sentirti dire, parli con la persona sbagliata. »
«Allora spiegami perché pensi che sia un idiota.» Tony intrecciò a sua volta le dita sul ventre, in ascolto. «Premettendo che hai perfettamente ragione e che penso anch'io di essere stato un idiota,» aggiunse a mo' di chiarimento.
«Tu perché lo pensi?» replicò Barton.
Sembrava che Clint avesse seri problemi a distinguere un interrogatorio da una conversazione normale, e cercasse di lasciar trapelare meno informazioni possibili da parte sua, nel tentativo di spostare il discorso su un terreno sicuro.
«Il suicidio non è una risposta ai problemi,» si costrinse a dire, un po' meccanicamente. «E mi ci sono praticamente costretto con le mie mani. Avrei dovuto cercare di andare avanti, invece di...»
«Tu mi stai dicendo perché gli altri pensano che tu sia un idiota. O la società in generale. Nessuno vuole che la gente si suicidi, no?»
Clint non era davvero tipo da girare intorno alle questioni, né gli piacevano troppo i giochi di parole. Parlava schiettamente, senza dargli modo di replicare.
«Io però ti ho chiesto perché tu pensi di essere un idiota.»
Tony rimase interdetto, prima di tutto perché era la prima volta che lo sentiva pronunciare più di due frasi di fila. L'agente Barton gli era sempre sembrato il tipo di uomo che svolgeva i suoi doveri senza farsi troppe domande e che in generale evitava di pensare troppo. In realtà, si rese conto, di lui non sapeva proprio nulla. Al contrario degli altri Vendicatori, Barton era per lui un grande punto interrogativo, così come Natasha, anche se in misura minore. Forse era per quello che erano così affiatati, quei due.
Si prese del tempo per riflettere. La prima risposta che gli balenò in mente fu Pepper. Era per lei che aveva deciso di vivere. Ed era lei a considerarlo un idiota più di tutti gli altri. Nonostante la cosa lo imbarazzasse un poco, stava per dirlo, quando si bloccò, come folgorato.
Certo, voleva vivere anche per lei. Lo faceva stare bene, provava sentimenti per lei su cui aveva deciso di non soffermarsi in modo serio, ma che puntavano decisi verso una direzione inconfutabile; erano sicuramente legati da un profondo affetto consolidato negli anni, ma... era veramente tutto ciò che lo teneva ancorato in questo mondo? Trovava il pensiero confortante in sé, ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto quell'ormeggio fosse labile. Essere legato alla vita solo tramite un'altra persona lo faceva sentire vulnerabile. Le persone avevano la tendenza ad allontanarsi, ferire, tradire, essere imprevedibili. Alla fine scomparivano, che fosse per colpa di un'auto difettosa o di una stretta un po' troppo salda sul braccio. Erano troppo fragili.
Un'improvvisa consapevolezza scese su di lui, emersa insieme a quella parte buia e ancora bruciante di sé che teneva a bada ogni giorno.
Lui doveva vivere, ed era questo pensiero che lo aveva spinto a non mollare quando credeva di aver perso tutto. Era per quello che non si era arreso all'idea che Iron Man fosse morto, ed era per quello che si sentiva così prepotentemente furioso con se stesso e col mondo che sembrava ostacolarlo ad ogni passo che faceva. Per quello, dopo il disastro sfiorato che aveva perpretato con le sue mani, si era svegliato con un profondo senso di disgusto verso se stesso.
Spiò l'uomo seduto scompostamente di fronte a lui: Barton aspettava paziente la risposta, per nulla turbato dal suo lungo silenzio.
«Mi è stato detto di non sprecare la mia vita,» disse infine a mezza voce, come togliendosi un gran macigno dalle spalle che poi, lo sapeva, sarebbe tornato a pesare più di prima. «Ho troppi debiti con questo mondo: non posso permettermi il lusso di abbandonarlo di mia volontà e lasciarli insoluti.»
Hawkeye annuì brevemente, forse non capendo appieno il contesto delle parole di Tony, ma cogliendone il concetto. Tony realizzò di essersi forse scoperto un po' troppo e accennò un sorrisetto spavaldo:
«E tu, Robin Hood? Perché tu credi che sia un gesto da idioti?»
Clint sembrò divertito dall'improvviso risvolto della situazione, ma ciò trasparì solo dal fulmineo contrarsi delle sue labbra, un sorriso troncato sul nascere. Per un istante Tony credette che non avrebbe risposto, ma fu smentito:
«La vita non è stata molto generosa con me, all'inizio,» esordì vago. «Ho avuto più di un buon motivo per farla finita. In realtà ne avrei ancora adesso, ma sono semplicemente troppo cocciuto per mollare tutto. E ci sono delle persone che contano su di me e mi ricordano per cosa valga la pena vivere,» alzò le spalle, come a scusarsi per quella banalità, poi si fece più serio. «E poi sono un sicario. Sarebbe piuttosto ironico se mi ammazzassi, no?»
Esprimere ad alta voce quel pensiero parve rabbuiarlo, e sprofondò in un silenzio che Tony non volle interrompere. Rimasero muti così a lungo che ormai entrambi avrebbero trovato strano riprendere il discorso, anche se forse avevano ancora qualcosa da aggiungere. Clint finì con l'assopirsi, a braccia incrociate e con la testa reclinata all'indietro sullo schienale del divano – Fury sarebbe stato fiero del suo lavoro di sorveglianza.
Tony avrebbe voluto alzarsi, ma si sentiva troppo indolente; d'altronde, non aveva nulla d'urgente da fare. Ma, nella sua indolenza, iniziò ad annoiarsi. Quasi gli venne da alzare gli occhi al cielo per la sua stessa incoerenza, ma si decise a scendere di soppiatto in laboratorio.
Un po', doveva ammetterlo, gli mancava.



***


L'aria era stantia e c'era odore di ferro bruciato e polvere. Era tutto esattamente come l'aveva lasciato: i componenti sparsi sui tavoli da lavoro, la cartacce sul pavimento, le apparecchiature per la fusione dell'unobtanium in un angolo, la parete delle armature schermata. Solo la sua sedia era innaturalmente distante dalla scrivania, come se qualcuno l'avesse scostata con forza. Sentì le sue membra formicolare d'inquietudine, reali e artificiali, ma fu l'unica reazione del suo corpo che registrò. Non avvertendo altri segnali negativi avanzò proprio fino a quella sedia, chiedendosi se volesse veramente prendervi posto.
Era la sedia su cui aveva passato forse la maggior parte del suo tempo quando stava a casa. Su di essa aveva avuto idee brillanti, momenti di scoraggiamento, aveva riso, battibeccato con Pepper e JARVIS, passato ore e ore a progettare, scrivere e navigare tra schermi e ologrammi. Era la sedia che lo aveva accolto di ritorno dall'Afghanistan e su cui si era seduto come tra le braccia di una madre. Lì sopra aveva visto per la prima volta l'interezza delle sue ferite, riflesse in uno schermo spento. Seduto lì sopra si era mostrato per la prima volta debole a Pepper, quando aveva creduto di non farcela. Passò la mano sensibile sui braccioli usurati, sulla pelle nera ormai screpolata.
Da quel giorno in poi, tutto era andato disgregandosi sempre più: il suo mondo, la sua mente, i suoi affetti – uno più di tutti – fino ad essersi trovato nuovamente seduto lì, senza reattore e senza speranza. Si accorse di stare affondando le dita nell'imbottitura morbida e si riscosse, come da un sogno.
Squadrò la sedia: era una sedia, realizzò con improvvisa ovvietà.
Solo una sedia.
Si sedette senza più esitazioni e accese i monitor con uno schiocco di dita, dimentico di tutto ciò che tentava di emergere dentro sé per riportarlo verso il basso. Si fece proiettare da JARVIS un modello del braccio: non aveva voglia di impegnarsi troppo col progetto della gamba e preferiva svagarsi apportando qualche modifica estetica di poco conto. Fino ad allora la protesi era sempre stata una struttura di metallo vistosa e abbastanza tozza, attraversata da fasci di cavi di svariati colori che attiravano inevitabilmente lo sguardo; ogni tanto si sentiva un Replicante piuttosto malriuscito. Forse era il momento di darle un aspetto un po' più definitivo: la spalla e il gomito funzionavano, solo la mano era ancora in fase di sviluppo e doveva essere lasciata aperta per ulteriori modifiche.
Tony prese a modellare gli ologrammi con tocchi un po' svogliati della mano sana. Dopo una decina di minuti iniziò ad avvertire una certa sonnolenza, ma non voleva lasciare a metà il lavoro. Si rese conto di quanto iniziasse ad accusare l'astinenza da caffeina, ma si impose di non indulgere in una tazza di caffè almeno fino al mattino dopo.
Quando modificò l'ultimo dettaglio sull'avambraccio diede un colpetto soddisfatto al modello 3D, facendolo roteare su se stesso in una piroetta vittoriosa. Sembrava una di quelle protesi che si vedevano nei film di fantascienza: affusolata, con dei rilievi morbidi che celavano i cavi e i circuiti dando l'illusione che sotto alla placcatura metallica vi fossero dei muscoli. Certo, adesso la mano incompleta avrebbe stonato decisamente rispetto al resto, ma avrebbe rimediato in futuro. Forse il giorno dopo si sarebbe messo al lavoro per realizzare quegli ultimi miglioramenti.
Salvò il modello, poi ci ripensò e modificò il colore del rivestimento. Aveva pensato di farla di metallo cromato, ma forse lasciarla di quel nero antracite tipico della fibra di carbonio sarebbe stato meno vistoso. Magari col tempo si sarebbe convinto a rivestirla di pelle artificiale come gli aveva suggerito tempo addietro Ian, anche se al momento trovava l'idea piuttosto disturbante. Fissò con improvvisa consapevolezza la figura che galleggiava di fronte a lui. Stava davvero rimuginando sul
colore della sua protesi? Fino a tre mesi prima gli sembrava impossibile anche solo pensare di farsene impiantare una. Strinse il pugno davanti al volto e la mano eseguì il suo comando, sebbene in ritardo. Gli sembrava impossibile di averla creata lui stesso. Non era perfetta, non ancora, ma poteva diventarlo. Si rese conto che un giorno avrebbe potuto far finta che niente fosse mai successo. La sua stretta si serrò un poco e il suo volto si tirò, amareggiato. Quelle estraneità metalliche facevano parte del suo corpo e del suo essere, così come il reattore: non avrebbe mai potuto dimenticare. Però poteva andare avanti.
Colto da un pensiero improvviso, selezionò con un tocco preciso un'icona nell'ologramma dinanzi a lui, aprendo la cartella PH.01 X – avrebbe
davvero dovuto rinominarla – in cui erano raccolti e catalogati i vari schizzi e progetti della protesi, ai quali si aggiungevano le miriadi di bozzetti cartacei disseminati per tutta la casa. Ne selezionò alcuni, trascinandoli da parte e ordinandoli cronologicamente. Li guardò a lungo, a metà tra l'incredulo e il compiaciuto. Non riusciva a realizzare che dal primo progetto, una sorta di struttura metallica rozza e grossolana, con dei pistoni al posto delle dita, si fosse generata la meraviglia che era attaccata al suo corpo e che riusciva a muovere con tanta naturalezza.
Il suo entusiasmo scemò rapidamente. Come aveva potuto gettare al vento tutto quel lavoro? Non riusciva a capire come fosse riuscito a sprecare così tanto tempo prezioso che avrebbe potuto utilizzare per fare progressi, per portare avanti quei progetti. Se non si fosse smarrito, se avesse mantenuto la calma, se non si fosse ammalato nel corpo e nell'animo, forse in quel momento sarebbe stato capace di reggersi in piedi, magari di camminare liberamente.
Aveva ritardato ancor di più un possibile ritorno di Iron Man. Per un suo stesso capriccio e per la sua testardaggine si trovava confinato quasi sempre su divani, sedie e letti, col solo ausilio delle stampelle e continui dolori ai moncherini, che dopo tutti gli scossoni subiti avevano deciso di fargli patire le pene dell'inferno. Sapeva di aver commesso molti errori; spesso ne aveva avuto la consapevolezza nel momento stesso in cui aveva pronunciato una parola di troppo o compiuto un gesto avventato; sapeva di aver ferito persone a lui care, di essersi ferito lui stesso e di aver causato più guai in quei pochi mesi che in una vita intera. Ma non aveva mai pensato al tempo perso e alle ore sprecate a lavorare cocciutamente senza raggiungere alcun risultato perché era troppo stanco, troppo distratto, troppo furente per prestare la dovuta attenzione a calcoli e schemi.
Quanto tempo aveva effettivamente perso? Forse qualche settimana. Si sarebbero poi tramutate in anni? La vecchiaia gli balenò dinanzi agli occhi prematuramente, accelerata dai quei congegni salvifici e allo stesso tempo venefici che disseminavano il suo corpo. Se mai vi sarebbe arrivato.
I suoi pensieri corsero e alla discussione con Hawkeye e si chiese come avesse potuto dimenticare il suo debito. Le parole di Yinsen risuonavano chiare nella sua mente, esalate nel suo ultimo respiro:
non sprecare la tua vita, Stark. Si sovrapposero inaspettatamente ad altre parole, molto più vecchie, che si era sentito ripetere fino allo sfinimento in tono duro: non perdere tempo, Anthony. Una figura alta, allampanata, ferma sulla soglia di una porta che non varcava mai fece capolino nella sua memoria. Scacciò quell'immagine con rabbia e non poté star seduto un secondo di più.
"Perché deve avere sempre ragione?" si ritrovò a pensare mentre se ne stava in piedi appoggiato alle stampelle.
Salì al piano di sopra scosso, con l'intenzione di fare due chiacchiere per distrarsi, ma mise piede in un salotto immerso nella penombra serale e deserto. Clint se n'era andato inosservato, così com'era venuto. Sul tavolino del salotto, messo bene in vista, c'era un foglio spiegazzato recuperato chissà dove, su cui si intravedeva il disegno scartato di una gamba meccanica. Sotto di essa, in una calligrafia affrettata e decisa, era scarabocchiato un conciso
"Buon lavoro. H."
Tony era sorpreso, ma allo stesso tempo si rallegrò per quella solidarietà inaspettata. Si mise il biglietto in tasca, per poi voltarsi verso la vetrata dalla quale si vedeva il mare. Si era fatto mosso: tirava un vento teso che trascinava le foglie delle palme e scagliava i cavalloni contro la spiaggia e la scogliera con fragore violento. Il vetro era costellato di goccioline d'acqua che si rincorrevano in torrentelli imprevedibili. Stette ad osservarli per un po', fissando di tanto in tanto la linea agitata dell'oceano grigio plumbeo che calava pian piano nell'oscurità, finche non iniziò a dolergli la gamba e dovette sedersi sulla poltrona.
Rimase vicino alla vetrata a lungo, sorseggiando clorofilla, ancora una volta calmato dal buio della notte e dall'oceano, che trovava confortante nel suo essere inquieto e scosso da tumulti invisibili. Di tanto in tanto brontolava un tuono lontano, e ne avvertiva la vibrazione nelle pareti e nelle ossa. Lasciò che il suo sguardo venisse trascinato e cullato dalle onde ormai appena distinguibili nella notte inquieta e velata da spesse nubi.
Si risvegliò con un lieve fremito, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato, col collo rigido e dolorante. Una sottile linea rosata all'orizzonte accolse il suo occhio ancora assonnato, e la guardò inspessirsi e diventare più intensa, mentre il sole sorgeva invisibile alle sue spalle, rischiarando a poco a poco il cielo e il mare di riflessi caldi nell'aria pulita dopo il temporale. Quando i colori virarono sul rosso-arancio fu colto da un'improvvisa malinconia e si decise ad abbandonare la sua postazione per bere una tazza di caffè.
Dopo qualche minuto di pigra indecisione si lasciò guidare dall'istinto e scese in laboratorio. I suoi passi zoppicanti lo portarono dinanzi alla parete delle armature e come in sogno premette un tasto per eliminare il vetro schermato. La Mark II si rivelò dinanzi a lui, con lo sguardo vacuo fisso dinanzi a sé come in attesa di ordini. Ai suoi lati, simili a sentinelle cadute, vi erano gli ammassi informi della Mark I e della Mark III. Le accarezzò con lo sguardo, nostalgico.
Oltre alla consapevolezza delle responsabilità legate a indossarla, si affacciava in lui l'infantile desiderio di volare. Quelle sensazioni di libertà erano lontane nel tempo e sembravano ancora più inconcepibili se pensava che adesso riusciva a malapena a stare in piedi e che gli sembrava un grandissimo risultato anche solo barcollare in giro senza capitolare a terra troppo spesso. Si sarebbe sentito molto più protetto, molto più forte, se solo avesse potuto indossarne una.
Poggiò una mano sul vetro, all'altezza della cavità del reattore nella sua amata Mark II argentata: la sua prima, vera armatura. Ricordava ancora quel senso di piacevole vertigine nel librarsi in aria e sfrecciare nel cielo, senza alcun freno.
Brandelli di visioni oniriche aleggiavano remoti nella sua coscienza: ricordi di un altro vetro, di un riflesso troppo perfetto e della propria caduta. Le scacciò con veemenza. Non era quello il momento per cadere. Piantò gli occhi nelle fessure vuote dell'elmo impassibile. Il lieve ronzio del reattore sembrava riverberare in tutto il suo corpo, rassicurante. La sua nostalgia si affievolì, sostituita da una fermezza del tutto nuova.
"Non perdere tempo. Non sprecare la tua vita."
Si staccò dal vetro, saldo sulle gambe.
Non aveva sempre bisogno dell'armatura, per essere Iron Man.




 
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Note Dell'Autrice:

Ssssalve :)
A causa degli svariati rimaneggiamenti del layout dei capitoli, le note originali di questo sono andate perse per una mia svista. Erano un papiro più o meno dettagliato sui motivi che ci avevano allontanate dalla storia, che adesso a pensarci bene hanno perso d'importanza.
Basti sapere che da questo capitolo in poi non si tratta più di una storia a quattro mani, ma portata avanti in singolo da me (Light), con qualche saltuario input da parte della mia ex-collega (nello specifico per questo capitolo e il prossimo). Gran parte degli sviluppi successivi è stata ideata da me in modo indipendente, il resto l'ho rielaborato a partire da vecchi appunti comuni, quindi la proprietà intellettuale rimarrà sempre di entrambe :)

Per chi ha iniziato a leggere di recente probabilmente il cambio di stile non sarà così netto, in quanto i capitoli precedenti sono stati da me sottoposti a revisione completa previa approvazione di MoonRay. Diciamo che la storia era invecchiata maluccio (iniziammo a scriverla a 15 anni, e credo che ciò basti come spiegazione :'D) ed era doveroso mettere qualche toppa qua e là.

Per quanto riguarda il capitolo in sé, credo sia piuttosto esplicativo anche senza aggiungere nulla e segna l'inizio di un lento, lentissimo recupero psicofisico per Tony. Non sarà facile né leggero e di batoste dovrà subirne ancora molte, ma è pur sempre un inizio.
La storia ha dovuto necessariamente "cambiare tono" dopo una pausa così lunga; oltretutto, ho deciso di inserire qualche "letimotiv" in più, quale il padre di Tony che qui fa già capolino, più insistenza sulla figura di Yinsen e su quella di Stane e varie ed eventuali supercazzole che esulano da protesi&co.

Ritengo improbabile che vecchi lettori ripassino di qui, ma mi sembra doveroso aprire una parentesi di ringraziamento: che seguiate ancora o meno, che abbiate recensito o no,
 è anche merito vostro se la storia è arrivata fin qui e se viene portata avanti oggi,
Un grazie speciale ad Alley, che all'epoca si prese l'onere di recensire tutti i capitoli di fila in modo meraviglioso, a Sherlock_Watson, che fu una delle primissime lettrici e segnalò la storia per le scelte (cosa di cui mi sono accorta ORA, tra l'altro) e continua a seguire tutt'ora e a Yavanna Norrey, che ci lasciò la prima recensione in assoluto seguendoci poi assiduamente <3

Una nota di ringraziamento a parte va ad _Atlas_: è grazie a lei se ho deciso di riprendere Phoenix dopo una pausa di quasi 3 anni e non finirò mai di ringraziarla per questo <3

Au revoir, vi auguro un buon proseguimento di lettura :)

-Light-




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