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Autore: Sapphire_    18/03/2017    0 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mi sto stupendo di me stessa: sto finalmente riuscendo ad aggiornare con una certa periodicità!
Che dire, l'ispirazione per questa storia avanza e io la sfrutto appena posso – lasciando stare fin troppo spesso i manuali di russo a cui dovrei dare un'occhiata, se voglio passare l'esame di giugno...

Beh, spero questo capitolo sia di vostro gradimento, perdonatemi se la storia ci sta mettendo così tanto a svilupparsi ma la scrivo come mi viene. Comunque sia non preoccupatevi: arriveranno anche i momenti tra i due protagonisti – che, ora che ci penso, in nove capitoli si sono visti faccia a faccia due volte. Sono pessima.
Nonostante ciò vi chiedo di non demordere e di seguirmi in questa storia a cui mi sto sempre di più appassionando (Aaron è il mio personale peluche da strapazzare!) e di dirmi se la storia vi piace e in cosa potrei migliorare!
Grazie dell'attenzione e buona lettura!
Un abbraccio,

~Sapphire_

 

 



 

~It's too cliché

 

 

 

 

Capitolo nove

Il cellulare di April suonò all'improvviso, facendola in poche parole balzare dal letto con un salto.
La sua testa fu nella più totale confusione per un attimo: si guardava intorno e non riconobbe in un primo momento la stanza in cui si trovava, ma un momento ricordò di essere da May e ben presto anche il motivo.
Fece una smorfia mentre si lasciava ricadere tra le lenzuola, stropicciandosi gli occhi.
Speravo fosse tutto solo un incubo, pensò depressa.
E invece no: la realtà le si presentava davanti fulgida e brillante, accompagnata da tutto ciò che comporta – le brutte cose del mondo degli adulti: lavoro, soldi, relazioni, la disperazione.
No, perché devo uscire da qui e affrontare il mondo?
Con questo pensiero molto poco immaturo in testa si rigirò da una parte e dall'altra, finendo per attorcigliare le lenzuola lungo il suo corpo. Chiuse gli occhi; la tentazione di chiamare la redazione e avvisare che non sarebbe andata per motivazioni di salute era sempre più forte.
«Non osare pensarci per un secondo di più»
April mugolò.
«Avanti, alzati!»
May entrò energica nella stanza mentre la bionda cercava di affondare sempre di più nel letto – forse nella speranza che si aprisse un varco spaziotemporale che la risucchiasse via.
Le sue vaghe speranze morirono definitivamente quando la bella castana scostò – senza la minima pietà, notò April – le tende e aprì la finestra, lasciando che la frizzante aria del mattino invadesse la stanza dove, dopo tutta la notte, l'ossigeno ormai scarseggiava.
«Non costringermi a buttarti già dal letto, tesoro»
La voce di May risultò minacciosa in maniera preoccupante, tanto che April si costrinse a fare capolino da sotto il cuscino. Il sole era più accecante di quello che si aspettava.
«Non voglio andare a lavoro oggi» mugugnò, la voce ancora impastata.
Mentre cercava di mettere a fuoco la figura dell'amica (cosa difficile, dato che era senza occhiali), ancora vicino alla finestra – ovvero, ancora vicina a quella luce che rischiava di metterle in serio pericolo gli occhi – le sembrò di vederla alzare gli occhi al cielo.
«Stiamo ritornando indietro di quindici anni? Vedi di alzarti o potrei non rispondere delle mie azioni» continuando a mantenere il tono minaccioso.
April tentò la sua ultima carta: lo sguardo da cucciolo bastonato.
«Ti prego...» iniziò, il tono piagnucolante abbastanza da fare compassione ma non troppo da essere fastidioso.
Purtroppo per lei, May rimase impassibile.
«Con me non funzionano questi trucchi da quattro soldi. Dovrai inventarti qualcosa di meglio per farmi cedere» fece con aria soddisfatta.
«La mia vita relazionale è uno schifo, probabilmente non mi prendono allo stage, si è appena allagata la casa e non posso – non voglio – tornare a casa. Questo è sufficiente?» fece con tono tragico.
Vide May pensarci su.
«No, mi dispiace. Alzati» disse infine, categorica.
April fece un verso tra il disperato e il lamentoso, tirandosi su la coperta per coprirsi il volto – e impedire alla luce del sole di raggiungerla.
«Non vuoi alzarti nemmeno se vado a prendere delle ciambelle da Granny's
Dopo aver sentito quelle parole, alla pari di una formula magica, si tirò su di colpo.
«Con cioccolato e ciliegia?» chiese, guardandola poco convinta. May le sorrise furba.
«E un milkshake al caffè» aggiunse.
April spostò lo sguardo, osservando le proprie gambe intrecciate con le lenzuola e la coperta. Sì, di sicuro May era più brava di lei a convincere le persone.
«Andata» borbottò sconfitta.
Come avrebbe fatto a dire di no a quella proposta così allettante?
«Perfetto» tubò May, applaudendo come una bambina «Volo a prenderle. Tu fila a farti la doccia, ora» aggiunse, lanciandole un'occhiataccia, per poi correre via dalla stanza.
April la sentì trafficare nell'altra stanza, il tintinnio di un paio di chiavi e poi la porta che si apriva e chiudeva.
Beh, non poteva rimanere a letto ancora a lungo; primo, perché se May l'avesse trovata ancora lì sarebbe stata capace di mangiarsi le ciambelle da sola di fronte a lei – e questo non avrebbe mai potuto sopportarlo – secondo perché doveva andare a lavoro, e se avesse perso ulteriore tempo sarebbe arrivata inevitabilmente in ritardo.
Allungò una mano verso il comodino, trovando subito i suoi fidati occhiali e infilandoseli; scese dal letto quasi strisciando e ciabattò verso il bagno con le stesse movenze di uno zombie, infilandosi dentro la stanza. Non chiuse la porta a chiave: era da sola, e in ogni caso non aveva alcun imbarazzo con May.
Iniziò a spogliarsi con gesti lenti – aveva un sonno tremendo, confidava in una doccia rigenerante; fu contenta di aver già sistemato alcune sue cose nel bagno, in modo tale da non dover fare avanti e indietro per la sua stanza. Per essere più precisi, era stata May a costringerla e ad aiutarla la sera prima, proprio come avrebbe fatto una mamma.
Si incupì notando il volto sciupato, un misto tra stanchezza, tristezza e chissà cos'altro; rimase un paio di minuti a osservarsi la faccia, alla ricerca di qualche misteriosa ruga che avrebbe potuto comparire da un giorno all'altro – la vecchiaia era sempre dietro l'angolo, pensava – e terminata la sua minuziosa ricerca si infilò nel box doccia, abbandonando i suoi vestiti sopra un mobiletto, insieme agli occhiali.
L'acqua le scivolò addosso gelida, facendola strillare per un momento; appena prese la giusta temperatura – ovvero, più o meno la stessa della lava – si crogiolò sotto il getto piacevole, desiderando di non uscire mai più da lì – era dura la battaglia tra letto e doccia, cosa avrebbe scelto?
Era alle prese con lo shampoo quando le parve di sentire la porta del bagno aprirsi. Stette un attimo in silenzio, in ascolto. No, doveva esserselo immaginato.
Scosse la testa tra sé. Era arrivata proprio al limite se iniziava a immaginarsi anche i rumori.
Ma ecco di nuovo qualcosa di strano: il rumore del box doccia che si apriva. Si girò di scatto, spaventata.
Di fronte a lei, una figura maschile irriconoscibile – non aveva gli occhiali, dopo tutto, si stagliava di fronte a lei; certo, non vedeva bene, ma nel complesso tutto fu sufficienete per notare che l'uomo era completamente e totalmente...
È nudo!
April strillò spaventata, appiattendosi contro la parerte opposta del box doccia, cercando di coprirsi in qualche modo con le mani; lo spavento la fece sbattere in modo violento verso il ripiano interno in cui vi erano poggiati bagnoschiuma e saponi vari e ne fece così cadere alcuni. Uno di essi doveva aver c'entrato il piede del tizio, dato che anch'egli urlò all'improvviso – un urlo di dolore oltre che di sorpresa.
«Esci fuori di qui! Schifoso pervertito!»
April iniziò a urlare improperi vari mentre l'acqua continuava a scorrere; si era lasciata scivolare per terra nel tentativo di coprirsi.
Vide l'uomo uscire dalla doccia di corsa, poi dei passi, delle parole borbottate a mezze labbra e la porta del bagno che si chiudeva con uno schiocco secco.
Cosa diamine è appena successo?, pensò April, scioccata.
Chi diavolo era quel tipo? Non l'aveva visto bene, anche se per un attimo le era sembrato di riconoscerlo.
Un momento. Sono a casa di May, quindi...
April si diede giusto il tempo si sciacquarsi le ultime tracce di shampoo, per poi uscire veloce dalla doccia e avvolgersi nell'accappatoio giallo limone, e inforcò gli occhiali.
Il calore che ancora emanava il suo corpo glieli fece appannare un po', ma bastò la differenza di temperatura con il corridoio a far sparire ogni traccia di vapore dalle lenti graduate.
April si affacciò nel corridoio, girandosi da una parte all'altra: non vedeva nessuno, e nell'appartamento regnava il silenzio. O meglio, regnò il silenzio per un minuto dato che poi si sentì un tonfo sordo e un'imprecazione provenire dal soggiorno.
La bionda si diresse con passo incerto in quella direzione – insomma, era quasi sicura fosse lui, ma poteva sempre sbagliarsi – per poi fare capolino all'interno della stanza.
Una figura alta, muscolosa, dalla pelle olivastra si stagliava nel centro della stanza; i riccioli scuri gli coprivano il viso, ma erano assolutamente inconfondibili.
April arrossì mentro lo osservava armeggiare con i pantaloni con una mano e con l'altra cercare di rimettere in equilibrio un soprammobile che era caduto; era pur sempre mezzo nudo, e comprese bene la gelosia che May provava nei suoi confronti.
«Adam»
L'uomo sobbalzò all'improvviso e alzò la testa.
La guardò confuso, poi si rese rapidamente conto della situazione in cui si trovavano – April in accapatoio, lui solo con i pantaloni – e si affrettò a chiudere la cinghia della cintura e a indossare la maglietta che giaceva appallottolata sul divano.
«April» disse infine, il tono lievemente in imbarazzo «Non sapevo che fossi qui» disse il giovane.
Si passò una mano tra i riccioli, spostandoli, rivelando un paio di brillanti occhi verdi e l'ombra di una barba che riprendeva a crescere.
April si morse un labbro, anche lei in imbarazzo; per quanto conoscesse bene Adam rimaneva pur sempre il fidanzato della sua migliore amica: non c'era mai stata un'intimità tale e nemmeno altre circostanze che facessero sì di mostrarsi mezzo nudi a vicenda. O nudi, considerando i momenti di poco prima.
April si costrinse ad assumere un tono tranquillo.
«Sì, beh, sono rimasta a dormire qui. Ho avuto problemi a casa» spiegò, cercando di portare la conversazione su un terreno privo di imbarazzo. Nel frattempo, si strinse di più nell'accappatoio, ringraziando il cielo che fosse adeguatamente voluminoso e coprente.
Adam accolse quel suo tentativo di eliminare l'imbarazzo e annuì.
«Spero nulla di troppo grave» fece, corrugando la fronte dubbioso.
La bionda scrollò le spalle.
«Ci sono state delle perdite e si è allagato l'intero appartamento. May è così gentile da ospitarmi per un po'» spiegò.
Come se fosse stata appena invocata, si sentì la porta aprirsi e poi chiudersi con un tonfo.
«April! Spero per te che ti sia data una mossa e sia già vestita»
La voce raggiunse i due prima della stessa May, ma pochi istanti dopo la ragazza entrò nel soggiorno, strabuzzando poi gli occhi nell'accorgersi della situazione.
«Adam. Che ci fai qui?» disse dopo poco, confusa.
Se Adam fece un sorriso imbarazzato, April venne invece attratta dal sacchetto nelle mani di May da cui proveniva un dolce e buonissimo profumo.
«Volevo farti una sorpresa» rispose imbarazzato l'uomo.
A quelle parole, April spostò di nuovo l'attenzione verso i due.
«Posso confermare che la sorpresa è riuscita, peccato che fosse con la persona sbagliata» puntualizzò, l'imbarazzo riguardo a quella storia ormai scomparso; il fatto che fosse arrivata May la rendeva più tranquilla.
La castana sembrò intuire qualcosa perché scoppiò a ridere.
«Se da un lato non voglio sapere cosa sia successo, dall'altro già mi immagino la scena» disse tra le risate.
Adam arrossì in maniera adorabile mentre April faceva un mezzo sorriso.
«Beh, Adam, lascio a te l'onore e l'onere di raccontare ciò che è successo – è colpa tua, in fondo – mentre io vado a vestirmi. Che nessuno osi toccare la mia colazione» disse le ultime parole con un tono minaccioso tale che nessuno avrebbe mai tentato di andare contro il suo volere, e d'altronde May sapeva bene com'era April con i dolci: se qualcuno le toccava qualcosa che spettava a lei, poteva anche dire addio a questo mondo.
Con in testa la colazione che la aspettava, April corse prima in bagno a recuperare i vestiti abbandonati, poi in camera a vestirsi.
Mentre faceva scorrere lo sguardo lungo i suoi molteplici vestiti, non ancora pronta ad affrontare la dura decisione che spetta a tutte le donne di prima mattina – il famoso e oggi che mi metto – udì la squillante voce di May scoppiare in una risata.
Adam doveva averle raccontato la scena e May di sicuro si era immaginata tutta la situazione, comprese le espressioni dei due – che, April dovette ammettere, di sicuro erano esilaranti.
Mentre ripensava allo spavento che si era presa in bagno afferrò uno dei suoi vestiti preferiti: con il colletto da scolara, privo di maniche e con un cinturino alla vita bianco, era completamente rosso ciliegia, una tonalità che adorava.
Se la giornata sarebbe stata una schifezza come quella di ieri, avrebbe avuto bisogno di tutta la felicità possibile, e quel vestito era una delle fonti.
Optò per dei sandali alti bianchi – la ferita del giorno prima ormai dimenticata – e una giacchina del medesimo colore. Lasciò che i capelli si asciugassero all'aria mentre si dirigeva in soggiorno, dove ritrovò Adam e May che in quel momento si stavano abbracciando.
Si bloccò, indecisa se entrare o meno – non voleva interrompere! – ma venne subito notata dall'amica, che si staccò dal fidanzato.
«Il vestito portafortuna? Sei proprio superstiziosa, April!» la accolse May, con un sorriso arrendevole. April alzò gli occhi al cielo, decisa però ad ignorarla.
«Dov'è la mia colazione?» chiese invece, iniziando poi a seguire la scia del profumo alla pari di un cane da tartufo.
«L'ho appoggiata sul bancone della cucina» le rispose May.
April andrò dritta in quella direzione; aprì il sacchetto con la stessa felicità di un bambino con il proprio regalo di compleanno, e solo nel vedere quelle bellissime ciambelle ricoperte di glassa al cioccolato – la farcitura di ciliegia al proprio interno – e il milkshake affianco, spumoso e di un nocciola chiaro, le venne da sorridere raggiante.
Si appoggiò al bancone della cucina e diede un morso; non voleva tornare in soggiorno, voleva lasciare ai due un po' di intimità. Furono però i due a richiamarla dall'altra stanza, costringendola a tornare.
«April, stai cercando di lasciarci da soli? Ti pare che ti abbiamo mai fatta sentire il terzo incomodo?» l'apostrofò May, con finta aria offesa.
April fece spallucce.
«No, ma volevo lasciarvi un po' per i fatti vostri» mugugnò in imbarazzo, mentre dava un secondo morso.
Aveva ragione May: non era mai stata la tipa – e nemmeno Adam lo era – che faceva sentire le persone di troppo. Lei, oltretutto, era la sua migliore amica e conosceva Adam da molto tempo, di certo non doveva preoccuparsi di certe cose; solo che l'avvenimento della mattina l'aveva fatta rendere conto di quanto stare lì per vari giorni sarebbe stato, come dire... invadente.
Sapeva però anche che May non l'avrebbe lasciata andare da nessun'altra parte, quindi aveva intenzione di eclissarsi ogni volta che ne avesse avuto l'occasione.
«May mi ha spiegato che è successo. Mi dispiace tanto, April, se c'è qualcosa che posso fare dimmelo pure» le disse Adam.
Dopo aver preso un generoso sorso dal suo milkshake, April fece un sorriso mesto.
«Grazie Adam, ma non credo ci sia qualcosa che tu possa fare. Devo solo aspettare che venga messo tutto a posto, poi potrò ritornare a casa mia» rispose.
L'uomo annuì.
Dopo qualche istante di silenzio, May intervenne.
«Tesoro, ti conviene sbrigarti se non vuoi rischiare di arrivare in ritardo»
April lanciò un'occhiata all'orologio appeso alla parete e sbiancò.
«Merda» sibilò.
Ecco, non poteva neanche finire di fare colazione tranquilla: ingurgitò in fretta e furia il milkshake, si infilò in bocca il resto della ciambella e volò in camera sua.
«Potevi dirmelo prima!» urlò in direzione dell'amica, ma non stette ad ascoltare la risposta: si fiondò sulla pochette dei trucchi, mettendosi giusto un po' di mascara, poi andò in bagno e si lavò rapida i denti, per poi mettersi il rossetto in tinta con il vestito.
«Io vado, ciao!» disse solo, prima di afferrare la borsa e precipitarsi verso la porta.
«April, aspetta!»
Troppo tardi, April non la sentì – o forse era talmente preoccupata dal fare ritardo che non rimase ad ascoltare ciò che May aveva da dirle – e chiuse la porta dietro di sé con un tonfo. Corredo poi giù per le scale – attendere l'ascensore avrebbe richiesto troppo tempo, e poi erano solo quattro piani!
Una volta per strada, quasi si lanciò lungo le corsie delle auto.
«Taxi!»
Sperava solo di non arrivare troppo in ritardo.
 

Colui che invece quel giorno era perfettamente in orario – cosa molto strana per i suoi standard – era Aaron, che in anticipo di addirittura dieci minuti era dentro l'ascensore in movimento.
Sbuffò mentre si passava una mano tra i capelli rossi.
La notte precedente aveva a malapena chiuso occhio: aveva passato l'intera notte a girarsi e rigirarsi nel letto, alla ricerca di un sonno che però non arrivava, vinto dalle preoccupazioni che frullavano nella testa dell'uomo.
Aveva passato la notte a cercare scappatoie che non c'erano, per poi arrivare alle cinque del mattino con la bruciante consapevolezza che non poteva fare nulla che accettare il proprio destino e stringere i denti mentre lavorava con una delle bestie di Satana.
Era andato a correre nella New York albeggiante, che si divideva tra coloro che uscivano assonati per andare a lavoro e quelli che invece erano reduci dalla baldoria della sera prima e si apprestavano a tornare a casa. L'aria fresca del mattino di quell'inizio di primavera gli aveva dato una svegliata, aiutata dalla doccia che lo aspettava al ritorno.
Lui, a differenza di qualcun altro, non aveva avuto brutte sorprese nel box.
Il tipico e familiare suono dell'ascensore lo avvisò che era arrivato al suo piano, e le porte si aprirono silenziose permettendogli di uscire.
Come ogni mattina, Daphne era dietro la propria scrivania a fare qualcosa che Aaron non aveva mai capito – ma quella ragazza lavorava o era lì solo per riscaldare la sedia?
«Buongiorno Aaron»
Ogni mattina la giovane lo salutava, e ogni mattina come risposta sapeva di ricevere a malapena un “'giorno” abbozzato. Quel mattino però comprese che Aaron fosse di pessimo umore, perché non la guardò di striscio e tirò avanti verso il proprio ufficio.
Sospirò, prima di aprire la porta.
Cosa ho fatto di male?, pensava mugugnante.
E c'è proprio da chiedersi che cosa avesse fatto di male, dato che ad attenderlo oltre la porta, seduta sulla sua poltrona e dando un'occhiata ai suoi sketch, stava una ragazza molto giovane.
Aaron si immobilizzò, diventando una statua di ghiaccio.
La ragazza, disturbata dal rumore della porta che si apriva, alzò lo sguardo finendo per incrociare quello del rosso, gelido come ogni volta la paura lo rendeva.
In quei secondi di totale e assurdo silenzio, Aaron poté osservare la ragazza: non doveva avere più di vent'anni, i capelli fino alle spalle biondo ghiaccio fissati da una forcina nera; occhi scuri, truccati e con folte ciglia nere, rossetto scuro e, da quello che riuscì a vedere, una camicia fissata in vita con una cintura.
«Ciao»
Ciao?, pensò scandalizzato Aaron.
Quella ragazza era nel suo ufficio e gli diceva “ciao” come se nulla fosse. Sentì la paura crescere dentro di lui e i suoi occhi diventarono una maschera di freddezza assoluta.
Si costrinse a parlare, ma non fece in tempo.
«Tu devi essere Aaron Marlowe»
Il giovane la guardò.
«...e tu sei?» domandò duro.
La ragazza gli sorrise, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi a lui.
«Zoe Patterson, piacere di conoscerti» fece, allungando una mano.
Aaron però fece un passo indietro, non stringendogliela. A quel gesto, la ragazza scoppiò a ridere.
«Allora Nevil non stava scherzando: tu hai davvero paura delle donne»
E vaffanculo al suo capo. Non gliene fregava nulla, l'avrebbe ucciso.
Tacque, incapace di replicare.
«Dimmi, cos'è che ti fa paura di noi? Quanto siamo belle? Oppure non riesci a tenertelo nei pantaloni e hai paura di perdere il controllo?» iniziò a domandare la ragazza – Zoe, facendolo cadere ancora di più nel panico.
Non sapeva cosa rispondere – ecco perché gli facevano così paura – ma a salvarlo fu Tom, che comparve come una fata madrina alle spalle del rosso.
«Quante domande, ragazzina. Che ne dici di prendere un bel respiro? Se continui così lo farai collassare» intervenne l'amico, afferrandolo per la giacca e tirandolo indietro, creando di nuovo una distanza di sicurezza tra Aaron e la bestia di Satana, ricevendo così l'amore imperituro del rosso che riuscì a riprendere a respirare.
Zoe sbuffò.
«Volevo solo sapere se quello che mi ha detto Nevil fosse vero o no. A quanto pare lo è» disse, terminando con un risolino.
Aaron vide Tom fare un sorriso angelico, il tipico sorriso falso che gli spuntava sul volto ogni volta che qualcuno gli faceva saltare i nervi.
«Beh, ora che hai appurato la veridicità di tale fantastico avvenimento, che ne dici di uscire dal suo ufficio?» domandò, senza realmente chiedere.
Zoe gli fece un sorriso mellifluo.
«Ci si vede più tardi» disse solo la ragazza, per poi uscire dalla stanza e inoltrarsi nel corridoio.
Tom sospirò.
«Sì, beh, è peggio di quel che mi aspettavo. Speravo fosse una persona più tranquilla, invece dovrai sopportare quel piccolo demone che pare divertirsi a farti spaventare. Mi dispiace, Aaron»
Ma Aaron era ancora troppo occupato a cercare di recuperare le proprie facoltà mentali e locutorie per rispondere all'amico; inoltre, doveva cercare di uccidere il suo capo e farla franca, considerando come l'uomo avesse appena spiattellato il suo problema a un demone biondo e con tanta voglia di divertirsi alle spalle degli altri.
«Comunque non preoccuparti, non credo che possa attentare in qualche modo alla tua virtù – che in teoria non c'è già da un po' di tempo, ma immagino che dopo questi anni si sia rigenerata – è lesbica da quello che ho capito» fece Tom tranquillo, spingendo l'amico dentro l'ufficio.
A quelle parole, Aaron sembrò risvegliarsi. Lo guardò con occhi disperati.
«Non mi importa se è lesbica o meno. È una donna» sibilò con un vago tono isterico.
«Ma davvero? Non me n'ero accorto» rispose sarcastico l'altro.
L'amore che aveva provato un minuto prima per Tom scomparve.
«Chi diavolo è quel demone?» chiese, guardandolo fisso, gli occhi colmi di consapevolezza.
Tom lo guardò con pietà.
«Credo che tu già sappia chi è» rispose, implacabile a differenza del suo sguardo.
Aaron iniziò a scuotere la testa come in trance, appoggiandosi alla propria scrivania in cerca di sostegno.
No, questo è un incubo.
«Non è vero» piagnucolò.
«Oh sì. È la ragazza con cui dovrai collaborare»
E mentre le campane suonavano a morto, sancendo inevitabilmente la sua dipartita, Aaron si ritrovò per un attimo a rimpiangere quella biondina esagerata che si era accanita contro di lui nell'agenzia matrimoniale.
Almeno lei non mi spaventava consapevolmente.

 
  
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