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Autore: Adeia Di Elferas    18/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si girò tra le lenzuola in uno stato di torpore e apparente calma. La sua mente vagò per qualche istante in una nuvola di confusione quasi piacevole, fino a che i suoi occhi non si aprirono, lasciando trasparire la luce del giorno.

Doveva essere mattina da poco. Le sembrava di aver dormito per settimane. Aveva in sé un senso di stordimento che la ingannò per un po'.

Quando poi, però, allungò una mano al suo fianco e non vi trovò nessuno, come un pugnale che si rigirava nelle sue carni, ritornò la consapevolezza.

E con la certezza che Giacomo fosse morto, arrivarono le immagini di quello che era accaduto subito dopo. Dei corpi martoriati dalle sue guardie. Della folla che si rincorreva in preda al panico per tutta la città. Del funerale. Della morte di Ludovico Marcobelli.

Mettendosi a sedere di scatto con le mani ad artiglio sullo stomaco, Caterina si sentì mancare il fiato nei polmoni.

La sua pozione l'aveva fatta dormire un lungo sonno privo di sogni e coscienza, ma ora che si era risvegliata, l'incubo era ricominciato.

Era riuscita a stendersi su quel letto solo grazie all'incoscienza data dal suo rimedio 'a far dormire', altrimenti non sarebbe stata in grado di abbandonarsi con tanta semplicità sul giaciglio che aveva accolto così tante volte lei e Giacomo.

Era in quella stanza che si erano amati per la prima volta e il solo ricordo di quella prima notte assieme approfondò il senso di vuoto nel centro del petto della Contessa, scavando tanto a fondo da farle provare una disperazione ancor più forte di quanto non avesse avvertito fino a quella mattina.

Cercò di quietare il respiro, di calmare i dolori al ventre e al torace e pian piano, mentre i ricordi tornavano confinati in un angolo della sua memoria, il presente ritornava a far capolino.

Dei colpi alla porta la riportarono in modo definitivo alla realtà: “Chi è?” chiese, avvertendo la propria voce quasi come qualcosa di estraneo.

“Sono io.” rispose Tommaso dal corridoio.

“Entrate.” permise la Contessa, senza badare a vestirsi.

Indossava una sottoveste che aveva trovato nella cassapanca la sera prima, una di quelle che non metteva da anni, ma non le importava se a vederla in abiti tanto discinti era il cognato. Tommaso l'aveva vista anche più nuda di così – come gran parte dei forlivesi, dopotutto – quando, stando sulle merlature di Ravaldino, si era sollevata la veste davanti agli Orsi, anni prima.

Il Governatore, infatti, non fece una piega nel trovarla ancora seduta sul letto e in abiti da notte.

“Ditemi tutto.” lo incoraggiò Caterina passandosi una mano sugli occhi, mentre la sua pancia si contraeva in un crampo.

“Pavagliotta ha fatto molti nomi, questa notte – spiegò il Governatore di Imola, mentre la Contessa si era messa a raspare nella cassapanca in cerca di un abito per la giornata – e la maggior parte delle persone che ha nominato erano già in cella. Gli altri li stiamo catturanto e certi li stiamo ancora cercando, ma tra quelli che abbiamo preso ce n'è uno che non riusciamo in alcun modo a collegare alla congiura.”

Caterina sollevò un sopracciglio e guardò il cognato incredula: “Se Pavagliotta lo ha nominato, non vedo come possa essere innocente. Che senso avrebbe?”

“Volete interrogarlo voi stessa?” propose Tommaso.

La Contessa vide le proprie dita tremare, così le appoggiò con forza al legno della cassapanca e si disse che prima di dare ordine di arrestare i suoi figli le sarebbe stata utile una valvola di sfogo. E del cibo.

“Va bene. Ma prima fatemi portare del pane e qualcosa per accompagnarlo.” concesse.

Tommaso si ritirò con un mezzo inchino e la Contessa fu libera di levarsi la veste da notte e prepararsi per la giornata che si preannunciava lunghissima.

Voleva incontrare quel misterioso prigioniero, prima di dedicarsi a suo figlio Ottaviano.

Quando avesse incontrato il suo primogenito, voleva essere lucida e con la mente sgombra da altri pensieri, quindi prima avesse risolto quel problema, prima avrebbe potuto comandare l'arresto di Ottaviano.

 

“Tipo strano, vi dico. Eccolo. Sta qui.” disse l'aguzzino, indicando la sala delle torture alla Contessa.

Caterina, che percepiva il parco pasto appena fatto rivoltarsi nelle sue viscere, si sentì vacillare per un istante, nel ripercorrere quel corridoio sotterraneo.

Il giorno prima aveva tolto la vita a un ragazzo non molto più vecchio di quanto non fosse Giacomo quando si erano conosciuti proprio in quella sala delle torture. Non era una cosa da poco.

Chiunque, al suo posto, avrebbe avuto un attimo di esitazione.

Con un respiro profondo, la donna giunse alla porta e l'aprì. Sorretto da due guardie, c'era un uomo coi capelli grigi e lunghi.

Quando questi sollevò lo sguardo, a Caterina ci volle un bel po', prima di riconoscervi frate Ilario, un religioso di bassissima estrazione che era stato per qualche anno uno dei precettori dei suoi figli.

Il prigioniero tossì, e dalle sue labbra uscì un rivolo di sangue. Non si reggeva in piedi in modo autonomo e sembrava avere almeno una gamba rotta.

“Lasciateci soli.” ordinò la Contessa, senza trovare di meglio da dire.

Le guardie lasciarono cadere il frate in terra senza tanti riguardi ed eseguirono, ormai avvezzi a quel genere di comandi.

Sicura che non vi fosse più nessuno in ascolto, Caterina si avvicinò al frate, che tentava di mantenere un certo decoro, seppure accasciato in terra con abiti stracciati e luridi: “Io so chi siete, frate Ilario.” cominciò la donna: “Che cosa ci fate qui? Siete anche voi coinvolto nella morte di mio marito?”

Il religioso fece un paio di faticosi sospiri, mentre si arrischiava ad avvicinarsi al muro, per puntellare almeno la schiena: “Non lo so che ci faccio qui, mia signora – disse – dicono che quel tal Pavagliotta abbia fatto il mio nome.”

“Se ha fatto il vostro nome, un motivo deve esserci.” si incaponì la Contessa, mentre gli occhi pesanti del frate correvano su di lei come se stesse cercando di leggerle nel profondo.

“Molti mi invidiano, sapete?” fece l'uomo, come a rispondere alle tacite perplessità della sua signora: “E lo fanno perché, malgrado tutto, sono davvero un uomo di fede. A molti di quelli che portano una tonaca talare, questo dà fastidio.”

Quelle frasi fecero tornare alla mente di Caterina gli anni passati a Roma come testimone degli stravizi dei più alti prelati della cristianità. Nelle parole di frate Ilario c'era indubbiamente della verità.

“Voi siete sempre stata buona con me. Mi avete preso come precettore per i vostri figli quando nessuno mi voleva. Solo voi sembravate ben disposta a prendere come precettore un frate istruito, ma non di nobile famiglia.” riprese il frate, dopo un altro colpo di tosse: “Non posso credere a tutta questa violenza. Non voglio credere che arrivi da voi. Eppure l'ho vista coi miei occhi e l'ho sentita sul mio corpo. Perché?”

Caterina non rispose subito. Soffermò le sue iridi ramate sulla pelle tesa e sudata del frate e poi sulle ferite ancora aperte che aveva sulla schiena e sulla gamba e, per la prima volta da quando aveva iniziato la sua cieca vendetta, provò pietà.

“Perché indugiate in tanta violenza?” riprese il frate, roco, ma calmo, come se stesse discutendo con uno dei suoi allievi su un qualsiasi argomento di filosofia o matematica.

“Ho trentadue anni – cominciò a rispondere Caterina, guardando il suolo sudicio di sangue e altri reliquati delle passate torture – e lui ne aveva solo ventiquattro.”

Frate Ilario si mosse appena, trattenendo visibilmente l'ennesimo eccesso di tosse sanguinolenta solo per non interrompere la Contessa che, ricacciando indietro lacrime di rabbia, riprese: “Mi ero illusa di poterlo avere al mio fianco ancora per altri quindici, vent'anni con un po' di fortuna. Non ero pronta...”

“La violenza non ve lo farà riavere tra le braccia, mia signora.” commentò amaramente il frate.

Caterina restò pietrificata di fronte alla franchezza con cui il prigioniero le stava parlando. Era una cosa ovvia, quella che le era appena stata detta, eppure sentire la voce anziana, ma ancora decisa del frate dichiararla era stata un'epifania.

“Quante volte dovrò perdonare mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” fece il frate, in una citazione del Vangelo che la Tigre colse all'istante, benché non fosse una grande lettrice delle Scritture: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.”

“Nemmeno il perdono mi ridarà mio marito.” controbatté secca la donna.

Frate Ilario tossicchiò, stringendo un po' le labbra secche e tagliate: “E allora che contate di fare?”

“Io non so cosa fare.” ammise con semplicità la Contessa, invidiando la tranquillità che sembrava pervadere il prigioniero, che pure era addossato a un muro scalcinato, ferito e sanguinante e forse prossimo alla morte.

“Cercate di capire, prima di tutto. Quando si capisce davvero un peccato, si impara a perdonare chi l'ha commesso.” suggerì il religioso: “Mi hanno detto che è stato il Conte Ottaviano...”

Caterina lo fermò subito: “Non c'è bisogno che voi difendiate mio figlio. So che era un vostro allievo e che voi lo avete sempre ritenuto meritevole, ma qui non stiamo parlando di tradurre il latino o far di conto!”

Frate Ilario sollevò una mano scheletrica per placare la furia della Tigre e disse schietto: “Io non lo difendo. Mi sto solo chiedendo se voi sappiate come mai lui sia arrivato a odiarvi così tanto.”

La Contessa trattenne il fiato. Sapeva benissimo che Ottaviano aveva agito solo per ferirla, ma non voleva ammetterlo, neppure con quel frate.

“Era mio marito che odiava.” si schermì, la voce che tradiva tutte le sue debolezze: “Altrimenti avrebbe ucciso me.”

“Ne siete certa?” insistette il frate, asciugandosi con mano tremante l'angolo della bocca che si era di nuovo velato di rosso: “Esistono punizioni ben peggiori della morte, non credete? Perdere una persona amata, per esempio. O convivere con il senso di colpa. ”

La donna fece un profondo respiro. L'aria stantia della segreta le riempì le narici e lo stomaco le si rivoltò. Riuscì a non vomitare, ma non fu altrettanto brava a rispedire indietro le vivide immagini di Ludovico Marcobelli che moriva davanti a lei, per mano sua.

“Davvero siete innocente?” chiese Caterina.

“Lo sono, mia signora.” rispose il frate, pacato.

“Come fate a restare tanto impassibile?” chiese la donna, mostrando per la prima volta dall'inizio dell'incontro la sua irritazione per la calma serafica del frate: “Lo sapete che potrei decidere di uccidervi ora, anche senza un valido motivo. La legge me lo permette.”

“Ve l'ho detto – ribatté l'uomo, abbozzando un sorriso un po' dolorante – sono un povero uomo di fede. L'unica punizione, per me, sarebbe perdere la fede e per farmela perdere non bastano certo dei colpi di frusta o una spada puntata alla gola. Che io muoia qui, ora, o là fuori, tra cinquant'anni, non fa differenza per me. Comunque e ovunque accadrà, Dio sarà con me.”

La Contessa annuì una sola volta, corrosa dall'invidia per tanta sicurezza, e lasciò la stanza senza aggiungere altro.

Quando si imbatté nei carcerieri, disse loro: “Liberate frate Ilario. Lui non ha nulla a che fare con questa storia. Che tutti quelli arrestati per via della confessione di Pavagliotta vengano interrogati in modo preciso e senza eccedere con le torture. Che il Governatore di Imola vi aiuti a vagliare ogni arresto con attenzione. Chi risulterà inattaccabile, venga liberato.”

Le due guardie fecero tanto d'occhi, ma, come sempre, non poterono fare altro che stare agli ordini.

Una volta tornata allo studiolo del castellano, eletto come in ogni momento di crisi a suo effettivo quartier generale, la Contessa fece chiamare Mongardini.

L'uomo arrivò subito, ben sapendo quello che la sua signora volesse ordinargli.

“Andate a prenderli e portatemeli qua – disse infatti la Tigre – ma senza essere brutale, a meno che non sia strettamente necessario.”

 

Ottaviano era paralizzato dalla paura, mentre suo fratello Cesare sembrava addirittura sollevato nel sentirsi chiamare dalla voce del Capitano Mongardini.

“Dobbiamo andare.” disse il più giovane, cercando di smuovere il fratello maggiore, che restava ancora al suo angolino, allargandosi a più riprese le lattughine della camicia, come se faticasse a trovare aria da respirare.

Paolo Denti osservava i due Riario con apprensione. Non desiderava altro che vederli sparire da casa sua, anche se temeva, ora che erano arrivate le guardie per arrestarli, che prima o poi avrebbe pagato cara la sua ospitalità.

“Sono autorizzato a usare la forza, se non mi seguirete subito!” intimò Mongardini, stando sulla porta.

Cesare spinse il fratello, poggiandogli una mano sulla schiena, e Ottaviano si trovò a obbedirgli, come privo di volontà.

Una volta fuori dalla casa di Denti, i due figli della Contessa si trovarono immersi in uno strano bagno di folla.

I forlivesi che erano accorsi per vedere la cattura del Conte e del fratello minore, infatti, stavano assistendo chiusi in un silenzio assordante.

Quello che si erano aspettati era vedere i due giovani vessati dai soldati e trascinati fuori dal loro nascondiglio come criminali. Quando, invece, li scorsero mentre uscivano dalla porta con le spalle dritte e un portamento abbastanza decoroso, in molti si chiesero cosa fosse meglio fare.

Dopo qualche metro, le persone che si erano messe al seguito dei due Riario iniziarono a valutare i fatti e qualcuno, timidamente, cominciò a spalleggiare apertamente il Conte.

Quando arrivarono a Ravaldino, Ottaviano e Cesare erano circondati da persone che si dichiaravano pronti a difenderli e a portar loro soccorso in caso di bisogno.

Caterina aspettava sulle merlature della rocca e non le sfuggì l'atteggiamento del popolo. Se aveva chiesto a Mongardini di usare i guanti di velluto, era stato anche per quello.

Le parole di frate Ilario – che era appena uscito dalla rocca sorretto da due grucce, fasciato alla bell'e meglio, dolorante, ma vivo – l'avevano fatta ragionare molto.

Sapeva che ormai, assorbito il primo colpo, Forlì avrebbe anche potuto pensare di schierarsi dalla parte di suo figlio, così come a Cesena il popolo alla fine aveva scelto il Guido Guerra a discapito della madre.

La rocca pareva inespugnabile, con il ponte sollevato e le sentinelle pronte sui camminamenti con gli archi puntati, come in procinto di colpire indiscriminatamente tutti i presenti.

Ottaviano guardò in alto e vide sua madre che lo aspettava. Aveva i capelli biondi sciolti, smossi appena dal vento di fine estate. La sua figura, ritta e implacabile, era la stessa che il ragazzo ricordava di aver visto il giorno in cui, davanti agli Orsi e a mezza città, la Tigre aveva fatto presente a tutti che la morte dei suoi figli non sarebbe stato un grande dramma per lei. In fondo, per suo stesso dire, aveva tutto il necessario per farne degli altri.

“Guardateli bene!” gridò qualcuno tra la folla: “Perché poi li riporteremo indietro!”

“Sì! Non li avrete!” urlò un altro: “Non potrete far loro del male!”

E seguirono altrettanti commenti della stessa risma. La Contessa sbuffò, incredula una volta di più dinnanzi alla volubilità della gente. Però, in quel momento, la volubilità del volgo le interessava solo fino a un certo punto.

Quello che anelava più di ogni altra cosa, per quanto l'idea l'atterrisse, era trovarsi finalmente faccia a faccia coi suoi figli.

Aveva atteso anche troppo e ormai non riusciva più a resistere. Comunque fossero andate le cose, voleva spiegazioni e... E qualunque altra cosa ne fosse derivata.

Caterina aveva predisposto tutto alla perfezione, prevedendo anche quello scenario. Così le bastò un cenno a Cesare Feo, che diede ordine agli arganisti di calare il ponte.

Mentre i forlivesi guardavano stupiti quel segno di apertura, dalla rocca si riversò all'esterno un nutrito manipolo di soldati in armatura che corse fino al Conte e a suo fratello.

Come ci si poteva attendere, alla vista delle spade e delle corazze, la folla si ritirò prontamente, dimenticando in un lampo tutte le promesse di solidarietà fatte a Ottaviano e Cesare.

Solo qualcuno, i più giovani e irruenti, provò a ribellarsi, ma qualche colpo di picca e qualche urlo minaccioso furono sufficienti per spegnere sul nascere i bollenti spiriti.

Perfino quelli che si erano dichiarati più fidati servi del Conte si allontanarono dai due ragazzi e, chiedendo loro perdono con lo sguardo, si mescolarono con il resto della folla, troppo terrorizzati all'idea di poter essere arrestati assieme ai loro protetti.

Senza che nessuno osasse più alzare un solo dito, le guardie attorniarono i due figli della Tigre.

Cesare li seguì senza opporre alcuna resistenza, mentre Ottaviano cedette finalmente al suo spirito di autoconservazione e tentò la fuga.

A quella vista, Caterina strinse con forza i pugni lungo i fianchi, rivedendo come non mai lo spettro di Girolamo rivivere in suo figlio.

Anche in quel frangente, Cesare si era dimostrato più valido del fratello, che invece non aveva perso occasione per ricordarle come il sangue dei Riario pulsasse con forza nelle sue vene, tanto invadente da aver cancellato ogni minima traccia dell'eredità degli Sforza e dei Visconti.

Ottaviano venne prontamente riacciuffato e percorse il ponte levatoio tenuto a viva forza da ben quattro soldati, affinché non cercasse più di scappare.

Appena il Conte e suo fratello passarono il portone di Ravaldino assieme agli armati che li avevano presi in custodia, la folla ricominciò ad alzare motti e grida in difesa del loro signore.

La Contessa trovò ridicolo quell'atteggiamento e così, prima di ritirarsi per dare udienza ai figli, disse al castellano: “Fateli tacere. Quattro colpi di cannone in aria. Che se ne tornino nelle loro case con la coda tra le gambe.”

Cesare Feo fece subito eseguire l'ordine e già alla prima detonazione la maggior parte dei curiosi si era allontanata a grandi falcate dalla rocca, dimenticando per la seconda volta nell'arco di dieci minuti le proprie imperiture professioni di fedeltà al Conte Riario.

 

“Maledetta donna!” guaì un anziano appena entrato nella bottega di Bernardi, aperta in quelle ore più come conciliabolo che non come barberia.

“Una cagna che azzanna a destra e a manca perchè le hanno tolto l'osso!” rincarò un secondo, facendosi largo nel negozio e sedendosi con pesantezza su una delle sedie lungo la parete.

“Poveracci noi che l'abbiamo come nostra signora!” sbottò un terzo, mentre la barberia si riempiva, a scapito del povero Novacula, che non aveva alcun interesse a trovarsi tante malelingue tutte concentrate assieme nelle propria bottega.

“Io l'ho sempre detto che il posto di una donna non è su un trono!” si aggiunse un altro, battendo le mani con fare drammatico.

“Era meglio che facevano la pelle a lei, invece che a quel buono a nulla del suo mantenuto!” fece uno dei primi che aveva parlato, scuotendo il capo con mestizia.

“Una donna come lei va bene solo se te la trovi tra le lenzuola, non a capo dello Stato!” sbottò uno dei clienti, seguito subito da un coro di approvazione e risate grasse.

Bernardi non sopportò più quelle chiacchiere, che arrivavano in un momento tanto teso. Non voleva avere nulla a che spartire con gente che, malgrado l'evidente determinazione della Contessa a vendicarsi di tutti i suoi oppositori, a maggior ragione dato che i quattro colpi di cannone partiti dalla rocca ancora gli risuonavano nella testa come monito.

“Fuori di qui!” abbaiò, abbandonando la sua classica apparente equidistanza: “Andate da Cobelli, se volete fare tante chiacchiere!”

“Porco mondo, Novacula!” ribatté uno degli avventori, mentre il barbiere sbatteva tutti fuori agitando minaccioso il rasoio: “Se non ci volevi, dovevi tenere la porta serrata!”

“O correre dalla tua amata Tigre, tanto a te non ti fa a pezzi! Ha sempre avuto un debole per te, anche se sei vecchio e brutto!” rise un altro, raggiungendo la strada.

Bernardi sprangò subito la bottega e si rintanò nel retro del negozio. Estrasse i suoi annali e si diede alla rilettura degli anni addietro, rifiutandosi, almeno per quel giorno, di indugiare sui fatti di cronaca più recente.

Tuttavia, al pensiero che forse la Contessa avrebbe posto fine quel giorno alla vita dei suoi due figli maggiori, non riuscì a mettere a tacere del tutto la sua coscienza e un angolino della sua anima restò ingombra di un unico pensiero, anzi, di un'unica preghiera, che suonava più come una citazione maldestra, ma che per Bernardi era una supplica sentita e accorata: “Dio, perdanala, perché non sa quello che fa...”

 
   
 
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