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Autore: Fannie Fiffi    18/03/2017    3 recensioni
[ Riverdale; Bughead; Pre Series/Pre 1x05 ]
Penso di essere impossibile da amare, Juggie. Penso che qualcosa dentro di me si sia rotto e che non sarò mai abbastanza. Non sarò mai completa. C’è semplicemente qualcosa che manca, sai? E non posso riempire il vuoto. È soltanto… lì. E io non posso riempire il vuoto. Ho paura che non potrò mai riuscirci.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti!

Le note al testo sono brevi, questa volta. Ho scritto questa storia alcune settimane fa, in inglese (se preferite leggerla in versione originale, la trovate qui: There Was A Garden) e soltanto ora ho deciso di tradurla in italiano e condividerla anche qui.

Vi prego quindi di tenere a mente che si tratta di una traduzione, seppur di un mio stesso lavoro, e che quindi si è irrimediabilmente andato a perdere qualcosa dalla versione originale.

Vi ringrazio comunque se deciderete di dargli un'occhiata e di farmi sapere cosa ne pensate.

Buona lettura!


 










There Was A Garden




La prima volta che Jughead Jones Il Terzo vede Elizabeth ‘Betty’ Cooper, lei indossa fiori incastrati nei suoi boccoli dorati e dipinti sul suo vestito rosa, ed è un dannato cliché, ma è la bambina più bella che abbia mai visto, seconda soltanto a quel dolcetto di sua sorella, la cara Jellybean Jones.

Sta giocando da sola in un giardino pieno degli stessi fiori che ama avere addosso, mentre altre bambine stanno ridendo e urlando a poca distanza.

Una di loro è in piedi mentre le altre sono sedute in cerchio, e Jughead non riesce a ignorare la brillantezza dei suoi capelli rossi.

Alcuni genitori stanno chiacchierando fra di loro poco lontano, altri restano indifferenti, ma nessuno sembra prestare particolare attenzione ai propri figli.

Forse perché si tratta di una piccola città, forse per altri tipi di mancanze.

In effetti, questa è una delle sue prime volte a Riverdale, ad essere onesti. È la prima volta che sua madre lo porta ad esplorare questo cupo e crepuscolare complesso di case ed edifici, lo stesso in cui anche lei e suo padre sono cresciuti, e gli occhi del bambino sono stanchi dal costante osservare ed esaminare ogni centimetro della città.

Quando sua madre lo spinge ad avvicinarsi agli altri bambini, c’è soltanto una direzione che i suoi piedi gli avrebbero mai potuto indicare.

« Ciao. » Parla in un sottile, timido, ma tuttavia contenuto tono di voce, inginocchiandosi accanto alla bambina bionda.

Lei non si volta immediatamente, ma continua a toccare gentilmente l’erba che le accarezza la pelle dove la sua gonna non la copre, un sorriso distante sulle sue labbra rosa acceso.

Quando lo fa, una scintilla di sorpresa brilla nei suoi dolci occhi blu, ma il suo volto è serio come quello di un adulto.

« Chi sei? » Gli domanda, chiedendosi chi sia questo bambino e perché non l’abbia mai visto a Riverdale.

Lui si imbroncia leggermente, strusciando le mani avanti e indietro sui propri jeans. « Jughead. » Dice.

« Io sono Elizabeth. Puoi chiamarmi Betty. Posso chiamarti Juggie? Penso di volerti chiamare Juggie. » La sua iniziale insicurezza è immediatamente sostituita da un certo tipo di affetto. Lo sta guardando come se forse lui possa darle qualcosa di nuovo e avventuroso.

Il che lo spaventa e lo emoziona alla stessa misura, e questo è un sentimento che porterà profondamente e attentamente nel suo cuore per molti anni.

« Mi chiamano tutti Jughead. » È l’unica cosa che dice.

« Io non sono tutti, Juggie. » Gli risponde la bambina, avvicinandosi a lui e prendendogli la mano.

Jughead si immobilizza immediatamente, gli occhi color ghiaccio spalancati per paura e qualcos’altro, ma Betty si limita a sorridergli.

Poi, trascina con gentilezza la sua mano sull’erba contro cui sono seduti.

Lui ha sei anni e mezzo e questa è la prima volta che permette a una bambina che non sia sua sorella di toccarlo, e non ha la più pallida idea di come questo dovrebbe farlo sentire.

Non è del tutto brutto, però. Non sembra mai sbagliato, perlomeno, nemmeno per un singolo istante.

« Mi piace tanto la natura. E gli animali. E i fiocchi. Oh, e mi piace il tuo buffo cappello. » Confessa lei, ammirando ancora le loro mani unite che accarezzano l’erba.

« Mi piace tanto il cibo. » è la sua immediate risposta. « I panini, soprattutto. »

« Non so come si fanno i panini, Juggie. » Gli dice Betty con un’espressione dispiaciuta e colpevole sul viso, alzando lo sguardo verso di lui e mordendosi la bocca.

« Ma so cucinare i biscotti. Vuoi che ti cucini i biscotti? »

« Perché lo dovresti fare? » Domanda, dubbio ed esitazione visibilmente chiari nella sua voce e sul suo volto.

« Perché sei mio amico, Juggie stupidino. »

Jughead non ha il tempo di rispondere – non saprebbe cosa rispondere esattamente, in effetti – quando qualcuno grida il nome di Betty in lontananza e, prima che lui possa voltarsi, un bambino si getta su di lei e stringe entrambe le braccia attorno al suo collo, abbracciandola.

Il giovane Jones non sa cosa fare se non fissare le loro guance appiccicate e i loro sorrisi pieni, aspettando che entrambi riconoscano la sua presenza e dicano qualcosa.

« Archie! » Esclama Betty, una delle sue mani sul braccio dell’altro bambino e l’altra che prende di nuovo la mano di Juggie.

« Mi sei mancata tantissimo, Betty. » Dice il bambino con i capelli rossi, i cui due denti superiori mancano palesemente dal suo sorriso.

« Ma ci siamo visti stamattina, piccola zucca! » Ride lei, indirizzando poi un affettuoso sguardo nella direzione di Jughead. Quando Archie finalmente lo nota, si stacca immediatamente da Betty per guardarlo meglio.

« Lui chi è? » Domanda, spostando lo sguardo tra lui e la sua migliore amica con curiosità e fare inquisitorio. Al che, la bambina bionda si alza per spostarsi e sedersi, questa volta, vicino a Juggie.

« Lui è Jughead. E io sono l’unica che può chiamarlo Juggie. È il mio nuovo amico. Gli cucinerò i biscotti. »

Ed ecco, praticamente, come ha inizio la storia di Jughead Jones ed Elizabeth Cooper.









Molto presto – e anche molto chiaramente – Jughead realizza che Archie inizia a dire quanto siano carine le ragazze attorno a loro, e Betty continua a ripetere quanto sia carino Archie, ma lui non lo fa.

Lui non trova nessuno carino. Né bello. Né attraente, e nemmeno piacevole.

Certo, Archie Andrews è ancora il suo migliore amico, e questo è qualcosa che dubita cambierà mai.

Pensa ancora che Betty Cooper sia la ragazza più bella che abbia mai visto, ma è diverso. Lei  è diversa.

Lei è l’unica eccezione a questa strana e inspiegabile distanza che sta crescendo dentro di lui e che lo sta tenendo a distanza da tutti gli altri.

Lei è come quest’arto, questa parte di sé che lui sa di non poter mai scrollarsi di dosso, non importa quanto duramente provi a opporre resistenza, non importa quanto veloce tenti di scappare dal qualcosa che sente quando lei gli sorride con quel suo sorriso dolce e amorevole.

C’è questo calore, questa spinta, questo strano bisogno che si insinua dentro di lui, e si accende da una minuscola scintilla e si diffonde, prende e prende e continua semplicemente a farlo finché non rimane più niente da prendere, soltanto da dare.

Ma lui non può, e probabilmente non potrà mai.

Perché è chiaro, ora, chiaro come ogni alba che il cielo di Riverdale proietta 
ogni nuovo giorno sulle loro teste, che lei è innamorata del loro migliore amico. Sarà sempre innamorata di lui.

Perciò, Jughead non si disturba a porre al proprio corpo altre domande, e si limita a seppellire questo sentimento in fondo allo stomaco, insegnando ogni singolo giorno a se stesso ad ignorarlo, a intontirsi abbastanza da mantenere una parvenza di sanità.

È per il loro bene – per il bene di tutto – è ciò che continua a ripetere a se stesso di notte, quando i suoi occhi sono così stanchi ma la sua testa non può smettere di chiedersi quando tutto abbia iniziato a crollare attorno a loro.
 









Sono sedicenni e spericolati quando, una notte molto solitaria, si ritrovano a rubare la vecchia bottiglia di liquore del padre di Jughead.

Non è qualcosa che la perfetta, priva di difetti e impeccabile Elizabeth Cooper farebbe normalmente, ma non è nemmeno da Jughead Jones guardarla con un desiderio che riteneva andato e perduto da tempo, perciò è un pareggio.

Lei porta i capelli dorati sciolti, niente a confronto dell’ordinata e stretta coda di cavallo che sua madre continua a imporle, e indossa un aderente maglioncino color lavanda che le abbraccia ogni singola curva del petto e della vita, e per un momento Jughead non può dirsi certo di quando sia diventata quest’attraente giovane donna, ma soprattutto quando lui abbia iniziato a pensare a lei in questo modo.

Giunge alla conclusione che stanotte semplicemente non sono chi dovrebbero essere, e forse va bene così. Forse deve essere così.

Fanno qualsiasi cosa in loro potere per mettere a tacere qualsiasi cosa dentro di loro gli dica che insieme sono piuttosto pericolosi.

Non gli prestano ascolto, ma si tengono per mano come fanno da quando sono bambini e si arrampicano sulla vecchia casa sull’albero dei Jones.

Non è così grande e ampia come se la ricordavano i loro occhi di bambini, ma è abbastanza comoda. È loro.

Ed è così che, qualche ora dopo, Betty finisce con la testa sulle cosce di Jughead, i suoi primi bicchieri di alcol che fanno qualcosa di orribile e, a dirla tutta, disorientante alla sua mente.

Ora che sono così vicini, il giovane Jones non riesce, per l’amore del Signore, a trattenersi dal trarre un particolare piacere dal suo profumo, qualcosa di insieme squisito e pungente sulla sua pelle morbida.

Senza dire una parola, Betty si protende per afferrare la sua mano e la poggia tra i propri boccoli biondi, inclinando il collo per lasciargli spazio ed esortandolo a toccarle i capelli.

Come molte altre volte prima, Jughead è davvero, totalmente incapace di dirle di no. Non potrebbe mai dirle di no.

Continuano a stare lì per un lungo tempo, minuti e ore a scivolargli addosso senza che loro se ne curino, semplicemente sdraiati nel loro rifugio d’infanzia, con i loro corpi che si toccano come se fosse la prima volta che si conoscono.

Quando Betty muove il volto così da rannicchiarsi contro la sua pancia, Jughead trattiene il respiro, senza osare abbassare lo sguardo verso di lei.

« Penso di essere impossibile da amare, Juggie. » Sussurra contro il tessuto della sua felpa, gli occhi chiusi e le sopracciglia corrucciate. « Penso che qualcosa dentro di me si sia rotto e che non sarò mai abbastanza. Non sarò mai completa. C’è semplicemente qualcosa che manca, sai? E non posso riempire il vuoto. È soltanto… lì. E io non posso riempire il vuoto. Ho paura che non potrò mai riuscirci. »

Prima che abbia finito di parlare, ancora prima che abbia terminato la frase, Jughead sta soffocando, un violento pizzico nella gola e negli occhi.

Non è sicuro se sia perché non ha mai voluto che lei soffrisse così – che lei soffrisse e basta – o perché questo è esattamente come si è sentito per tutta la vita. In ogni caso, è un dolore vivo, pulsante nelle sue vene mentre raggiunge il cuore e lo fa impazzire con battiti che lui non può controllare.

È solo dopo un paio di minuti che riesce a guardarla, guardarla davvero, e vede lacrime silenziose scivolarle sul viso che scavano violentemente sulle sue guance rosa, che si perdono tra le sue labbra naturalmente rosse.

Si chiede quando abbia imparato a piangere senza fare alcun rumore.

Desidera ardentemente toccarla e spazzarle via, dirle che è soltanto l’alcol nel suo stomaco a parlare, che tutto andrà bene, che loro staranno bene.

Desidera disperatamente dirle che lei è la persona più completa che abbia mai incontrato in vita sua, e anche la più amorevole, appassionata e attenta, e che è l’esatto opposto di impossibile da amare.

A dirla tutta, è l’unica persona che pensa di poter mai davvero amare, e vuole che lo sappia.

Lo vuole davvero, ma non sa come dirlo.

Perciò si china, circondandola con le sue braccia, posando le labbra contro la sua tempia e la fronte sulla sua spalla, e spera che sia abbastanza.
 









 
Jughead non sa come succede, ma succede.

Archie lo abbandona quasi senza una parola, semplicemente svanendo un po’ alla volta: un “Devo allenarmi”  una, un “Sto uscendo con Reggie, è per la squadra” l’altra, un “Ho un sacco di compiti, sai?”  il giorno dopo e, così, non si vedono più.

E sua madre se ne è andata. E anche la sua cara Jellybean se ne è andata. E lui odia suo padre, lo disprezza così tanto da poter a malapena sopportare la vista della sua patetica e inutile faccia.

Prima che lo sappia, non ha una casa. Sicuramente meglio che passare il tempo insieme a quel perdente di Forsythe Pendleton Jones, ma comunque senza casa, ed ha solo diciassette anni.

Perciò, Jughead si ritrova nella sua vecchia casa sull’albero, quella stessa selvaggia, dimenticata e rovinata casa sull’albero dove una volta aveva pensato, solo per un secondo, di poter essere normale, ed essere innamorato di una ragazza – non una qualsiasi, però. Una, solo una. –

Selvaggio, dimenticato e rovinato, proprio come lui.

È perfettamente consapevole che questa non può essere una soluzione a lungo termine, che deve trovare un altro posto stabile in cui vivere, e deve trovarlo adesso, quando fuori non fa ancora troppo freddo, ma stanotte questo andrà bene.

Prova a dormire, ci prova davvero – non puoi trovare un posto in cui riposare se non riesci a reggerti in piedi – ma non ci riesce.

Ovvio.

Vorrebbe poter parlare con la sua migliore amica, l’unica amica che gli sia rimasta, in realtà. Vorrebbe poter essere ancora qui con lei, proprio come un anno fa, sdraiati l’uno al fianco dell’altra, sognando cosa farebbero una volta lasciata questa città dimenticata da Dio, chi sarebbero, come sarebbero fatti.

Forse vorrebbe solo sentire la sua voce.

Ma non può fare nemmeno questo.

Betty è partita per il suo tirocinio estivo e lui non ha il suo numero. Si conoscono da tutta la vita, ma lui non ha il suo fottuto numero, e lei sta lentamente scivolando via dalla sua mente.

Jughead riesce a percepire il suo cuore indurirsi ogni secondo di più, riesce a sentirsi mettere una distanza da chiunque abbia mai incontrato. C’è qualcosa dentro di lui – qualcosa davvero molto simile all’autoconservazione – che gli urla di non provare niente, di essere indifferente, di smettere di curarsi così tanto delle persone dannatamente egoiste della sua vita.

Sa che questa è soltanto la via d’uscita più semplice, che qualsiasi cosa sta per seppellire ora non farà altro che raggiungerlo violentemente e dolorosamente poi, ma deve farlo.

Questo è l’unico modo in cui sopravvivrà a tutto ciò.
 
 









Alla fine di quella stessa estate, il cadaver di Jason Blossom non è l’unica cosa che ritorna in superficie.

Quando Jughead vede Betty per la prima volta dopo mesi, camminando per i corridoi del liceo di Riverdale con Kevin Keller e una ragazza dei quartieri alti, i capelli corvini e l’atteggiamento un po’ snob al suo fianco, qualcosa è cambiato.

Non sono i suoi vestiti – ancora così rosa come il giorno in cui l’ha conosciuta, con la sua gonna di tulle e la sua piccola camicetta floreale – quanto i suoi sperduti e distanti occhioni blu.

È un’espressione che Jughead ha visto sul suo volto molte altre volte, l’ultima delle quali quando si sono ubriacati dell’alcol di seconda mano di suo padre e lei gli ha confessato il modo in cui si sentiva, che è anche il modo in cui lui stesso si è sentito per tutta la vita.

Non è palese e ovvio, e molto probabilmente nessun altro lo ha notato; è solo qualcosa nascosto da qualche parte dietro i suoi occhi, una fiamma, una singola scintilla di fuoco che lei sta tanto ardentemente cercando di nascondere.

Ma lui la vede. Vede Betty, così come ha sempre fatto.

Essere consapevole di tutto questo e fare qualcosa al riguardo, però, sono due cose ben distinte, e il giovane Jones sparisce in mezzo alla folla di studenti in preda agli ormoni prima che lei possa vederlo.








 
 

Proprio come Jughead ha dolorosamente sospettato per tutta la vita, aspettando il momento in cui avrebbe dovuto raccogliere i frammenti in pezzi, il cuore di Betty Cooper si spezza in una tiepida sera autunnale, senza fare praticamente alcun rumore.

Archie viene a cercarla da Pop con una cravatta allentata e disordinata attorno al collo, qualcosa di estremamente mortificato dipinto sul suo volto stanco e, prima che parli, Jughead sa di cosa si tratta; lo sente. Ed è inevitabile. 

Ciò non gli impedisce di aiutare il suo un tempo insostituibile migliore amico, perché non importa quanto cerchi di non farlo, quanto si sforzi di dimenticare chi è sempre stato, lui vorrà sempre che Betty abbia qualcosa di onesto; qualcosa di reale.

Perciò, Jughead osserva attraverso le luci al neon e le finestre annebbiate mentre Archie corre verso la casa di Betty, proprio come era solito fare quando erano bambini, e spera che questo testardo, accecato ragazzo dai capelli rossi, che non è mai stato in grado di vedere pienamente quanto l’abbia data per scontata, capisca finalmente quanto sia prezioso e raro il suo cuore.

Perché Jughead l'ha già capito, dannazione.
 
 








È naturale e inevitabile, un silenzioso accordo fra i loro occhi, il modo in cui iniziano ad orbitare nuovamente l’uno attorno all’altra.

Prima, si limita a guardarla nei corridoi, nascondendosi tra armadietti socchiusi e folle i studenti, e poi, prima di poter veramente realizzarlo, conducono il Blue and Gold insieme.

Betty è immediatamente e irrevocabilmente ovunque Jughead si giri, osservandolo silenziosamente in classe, investigando insieme a lui sulla morte di Jason Blossom, sedendosi tutti i giorni al suo fianco da Pop – a volte davanti a Veronica e Kevin, altre semplicemente loro due -, chiedendogli dolcemente se va tutto bene e se vuole un altro panino, offerto da lei, ovvio.

E all’improvviso lui sorride ogni giorno, qualche volta infinitamente incapace di trovare dentro di sé la forza di smettere.

È così facile per Jughead ricadere nelle vecchie abitudini, e non si tratta solo di mangiare molto di più di quanto il suo corpo richieda.

Ha bisogno di lei. È così semplice. Se ne rende incredibilmente conto in una normale, serena e mite mezzanotte come tutte le altre, mentre la sta riaccompagnando a casa da una serata di lavoro al giornale molto impegnativa.

La giacca nera di jeans di Jughead è vagamente avvolta attorno alle spalle di Betty, stanno silenziosamente passeggiando sotto le basse e soffuse luci dei lampioni, e il suo profumo sta dolcemente aleggiando attorno a loro, danzando sotto il suo naso, sfidandolo a fare qualcosa. E lui ha bisogno di lei.

« Mi dispiace, Betts. » Dice all’improvviso, senza rischiare di guardarla, semplicemente tenendo gli occhi ben fermi sulla strada davanti a loro.

La sua voce è flebile e sottile, un po’ colpevole, forse, ed è così diversa dalla cinica, indifferente, sarcastica maschera da stronzo che mostra a scuola. È soltanto lui. Il vero Jughead.

Il che è, ovviamente, il motivo per cui Betty si volta immediatamente verso di lui, ispezionando il suo volto alla ricerca di un indizio che possa dirle cosa sia successo.

Lui è illeggibile, però, e il suo profilo nella scura penombra è rigido, come se il suo stesso corpo lo stia trattenendo dal dire di più.

« Per cosa dovresti scusarti, Juggie? » Domanda, indirizzandogli uno sguardo con un sorriso affezionato dipinto sulle rosee labbra.

Lui smette improvvisamente di camminare, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé con un’espressione concentrata dipinta sul volto, poi si volta verso di lei.

« Per tutto, in realtà. » Realizza, sollevando un sopracciglio e stringendo le labbra. « Mi dispiace per come sono andate le cose la scorsa estate. Per ciò che è successo fra te e Archie. Per quello che ti ha fatto, perché non è mai stato in grado di vedere quanto fosse fortunato a… »

Quando smette di parlare, improvvisamente esitante e riluttante, Betty fa un passo avanti, poi un altro, fissandolo con un impaziente sguardo dipinto nei suoi grandi occhi blu.

Il giovane Jones non ha mai particolarmente apprezzato che qualcuno invadesse il suo spazio personale, non è mai stato un amante della vicinanza fisica, ma, di nuovo, è Betts. È ancora la prima bambina a cui ha permesso di toccarlo quando era soltanto un bambino imbronciato di sei anni e mezzo. Lui la vuole  vicina. Non può non averla vicina, in realtà.
 
« Fortunato per cosa, Juggie? » Sussurra, incoraggiandolo a finire la frase.

C’è improvvisamente qualcosa di pericoloso nei suoi occhi, un’irruenza non così innocente come tutti pensano, come se gli stia addosso, come se abbia capito. Come se abbia capito tutto.

Jughead lo sa – riesce a sentire il suo sguardo insinuarsi fra le proprie ossa – ma non può dire niente.
 
È incapace di fare qualsiasi cosa se non continuare a guardarla negli occhi, cercando di decifrare il misterioso enigma che è il cuore di Elizabeth Cooper.
 
E Jughead non si è mai tirato indietro da una sfida, ma è piuttosto evidente quanto rischioso e minaccioso per la sua farsa tutto questo sia, e quanto ancora peggio potrebbe essere, perciò si limita a scuotere il capo, incapace di trattenersi da una veloce occhiata alla sua bocca così vicina e allettante.

« Dovremmo andare. » Dice, riprendendo a camminare sulle silenziose ma vigili strade attorno a loro. « Sono ancora decisamente troppo giovane per farmi tagliare la testa da Alice Cooper. »
 
Quando arrivano finalmente davanti casa Cooper, non è particolarmente sicuro di volersi separare da lei.

E poi, la propria giacca attorno alle sue spalle è una sorta di meravigliosa e mozzafiato vista, seppur una stranamente naturale: il contrasto fra i colori chiari del suo vestito e il nero pungente della propria vecchia giacca contro la sua pelle di porcellana è senza dubbio qualcosa.

Se fosse una persona religiosa, direbbe che è quasi un dono divino, vederla in questo modo. Come se sia normale per lei indossare i suoi vestiti, con un sorriso pulito sulle sue labbra piene e un’aurea di spensieratezza attorno al suo corpo.

Rimangono immobili per alcuni istanti, godendosi il silenzio della notte stellata sopra di loro e la mancanza del continuo e fastidioso balbettio della gente attorno a loro. Sembra quasi che l’universo appartenga solo a loro.

È una sensazione piacevole.

Non più piacevole, però, dell’inaspettato tocco della mano di Betty sulla sua guancia, accarezzando con estrema cura le occhiaie sotto i suoi occhi, chiedendo nuovamente la sua piena attenzione.

« Hai sempre avuto un paio di occhi dannatamente stanchi, Juggie. » Impreca leggermente, ma sembra comunque che dalla sua bocca stiano gentilmente uscendo rose, come se le sue parole colassero di un miele che lui non è sicuro di meritare.

« Ma quanto mi sono sempre piaciuti. »
 









 
Dopo quella notte, il corpo di Jughead sviluppa un’acuta consapevolezza di tutte le volte in cui Betty gli è vicina: può essere un accidentale sfioramento di mani, o un casuale tocco dei loro fianchi mentre lei sta uscendo dalla stanza, o anche il semplice colpetto della sua spalla contro la propria.
 
Ma lui lo sente. Il suo corpo lo sente, vibrante e dolce come vino rosso in tutti i posti giusti, quegli stessi posti a cui lui non aveva mai pensato di dover prestare attenzione. Ed è straziante e delizioso tutto insieme, senza nemmeno curarsi di qualsiasi principio di non contraddizione mai esistito.

Poi, inizia a notare tutte quelle cose apparentemente inutili, piccoli fatti che non è mai stato interessato a rimarcare in nessun’altra situazione: per dirne una, il modo in cui le sue labbra si chiudono attorno al tappo della penna ogni volta che ha difficoltà a trovare le parole giuste, o il modo in cui la sua mano sgattaiola sul suo collo e lo tocca senza pensarci, giocando con i brividi che ogni tanto le corrono lungo la pelle quando il riscaldamento al Blue and Gold smette di funzionare, che succede un indecente numero di volte, se lo chiedete a lui.

Jughead sa di aver sempre voluto Betty. Non si è mai chiesto come la voleva, però. Non ha mai indagato sull’estensione o i limiti di questo desiderio.

La parte peggiore è: non può fare niente al riguardo. Non sa cosa fare al riguardo, in realtà. E non ha la più pallida idea di come fermarsi; di come fermare il proprio corpo. Non è nemmeno sicuro di volersi fermare.
















La soluzione più matura e costruttiva che Jughead Jones riesce a trovare per quest’estremamente precoce crisi esistenziale – si rifiuta categoricamente di chiamarla con il suo vero nome, che è una fastidiosa, inconveniente, esasperante, apparentemente inspiegabile cotta per la sua migliore amica – è lasciare il Blue and Gold.

Senza avvisare. Senza alcun tipo di spiegazione.

Smette semplicemente di presentarsi.

Non è esattamente sicuro di come tutto questo possa funzionare, e la ragione è piuttosto ovvia: è Riverdale.

La stessa Riverdale con un solo liceo, una sola biblioteca, una sola tavola calda (la sua preferita, per di più), praticamente un solo tutto, e non c’è nemmeno la più piccola possibilità di evitare qualcuno.

Ma lui lo fa. Ci riesce, per un po’. Dopotutto, ha trascorso tutta la sua vita a imparare come scomparire in mezzo alla gente, insegnando a se stesso come essere invisibile, ed è improvvisamente una situazione di vita o di morte, cercare di mescolarsi all’orda di Bulldog rabbiosi della squadra di football, i finti nerd e le primedonne River Vixens, con le loro uniforme aderenti e i loro fastidiosi pantaloncini.

L’ultima delle quali è la parte peggiore, dal momento che Betty è inspiegabilmente e contro ogni legge scientifica una di loro.

Le sue giornate scolastiche sono improvvisamente divise fra evitare qualsiasi possibilità di incontrarla e frequentare ogni lezione senza darle la minima occasione di parlargli, e lui non può trattenersi dal chiedersi esattamente quando le cose sono diventate così complicate.

Certo, va oltre i limiti del possibile evitare completamente gli occhi di Elizabeth Cooper, anche se fosse in mezzo a decine di migliaia di persone, specialmente quando stanno disperatamente cercando di raggiungerlo, senza però mai riuscirci.

Lui li vede – supplichevoli, addolorati e confusi, ma ancora così dannatamente blu – ma lei non è mai veloce abbastanza e lui è sempre un passo avanti, prendendo scorciatoie tra una lezione e l’altra e camminando per strade secondarie così da evitare qualsiasi incontro casuale.

Jughead sta vivendo continuamente sull’orlo, sempre a guardarsi dietro le spalle, ed è acutamente doloroso, ed è una bugia, ed è una pesante sofferenza che grava costantemente sul suo cuore stanco.

Per questo motivo, decide di ritirarsi per un paio di giorno da questa stupida e inutile danza che stanno facendo, per avere il tempo di chiedersi davvero cosa diavolo stia succedendo dentro di sé, perché non ha potuto essere suo amico, e restare con lei, e stare al suo fianco.

È allo stesso tempo la più infantile e piagnucolosa situazione e il più significativo, importante e coinvolgente legame che abbia mai avuto con se stesso, ed è dolorosamente disorientante, per non parlare delle conseguenze emotive della cosa che sente dentro il proprio petto, questo ribaltamento e impeto che sente nel suo cuore e che lo sta facendo impazzire.

Non sa come ascoltare se stesso, non pensa nemmeno di avere la più pallida idea di cosa questo grido dentro di lui possa mai significare, e lei gli manca – gli mancano loro insieme, a dirla tutta – in un modo che è nuovo, e sconosciuto, e fottutamente spaventoso.

Che è parte del problema, no?

Come ha fatto Elizabeth Cooper, irrevocabile parte dei suoi primi ricordi, intelligente e amorevole compagnia, la bambina che si è trasformata in una forte, coraggiosa e altruista giovane donna di fronte ai suoi occhi, a far prosperare questo nuovo, sconvolgente seme di speranza dentro il suo petto? Perché adesso?

Questo è precisamente ciò che Jughead sta chiedendo a se stesso con espressione imbronciata e crucciata dipinta sul suo volto come un mosaico d’incertezza, mentre sta salendo le scale di legno di quella solita casetta sull’albero di cui non si stanca mai, con la notte silenziosa che è la sua sola devota compagna.

Prima che possa pienamente realizzare o concentrarsi su ciò che sta accadendo attorno a sé, il giovane Jones è sconvolto dalla vista di niente di meno che della sopracitata bionda, testarda e decisamente esasperata migliore amica.

Betty è seduta sul pavimento di legno, la sua schiena poggiata contro la vecchia parete nello stesso esatto punto in cui lui era seduto con la sua testa sulle cosce un anno fa, e il suo evidentemente esausto e dispiaciuto volto è teneramente illuminato dalla cascata di piccole lucine dorate che hanno installato mesi fa.

Non si volta immediatamente verso di lui, ma Jughead sa che è pienamente consapevole della sua presenza. Sa anche che non può più scappare, non ora, non con il modo in cui il corpo di lei gli sta dicendo che non sta bene, ed è senza ombra di dubbio nient’altro che colpa sua.

« A quanto pare, l’unico modo in cui posso parlarti è tenderti un agguato. » Bisbiglia a un certo punto, ma non si permette di guardarlo.

Gli occhi di Jughead si spalancano un po’, abbastanza da spazzare via la finta apparenza che si sta trascinando dietro come una catena attorno al collo, e lui si siede dall’altro lato della loro vecchia casa di giochi.

« Come sapevi che sarei venuto qui? »

« Ti conosco, Jughead. Anche se non ci credi. O non ti importa, per quel che vale. » La sua voce è piatta, ma non copre la rabbia e la delusione che si irradiano dalla sua figura.

Lui desidera soltanto che lei possa guardarlo – guardarlo e capire, semplicemente capire. Ma come può aspettarsi che lei lo comprenda, se nemmeno lui è in grado di comprendere se stesso?

Lei è soltanto umana, proprio come tutti gli altri. Elizabeth Cooper non è perfetta, nonostante ognuno dei suoi movimenti, gesti, e parole sia eseguito in modo da far credere a tutti gli altri il contrario. E lei ci sta provando. Ci sta provando così tanto.

« E poi », aggiunge dopo un po’, continuando a guardare le proprie mani tremolanti, « Sono venuta qui per le ultime cinque notti. Dovevo trovarti, prima o poi. Era inevitabile. »

Ed ha ragione: è inevitabile. Loro, queste parole, questi sentimenti che gravano pesanti nei loro petti. Tutto questo, dal primo istante in cui un bambino si è inginocchiato vicino una bambina e lei gli ha preso la mano.

Lei doveva trovarlo. Lo ha trovato.

« Certo che mi importa, Betts. » Sospira, un braccio poggiato sul suo ginocchio sinistro e un doloroso desiderio che si distende dentro di sé.

Nel momento in cui solleva finalmente lo sguardo verso di lui, ci sono lacrime che brillano attraverso i suoi occhi, appese alle sue ciglia, e Jughead si odia.

« È qualcosa che ho detto? O fatto? » Gli chiede, e certo. Certo che Elizabeth Cooper pensi che sia colpa sua.

Quando ti viene detto per tutta la tua esistenza che devi essere perfetta, e devi sempre dire sì, e devi essere tranquilla, e accondiscendente, e disponibile, e sei costretta a tenere la testa e lo sguardo bassi, inizi a pensare che tutto dipenda da te.

Inizi ad immaginarti come qualche invincibile, instancabile, inarrestabile Atlantide, e quando qualcosa non segue il corso che tu pensavi dovesse seguire, quando la vita accade, ti convinci che sei tu. È colpa tua.

« Non lo è. » È tutto ciò che è in grado di dire. E, ancora una volta, Betty riesce a rendere l’eloquente, espressivo e metodico scrittore muto.

« Allora cosa, Juggie? » Lo esorta con un’impazienza dolceamara che cola dalle sue parole, spingendosi avanti e inginocchiandosi davanti a lui. « Cosa c’è che non va? Puoi dirmelo. Voglio sapere, posso aiutarti. Ti prego. »

Jughead sa che questa è la sua occasione. È una profonda e radicata consapevolezza dentro la sua mente, e dovrebbe essere facile.

Deve essere facile. Dovrebbe immediatamente dirle che è ora l’unica cosa di cui lui riesca a scrivere, pensare, sognare e a cui riesca ad interessarsi, e che vuole renderla felice.           

Vuole riempirla di una ridicola e illimitata quantità di felicità, e semplicemente essere felice con lei, per lei, come non sono mai stati, come non hanno mai creduto di poter mai essere, ed esserlo insieme, e continuare ad esserlo insieme.

Ma non può.

Tutte queste sognanti parole e magnifiche intenzioni rimangono violentemente incastrate nella sua gola, e gli portano via il respiro, e con esso l’unica possibilità di essere sincero con lei.

Lei è egualmente la miglior e la più complicata, stimolante cosa che gli sia mai successa, e Jughead non può permettersi di perderla; non sa se potrebbe mai sopravvivere.

Ecco perché non può dirle come si sente davvero. Perciò, scuote la testa e distoglie lo sguardo, mettendo un’insormontabile distanza fra loro due.

Che è, ovviamente, precisamente come Jughead Jones perde Betty Cooper.
 






Questa volta, non deve nascondersi.

Non c’è nessun bisogno per Jughead di trovare creative e inutili modi per evitare Betty, non è più obbligato a guardare da entrambe le parti prima di entrare da Pop, o frequentare una lezione, o semplicemente camminare lungo il viale del liceo di Riverdale.

Betty non sta più cercando di corrergli dietro.

Lui la vede, e lei lo vede, ed entrambi non hanno la minima idea del perché questo – qualsiasi cosa avessero iniziato a creare e diventare insieme – sia dovuto finire.

Perciò, la cosa più giusta e corretta da fare è andare avanti con le loro vite: Jughead continua a scrivere il suo A Sangue Freddo – o perlomeno ci prova – vagando per Riverdale con le sue grosse cuffie sulle orecchie, sempre mettendo una distanza di sicurezza fra sé e qualsiasi altra persona o cosa, sedendosi da solo da Pop fino a notte fonta, dormendo ogni tanto nella sua ora solitaria e vuota casa sull’albero.

Betty, dal canto suo, lavora ogni giorno fino a stancarsi, scrivendo – da sola – per il Blue and Gold, pranzando con Archie, Ronnie e Kevin, allenandosi con le River Vixens, partecipando a ogni stupida partita di football, riparando auto e facendo i compiti finché non crolla sfinita a letto senza nemmeno aver tempo di sentire l’assenza della voce del suo migliore amico.

Affrontano la cosa in modo diversi: uno isolandosi da ognuna delle sue conoscenze, ricadendo in quella stessa, vecchia apatia che ha sentito sorgere dentro di sé anni fa; l’altra circondandosi di persone per evitare la propria solitudine, facendo qualsiasi cosa in suo potere per stancarsi così tanto da impedire alla propria mente di pensare alla lancinante perdita dentro il proprio petto.

Nessuno dei due sta bene, però.
 







 
 
 
Succede nella notte più piovosa e buia che Rivedale abbia visto in un lungo tempo.

Jughead sta avendo problemi a dormire – come succede sempre, anche se gli piace ignorarlo – nel vecchio materasso nel retro del magazzino di Pop, e i lampi e i tuoni fuori dalle finestre non lo stanno propriamente aiutando, quando decide di smettere di starsene sdraiato a rimuginare senza scopo.

Un tempo del genere gli riporta sempre ricordi dei tempi in cui lui e la sua cara Jellybean erano soliti rannicchiarsi sotto le loro coperte colorate e stringersi forte l’un l’altra per smettere di essere spaventati, e questi giorni la nostalgia sembra già a un passo dal divorarlo vivo per non permettersi di ricordare.

Perciò, il giovane Jones non può trattenersi dall’afferrare il suo zaino, ancora pieno dei suoi pochi averi, e scavare un po’ per cercare di afferrare una delle uniche foto che ancora ha della sua sorellina.

Al suo posto, si imbatte in un vecchio foglio di carta, chiaramente consumato dalle molte volte in cui è stato piegato e ripiegato.

Non lo riconosce immediatamente, ma immagina sia una delle prime storie d’avventura che amava scrivere quando era più piccolo.

Invece, un inaspettato stupore e una pungente tristezza si impegnano a dipingersi sul suo volto quando realizza di cosa si tratti.

Non è una vecchia favola di coraggiosi pirati e isole perdute, non lo è affatto.

È una lettera.

La sua scrittura di bambino di otto anni è sfocata e dissolta, ma Jughead sa immediatamente cosa dica, lo sente bruciare nella mente, per sempre marchiato nelle profonde radici dei suoi ricordi. E fa male.

Ci vogliono approsimativamente dieci secondi perché si guardi attorno nella stanza buia, sfruttando la luce dei lampi per individuare i suoi anfibi pesanti e la sua vecchia giacca,  la indossi con la più impaziente fretta che abbia mai sentito nel suo corpo ed esca senza nemmeno curarsi di avere un ombrello.

La pioggia è fredda e ghiacciata contro la sua pelle, bagnando il suo cappello e insinuandosi dentro la sua schiena, ma non gli importa. Non è più lo scrittore, non ora; è l’eroe della storia, colui che finalmente ha l’occasione di provare a se stesso e a tutti gli altri che non è un patetico nessuno, che non è un fallimento, e non deve per forza perdere. Deve solo essere coraggioso.

E, di nuovo, è un fottuto cliché, ma comincia a correre, e non pensa nemmeno per un secondo a cosa succederà – sia al suo corpo, dal momento che si beccherà una dannata pneumonia, e al suo cuore, una volta raggiunta la sua destinazione – perché è finalmente libero per la prima volta in tutta la sua vita.

È libero e vivo anche se sta inciampando e scivolando sulle ghiacciate e vuote strade della sua città natale, e i suoi vestiti sono fastidiosamente appiccicati al suo corpo tremante, e le invisibili luna e stelle sono spettatrici della più folle e straordinaria cosa che abbia mai fatto.

 Fortunatamente, la sua destinazione inizia ad essere visibile poco dopo, instillando nel petto di Jughead un eccitante, esaltante ed elettrizzante sentimento da cui è in poco tempo diventato dipendente.

Trova immediatamente rifugio sotto il portico di casa Cooper, realizzando soltanto dopo un paio di minuti che non ha il suo telefono con sé, che lo porta a trasformarsi sempre di più in un eroico adolescente dei film di metà anni Novanta.

Ma Jughead non ha appena corso per metà Riverdale sotto la pioggia battente per arrendersi adesso, perciò si arma di qualche sassolino dal viale e si getta nuovamente sotto la tempesta, correndo esattamente sotto la finestra di Betty.

Strizzando gli occhi per avere una visuale perlomeno decente, il giovane Jones lancia tre piccolo sassolini contro il vetro, sperando che la sua migliore amica abbia ancora un sonno tremendamente leggero.

Ed è così, perché solo alcuni secondi dopo il contrasto dell’aurea dei suoi capelli dorati contro l’opaca nebbia delle pioggia sopra di loro è abbastanza perché Jughead sospiri contento.

« Cosa cavolo stai facendo qui, Juggie? » Gli urla-sussurra ostilmente, guardando giù verso la sua figura bagnata dalla pioggia, cercando allo stesso tempo di ripararsi dall’imperterrita tempesta.

« Devo parlarti! » Grida lui in risposta, incurante di ciò che Alice Cooper gli farebbe se scoprisse ciò che sta succedendo.

« Vai sotto al portico! » Risponde immediatamente Betty, una sfumatura di preoccupazione e nervosismo incastrate sotto l’apparente disagio nella sua voce. « Morirai di ipotermia, brutto… cretino! »

« Scenderai? »

« Sì, ma per favore smetti di stare sotto la pioggia. »

Questo è abbastanza perché Jughead chini la testa per un secondo, cercando di nascondere il suo ghigno e lasciando che le gocce di pioggia scivolino contro gli zigomi e le labbra; poi, con movimenti agitate e impacciati, torna alla porta principale di casa Cooper.

Sta spostando il peso da un piede all’altro, incapace di stare fermo, quando la figura della sua migliore amica esce dalla penombra e chiude la porta dietro di sé.

Jughead tocca immediatamente il suo cappello – ancora inspiegabilmente sulla sua testa – e se lo toglie, strizzando l’acqua al suo interno. Betty indossa il suo pigiama turchese, quello con i piccoli conigli rosa, il suo volto stanco è delicatamente circondato dai suoi disordinati boccoli dorati, ed è ancora la ragazza più bella che abbia mai visto.

« Sei fortunato che i miei genitori sono via per il fine settimana, o prenderti uno stupido raffreddore sarebbe stato l’ultimo dei tuoi problemi. E intendo l’ultimo per sempre. » La voce di Betty non è nient’atro che un mormorio mentre gli parla senza guardarlo negli occhi, avvicinandosi al ragazzo dai capelli corvini per avvolgergli una vecchia e spessa coperta attorno alle spalle e cercare di tenerlo al caldo.

Jughead non si muove, nemmeno respira, troppo concentrato sul suo travolgente gesto di gentilezza per registrare il pieno significato delle sue parole. Si limita a permetterle di toccarlo – e dovrebbe essere stancante, ormai, ammettere quanto facilmente lo faccia – e inebriarlo con un’intima vicinanza di cui non ha più paura.

« Sei fradicio, per l’amore del Cielo. A cosa stavi pensando? » Lo rimprovera Betty, facendo un passo indietro e passando la mano sinistra attraverso i capelli.

« Devo darti una cosa. » È l’unica risposta che le dà il suo migliore amico, facendo lo stesso con i propri capelli per cercare di asciugarli un po’.

Poi, immediatamente dopo, protende la mano verso la tasca interna della sua vecchia giacca di jeans – la stessa che lei ha indossato mesi fa, lasciando il suoi profumo appeso al colletto e alle maniche – tirando fuori il vecchio pezzo di carta che ha conservato premurosamente per metà della sua vita.

Non appena lo vede, Betty non riesce a impedirsi di stringersi entrambe le braccia attorno al petto, facendosi scudo fisicamente e metaforicamente allo stesso tempo.

Rimangono lì, immobili e silenziosi, per alcuni secondi, mentre l’unico rumore attorno a loro è il ruggito della tempesta e dei fulmini sopra le loro teste; Jughead sta fissando il suo volto mentre Betty sta fissando i suoi vestiti gocciolanti, la mera luce dei lampioni e dei lampi a illuminare i loro lineamenti pensosi, e tutto sembra così vacillante. Lui non vuole più sentirsi così.

Non può, perciò allunga il braccio per offrirle la lettera, studiando la sua espressione per coglierne qualsiasi sfumatura. Non aspetta però e, appena lei l’afferra, si raddrizza e solleva il mento.

« Cara Betts », la voce di Jughead è soltanto un tenero, soffice sussurro che danza alle sue orecchie, mentre gli occhi di lei sono fissi sul foglio, « Non mi piace la gente. Mi piaci soltanto tu. Infatti, penso che mi piaci così tanto ché mi innamorerò di te, un giorno. Ma non ora, perché sono solo un bambino, e anche tu. Ma sei gentile e hai un buon profumo, e so che non sarebbe così brutto. Perciò, forse, se vorrai, ci ameremo come si amano i nostri genitori, quando saremo abbastanza grandi. Tuo, Juggie. »

Non appena smette di recitare a memoria le parole del se stesso di otto anni, nota immediatamente pesanti lacrime che corrono lungo le guance rosa di Betty, così simili a quelle che le avevano attraversato il volto con la sua testa sulle proprie gambe tanto tempo fa.

« Avevo ragione, Betts. È vero. È tutto perfettamente chiaro, ora. » Aggiunge dopo un po’, compiendo un passo verso di lei, e queste semplici parole sono più di quanto Jughead, Betty o chiunque altro si sarebbe mai aspettato a qualcuno come lui, ma ha smesso.

Ha smesso di costringere se stesso a non sentire; ha smesso di volerla così tanto da pensare di poter soffocare, ma non fare nulla al riguardo; ha smesso di fingere che la sua solitudine gli stia bene; ha smesso di avere paura del rifiuto e dell’abbandono, nonostante questo sia tutto ciò che tutte le persone nella sua vita gli abbiano insegnato.

Tutte, eccetto una. La sua unica eccezione: Elizabeth Cooper.

Tuttavia, al suo passo avanti ne corrisponde uno indietro, e c’è ancora così tanta inconquistabile distanza fra di loro, una che ricorda continenti e oceani, e lui vuole finalmente sormontarla, superarla, ma il viso di Betty si sta indurendo ad ogni secondo che passa, e Jughead non è mai stato più spaventato. 

« Dì qualcosa. » È tutto ciò che riesce ad esprimere ora come ora, dato il cuore infranto che sta brillando attraverso i suoi lacrimosi occhi blu.

« Sono… » Inizia, alzando la voce per sopraffare il suono della pioggia attorno a loro, « così stanca di essere lasciata dalle persone che amo. Sto provando così tanto, sempre tanto, tanto strenuamente, ad essere perfetta, ogni singolo giorno della mia vita. » C’è improvvisamente una fierezza nel modo in cui le sue spalle si aprono e si drizzano, un percorso di fuoco che si diffonde dai suoi occhi alle sue parole, fino al modo in cui il suo corpo si illumina e la protegge, finché non c’è.

Sta piangendo di nuovo, dicendo in un sussurro: « Ma non è abbastanza. Non sarà mai abbastanza. » E sta singhiozzando, ora, mentre forti brividi le scendono dalla nuca alla spina dorsale, inzuppando il suo petto con un dolore pulsante. « E sono così stanca. »

Il che è abbastanza perché il ragazzo dai capelli corvini si avvicini, trascinando i suoi anfibi pesanti sul pavimento di legno del patio per ridurre la distanza tra I loro corpi.

« So che sei stanca. Mi dispiace. Sono disgustosamente dispiaciuto per quello che ho fatto. Non devi essere- »

« Avevi ragione, sai? » Dice lei, riprendendo il controllo delle sue reazioni e asciugandosi il volto con la manica del pigiama. Questo lo allarma stranamente più di prima, perché c’è un rigore e una nuova durezza nella sua voce, uno che Jughead conosce molto bene: è lo stesso che ha sentito tante volte prima nel proprio petto.

« Non avrebbe mai funzionato tra di noi. »

Questo non può sopportarlo. Non può guardarla perdere le speranze, non così facilmente. Non ora.

Perciò si spinge in avanti, prendendole il volto in entrambe le sue fredde mani, piegandosi di poco sulle ginocchia per avere una piena visuale dei suoi occhi blu; sa che i propri sono spalancati e sconvolti per quello che lei ha appena detto, ma non gli importa.

« No, no, no. Ascoltami, Betts, okay? » Scandisce ogni parola con energia, freneticamente, tuttavia internamente grato che lei non stia resistendo alla sua presa. « Ho sbagliato tutto. È stata colpa mia. E so che non tel’ho detto allora, ma te lo dirò adesso: non sei impossibile da amare, Elizabeth. Non lo sei. E sei la persona più completa, dedita e brillante che io abbia mai incontrato. Hai reso me completo. »

È così semplice. È così semplice che le parole stanno lottando l’una con l’altra e gareggiando tra di loro per lasciare la sua bocca, così follemente e selvaggiamente impazienti di uscire, perché Jughead sta disperatamente smaniando di dirle tutto, di farle sapere che lei non è quello che ha pensato di se stessa per tutto questo tempo, e che lui l’ha sempre vista.

Lei è un mondo.

Ma non è ancora abbastanza, perché Betty stringe le sue mani sul suo volto con le proprie, ma volta la testa per smettere di guardarlo.

« Non ti credo. » Singhiozza con voce tremante, e se lui vede un’altra lacrime caderle sulle guance, perderà la sua cazzo di testa.

Quando si volta di nuovo per fissarlo, solleva la voce: « Sei un codar- »

Prima di rendersene conto – tantomeno lei – Jughead sta chiudendo gli occhi e scontrando la propria bocca sulla sua, senza curarsi di scontrare le loro fronti e spostando la testa di lato per aver migliore accesso, perché ha disperatamente bisogno di incastrare le proprie labbra nelle sue, perché ha bisogno del suo sapore, e brama qualsiasi rimedio che possa curarlo, e curarli, e lei è l’unica che possa darglielo.

Betty non si muove per un paio di secondi, fissando il suo migliore amico con spalancati e sorpresi occhi, ma sanno entrambi che non è così che tutto questo deve finire.

Il che è precisamente il motive per cui la bionda sospira contro la sua bocca, totalmente incapace di staccarsi da lui, e avvolge entrambe le braccia attorno alle sue spalle strette nei vestiti fradici, ancora coperte dalla trapunta che gli ha messo addosso prima, trascinandolo giù verso di sé, dove può finalmente averlo vicino.

Le loro bocche continuano a muoversi insieme – più a scontrarsi e a mordersi – aprendosi l’una all’altra con amorevole vigore e impazienza, quando i loro volti iniziano a bagnarsi; non sanno se sia per le lacrime che stanno lasciando i grandi occhi blu di Betty o se sia per le gocce di pioggia che cadono sulle loro guance dai capelli bagnati di Jughead, ma non importa. Andrà tutto bene.

Dopo alcuni minuti passati semplicemente a baciarsi, la giovane Cooper fa scivolare le mani prima sotto la coperta, poi sotto la sua giacca, lasciandole cadere entrambe ai loro piedi, trovandosi due capi d’abbigliamento in meno più vicina alla sua pelle.

« Voglio ancora discutere su tutto ciò che è successo. Quindi, questo non significa che io abbia improvvisamente dimenticato questi ultimi, orribili mesi. O che stia facendo allusioni. » Geme, respirando nella sua bocca, immergendosi nel suo calore. « Ma devi entrare in casa e toglierti questi vestiti adesso, se non vuoi morire di ipotermia. »                                              

Jughead non può far altro che sorridere contro le sue labbra, chiudendo gli occhi per un attimo, e, per una volta nella sua vita, non sente il bisogno di dire assolutamente niente.

Ed ecco come ha davvero inizio la storia di Jughead Jones ed Elizabeth Cooper.




 
  
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