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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    18/03/2017    1 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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23.
 

"I nostri genitori ci amano perché siamo i loro figli, e questo è un fatto inalterabile,
di modo che noi ci sentiamo più sicuri con loro che con chiunque altro.
Nei momenti felici ciò può sembrare poco importante,
ma nei momenti tristi questo affetto offre una consolazione e una sicurezza che non si trovano altrove."
 


“Sì mamma, sì, te l’ho detto!” Joan allontanò il telefono dall’orecchio, sbuffando.

“Non sbuffare Joan”. La rimproverò la madre dall’altro capo del telefono. “Se non ti fa piacere vedere me e tuo padre dopo tutti questi mesi basta dirlo…”

Far leva sul suo senso di colpa era l’arma preferita da quella donna.

“Ma no, mamma, mi fa piacere vedervi, non vedo l’ora!”

I suoi genitori sarebbero arrivati il giorno seguente e si sarebbero trattenuti per un paio di giorni prima di andare in Florida.

“Sì, ok, vi aspetto qui allora!”

Il giorno seguente svegliarsi presto fu un’impresa: la notte prima aveva avuto il turno al locale e aveva dormito solo quattro ore. Era distrutta, ma doveva uscire per fare la spesa e doveva preparare qualcosa per quella sera.

I suoi genitori sarebbero arrivati nel tardo pomeriggio e lei voleva fargli trovare qualcosa di buono per cena.

Aveva chiesto a Steve due serate libere, promettendo di lavorare nelle serate libere delle due settimane successive.

Preparò della pasta al forno e ebbe anche il tempo di fare una torta, quella alle mele, che era la preferita di suo padre.

Alle 18 arrivarono i suoi genitori privi delle valige, che avevano lasciato in hotel, ma con le mani cariche di sacchetti contenti pasticcini e un pacchetto da parte della nonna di Joan che conteneva nell’ordine: una sciarpa, un maglione in lana, uno in cotone e una coperta.

Joan sorrise di quella premura, abbracciando stretta il padre e la madre. “Com’è andato il volo?”

“Poteva andare meglio!” Disse la madre, nota per non esser mai contenta di nulla. Il padre sorrise bonariamente alla figlia, che alzò gli occhi per la frase della madre.
Erano ancora sull’uscio quando uscì Cult dal suo appartamento. La sua attenzione fu attirata sulle tre figure dall’altra parte del pianerottolo.

“Buonasera!” Salutò, voltandosi per chiudere la porta.

“Ciao!” Disse Joan, rivolgendosi poi ai genitori. “Ehm… Lui è Cult, il mio vicino di casa!”

Il ragazzo si avvicinò allungando la mano verso il padre di Joan, che la strinse sorridendo. “Che nome interessante. Io sono Paul!”

Cult poi si rivolse alla madre, sorridendo sornione. La madre di Joan sorrise a sua volta. “Ho sentito parlare di lei…” Disse stringendogli la mano. “Sono Eleonore, è un piacere conoscere finalmente un amico di mia figlia”.

Joan abbassò lo sguardo imbarazzata, proprio mentre Cult le lanciò un’occhiata di traverso.

“Senta ma perché non si ferma a cena con noi, Joan ci stava giusto dicendo che ha preparato la pasta al forno e la torta di mele”.

Joan quasi soffocò. “M-mamma, sono sicura che Cult abbia altri impegni”.

“A dire il vero no…”

“Ottimo, allora entriamo”. Disse il padre.

L’ultima ad entrare fu Joan, ancora sconvolta. Mentre i suoi genitori erano in salotto lei, cono una scusa, chiese a Cult di seguirla in cucina.

“Senti… Mi devi fare un favore!”

“Cosa mi dai in cambio?!” Chiese allusivo ammiccando.

Lei gli lanciò un guanto da forno. “Sono seria!” Controllò che i genitori fossero ancora in salotto. “Sì, ecco…I miei non sanno che ora faccio la cameriera, anzi, non sanno nemmeno che non faccio più la psicologa, quindi se tu potessi essere così gentile da non dirglielo io te ne sarei molto grata…”

“Mmm..” Disse lui, rubando un maccherone dalla teglia. “E perché non glielo hai detto?”

Prese Joan in contropiede. “Beh…Non c’è stata occasione”.

“Sono mesi ormai che lavori al Morning Glory e vuoi farmi credere che non c’è mai stata occasione per dirglielo”.

Ok, effettivamente lei non ci aveva neanche provato a trovare il momento giusto per lanciare quella bomba…

“Va bene, non ho avuto il coraggio. Ci ho provato, giuro!”. Disse mettendosi una mano sul petto. “Ma non ce l’ho fatta. Tu non conosci mia madre, è capace di farne una tragedia!”

“Tesoro manca molto?!” La donna in questione sbucò in cucina, annusando l’aria. “Oh, c’è pronto, ottimo! Caro vieni, c’è pronto”.

Joan iniziò a servire e la serata trascorse tranquilla, senza che nessuno accennasse al suo lavoro, il che era una grande vittoria..

“Ah, Joan, a proposito. Ho incontrato Clark, mi ha detto che è tornato a New York, come mai non ce l’hai detto?”

Il padre si riferiva a Clark Dempsey, lo psicologo che aveva lasciato il suo studio a Joan quando era arrivata a New York, salvo poi tornare e lasciarla senza lavoro.

“Ehm… Pensavo di averlo fatto”.

“Mi ha detto che gli dispiace non averti potuto aiutare a  trovare un altro lavoro… Non ci hai detto nemmeno questo!”

“Ehm…” Non sapeva come uscirne. Era nella merda fino al collo e stava lentamente sprofondando.

“Joan, questa torta è davvero buona! Devi assolutamente farla per il compleanno di Steve!” Il compleanno di Steve era in marzo, quindi mancava ancora una vita ma non sapeva cos’altro dire per distogliere l’attenzione da quell’argomento.

“Sì, la farò sicuramente”. Rispose Joan, grata a Cult per aver cercato di distrarre il padre, ma sicura che quel tentativo non sarebbe bastato.

“Hai trovato lavoro in un altro studio? E in poco tempo…” Disse la madre.

Joan scosse la testa, arrendendosi al fatto che avrebbe dovuto vuotare il sacco. “No, mamma, non ho trovato lavoro in un altro studio…”

“E dove allora?” Chiese il padre, mangiando un altro boccone di torta.

Joan cercò lo sguardo di Cult, che era già su di lei, dispiaciuto. “In un locale di un amico…” Sussurrò.

“Non capisco…” Disse la madre guardando il marito, che invece aveva capito benissimo.

Joan prese coraggio. “Faccio la cameriera in un locale”.

“Come, prego?” Chiese la madre allibita.

“Hai capito bene, faccio la cameriera in un locale! Porto birre, cocktail…”

“Dimmi che è una di quelle tue strane battute che non fanno ridere nessuno, Joan!”

Lei scosse la testa. “Mi dispiace…”

“E da quanto va avanti questa assurdità?”

“Da qualche mese”.

“Qualche mese? Qualche… Oddio, non posso crederci!” Si rivolse poi al marito. “E tu non dici niente? Tua figlia ti dice che fa la cameriera e tu non dici niente?!”

Il padre era serafico, come sempre, ma il suo sguardo tradiva delusione. “Lasciala parlare, tesoro, lascia che Joan ci spieghi”.

“Dempsey è tornato dal Giappone molto prima del previsto e io mi sono trovata senza lavoro, ho chiesto in giro, ovunque, ma nessuno assumeva una psicologa e…” Una lacrima le solcò il viso. “Non avevo altra scelta, è l’unico lavoro che ho trovato”.

“Ma perché non ce l’hai detto?” Chiese  il padre.

“Volevo farlo, ma ho avuto paura”.

“Di cosa?”

“Di deludervi… Volevo farcela da sola, volevo che foste fieri di me e invece…” Ormai stava piangendo. “Mi dispiace”. Abbassò lo sguardo.

“Forse questo ti farà capire che un aiuto ti serve…” Intervenne sua madre.

“Non tornerò a Washington, se è quello che stai suggerendo!” Disse alzando la voce. “La mia vita ora è qui, mamma, che ti piaccia o no e l’importante è che riesca a mantenermi…”

“No, Joan, l’importante non è che tu riesca a mantenerti, l’importante è che tu faccia il lavoro per cui tu hai studiato, per cui abbiamo pagato i tuoi studi!”

“Il fatto che ora faccia la cameriera non vuol dire che la mia laurea non vale più niente o che non tornerò a fare la psicologa, è solo una cosa temporanea…”

“Temporanea, certo…”

“Vedi perché non volevo dirvelo?!” Urlò rivolta al padre. “Qualsiasi cosa io faccia in questa maledettissima città non andrà mai bene per te, vero mamma? Tu mi vuoi a Washington, dove puoi controllarmi e dove tutto è già programmato! Io non voglio tornare a Washington, qui sto bene, finalmente, mi sento libera e sono felice. Non tornerei a Washington neanche se dovessi fare la cameriera per il resto della mia vita!”

Con le lacrime agli occhi si alzò e uscì di casa, sbattendo la porta dietro di sé.

La madre era allibita, il padre più che altro preoccupato e Cult, che fino a quel momento era rimasto immobile sulla sedia, in religioso silenzio, si alzò.

“Senta, io non sono nessuno, ma credo di conoscere sua figlia abbastanza bene ormai…” Disse rivolto a Eleonore. “L’unica ragione per cui non ve l’ha detto è perché aveva paura di deludervi e lei non si merita la vostra delusione”.

“Scusi ma non credo che conosca mia figlia meglio di come la conosco io”. La madre, spazientita, tamburellava sul tavolo.

“No, sicuramente no, ma io l’ho conosciuta in un momento difficile: si è trasferita in una città senza conoscere nessuno, ha perso il lavoro, ma invece che tornare a casa, sconfitta, si è rimboccata le maniche e se ne è cercata un altro. Forse non è un lavoro alla sua altezza, anzi sicuramente merita di meglio, ma merita anche la vostra ammirazione, perché in questi mesi ce l’ha fatta da sola, senza chiedere niente a nessuno!”

“Le sue parole solo lodevoli, ma ora, se non le dispiace, andrei a cercare mia figlia”. Disse la donna alzandosi.

“Aspetta!” Disse Paul, bloccando la moglie. “Forse è meglio se le lasciamo un po’ di spazio. Torniamo in albergo”.

La donna non sembrava per niente d’accordo, ma alla fine si lasciò convincere.

Prima di uscire il padre di Joan si rivolse a Cult. “Vai a cercarla per favore e dille che mi dispiace!”

Cult, in tutta risposta, annuì serio.
 

Joan camminava ormai da alcuni minuti. Uscire da sola a quell’ora, senza portarsi dietro nulla, era stata un’idea idiota, ma quella cucina era diventata troppo piccola.
L’aria calda le soffiava leggera sul viso e asciugava le lacrime che continuavano a scorrere sul viso. Alzò gli occhi, non sapeva bene dove fosse, nonostante abitasse a New York da diversi mesi, quella città rimaneva un mistero. Fuori dal portone aveva girato a destra, poi a sinistra… No! A destra, poi ancora a destra e poi a sinistra e poi… Poi era andata diritta e ora si trova va lì, in una strada che non conosceva, senza punti di riferimento e senza cellulare o soldi per un taxi.

Si sedette sul bordo del marciapiede, sconsolata. Le mancava giusto di essere aggredita: quella di che sarebbe stata un’ottima conclusione per quella giornata di merda. Guardava fisso un tombino a pochi passi da lei.

D’un tratto percepì qualcuno alle sue spalle. Per un attimo le si fermò il cuore.

“Guarda che ho fatto un corso di autodifesa!” Disse per niente minacciosa, voltandosi.

“Sei piena di sorprese, ragazzina!” Disse Cult ridacchiando.

“Ma sei impazzito?!?! Stavo per morire di paura!”

Il ragazzo continuò a ridacchiare.

“E comunque come hai fatto a trovarmi? Mi hai messo un gps?!”

“Non ti sei resa conto che sei a neanche cento metri dal nostro palazzo, vero?!” Chiese indicando alla sua destra.

“Ma no!” Disse lei convinta, alzandosi. “Sono andata dritta, poi a destra, poi a sinistra, no, prima sinistra, poi destra… Oh beh chissene frega!” Concluse tornando a sedersi.

“Tuo padre mi ha chiesto di venire a cercarti”.

Joan non disse nulla, incrociando le braccia e appoggiandole alle ginocchia. Cult prese posto al suo fianco, scrutandola.

“Come stai?”

“Benone!” Disse lei sarcastica. “Mia madre stava per avere un infarto e mio padre era deluso come mai prima d’ora… Grande serata, direi!”

“Erano solo scioccati, gli passerà presto!”

“Non so…” Disse lei sconsolata. “Sta volta l’ho fatta grossa”.

“Non sei più una bambina, hai avuto un problema e lo hai risolto come potevi, come un’adulta! Dovresti essere fiera di te e dovrebbero esserlo anche loro!” Ribattè lui serio. Il suo viso, nella penombra della notte, era ancora più bello, con gli occhi chiari che riflettevano la luce del lampione e la pelle, ormai leggermente ambrata che contrastava con quell’azzurro limpido.

“Ora andiamo a casa, avanti!”

Lei scosse la testa, convinta, tornando a fissare l’altro lato della strada.

“Guarda che i tuoi sono tornati in hotel, potrete chiarirvi domani… Con calma…” La rassicurò, restando però fermo dov’era, sicuro che anche con quelle parole lei non si sarebbe mossa.

“Possiamo restare qui ancora un po’?” Sussurrò appoggiando la testa sulla spalla di lui. “Solo cinque minuti”.

“Certo, tutto il tempo che vuoi”.

"Questo silenzio che determina il confine tra i miei dubbi e la realtà"


  
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