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Autore: _Frame_    19/03/2017    7 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Vorrei solo far notare che l’ultima volta in cui Italia e Germania si sono visti di persona è stato nel Capitolo 60, pubblicato il 29 novembre del 2015. Ora siamo al Capitolo 119 e oggi è il 19 marzo 2017. Quindi Lud e Feli hanno passato letteralmente metà fan fiction e più di un anno (di tempo reale) lontani l’uno dall’altro. E nella fan fiction sono trascorsi solo quattro mesi, in realtà, perché nel Capitolo 60 eravamo a ottobre del Quaranta e adesso siamo a gennaio del Quarantuno.

Io... Io non so nemmeno come reagire a questa cosa, giuro. Forse un “scusate l’attesa” basta per perdonarmi? (^-^)" 

 

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119. Croce di ferro e Cicatrice

 

 

Italia spinse la sua sacca sul sedile posteriore dell’autocarro parcheggiato sulla stradina che confinava con il campo base. Salì sulle punte dei piedi per sporgersi e tendere lo sguardo su una delle tasche esterne del bagaglio, vi infilò la mano dentro e tastò i rotoli di garza di emergenza e le boccette di vitamine e antibiotici che gli aveva dato il capitano medico. Richiuse la sacca, scese dalle punte dei piedi facendo scricchiolare le suole sulla neve ghiacciata, compì un passettino all’indietro per lasciare spazio a uno dei due ufficiali che stava raggiungendo il posto di guida, e si strofinò le spalle avvolte dalla giacca, sopprimendo una scossa di brividi gelati che si era arrampicata lungo la schiena.

Romano e un secondo ufficiale si avvicinarono al bagagliaio dell’autocarro sorreggendo altre due sacche, l’uomo si chinò ad aprire l’anta, infilò il primo bagaglio e lasciò posto a Romano che incastrò anche quello che trasportava lui. L’ufficiale si strofinò le mani grigiastre di freddo, si rimboccò il bavero dell’uniforme pesante, e rivolse lo sguardo a Italia.

“È a posto, signore?” gli chiese. “Non dimentica nulla?”

Italia sfilò le mani dalle spalle, le giunse in grembo, intrecciò le dita per tenerle al caldo, e scosse la testa. “No. A posto, grazie.” Un primo nodo di ansia si allacciò attorno al suo cuore, gli chiuse il fiato gettandogli addosso un’ondata di gelo che scese fino allo stomaco, e si ritirò. Italia inspirò a fondo una sorsata di aria pungente odorante di neve e fumo, riprese fiato, chiuse i pugni sui fianchi, raddrizzò le spalle, e indurì i lineamenti del viso che erano impalliditi. Annuì facendosi coraggio, gli occhi luccicarono di determinazione. “Possiamo partire.”

L’ufficiale annuì di rimando, abbassò il copricapo davanti alla fronte, chiuse l’anta del bagagliaio, e si spostò. Scoprì la figura di Romano ancora in piedi, le braccia incrociate al petto, gli occhi bassi, le labbra nascoste dal colletto della giacca, e le guance arrossate dal freddo, pizzicate dai sottilissimi fiocchi di ghiaccio trasportati dal vento.

Italia esitò. Strinse di più l’intreccio di dita, fino a pizzicarsi la pelle con le unghie, e anche il suo sguardo cadde in mezzo ai piedi, fra la neve mescolata alla terra nera e ai sassi che scavavano la stradina. Rigirò la punta di una suola nel terreno, si sfregò la caviglia, voltò il viso grattandosi dietro la nuca, e un angolo delle labbra tremolò in una smorfia di disagio. Di nuovo l’anello di ansia tornò a chiudergli la bocca dello stomaco, facendo salire un amaro senso di nausea.

Romano guardò per terra a sua volta, si infilò le mani nella tasca della giacca, diede un piccolo calcetto alla neve scrostando un sasso dallo strato di ghiaccio, e si chiuse nelle spalle tenendo gli occhi distanti da quelli di Italia. “Stai proprio andando, allora,” mormorò.

Italia spostò il peso da una gamba all’altra, diede un’altra grattata per terra con la punta dello stivale, e chinò di più il capo. Annuì con un gesto rigido. “Sì.”

Il primo ufficiale che gli era passato accanto richiuse lo sportello dell’autocarro. Il suono improvviso fece sobbalzare Italia, arrivò come un pizzicotto dato in fondo alla schiena, una scossetta dei nervi in tensione.

Romano si girò di profilo, guardò il cielo, le cime delle montagne color acciaio nascoste dagli strati di nuvole, e lasciò che i cristalli di neve gli macchiassero le guance e i capelli. Soffiò un sospiro che si condensò in una nube bianca e spessa. “Fai attenzione.” Indicò il petto di Italia con un’alzata di mento, senza volgergli gli occhi. “Con la ferita.”

Italia tornò ad annuire con lo stesso gesto rigido. “Sì,” mormorò, e anche il suo fiato divenne condensa.

Il vento fischiò fra le montagne. Gli alberi spogli che crescevano attorno al villaggio, sul ciglio della stradina sterrata, si scossero lasciando piovere una nebbiolina di neve che cadde fra i due fratelli, raggelò la densa e grigia aria del primo mattino. Entrambi respiravano piano, gli sguardi distanti, le fronti basse, le facce spente e il senso di vuoto a gravare nel petto.

I passi del secondo ufficiale ancora fuori dall’autocarro scricchiolarono nella neve, interruppero il silenzio che si infranse come una lastra di ghiaccio.   

Italia sollevò il viso, prese un respiro di coraggio. “Ehm, Romano.” Stropicciò le dita infreddolite, si sfregò di nuovo un piede sulla caviglia e si strinse nelle spalle. Si morse il labbro. “V-volevo dirti che...”

“Cerca...” Romano lo interruppe ma si bloccò subito. Diede una grattata al terreno con la punta dello stivale, sfilò le mani dalle tasche e incrociò le braccia al petto. Imbronciò il viso, ma gli occhi rimasero lucidi di preoccupazione. “Cerca di non combinare casini o di ficcarti in qualche macello,” disse.

Italia annuì piano. “Sì.” Spostò di nuovo il peso da una gamba all’altra, si strofinò il braccio, e lo sguardo tornò a cadere in mezzo alla neve sbriciolata alla terra e ai sassi e schiacciata dalle impronte di stivali e di pneumatici.

Romano fece tamburellare le dita sugli avambracci, guardò in cielo, oltre le nuvole, e i suoi occhi si tinsero di grigio. Fitte ombre si infossarono attorno alle palpebre e le resero più profonde e nere. Lo sguardo assente, smorto. “Se...” Abbassò il capo, i capelli gli nascosero il viso. “Se la ferita dovesse peggiorare,” inspirò, il peso al cuore si infittì, “allora...” Lo disse prima di pentirsene. “Allora resta a casa.”

Italia esitò, sollevò le sopracciglia in un’espressione ferita, e strinse una mano sull’orlo della giacca per resistere alla tentazione di posarla sopra la cicatrice.

Romano scosse il capo ed emise un sospiro rassegnato. “Non tornare qua dove non possono curartela se ti dovessi sentire di nuovo male.”

Italia scosse la testa a sua volta, mostrò uno sguardo più deciso. “Non starò male.” Strinse forte i pugni per darsi coraggio e sopprimere una scossetta di paura. “E non avrò nemmeno bisogno di restare a casa.” Stese le braccia, raccolse le mani di suo fratello, le strinse alle sue e se le portò al petto. “Romano.” Lo guardò negli occhi, gli mostrò un viso sincero che riuscì a splendere nonostante il grigiore delle guance scarnite e nonostante lo sguardo fosse sciupato dalla fame e dalla stanchezza. “Io tornerò,” gli disse. “Qualunque cosa dovesse succedere, ti giuro che non ti lascerò mai da solo qui.” Chiuse di più le dita, le sue braccia tremarono, e la sua voce divenne un sussurro. “Tornerò da te. Anche se Germania mi ordinasse di non farlo.” Restrinse le palpebre per contenere un velo di lacrime dietro le ciglia. “Te lo giuro.”

Romano si morse il labbro tremante, sentì un flusso di pianto salire a infiammargli le guance, a scottare in mezzo agli occhi, e nascose il viso tuffando un abbraccio attorno alle spalle di Italia. Lo strinse a sé strappandogli un gemito di sorpresa, chiuse le braccia dietro le sue spalle, accostò la guancia alla sua – entrambe fredde come ghiaccio – e sospirò accanto al suo orecchio. “Se il crucco dovesse fare lo stronzo con te,” inasprì il tono, “tu dagli un calcio in mezzo ai denti, chiaro?”

Italia soffocò una risatina contro la sua spalla, e il suo respiro vibrò accanto al suo viso. “Non riuscirei a farlo.” Strinse anche lui l’abbraccio attorno a Romano, si accoccolò più vicino a lui facendogli passare le braccia attorno al collo, parlò con voce più bassa. “Anche se Germania dovesse sgridarmi, non piangerò e non mi lamenterò, perché so di meritarmelo.”

Romano aggrottò la fronte. “Non farti mettere i piedi in testa.” Si sfilò dall’abbraccio e posò le mani sulle spalle di Italia, lo guardò dritto negli occhi mostrandogli un’espressione dura. “Fagli vedere che siamo noi a guidare la nazione, e non lui.”

Italia annuì con decisione. “Lo so.” Sollevò una mano e raccolse una di suo fratello, intrecciarono le dita. Gli mostrò un sorriso dolce che gli fece luccicare gli occhi. “Tu sarai con me.”

Romano fece roteare lo sguardo, fece aria vaga e soffiò una nuvoletta di condensa. “Quello che è,” brontolò.

I passi scricchiolanti di un terzo ufficiale si avvicinarono alle spalle di Italia. L’uomo si mise in attenti accanto a lui e gli rivolse la parola. “È pronto a partire, signore?”

Italia abbassò la mano dalla spalla, ma senza districare le dita intrecciate a quelle di Romano. Si voltò verso l’ufficiale e annuì. “Sì.” Inspirò, lasciò che l’aria scivolasse fino alla pancia, placando il borbottio di agitazione che già gli stava formicolando nello stomaco, e spremette due volte la mano a suo fratello. “Sì, sono pronto.”

L’ufficiale annuì, sciolse l’attenti, si sistemò il copricapo già sporco di neve davanti alla fronte, e si avviò verso l’autocarro.

Italia spremette due volte la mano, tornò a girarsi verso Romano, lo guardò di nuovo negli occhi mostrando quell’espressione combattuta. “Romano.” Il vento imbiancato dal nevischio soffiò in mezzo a loro, gli fece dondolare i capelli davanti agli occhi donandogli un’aria malinconica. “Aspettami,” disse Italia. “Aspettami, perché tornerò.” Gli strinse entrambe le mani e guardò in basso, ma senza mostrare vergogna. “Io sto andando da Germania per... per salvarci tutti, non per scappare.” Gli strinse forte le mani, trasmettendogli una profonda scossa di coraggio che arrivò anche al suo cuore. “Aspettami.”

Romano irrigidì, stette immobile, in mezzo alla spira di vento, infreddolito, e annuì. “Sì.” Sfilò una mano da quella di Italia, gli intrecciò le dita alla frangia, gli pettinò i capelli via dalla fronte, passò una piccola carezza lungo il profilo della nuca. “Ti aspetterò.”

Italia strinse le labbra per contenere un singhiozzo. Tuffò un altro abbraccio attorno al collo di Romano, rintanò il viso contro la sua spalla e strizzò gli occhi trattenendo le lacrime che bruciavano agli orli delle palpebre. “Ti voglio bene,” sussurrò.

Romano annuì, soffocò il suo dolore in quell’abbraccio, gli massaggiò i capelli sulla nuca e gli diede un piccolo colpetto di incoraggiamento su una spalla. Schiusero la stretta, Italia si sfregò una manica sulle guance, asciugandosi dal nevischio e da qualche lacrimuccia che si era staccata dalle ciglia, e salutò Romano in silenzio, sventolando la mano. Romano gli fece un cenno col mento, si voltò di profilo e abbassò lo sguardo.

L’ufficiale che era salito alla guida dell’autocarro mise in moto il mezzo. L’autocarro si accese con un rombo metallico, gettò una soffiata di fumo nero, emise una vibrazione più profonda, e i suoi borbottii richiamarono lo sguardo di Italia. Italia si girò, si aggrappò alla croce di ferro che pendeva dal collo e diede le spalle a Romano. Camminò di fianco al terzo ufficiale che era venuto a chiamarlo e l’uomo lo seguì dentro la nebbiolina grigia creata dal gas di scarico.

L’ufficiale si rimboccò la giacca. “Dovremo prendere delle strade secondarie, signore,” disse, “molti terreni sono inagibili a causa della neve. Avremmo preferito farla viaggiare con un aereo, ma anche le piste di decollo sono impraticabili, e molte linee ferroviarie sono state fatte saltare, quindi riusciremo a farle prendere il treno solo varcando il confine jugoslavo. Impiegheremo circa tre giorni per arrivare al Passo del Brennero.”

Italia annuì con un gesto debole, continuando a tenere lo sguardo chino. “Va bene,” mormorò. Anche lui si strinse fra i lembi della giacca, rabbrividì, e soffiò una nuvola di condensa.

Il secondo ufficiale che non era ancora salito sul carro tese un braccio e aprì lo sportello posteriore, si mise in disparte per lasciar passare Italia. “Prego.”

Italia chinò la testa e si infilò fra i sedili, immergendosi nel tepore dell’autocarro che profumava di pelle. Salirono anche gli altri due ufficiali, richiusero gli sportelli, il motore emise un rombo più feroce, l’autocarro sobbalzò in avanti, a singhiozzo, e partì schiacciando neve e terra congelata sotto gli pneumatici. Italia salì sulle ginocchia, si girò aggrappandosi al sedile, sporse lo sguardo fuori dal parabrezza posteriore macchiato di ghiaccio, e cercò il profilo di Romano rimasto immobile in mezzo alla stradina sterrata. L’autocarro accelerò, e l’immagine di Romano si rimpicciolì, sempre più opaca e sfumata dalla neve che si sbriciolava sotto il cielo grigio. Italia sollevò una mano, ripeté il saluto sventolando il braccio, e una stretta di dolore gli scavò nel petto, dandogli quella sensazione di vuoto che provava ogni volta in cui si separavano. Romano saltò di un paio di passi in avanti, sventolò anche lui il braccio, e corse dietro l’autocarro fino a che il mezzo non svoltò una curva, svenendo dietro la parete di roccia della montagna.

 

♦♦♦

 

18 gennaio 1941, Passo del Brennero

 

Grossi fiocchi di neve picchiavano contro il finestrino del treno, si scioglievano in rigagnoli trasparenti che attraversavano il vetro e finivano spazzati via dal vento che soffiava contro la carrozza in corsa. Il paesaggio scorreva rapido, una cornice di alberi imbiancati circondava i binari, spumose nuvole grigie brulicavano in cielo nascondendo le cime delle montagne che sparivano dietro la foschia. Il ritmico ondeggiare del vagone scorreva in un silenzio macchiato solo dal suono della sua corsa e dal picchiettare della neve sui finestrini.

Italia si sporse dal suo sedile, aprì una mano sul vetro gelato lasciando un’impronta di condensa attorno alle dita, e avvicinò il viso al suo riflesso, scrutando il bosco innevato con gli stessi occhi stanchi e addolorati con cui aveva lasciato l’Albania. Abbassò le palpebre annerite, poggiò la fronte al vetro, schiacciando le ciocche della frangia, e il suo stesso respiro rimbalzò sul vetro, tornando indietro in un piacevole tepore che gli pizzicò le guance, inumidendogli la pelle. Il ritmo ondeggiante della corsa del treno e il silenzio ovattato dai fiocchi di neve che danzavano attorno al vagone lo cullarono in una piacevole sensazione di assopimento che lo avvolse come una coperta. Il calore al profumo di pelle che stagnava nel vagone gli rilassò i muscoli, distese i nervi in tensione, e Italia si riappoggiò con le spalle all’imbottitura del sedile. Tenne gli occhi chiusi, strinse le ginocchia, e chiuse la croce di ferro fra le dita. Annodò la catenina sull’indice, grattò uno dei bracci di metallo con l’unghia del pollice, rigirò il ciondolo passandolo da un polpastrello all’altro come si fa con i grani del rosario.

Inspirò ed espirò profondamente.

Un freddo brivido di paura risalì la schiena, gettò via il mantello di tepore che si era stretto attorno al suo corpo, e fu come se Italia si fosse trovato di nuovo immerso in mezzo alla neve, con i piedi nudi nel ghiaccio. Deglutì. Si chiuse nelle spalle stringendo le ginocchia contro il ventre, chiuse la croce dentro il palmo e soppresse una pioggia di brividi che gli gocciolarono lungo la spina dorsale. Una profonda sensazione di terrore e disagio gli annodò lo stomaco, i fremiti aumentarono, il respiro accelerò, il viso impallidì e la pelle bianca mise in risalto le profonde occhiaie nere che gli cerchiavano le palpebre.

Italia chinò il viso tenendo gli occhi chiusi. Un’estremità della croce di ferro che continuava a rigirare fra le dita gli punse la carne, lo fece sussultare, e lui avvolse il ciondolo nel palmo, raccogliendo tutta l’ansia e il dolore che premevano sul cuore come una lama infilata fra le costole che si spostava a ogni respiro e a ogni tremito.

Nella nebbia nera della sua mente, Italia scorse l’ombra di Germania girato di profilo, il suo sguardo che lo fissava dall’alto, da sopra la spalla, e i suoi freddi occhi azzurri che lo scrutavano con un’espressione di minaccia e di odio. Italia immaginò le sue parole di accusa echeggiare nella testa, ed entrargli nella carne come un pugno allo stomaco. Hai tradito l’alleanza, hai tradito i nostri paesi. E hai tradito me. Non sei più degno di essere un membro delle Potenze dell’Asse. Restringeva le palpebre, gli occhi di ghiaccio diventavano affilati e duri come l’acciaio. Sparisci dalla mia vista, Italia, e non farti più rivedere. Germania gli dava le spalle, voltandosi di schiena, e il suo volto svaniva, rimaneva solo la sua dura voce. Se tu dovessi morire in Grecia non mi riguarderebbe. Io e te non saremo più amici.

Le labbra di Italia vibrarono. Lui prese un respiro tremante più simile a un singhiozzo, e un altro nodo di ansia si allacciò attorno al cuore, gli strinse un groppo alla gola, si sentì soffocato come dopo aver mandato giù un boccone di traverso.

Si rannicchiò sul sedile, strinse le gambe al ventre per placare il dolore allo stomaco, si sfregò le mani contro le spalle per sopprimere i brividi di gelo e di terrore. Un violento tremore gli scosse i muscoli, il viso bianco di paura divenne gelido, gli occhi vitrei e larghi, lucidi di ansia, si spostarono di nuovo sul finestrino del vagone, riflessero la caduta della neve che si scioglieva di traverso lungo il vetro. Il paesaggio fitto di alberi cominciava a schiudersi, altre rotaie correvano in parallelo ai binari sempre più larghi e srotolati in una strada spoglia, piccole casette di pietra sbucavano in lontananza, in mezzo alla foschia della neve, e le pareti delle montagne si facevano più vicine e scoscese, grigie e lucide come lastre d’acciaio incrostate di ghiaccio e frammentate da macchie di boscaglia.

Italia socchiuse le palpebre, tornò a poggiare una mano al finestrino, solo con le punte delle dita, e premette la tempia sul vetro. Sospirò, sciolse il nodo di tensione che gli artigliava la gola, e i ricordi dei mesi passati sorsero come una dolce fiammella, gli intiepidirono il cuore. Il calore si espanse in tutto il petto, fece nascere un piccolo sorriso sulle labbra.

Qualche mese fa era autunno. Spostò la mano, seguì con l’indice il percorso di un fiocco di neve sciolta, e si immaginò di cancellare il ghiaccio dagli alberi, e si passarci sopra un pennello tinto di giallo, di ambra e di rosso, di colorare cespugli di foglie mosse da una tiepida brezza autunnale. C’erano molti più colori, faceva più caldo e c’era anche il sole. Strinse la mano sul finestrino, premendovi le nocche sopra, e chiuse gli occhi ripensando all’ultima volta in cui l’aveva stretta a Germania, quando i loro passi scricchiolavano nel fondo del bosco, in mezzo alle foglie secche, attraverso la stradina illuminata dalla lama di sole dorato che tagliava le fronde e scivolava lungo la terra profumata. Lo stesso senso di pace e di gioia che aveva provato nel tenergli stretta la mano, nel camminargli affianco e nel farsi prendere in braccio dopo essere saltato giù dal muretto, tornò ad alleggerirgli il cuore e a imporporargli le guance. Ero felice l’ultima volta che sono stato qui. Anche se quella notte... Strinse la mano libera sulla coscia, raccolse il calore che si era impresso nella mente prima di partire per la Grecia. Evocò il ricordo a cui si era tenuto stretto durante le notti passate a dormire in mezzo al ghiaccio, alla neve, con lo stomaco bucato dalla fame e la sensazione di vuoto a premere nel petto. È stata l’ultima volta che ho potuto abbracciare Germania.

Riaprì gli occhi, sbatté piano le ciglia, e le labbra incurvate in quel piccolo sorriso di consolazione tornarono piatte, lo sguardo spento e ingrigito dalla paura. Sospirò, e attorno al cuore tornò a formarsi un nodo di ansia, la pesante e dolorosa sensazione di disagio scese attraverso la pancia e gli ingarbugliò lo stomaco. Italia si premette un braccio sul ventre e massaggiò per placare i brividi di agitazione. Chissà se questa volta vorrà ancora abbracciarmi? Tornò a stringere la croce fra le dita, a rigirare la catenina e a sfregarla con le unghie. Forse non potremo mai più essere così vicini. Non potrò mai più abbracciarlo. Sospirò abbattuto, lasciò ciondolare il capo fra le spalle e si abbandonò a un’ondata di sconforto. E me lo merito.

“Signore?”

Italia sobbalzò, come se avesse preso la scossa, e girò lo sguardo verso la voce che lo aveva chiamato.

Un ufficiale era sull’attenti nel corridoio che separava i sedili del vagone, lo guardava da sotto la frontiera del copricapo. “Siamo quasi arrivati, signore,” gli disse. “Siamo a cinque minuti dalla stazione.”

Italia sospirò. “Oh.” Tornò a guardare fuori dal finestrino, si abbottonò la giacca che aveva lasciato aperta sulle spalle, e annuì debolmente. “Va... va bene.” D’istinto, sollevò gli occhi verso la sacca che aveva sistemato sullo scomparto del treno sopra le poltroncine.

L’ufficiale lo anticipò. “Non si preoccupi del bagaglio, glielo portiamo noi.”

“Ah. G-grazie.”

Il treno emise un debole stridio sulle rotaie, ci fu un sobbalzo, uno sbuffo più profondo, e svoltarono una curva.

Un secondo ufficiale comparve dietro il primo, strinse le braccia dietro la schiena, irrigidendo, e anche lui si rivolse a Italia con tono più morbido. “Ha bisogno di aiuto per scendere dal treno?”

Italia scosse il capo con un movimento meccanico, gli occhi scivolarono in basso, tornarono vitrei e smarriti. “N-no, grazie.” Siamo arrivati? Siamo già arrivati? Devo già scendere? Devo già trovarmi davanti a Germania? Non ce la faccio, non posso farcela, non... Deglutì a fondo, il cuore accelerò. Italia raccolse l’ultimo bottone della giacca, sollevò il mento per stringere il bavero sotto la gola. Le dita sudate tremolarono, accostarono il bottone all’asola, scivolarono, lo raccolsero di nuovo ma non riuscirono a infilarlo nello spacco di stoffa. Italia inspirò ed espirò, il viso impallidì e la voce uscì in un sussurro strozzato. “Ce la faccio.” Si abbottonò l’ultima chiusura della giacca, lisciò la stoffa sulle spalline ma le mani continuarono a tremare. In viso divenne ancora più bianco, quasi grigio, e il groviglio di ansia gli torse lo stomaco in un crampo che gli indurì il ventre. Italia allacciò le braccia attorno allo stomaco, si strinse nelle spalle, chiuse le ginocchia, e si massaggiò a fondo tenendo il viso basso in mezzo ai piedi. Respirava piano, a singhiozzi, ignorando il peso del cuore che sentiva martellare in gola. Calmati, calmati, calmati.

I due ufficiali si scambiarono un’occhiata preoccupata, uno di loro strinse una mano alla poltroncina e chinò le spalle per parlare più vicino a Italia. “Tutto bene, signore?”

Italia annuì senza sollevare gli occhi dal pavimento. “S-sì,” farfugliò.

Il paesaggio si aprì sulla stazione. Filari di cavi scorrevano sopra i binari, le ombre dei piccoli edifici in pietra sostituirono quelle degli alberi e coprirono i primi soldati tedeschi in piedi sulla piattaforma. I freni del treno cominciarono a stridere e a soffiare getti di vapore che salirono mescolandosi alla foschia della neve.

Italia volse lo sguardo fuori dal finestrino, si sporse, riconobbe la stazione, e il cuore accelerò premendo un forte dolore all’altezza dello sterno. L’ultima volta non aveva aspettato che il treno si fermasse. Era saltato giù dalla sua poltroncina, era corso attraverso il vagone e si era precipitato sulla piattaforma, in cerca di Germania, sentendo i piedi volare e il cuore battere di emozione, gonfio di gioia. Ora le gambe erano due pezzi di gesso, il cuore un blocco di pietra dolorante che scavava un buco nero nel petto a ogni respiro tremante.

Il treno fischiò, i freni stridettero, sollevarono una nuvola di fumo attorno al vagone, che lievitò in uno spesso banco di nebbia bianca. Un sobbalzo fece vibrare il pavimento, il vagone diede una frenata che sbalzò la carrozza in avanti e lo fece tornare indietro. I freni soffiarono, l’eco del motore appena spento gorgogliò alimentando la nube di vapore fuori dai finestrini.

L’ufficiale che si era chinato per parlare a Italia raddrizzò la schiena, si aggiustò il colletto della giacca e la lisciò lungo i fianchi. “Eccoci.”

Il secondo annuì e avanzò di un primo passo verso la porticina del vagone che dava sulla piattaforma. “Andiamo, signore.”

Italia strinse i pugni sulle cosce, piegò le spalle e si impietrì, ghiacciato da una scossa di terrore che gli trafisse il petto. Inspirò, trattenne il fiato mordendosi il labbro sbiancato, e annuì anche lui. Si appese con una mano alla rientranza del finestrino, premette il peso sulle ginocchia, si sollevò dalla poltroncina, e le gambe si indurirono. Una scossa di dolore gli attraversò la pancia, scaricò un crampo, il fiato si accorciò dandogli un giramento di testa. Italia tornò a rimbalzare sul sedile, gemette un piccolo guaito, inspirò a fondo, e le gambe ricominciarono a tremare, molli e deboli. Non lo ressero in piedi.

L’ufficiale tornò a chinarsi, gli posò una mano sulla spalla. “Ce la fa?”

Italia riprese fiato, si strofinò la fronte, lo sguardo vitreo vacillò, e le labbra furono scosse da un fremito. “Uh.” Premette le mani sulla poltroncina, forzò di nuovo il peso in fondo alle gambe, costringendo le ginocchia a smettere di dondolare. “Forse.”

L’ufficiale gli porse un braccio, gli portò una mano dietro la schiena e lo aiutò ad alzarsi, tenendolo in equilibrio. Gli batté delicatamente la mano sulla schiena. “Stia tranquillo, andrà tutto bene,” lo rassicurò. “Faccia un bel respiro.”

Italia chiuse gli occhi, si posò la mano sul petto, e inspirò a fondo, come prima di immergersi in acqua, ma nemmeno il suo respiro riuscì a sciogliere il nodo di ansia che stringeva sul ventre. Sollevò un piede tremante, compì un primo passo sul pavimento ancora vibrante del treno appena fermato nella stazione, e il senso d’ansia lo seguì come una minacciosa ombra nera che gravava sulle sue spalle.

 

.

 

Germania si sporse dalla piattaforma della stazione, volse lo sguardo agli sbuffi del treno in arrivo, ancora nascosto dietro la curva di roccia che imboccava il binario. Sollevò la visiera del copricapo, assottigliò le palpebre per scrutare in mezzo al nevischio che si era ingrossato, e il suo respiro silenzioso soffiò una tiepida nuvoletta di condensa. Il suono ritmico del treno in avvicinamento si fece più intenso, vibrò attraverso le rotaie e spanse un sottile eco fra le pareti delle montagne che circondavano la stazione del Brennero.

Uno dei suoi ufficiali gli si avvicinò passando in mezzo agli altri uomini fermi sulla piattaforma, batté un attenti facendo schioccare i tacchi sul cemento, e irrigidì lo sguardo. “Sono in arrivo, signore,” annunciò.

Germania gli rivolse uno sguardo rapido, annuì e compì un passo all’indietro. “Bene.” Infilò due dita sotto il bavero del cappotto pesante e lo rimboccò sotto il mento, tenendo lo sguardo immerso nella neve che fioccava appannando il paesaggio e ovattando il silenzio infranto solo dalla marcia del treno in avvicinamento.

Inspirò quell’aria densa e fredda, che pungeva la gola di un sapore ferroso, e un primo tiepido guizzo gli attraversò il cuore, lo fece fremere di attesa. Il pensiero di vedere Italia scendere dal treno, di poterlo guardare negli occhi, di poter sentire la sua voce senza la sgranatura della radio a separarli, e di poter sfiorare la sua guancia, toccargli i capelli, riuscì a colorargli le guance di rosa anche in quell’espressione dura e inflessibile come ghiaccio che teneva nascosta sotto l’ombra del copricapo.

Sarà ferito? si chiese. Considerando l’andamento della campagna e quello che mi ha detto durante l’ultima telefonata, è probabile che le sue condizioni non siano migliorate.

Il muso del treno sbucò da dietro la parete di roccia, rallentò, e alcuni degli ufficiali tedeschi in piedi sulla piattaforma compirono un passo in avanti, misero le mani davanti alla fronte e tesero gli sguardi.

Germania raddrizzò le spalle, impietrì la posa statuaria, strinse le mani dietro la schiena e sollevò il mento, tornando buio in volto. Gli occhi stretti e pungenti come lame di ghiaccio.

Ma dovrò essere inflessibile con lui, senza lasciarmi trascinare dalle emozioni. Strinse le mani, prese un altro profondo respiro, chiuse gli occhi e aggrottò la fronte. E lo faccio per il suo bene.

Un fischio, uno stridio delle ruote sui binari, uno sbuffo di vapore, e il treno soffiò il suo ultimo respiro, si spense circondato dalla nuvola di fumo, in mezzo alla spolverata di fiocchi di neve.

 

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L’ufficiale italiano scese per primo dal vagone del treno. Posò i piedi sulla piattaforma di pietra incrostata di ghiaccio e neve, unì subito le gambe, batté i tacchi, e piegò un saluto militare rivolto ai tedeschi che li aspettavano in piedi davanti all’edificio della stazione. Anche loro fecero lo stesso. L’ufficiale si girò, aspettò Italia seguito da altri due militari.

Italia tese il piede sul gradino, premette un primo passo tremolante e lo scricchiolio della suola sul ghiaccio spaccò la bolla di silenzio che avvolgeva la stazione. In mezzo al paesaggio bianco e ovattato dalla caduta della neve, stagnava solo il soffice fischio sibilante del treno circondato dalla nube di fumo. L’ufficiale italiano tese una mano, la aprì verso Italia, “Faccia piano,” e seguì la sua discesa dal vagone con occhi apprensivi. Italia annuì, si aggrappò con una mano all’orlo dell’uscita, sollevò lo sguardo e si affacciò alla piattaforma occupata dai tedeschi sull’attenti. L’aria fredda e punzecchiante gli alitò in faccia, soffiò attraverso i capelli e sgusciò sotto i vestiti, ingabbiandolo in una rete di gelo. Oltre la neve, gli occhi bui dei soldati lo scrutavano in silenzio, minacciosi e brillanti come quelli di uno stormo di gufi appollaiati sui rami della foresta che spiano lo zampettare di un topolino. Alcuni voltarono il viso e lo guardarono di traverso, occhiate di disprezzo trafissero la nevicata e penetrarono nel suo petto come tanti spilli. Uno di loro si chinò a sussurrare qualcosa al suo vicino, l’altro annuì e rinnovò lo sguardo buio e crudele rivolto a Italia.

Italia si irrigidì in un ansito di paura, spostò la gamba all’indietro e sbatté la schiena contro uno degli altri ufficiali che lo accompagnava. Rabbrividì, sentendosi chiuso in gabbia, e abbassò lo sguardo ai suoi piedi per non fronteggiare le occhiatacce dei tedeschi che premevano su di lui. Deglutì, trattenne il fiato, chiuse gli occhi, e porse la mano all’ufficiale che lo aspettava già sulla piattaforma. Gli strinse le dita inguantate, si aggrappò al senso di rassicurazione e coraggio che gli dava quella presa. “Grazie,” mormorò. Scivolò giù dal gradino, i muscoli indolenziti delle gambe lo fecero ballonzolare, e l’ufficiale gli aprì una mano dietro le spalle per non fargli perdere l’equilibrio.

“Faccia attenzione.”

Italia annuì. Raddrizzò la schiena ma si tenne chiuso nelle spalle, il capo schiacciato dalla pressione di quelle occhiate di ferro, e lo sguardo fisso sulle impronte degli stivali che tatuavano lo strato di neve sulla piattaforma. Il suo fantasma di quell’autunno saltò giù dal treno, gli corse vicino a braccia spalancate, il viso luminoso di gioia, e svanì correndo in cerca di un abbraccio e di un volto familiare.

Italia si passò una mano sulla fronte per togliere i capelli spettinati dagli occhi, sollevò il viso, soffiò un sospiro stanco che si gonfiò una nuvoletta di condensa a fior di labbra. Il fumo evaporato dal treno e mescolato ai fiocchi della nevicata si schiuse, i riccioli bianchi e spumosi si sciolsero, rotolarono fra le rotaie e in mezzo ai piedi dei militari, risalirono quell’aria opprimente, fitta dell’odore di ghiaccio e di ferro.

Un’ombra più alta delle altre si materializzò in mezzo agli ufficiali. I fiocchi di neve danzanti inspessirono la nebbiolina, gli volteggiarono attorno disegnandone il profilo composto e più rigido degli altri uomini.

Germania lo aspettava nella stessa posizione dell’autunno scorso: come una fotografia. Le spalle dritte e larghe, il viso celato dall’ombra, ma attorno a lui si apriva un cielo grigio sbavato dal fumo del treno e dal nevischio che cadeva di sbieco, sospinto dal leggero soffio del vento.

Italia sgranò gli occhi, socchiuse le labbra una fitta allo stomaco gli tolse il fiato. La sua mente si svuotò dimenticandosi di tutto il groviglio di pensieri neri che avevano sciamato nella sua testa durante tutto il viaggio. Il cuore batté forte, esplose di gioia slacciando il nodo di ansia. Il sangue corse infiammando il petto, le braccia e le gambe, sciolse i brividi di paura e salì a bruciare sulle guance e fra le palpebre. Gli occhi splendettero, gonfi e già umidi, riflessero le scintille cristalline della neve che fioccava attorno a lui. La fiammata di gioia improvvisa avvampò attraverso il suo corpo, spazzò via i dolori delle ferite, gli fece sentire i muscoli di nuovo leggeri come foglie.

Italia si dimenticò degli sguardi dei tedeschi. Premette un primo passo verso Germania – crunch! – ne pestò un altro, un altro ancora, accelerò, prese a correre e passò in mezzo al fumo, con la neve che fischiava e pizzicava sulle guance e sulle orecchie, macchiandogli i capelli sventolanti. Allargò il sorriso, il cuore galoppò scoppiando di entusiasmo, il suo respiro soffiò rapido lasciando una scia di condensa, e nei suoi occhi lucidi si specchiò l’immagine di quell’autunno: lui che correva sulla piattaforma, che spalancava le braccia, che staccava i piedi da terra con un balzo e che si tuffava su Germania, aggrappandosi alle sue spalle, al suo calore, facendosi stringere forte.

Germania non si mosse, un paio di ufficiali arretrarono di un passo per non finire calpestati dalla corsa di Italia.

Il fiatone della corsa arrochì il respiro di Italia, l’aria ghiacciata gli pesò sui polmoni, le gambe indolenzite tornarono a indurirsi, e lui rallentò, saltellò di altre tre falcate seguito dalla scia di impronte, e camminò di un altro paio di passetti barcollanti davanti a Germania.

Si piegò a riprendere fiato, aprì le mani sulle ginocchia flesse, boccheggiò gonfie nubi di condensa, i capelli caddero davanti agli occhi, ma il cuore continuò a martellare di felicità, a fargli sentire il petto gonfio ma leggero, ad allargargli il sorriso luminoso di speranza infossato nelle guance rosse di emozione. 

Italia tornò a infilarsi le dita fra le ciocche della frangia, la scostò dagli occhi, e sollevò lo sguardo sorridente e affaticato incontro a quello di Germania.

I loro occhi si incrociarono.

L’ombra sotto il copricapo di Germania gettò una maschera di buio attorno al suo sguardo. Germania aggrottò la fronte, le sopracciglia si strinsero, e gli occhi gelarono come cubetti di ghiaccio, limpidi e azzurri, ma celati dal sottile velo di condensa spanto dal suo respiro. Non si mosse. Guardò Italia con viso truce, avvolto da un’aura di ostilità grigia come il cielo alle sue spalle che gli donò un’espressione cupa e inflessibile da far gelare il sangue.

Italia trattenne il fiato con un sussulto, si sentì ghiacciare come abbracciato da un panno di acqua fredda, i brividi penetrarono fino alle ossa, raffreddarono il battito cardiaco, soffocarono il cuore in un duro nodo di angoscia che spezzò il palpito facendolo precipitare nello stomaco con un tonfo sordo. Qualcosa gli morì dentro. Il rosso sulle guance sbiadì, gli angoli del sorriso si abbassarono lentamente, gli occhi ancora larghi e umidi tremarono, si bagnarono di tristezza e sconforto, ma senza abbandonare il viso di Germania, macchiandosi di confusione e smarrimento.

Intanto la neve cadeva, infittiva il silenzio, e il treno continuava a fumare il suo sottile fischio di vapore.

Nel silenzio della stazione, il respiro di Germania soffiò lento e profondo, si condensò in una nebbiolina che gli circondò il viso già in ombra, rendendolo ancora più nero di rabbia. Restrinse le palpebre, gli occhi divennero due lame che trafissero lo sguardo di Italia, penetrarono nel petto tagliandogli il cuore in due.

La cicatrice bruciò, proprio sotto il peso della croce di ferro, come se fosse stata di nuovo lacerata e sanguinante.

L’espressione di Italia scemò in quello sguardo distrutto e abbattuto che gli aveva mascherato il volto cinereo durante il viaggio sul treno. Il vento gli soffiò fra i capelli spolverati di neve, le guance tornarono grigie, il nero groviglio di terrore e ansia si addensò nel cuore ferito e lacrimante, le labbra vibrarono, incapaci di respirare, e gli occhi così larghi e disperati implorarono Germania di un minimo gesto di approvazione.

Non arrivò.

Italia abbassò lentamente gli occhi ai suoi piedi, tornò a chiudersi nelle spalle, lasciò ciondolare il capo, a orecchie basse, e strinse le ginocchia come per raccogliere la coda fra le gambe. Il peso delle occhiatacce tornò a spingere sulla nuca, a schiacciarlo come una martellata, a trafiggerlo in una corona di spade attorno al cuore. Italia si strinse una spalla, strofinò il braccio, raschiando via i brividi di angoscia, e si lasciò di nuovo travolgere dal gelo.

Non si era mai sentito così solo davanti a Germania.

Germania si girò, lo scricchiolio dei suoi passi sul suolo innevato fu come lo schiocco improvviso di un fulmine, lo paralizzò.   

“Seguimi.”

Compì i primi passi senza aspettarlo, e gli ufficiali tedeschi si divisero in due ali, aprirono la strada rimanendo sull’attenti, gli occhi alti ma distanti, gli sguardi ingrigiti e freddi come quello di Germania.

Italia sollevò gli occhi, si strinse la spalla, tornò a gettare il viso in mezzo ai piedi, diede un’altra strofinata al braccio, e annuì.

Trascinò deboli e pesanti passi dentro le impronte lasciate da Germania, sfilò anche lui in mezzo ai tedeschi tenendo la testa bassa, le spalle piegate, la mano stretta al braccio, chiuso in quella nera nebbiolina di angoscia spanta dal suo cuore lacrimante.

Un brusio di voci gorgogliò nel silenzio infranto solo dai loro passi. Voci bisbigliate fra la foschia di neve e fumo.

“Hai visto come l’ha guardato?”

“Io non l’ho mai visto così arrabbiato. È proprio furioso.”

“Povero disgraziato, non vorrei essere al suo posto.”

Italia continuò a camminare senza osare sollevare lo sguardo. Il peso al petto si fece più doloroso e pungente, diede di nuovo la sensazione della cicatrice in fiamme che gettava sangue attraverso il petto.

“A me non fa pena,” disse una quarta voce. “Avrà quello che si merita dopo tutto quello che ha causato.”

“Questi italiani non fanno altro che crearci guai.”

“Speriamo che lo strigli per bene, o che lo cacci.”

“Perché dovrebbe perdonarlo?” disse un altro ancora. “L’unica cosa che ha saputo fare è stata metterci i bastoni fra le ruote.”

Italia avanzò come un condannato alla gogna: le mani legate, le catene ai piedi, il viso bianco come la neve depositata sulla piattaforma della stazione, e il cuore che piangeva al posto dei suoi occhi.

Strinse i denti, strizzò le palpebre, serrò i pugni, e resistette.

 

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Raggiunsero la porta della camera all’interno dell’edificio principale, seguiti da tre ufficiali tedeschi e due italiani che erano rimasti alle spalle della lenta e penosa camminata di Italia. Germania avvitò il pomello, spinse l’anta, rimase in disparte e guardò dritto davanti a sé. Una maschera di pietra.

“Entra.”

Italia intrecciò le dita sul ventre, piegò il capo e gli scivolò davanti trattenendo il respiro, senza osare alzare gli occhi dal pavimento o emettere fiato.

Germania entrò a sua volta, senza lasciare la presa dalla maniglia, e abbassò gli occhi verso gli ufficiali. “Lasciateci soli.” Varcò la soglia senza aspettare risposta.

La porta si chiuse.

Clack!

Pochi passi risuonarono dall’interno della stanza, ovattati dalla porta, e di nuovo calò un silenzio fitto come quello che stagnava all’esterno, tappato dallo strato di neve.

Gli ufficiali tedeschi si scambiarono rapide occhiate d’intesa, ignorando gli italiani. Gli uomini si girarono e ripercorsero il corridoio a passo più svelto, accompagnati da un sottile brivido di timore arrampicato sulle loro schiene, pungente, freddo e acuminato come la sensazione di un cattivo presagio. Li lasciarono soli senza farselo ripetere due volte.

 

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“Hai deciso di attaccare completamente di tua iniziativa, effettuando calcoli approssimativi, ignorando completamente la morfologia del terreno, per di più durante la stagione delle piogge, alle porte dell’inverno, quando sarebbe pericoloso cominciare una campagna su qualsiasi tipo di territorio.” Germania non aveva smesso un secondo di marciare avanti e indietro, una mano chiusa dietro la schiena e l’altra a tenere il conto dei rimproveri che diventavano più forti e tuonanti a ogni frase, a ogni passo che lui compiva passando davanti al corpicino di Italia chino sulla sedia, a guardare in basso con i pugni chiusi sulle ginocchia. Passò di nuovo avanti e indietro davanti a lui, gli rivolse lo sguardo furente di rabbia, aggrottò la fronte, e alzò ulteriormente la voce. “Hai scelto di eseguire una strategia frammentata nonostante l’obiettivo fosse lo sfondamento. Hai lasciato i materiali in Albania, senza nemmeno pensare all’ipotesi di una sconfitta. Ti sei lasciato chiudere in una sacca e imprigionare, facendo morire i soldati di fame e freddo, senza nemmeno la possibilità di una ritirata. La tua strategia è stata troppo lineare e prevedibile, hai sottovalutato l’avversario credendo che ti avrebbe lasciato passare a mani alzate. Hai affrontato una battaglia come fosse una marcia, Italia. Come una marcia!”

Italia fremette, strinse le spalle e serrò le ginocchia. I pugni premuti sulle gambe tremarono assieme a lui, un’ondata di terrore gli travolse il cuore facendogli diventare il sangue di ghiaccio, il viso gelato e bianco, le labbra grigie, morsicate dalle punte degli incisivi.

“Avevi un equipaggiamento minimo,” continuò Germania, andando avanti e indietro, “niente viveri di riserva, niente munizioni di artiglieria, zero munizioni di fanteria, materiale sanitario scarso, e nemmeno gli indumenti di lana. Come hai potuto fare affrontare ai soldati una lotta d’inverno facendogli indossare uniformi di tela? Per non parlare della logistica che hai utilizzato per muoverti sulle strade. Hai permesso che tagliassero linee telefoniche, linee ferroviarie, hai del tutto ignorato che ci sarebbero state la pioggia e la neve a bloccarti e intrappolarti sulle montagne. Munizioni e scorte sono completamente inagibili fino a primavera.” Marciò ancora, ribaltò la mano e premette l’indice verso il pavimento, arrochendo il tono. “Avresti dovuto fermarti, Italia,” esclamò, “avresti dovuto fermarti a riflettere su quello che stavi per fare nel momento in cui Bulgaria stesso ha rifiutato di coprirti al confine. Non saresti nemmeno dovuto andare da lui senza avvertirmi, ignorando non solo i termini del patto di alleanza che ci lega, ma anche la mia stessa fiducia. Senza contare i danni morali oltre a quelli fisici che hai provocato con le tue azioni.”

Italia prese un brevissimo respiro dalle narici, l’aria gli appesantì il petto, gravò sul cuore facendo di nuovo sbocciare il bruciante bisogno di incrociare le braccia davanti al volto e di scoppiare a piangere. Italia schiacciò le unghie nei palmi, strinse il labbro fra i denti, tenne la testa bassa, i capelli davanti agli occhi, e trattenne il respiro per non sentire la coltellata di dolore spostarsi fra le costole. Soffrì in silenzio.

“Il tuo è stato un affronto all’alleanza, Italia,” esclamò ancora Germania. “Con le tue gesta mi hai completamente voltato le spalle. Hai mancato di rispetto a me, a tuo fratello, a Giappone, a tutti gli uomini che hanno combattuto e che ora sono morti a causa dei tuoi errori. Hai mancato di rispetto al tuo stesso popolo che aveva posto fiducia nelle tue scelte. Hai creato un danno psicologico e morale che ormai è già troppo tardi da poter sanare, anche se riuscissi a vincere.” Germania fermò la camminata, si spinse la mano sul petto, e gli gettò addosso quello sguardo di rabbia e delusione che Italia non riusciva a fronteggiare. “Io avrei potuto aiutarti, Italia.” Premette di nuovo le dita sul petto. “Nonostante ti avessi ripetuto più e più volte di non azzardare decisioni affrettate, tu non mi hai ascoltato, non hai voluto fidarti di me.”

Fuori dalla finestra fischiò un ululato di vento, la spolverata di neve picchiò sul vetro, macchiò il silenzio che era piombato nella camera e fece sobbalzare Italia, strappandogli un mugugno di tensione. Il corpo rannicchiato sulla sedia tornò rigido, le dita strinsero facendo scricchiolare le falangi, la fronte scese ancora, i capelli gli tapparono gli occhi, i denti rosicchiarono il labbro fino a sentirne il sapore ferroso del sangue. Il groppo di dolore e paura gli soffocava la gola, Italia sentiva il respiro artigliato da due mani gelide conficcate attorno al collo.

Germania abbassò le palpebre, sospirò a lungo per riprendere fiato, sbollì la rabbia, rilassò le spalle, e il suo viso si distese. Si girò verso il tavolo accostato al muro, accanto al letto immerso nella luce azzurrina che entrava dalla finestra incrostata di neve, e si passò una mano fra i capelli con un gesto nervoso. Spostò le ciocche all’indietro e si massaggiò la nuca, tornando a contrarre la fronte in un’espressione tesa, afflitta e ancora increspata dall’ira che gli aveva morsicato il cuore. Si spostò verso l’orlo del tavolo, vi premette sopra con un fianco, annodò le braccia al petto, e abbassò gli occhi su Italia, restrinse le palpebre tornando ad accendere le iridi di ghiaccio, indurì il tono di voce, di nuovo tagliente come una lama.

“Adesso come credi che dovrei comportarmi nei tuoi confronti, secondo te?”

Un’altra gettata di vento si schiantò addosso alle finestre, si ritirò con un fischio, il vetro scricchiolò, e di nuovo il silenzio piombò a riempire la camera.

Italia strinse un breve sibilo soffocato. Un violento brivido risalì le braccia, gli scosse le spalle, contrasse i muscoli, penetrò nel cuore, e tutto il corpo cominciò a tremare. La cicatrice bruciò, il dolore gli attraversò il petto, gli torse la pancia come quando era seduto sul treno, a tenere le braccia allacciate allo stomaco per sopprimere i crampi di ansia. Le guance bianche di paura e tensione si chiazzarono di rosso, infiammandosi, e l’urgente bisogno di piangere gli sciolse il groppo in gola, andò a pungere e a gonfiare le palpebre socchiuse. Italia singhiozzò. Un singhiozzo solo, profondo e doloroso. Un velo di pianto gli appannò la vista, traballò fra le ciglia, si inspessì emanando un luccichio, e si sciolse in due spessi nastri di lacrime che gocciolarono lungo le guance arrossate. Italia schiuse i pugni, aprì i palmi e si tappò il viso, piegando il capo verso le ginocchia. Singhiozzò ancora, tre volte di seguito, e continuò a piangere in silenzio, soffocando i gemiti fra le mani tremanti che reggevano il volto già inondato di lacrime.

Un primo bagliore di pentimento attraversò l’espressione di Germania, sciolse il ghiaccio negli occhi, gli sfiorò il cuore spaccando lo strato di roccia, e fece salire un moto di compassione a stringergli il petto. Germania sospirò, si strinse la fronte fra le dita e massaggiò le tempie. Chinò anche lui lo sguardo, il viso più disperato e distrutto di quello di Italia. “Non piangere.” Scosse il capo, tornò a strofinarsi la nuca, dove la tensione si accumulava. “È inutile che piangi. Piangere ormai non serve più a niente.”

Italia strozzò un piccolo guaito fra i denti, le labbra gonfie e bagnate vibrarono facendo tremolare la voce. “M-mi disp...” Singhiozzò ancora, si tappò gli occhi con una mano e passò l’altra sulle guance per raccogliere le lacrime. “Mi dispiace,” gemette. “I-io l’ho...” Un altro singhiozzo gli mozzò la voce. “Io l’ho fat – hic! – to per-per – ché volev...” Asciugò un’altra sgorgata di pianto, ma le lacrime continuarono a sciogliersi senza controllo e a scivolargli fra le dita tremanti. “Volev-oh solo... solo ch-he tu mi...” Un guaito di sofferenza fece stridere la frase che Italia non riuscì a finire. Tornò a tuffare il viso fra le mani, nascondendosi, e il corpo tremò di nuovo. “Che tu...” I singhiozzi soppressero le parole, Italia pianse ancora e non ce la fece a continuare.

Germania sospirò, un sospiro esasperato, e dovette allontanare lo sguardo. Si infilò una mano in tasca, pescò il fazzoletto di stoffa ripiegato, e si avvicinò a Italia, porgendoglielo. “Asciugati.”

Italia singhiozzò, si passò il dorso della mano sulle guance, strofinò le palpebre gonfie e rosse. Sollevò lo sguardo che continuava a lacrimare e raccolse il fazzoletto. Si tamponò il viso senza nemmeno spiegarlo, si asciugò gli occhi, le guance, raccolse le scie di pianto fino al mento e premette il rettangolino di stoffa sulle labbra, soffocandovi i singhiozzi interminabili. Prese un respiro tremante. La voce suonò ancora arrochita. “Io ho voluto farlo per te, per l’alleanza. Perc...” Altri tre singhiozzi di seguito. “Perché non volevo che tu mi vedessi come un peso.” Italia strinse le palpebre, spremette fuori altri fiotti di lacrime che imbevettero il fazzoletto. Se lo tolse dal viso, lo strinse fra le mani, e sollevò lo sguardo su Germania. La luce proveniente dalla finestra disegnò il contorno degli occhi gonfi e lucidi come vetro, splendette agli angoli delle palpebre, dove le lacrime si raccoglievano in spessi grappoli incastrati fra le ciglia. Piegò le punte delle sopracciglia in un’espressione che implorava pietà. “Volevo farti felice.” Singhiozzò ancora e tornò a tapparsi gli occhi.

Germania scosse il capo e riprese ad andare avanti e indietro davanti a lui, le braccia strette dietro la schiena e il viso scuro rivolto al pavimento. “Ti ho mai dato l’impressione di non essere soddisfatto di te, Italia?” gli disse con tono più duro. “Ti ho mai fatto credere di volerti escludere dalle mie decisioni? Di volerti allontanare?” Tornò a premersi la mano sul petto e aggrottò la fronte, il viso tornò scuro, lo sguardo riprese a tremare di rabbia. “Avresti dovuto fidarti di più di me e avvisarmi. Un’alleanza non può esistere senza la fiducia reciproca, e tu hai tradito la mia.”

“Avevo paura che mi avr – eh – sti sgridato,” gemette Italia. “Che mi avresti imped – hic! – to di attaccare.” Frizionò il fazzoletto contro gli occhi.

“E avrei avuto tutti i motivi per impedirtelo, Italia.” Germania fermò la camminata davanti a lui, squadrandolo di profilo, e non aggiunse altro.

Italia non riuscì ancora a guardarlo negli occhi, si strinse nelle spalle facendosi piccolo contro lo schienale della sedia e fissò in mezzo ai suoi piedi, lo sguardo appannato dalle lacrime. “Mi dispiace,” guaì. Si morse il labbro che sapeva di sale, e un altro pugno di dolore gli centrò la bocca dello stomaco, lo fece tremare come una foglia. “Mi dispiace di aver rovinato l’alleanza.”

Germania socchiuse le palpebre, e nei suoi occhi brillò la stessa profonda scintilla di dolore che si era sciolta fra le ciglia di Italia. “Credi...” La mano scivolò dal petto, il braccio si stese lungo il fianco, i pugni strinsero, il suo sguardo finì gettato al pavimento, distante. Germania indurì il tono. “Credi che sia solo dell’alleanza che io mi sia preoccupato?”

Italia abbassò il fazzoletto dagli occhi, lo tenne davanti alle labbra e strozzò due singhiozzi in bocca. Il velo acquoso davanti alla vista traballò. Lo sguardo alto, largo e lucido del riflesso della neve incrostata sul vetro della finestra, si riempì di un fitto dolore grigio che gli rese le guance cineree.

Un brivido attraversò le braccia di Germania, raggiunse i pugni serrati sui fianchi, e quella scossa improvvisa gli assottigliò le palpebre, accese la pungente scintilla racchiusa fra gli occhi. “È questo che credi?” Aprì e spremette una mano, tese il braccio, accostò le dita al viso di Italia.

Italia irrigidì, strizzò le palpebre e si chiuse di scatto nelle spalle, morso da una dentata di paura attorno al cuore.

Germania gli toccò la guancia, gli raccolse il mento in una debole carezza tremante, e gli fece sollevare lo sguardo. Incrociarono gli occhi per la prima volta dalla raggelata sulla piattaforma della stazione, e Italia trattenne un sospiro di confusione e di sollievo che però non riuscì a snocciolare dal cuore la spina di spavento.

Gli occhi di Germania rabbuiarono, l’ombra della camera li rese più profondi, il riflesso della neve cristallizzata li tinse di una sfumatura addolorata. “Credi che non fossi preoccupato per te? Che non fossi spaventato da quello che sarebbe potuto succederti?”

Italia sollevò le punte delle sopracciglia, socchiuse le labbra per rispondere, ma riuscì solo a sospirare. Un’ultima lacrima sgorgò dal suo occhio, scivolò fra le dita di Germania ancora posate sulla sua guancia rossa e calda di pianto.

“Come pensi che mi sia sentito nel realizzare che non avrei potuto soccorrerti o aiutarti nel caso ti fossi trovato in serio pericolo?” disse Germania. “Io e te siamo anche alleati, Italia, ma prima di tutto siamo...” Il suo tocco tremò, Italia lo sentì irrigidirsi. “Siamo...” Allontanò lo sguardo, rintanandolo nel buio, e lo scricchiolio del vento sulla finestra sostituì le sue parole, echeggiò nel silenzio che era tornato a infittire l’aria grigia della camera.

Italia percepì il dolore di Germania scivolare attraverso il suo tocco e avvolgergli il viso, tornò a chiudergli lo stomaco in un nodo nauseabondo di sofferenza, il sapore delle lacrime punse fra le labbra, gli inasprì la voce strozzata. “Mi dispiace.” Sollevò anche lui la mano, sfiorò il polso di Germania, e le dita dell’altro scivolarono via, lasciarono l’impronta di calore sulla sua pelle, un senso di vuoto che era come un buco nel cuore. Italia si toccò la guancia, tirò su col naso, gettò lo sguardo colpevole in mezzo ai piedi. “Cosa dobbiamo...” Si strofinò le palpebre umide, grattò via le ultime lacrime, e giunse le mani attorno al fazzoletto bagnato e stropicciato, lo spremette fra le dita. “Cosa dovrei fare adesso?”

Germania si allontanò da lui, camminò nel fascio di luce sporca del riflesso della neve, tornò a giungere le mani dietro la schiena, le spalle cedettero leggermente al peso della tensione, e volse gli occhi fuori dalla finestra. Sospirò. “Devo pensare.” I suoi occhi divennero grigi e freddi come il cielo che stava imbiancando le montagne. “Non possiamo permetterci che tu perda questa guerra, le posizioni nel Mediterraneo sono troppo importanti, e non possiamo rinunciarvi o finiremo tagliati fuori dalle comunicazioni con l’Africa. Dovremo...” Spostò il viso in modo che Italia non riuscisse a vederlo. “Studiare una strategia per tirarti fuori dai guai e fare in modo che tu riesca a battere Grecia. La situazione non è ancora completamente persa, ma ogni tuo prossimo passo dovrà essere quello giusto, da ora in poi non sono più ammessi errori di nessun genere.” Irrigidì la stretta delle mani chiuse dietro la schiena, e una prima scossa di timore gli trafisse il cuore come un ago. “Ne va del destino dell’intera guerra.”

Italia deglutì, tirò su col naso. “È tanto grave?” mormorò, sentendo già la paura della risposta sciogliergli una sensazione amara sulla lingua.

Germania sospirò di nuovo, più afflitto, e annuì. “Sì.” Si allontanò di qualche passo dalla finestra. “Ma non impossibile da risolvere.” Sfilò davanti a Italia e incrociò le braccia sul petto. “Il mio intervento potrà aiutarti, ma non dovrai fare affidamento solo su quello. Comunque, ne parleremo alla riunione di domani.”

Italia sentì la tensione sciogliersi, lasciargli i muscoli molli come burro, pizzicargli sulle guance ancora umide di pianto, e alleggerirgli il petto in cui ora stagnava solo una sgradevole ma tiepida sensazione di vuoto. Chinò il capo, soffiò un sospiro. “Oh...” Si strofinò il braccio, spalmando via la sensazione di stanchezza che gli aveva appesantito le ossa.

Lo sguardo di Germania tornò a posarsi su di lui, si ammorbidì. “Sei...” Guardò altrove e si strofinò la nuca, aggrottò un sopracciglio assumendo un’espressione impacciata. “Sarai stanco, immagino.”

“Uh.” Italia si strinse nelle spalle, tese le punte dei piedi, e annuì. “Un po’.”

Germania sospirò, sconsolato. “Allora cerca di riposarti,” gli disse. “Domani dovrai essere in forze per la riunione.” Gli camminò davanti, ma senza guardarlo in viso. “Dopo verrò a darti gli orari.”

“Germania.” Italia tese la mano e gli chiuse l’orlo della manica fra due dita, lo trattenne in quel debole gesto intimorito, ma senza alzarsi dalla sedia. Il suo braccio tremò. “Mi...” Guardò in basso, il cuore tornò a gonfiarsi di timore, il viso umido di lacrime impallidì, gli occhi riflessero una scintilla di dolore. “Mi perdonerai?” sussurrò. Le dita appese alla manica tremarono, ma non la lasciarono andare.

Germania socchiuse le palpebre, soppresse subito un moto di compassione e scosse il capo. “Non sono io quello a cui devi chiedere perdono.” Si sfilò dalla presa, diede le spalle a Italia, rimboccò il bavero della giacca, camminò verso la porta. “Riposati.” Aprì e richiuse l’anta dietro di sé. Lasciò Italia da solo, schiacciato dalla fredda penombra della stanza, e isolato nel fitto silenzio interrotto dall’incessante picchiettare della neve sulle finestre.

 

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Italia sporse il braccio oltre l’orlo della vasca da bagno e la sua mano raggiunse la manopola bordata da un anello rosso. La avvitò, e un getto di acqua prima tiepida e poi bollente scrosciò fra le pareti laccate di bianco, il livello salì e cominciò a spandere una condensa calda che inumidì l’aria della stanza da bagno. Immerse due dita nell’acqua calda, ne agitò la superficie scossa e rimestata dal getto che continuava a scrosciare, e le tolse subito, si asciugò la mano sull’orlo della maglia che non si era ancora tolto.

Italia si sedette sul bordo della vasca, tenendosi aggrappato con entrambe le mani, e sporse le spalle in avanti, specchiando il viso sulla superficie trasparente in cui si increspavano i riflessi bianchi della lampada pendente dal soffitto. Profonde occhiaie scavavano il viso smagrito dalla fame e ingrigito dal gelo, gli occhi ancora lucidi e gonfi per il pianto sporgevano dalle palpebre sciupate e di un intenso colore rosso come quello che chiazzava le guance, i capelli spettinati e sfoltiti cadevano in disordine sulla fronte e davanti alle orecchie, gli facevano sembrare il viso più piccolo e magro, lo sguardo più triste.

Italia sollevò una mano e si posò le punte delle dita su una guancia, fece scivolare il tocco sotto la palpebra ancora umida e bollente, percorse il profilo dell’occhio, e si scostò una ciocca dietro l’orecchio. Avvicinò la fronte allo specchio d’acqua. Il livello continuava ad alzarsi. Minuscole goccioline di acqua calda gli schizzarono sul viso, la nube di vapore si ingrossò infondendogli una piacevole sensazione di sollievo sul viso stanco, come una carezza di consolazione.

Italia sospirò, intinse di nuovo le punte delle dita nell’acqua e rimestò il getto, socchiuse le palpebre intristendo lo sguardo. Alla fine, era davvero arrabbiato.

Rivide lo sguardo buio di Germania, i suoi occhi accecati di rabbia, le sue parole d’accusa che erano arrivate come tante coltellate al cuore, e quel primo sguardo profondo e tagliente che gli aveva rivolto sul ciglio del binario, avvolto dall’aria grigia di neve e ghiacciata come le sue iridi.    

Italia si strinse nelle spalle, sopprimendo il brivido di timore che si era arrampicato lungo la schiena. Tirò fuori le dita dall’acqua e le sgocciolò. Non mi aveva mai sgridato così tanto. Si alzò dall’orlo della vasca da bagno e le gambe tremarono, ancora deboli. Però...

Si toccò di nuovo la guancia, dove era rimasto il calore trasmesso dalla mano che Germania gli aveva posato sul viso, spingendolo a sollevare lo sguardo e a incrociare i suoi occhi attraversati da quel lampo di paura che aveva incrinato la sua espressione di rabbia.

“Credi che non fossi preoccupato per te? Che non fossi spaventato da quello che sarebbe potuto succederti?”

Italia ingoiò di nuovo una pesante cucchiaiata di sensi di colpa che gli lasciò la bocca amara.

Però l’ha fatto perché era preoccupato, lo ha detto anche lui.

Raggiunse il primo bottone della camicia, sotto la gola, e cominciò a spogliarsi.

Deve essersi preso proprio un bello spavento.

Sgusciò anche l’ultimo bottone dall’asola, si sfilò la camicia, la poggiò sullo sgabello accanto al rubinetto, e si tolse anche la maglia.

In realtà anche lui era spaventato quanto me, ma io non ho neanche pensato ai suoi sentimenti, ho agito d’impulso pensando solo ai miei e preoccupandomi di quanto ci sarei rimasto male se mi avesse fatto una strigliata.

Ripiegò anche la maglia sullo sgabello, si strofinò le braccia nude, e il tocco del vapore che saliva dalla vasca da bagno gli soffiò sulla pelle, gli fece il solletico arrampicandosi dietro le spalle, fino alla nuca. Italia si massaggiò i capelli dietro le orecchie, chinò la fronte ed emise un profondo sospiro sconsolato – anche il ricciolo si ammosciò sulla spalla.

Sono davvero un egoista.

Sollevò lo sguardo e gli occhi caddero di nuovo sul suo riflesso. Questa volta lo fissava dallo specchio, non dall’acqua, con gli stessi occhi opachi e sporgenti dalle palpebre annerite e gonfie per il pianto che aveva arrossato le guance scavate nel viso ingrigito.

Italia posò il tocco sul petto smagrito, accanto alla croce di ferro che pendeva dal collo, e le dita scesero raggiungendo la benda incerottata sopra la cicatrice a cui avevano appena tolto i punti. Si grattò attorno all’orlo della garza, dove la pelle era arrossata e prudeva, e storse una smorfia di fastidio. Forse è meglio cambiare la benda. Infilò l’unghia sotto la striscia di cerotto e la scollò dalla pelle. Poi il dottore ha detto che devo far respirare la ferita ogni tanto. Strappò anche l’ultimo lembo e gettò la garza macchiata di sangue annerito nel lavandino. Riuscì a grattarsi attorno al taglio a forma di lisca di pesce, dove la pelle era gonfia e rossa, inumidita dal sangue fresco che spurgava dalle cuciture non ancora cicatrizzate. Fermò il tocco, distese le dita. Chissà cosa direbbe Germania se vedesse questa? Si toccò la croce di ferro che pendeva sul petto, sollevò uno dei bracci. Se sapesse tutto quello che mi è successo, forse lui...

Italia scosse il capo, si diede un piccolo schiaffetto per togliersi quel pensiero dalla testa.

No, non sarebbe giusto dirglielo. Finì di spogliarsi, e l’acqua aveva già riempito la vasca, lo strato di vapore si era gonfiato appannando lo specchio. Lo farei solo per farmi compatire e non voglio questo.

Avvitò la manopola dell’acqua calda, chiuse il rubinetto, e il suono di un’ultima goccia piovuta nella vasca infranse il pesante silenzio che aveva sostituito lo scroscio del getto. Infilò la punta del piede nella vasca, l’acqua bruciò, Italia retrasse la gamba, tornò a immergere le dita e si abituò. Si immerse rannicchiando le ginocchia al petto, strinse le braccia attorno alle gambe, e scivolò con la schiena lungo la parete laccata della vasca. Onde di vapore galleggiarono attorno a lui, il calore si diffuse attraverso la pelle, distese i nervi accelerando la circolazione, il sangue formicolò attraverso i muscoli. Una piacevole sensazione di sonno gli appannò la testa, gli rese le palpebre pesanti, gli occhi socchiusi, e rallentò il respiro.

Che bel calduccio.

Italia trattenne il respiro, si tuffò con l’acqua fin sopra la testa, e riemerse subito. I capelli fradici e scuri incollati agli occhi e alle guance. Scosse il capo, si scostò le ciocche imbevute d’acqua dalla fronte, e si strofinò le palpebre. Un minuscolo sorriso di sollievo gli toccò le labbra.

Sono proprio fortunato.

Tornò a immergere le spalle sott’acqua, le ginocchia tenute raccolte al petto dalle braccia, e il suo respiro soffiato dal naso gonfiò grappoli di bollicine sul pelo dell’acqua.

Io posso fare il bagno, mentre tutti sono al freddo, nella neve e... Irrigidì. I sensi di colpa gli ghiacciarono il sangue, sciolsero tutta la bella e morbida sensazione di essere immerso nell’acqua calda e fumante. Italia strinse i pugni sulle gambe accostate al torso, guardò in basso, verso la sua immagine storpiata dalle onde dell’acqua. Romano.

Sentì di nuovo freddo, come se fosse stato ancora con le gambe in mezzo alla neve, a respirare aria ghiacciata che sapeva di terra secca e dura come pietra, accoccolato a suo fratello per tenersi caldo e sopprimere i tremori durante la notte nera come una distesa di inchiostro, o a tendere le mani congelate verso una piccola fiammella, quando accendevano il fuoco, per avvicinarsi a un calore che sentiva pungere solo sulle punte delle dita.

Italia strinse i pugni contro le ginocchia bagnate, riacquistò una spinta di coraggio.

Manterrò la promessa, lo giuro. Non sono venuto qui per piangere o per farmi compatire, ma per convincere Germania ad aiutarci e a riparare al mio errore.

Tornò a scivolare con la schiena sulla superficie della vasca, sollevò un piede dall’acqua, schizzò via le goccioline dalla gamba, e tornò con le ginocchia piegate sul ventre. Abbracciò le gambe e si dondolò sospinto dalla morbida carezza delle calde onde d’acqua.

Ma sarà ancora possibile? si domandò. Dopo la maniera in cui l’ho deluso...

Giunse le mani a coppa, raccolse uno specchio d’acqua fra le dita e vi guardò dentro, riflettendosi sulla superficie mossa e toccata dall’abbaglio della lampada. Sospirò, e di nuovo i suoi occhi si gonfiarono di ansia e tristezza.

Germania sarà ancora disposto a perdonarmi e ad aiutarmi?

Schiuse le mani e le gocce d’acqua scrosciarono nella vasca.

 

.

 

Italia uscì dalla porta del bagno seguito da una nuvola di vapore che gli fece solletico al collo ancora umido e caldo, sfiorato dalle ciocche di capelli bagnati che cadevano in disordine sulla fronte e attorno alle guance. Raccolse un lembo dell’asciugamano che aveva piegato sulle spalle e si strofinò il viso, diede una grattata dietro l’orecchio per tamponare i capelli fradici, e soffiò un sospiro. Fiuu. Ci voleva proprio. La piacevole sensazione del bagno caldo gli cullava ancora i muscoli, tenendolo avvolto nel tepore che formicolava sotto la pelle snodando tutti i nervi. Italia sollevò l’orlo dei pantaloni che stavano scivolando sotto l’anca, li tirò fin sopra l’ombelico, ma tornarono a ciondolargli sui fianchi smagriti. Infilò una mano sotto l’asciugamano ciondolante dalle spalle, inclinò la testa e si massaggiò il collo, facendolo scricchiolare. Per poco non mi addormentavo nella vasca per quanto stavo bene nell’acqua calda. La mano scese e diede una grattata alla scapola imperlata di goccioline.

Italia zampettò a piedi nudi fino alle finestre che gettavano la loro luce sul letto al centro della camera. Scostò una delle tendine e si affacciò, portando una mano davanti alla fronte per farsi ombra e riuscire a vedere oltre il suo riflesso. Strinse le palpebre.

Sta ancora nevicando.

Il cielo stava imbrunendo. La spolverata di neve cadeva copiosa sul paesaggio imbiancato, le spesse e gonfie nuvole grigie attraversate da venature color carbone sommergevano le cime delle montagne, nascondevano le macchie di boscaglia che tappezzavano le rientranze fra le pareti di roccia. Il sole stava calando. Sottili e timidi raggi di luce filtravano attraverso la nebbia di neve, allungavano scure e possenti ombre lungo il pavimento del giardino ricoperto da alberi spogli.

Italia posò una mano ancora umida sul vetro, rivoletti d’acqua percorsero il profilo del collo, una gocciolina disegnò la curva del ciuffo arricciato e piovve sull’asciugamano avvolto attorno alle sue spalle.

Se nevicasse così tanto, meditò, allora ci sarebbe il rischio che si blocchino i treni. Così io potrei... Una sensazione di vergogna schiacciò e soppresse il sollievo che Italia aveva provato nel formulare quel pensiero. Lo stesso caldo sollievo che aveva provato nell’immergere il corpo freddo e indolenzito nella vasca di acqua fumante. Il senso di colpa fece diventare l’acqua gelida, e gli trasmise profondi brividi di disagio lungo la schiena nuda, dove i rigagnoli scorrevano come artigliate. Italia scosse la testa e si diede uno schiaffetto alla guancia. No! No, non devo nemmeno pensare di rimanere qui.

Tolse la mano dal vetro lasciando l’impronta di condensa, e chiuse i pugni sui fianchi, contro l’orlo dei pantaloni cadenti.

Ho dato la mia parola, ripeté a se stesso. Ho dato la mia parola a Romano che sarei tornato da lui. E poi... e poi devo farlo anche per me stesso. Devo dimostrare a me stesso di non essere più l’egoista che ha combinato tutto questo guaio, di avere davvero imparato dai miei errori. Inspirò a lungo, il torso nudo si gonfiò facendo scintillare la croce di ferro, il cuore batté un palpito più intenso e coraggioso. Devo prendermi le mie responsabilità.

Sciolse un pugno, sollevò la mano e si toccò il petto ancora caldo e bagnaticcio su cui pendevano i due lembi dell’asciugamano avvolto attorno alle spalle. Si sfiorò la croce di ferro che cadeva sullo sterno, ne sollevò un braccio.

E comunque...

Aprì la mano, intrecciò la catenina alle dita, e un’altra ondata di sconforto gli ingrigì lo sguardo, gli fece abbassare la fronte, di nuovo appesantendolo con il senso di colpa che gravava sulle spalle.

Sono sicuro che Germania non mi vorrebbe qua con lui. L’ho deluso troppo. Forse non mi parlerà per un bel po’. Raccolse la croce, la chiuse dentro il palmo, strinse le dita fino a farle sbiancare. Ma io non voglio... non voglio perderlo. Riaprì gli occhi, fissò il suo stesso sguardo che si rifletteva nel vetro della finestra, sciupato e abbattuto. Cosa farei se non mi volesse più bene come prima?

Si spostò dalla vetrata e passò davanti al piccolo specchio incastrato sopra il mobile accostato al muro. Gettò lo sguardo sul suo profilo asciutto, l’occhio gli cadde sul taglio della cicatrice che gli attraversava il pettorale sinistro, rendendo la pelle più gonfia e rossa attorno ai tagli delle cuciture a forma di lisca.

Italia si fermò, si massaggiò attorno alla cicatrice, senza toccarla, e arricciò una smorfia di disappunto.

Brucia.

Abbassò lo sguardo, individuò la sua sacca ai piedi del letto, e si chinò a rovistare in una delle tasche, in mezzo alle boccette di medicine.

Chissà se da qualche parte nella borsa ho anche infilato una pomata da spalm –

La porta si aprì con uno schiocco. “Italia.” Germania entrò reggendo due fogli, lo sguardo basso sulle carte. “Ti ho portato il programma della riunione di dom – ah!” Alzò i fogli e si girò di profilo per allontanare lo sguardo da Italia.

Italia si alzò di scatto, si fissò il torso nudo, sobbalzò, “Ah!”, e aprì i lembi dell’asciugamano per coprirsi come un mantello.

Germania si girò verso l’uscita, aprì una mano di fianco alla guancia e nascose il rossore che gli aveva chiazzato il viso. “S-scusa, non pensavo che fossi...”

“No, no, non ti preoccupare.” Anche Italia si mise di schiena e pressò bene l’asciugamano sopra la cicatrice, tenendola nascosta. Voltò lo sguardo da sopra la spalla, rivolse a Germania un sorriso rassicurante. “Sono solo appena uscito dal bagno.”

“Ehm, gli...” Sollevò i due fogli, li sventolò senza girare lo sguardo. “Gli orari,” balbettò. Tese il braccio verso una delle sedie appoggiate alla parete. “Te li lascio qui.”

Italia si strinse l’asciugamano sul petto e si girò. “Aspetta, li prendo io.” Zampettò verso di lui facendo schioccare i piedi nudi sul pavimento, raccolse le pagine dalla sua mano e gli rivolse un sorriso che Germania non vide, si stava ancora tenendo il viso coperto. “Ecco.” Saltellò indietro, reggendo i fogli con entrambe le mani, e li appoggiò sul ripiano davanti allo specchio. Chinandosi, i lembi dell’asciugamano si schiusero, un angolo di stoffa gli scivolò giù dalla spalla, snudò la pelle del torso, e si raccolse nella piega del gomito.

Germania abbassò il palmo dalla guancia, sbirciò con la coda dell’occhio, ancora imporporato in viso, e lo sguardo gli cadde di sfuggita sul petto di Italia.

La penombra della camera si increspava attorno agli infossamenti della cicatrice rigonfia che arrossava la pelle tutt’attorno al taglio ancora lucido, più nero fra le labbra di pelle, dove il sangue era coagulato seccandosi attorno ai punti ormai scuciti.

Germania slargò le palpebre, il rossore sbiadì dalle guance, e il cuore rallentò il battito, gli trasmise una sgradevole e pungente sensazione di freddo e di amaro in bocca. “Sei...” Si girò, rimase fermo, lo sguardo rigido.

Anche Italia tornò a voltarsi, raccolse i due lembi dell’asciugamano, senza accorgersi di aver lasciato scoperta la cicatrice, e sbatacchiò gli occhi rivolgendogli uno sguardo confuso.

Un barlume di allarme attraversò il viso di Germania, gli fece inarcare le sopracciglia, gli occhi raggelarono, le palpebre si infossarono in una nera ombra di timore. “Sei ferito?” mormorò.

“Uh?” Italia abbassò gli occhi sul petto, incontrò la cicatrice scoperta, e fece un balzo sul posto. “Ah!” Si girò e tornò a coprirsi con l’asciugamano. “N-non è niente.” Si strinse nelle spalle, si allontanò di un passetto mettendosi dietro il letto, e sovrappose le estremità dell’asciugamano. Mantenne comunque il tremolante sorriso di circostanza. “Mi sono solo ferito durante una battaglia, ma ormai è passato, non è nulla di grave e non devi...”

Germania lo raggiunse, lo sguardo teso e gli occhi scuri, e gli fece spostare un braccio stringendogli delicatamente il polso. Italia non si sottrasse, allontanò gli occhi con aria colpevole, si morse il labbro, trattenne il fiato, e il suo braccio finì avvolto dalla sensazione elettrica di avere il tocco di Germania di nuovo sulla sua pelle.

Germania strinse leggermente la presa, senza fargli male. “Questo...” Stese la mano libera, sfiorò la pelle di Italia depositando un soffio di piacevoli brividi di calore, irrigidì il tocco, e posò le punte delle dita sul suo petto, accanto alla catenina della croce di ferro. Italia si strinse il labbro inferiore per non mugugnare, attraversato da un’altra scarica elettrica che pizzicò nel sangue, facendo salire il desiderio di avvolgergli la mano, di tenerla premuta sulla sua, di posarci la guancia sopra e chiudere gli occhi, lasciandosi carezzare come l’ultima notte. Ricominciò a tremare. Il viso di Germania però rimase scuro, incrinato da una ruga di severità. “Questo è un taglio chirurgico, non una ferita.”

Italia strinse i pugni, girò lentamente la spalla per allontanarsi, e lo sguardo finì schiacciato a terra, non osò incrociarlo con gli occhi inquisitori di Germania. Il cuore accelerò, gonfiato dalla paura e dall’agitazione che riprese a scuotergli la schiena.

Germania lo squadrò con occhi duri, la voce calma ma inflessibile, e la presa salda attorno al polso. “Dimmi cos’è successo, Italia.”

Le labbra di Italia tremarono, e lui ormai sentì di non riuscire più a nasconderlo. “Mi...” Scivolò di un passo all’indietro, sgusciando via dalla sua stretta, e si strinse nelle spalle, la fronte bassa. “Mi hanno...” Prese un sospiro di incoraggiamento, irrigidì, e socchiuse le palpebre. “Mi hanno sparato al cuore.”

Germania sussultò, il tocco congelato in aria, i suoi occhi immersi nella luce grigia che gli batteva di sbieco sul viso. Si sentì di nuovo in mezzo alla neve, al fischio gelido del vento, immerso nella nebbia grigia che andò a gravare sul petto.

Italia si strofinò il braccio sotto il lembo dell’asciugamano ancora ciondolante sulle spalle. “Sono riuscito a sopravvivere grazie a Romano. La ferita si è rimarginata ma il proiettile è rimasto dentro e continuava a farmi male. Il dottore ha dovuto farmi un taglio per tirarlo fuori.” Si fece piccolo, le punte dei piedi nudi si arricciarono, cominciavano ad avere freddo. “Era ancora nel cuore,” mormorò.

Lo sguardo di Germania tornò a posarsi sul profilo verticale della cicatrice che attraversava il petto di Italia, all’altezza del cuore. Nel cuore...

Senza nemmeno pensarci, aprì la mano e la posò delicatamente sul torso di Italia. Distese le punte delle dita, toccò la croce di ferro facendola tintinnare, sfiorò una delle lische della cicatrice, e sentì il cuore di Italia battere sotto il suo palmo. Italia trattenne il fiato, il suo petto fremette, di nuovo scosso da quel brivido che salì a pizzicargli le guance e a spolverarle di rosso, e il battito accelerò ulteriormente.

Germania spostò gli occhi sulla croce di ferro che pendeva accanto alla sua mano. La croce di ferro, il loro legame, il loro patto di fiducia, la catena che teneva uniti i loro cuori.

È colpa mia. Lo realizzò sentendo un doloroso tuffo nel petto. Lui si fidava di me. La colpa è mia che non gli ho dato abbastanza sicurezza, che non sono riuscito a proteggerlo quando aveva bisogno di me, che non sono riuscito a fargli capire che io...

Lo vide ferito, steso a terra fra le rocce, il corpo abbandonato, le braccia stese e le mani contratte, una gamba ribaltata e il viso girato, sporco di terra e di sangue. Il petto chiazzato da un fiore nero, la ferita dello sparo che continuava a spurgare sangue, a svuotargli il corpo lasciandolo freddo, tremante solo e in mezzo al campo di battaglia.

Una violenta ondata di terrore e impotenza gli aggredì il cuore.

Se gli fosse successo qualcosa mentre era distante da me... E io non ero lì con lui, non gli sono corso vicino quando aveva più bisogno di me.

Germania contrasse il viso in una rigida e scura espressione di dolore. Un dolore che lo trafisse come se fosse stato lui quello con il proiettile nel cuore.

Sono io che ho tradito lui.

Italia si accorse del suo sguardo scosso, si tirò indietro e gli mostrò i palmi, rassicurandolo con un sorrisetto. “Ah, pe-però ora sto bene, davvero. Anche il dottore ha detto che sto guarendo in fretta, e poi ho anche Romano che mi aiuta con la sua forza, quindi non dovrei –”

Germania tornò ad avvolgergli il polso, lo attirò a sé andandogli vicino di un passo, gli avvolse le braccia dietro le spalle facendo cadere l’asciugamano umido, le incrociò dietro la sua schiena, e chiuse Italia in un forte abbraccio improvviso.

Italia gemette, salì sulle punte dei piedi nudi, irrigidì e rimase a labbra socchiuse. Il viso premuto sulla spalla di Germania, il petto accostato alla stoffa ruvida della giacca e punto dalle due croci di ferro intrecciate, le braccia rigide e sospese attorno ai suoi fianchi, le mani incapaci di muoversi e lo sguardo allarmato, colto alla sprovvista.

Germania strinse gli occhi, chiuse l’abbraccio, gli passò una mano attraverso la nuca intrecciando le dita ai capelli bagnati, tenendogli il capo fermo sulla sua spalla. Chinò la fronte toccandogli la guancia con la sua, ne inspirò il buon profumo di sapone mescolato con quello familiare, dolce e speziato, in cui si lasciava sempre avvolgere quando erano vicini. Le labbra gli sussurrarono all’orecchio, la voce tremò di dolore e di pentimento. “Scusa se ti ho sgridato.” Un brivido gli scosse il corpo.

Italia sbarrò le palpebre, gli occhi si infossarono e tornarono a luccicare, a inumidirsi. Quelle parole lo trafissero come un secondo proiettile, facendogli esplodere in petto una violenta sensazione di calore che fiorì attraverso l’intero corpo avvolto in quello di Germania. Guadagnò un respiro vibrante. Un piccolo guaito gli scivolò dalle labbra. Il suo sguardo si sciolse, le palpebre si strinsero, grappoli di lacrime traballarono in mezzo alle ciglia, le guance tornarono rosse, il viso stretto da dolore, gioia, sollievo e confusione. Le punte dei piedi si tesero più in alto e schioccarono, si spinsero in avanti incrociandosi alle gambe di Germania. Italia chiuse le braccia attorno al suo busto, artigliò la giacca con le dita e premette la fronte sulla sua spalla, singhiozzò sciogliendosi in quell’abbraccio silenzioso. 

Un turbine di pensieri gli riempì la testa: la prima battaglia lontano da lui, immerso da fango e pioggia, il ricordo del suo calore al quale si aggrappava quando veniva assalito dal gelo, il coraggio che si era dato stringendo a sé la croce di ferro quando aveva combattuto contro Grecia, e il senso di sollievo quando aveva pensato a lui, ai suoi occhi illuminati dal sole autunnale. Quell’immagine che si era impresso dentro mentre si stava per spegnere lentamente fra le braccia di suo fratello.

Germania inspirò accanto al suo orecchio, gli strinse la mano fra i capelli bagnati, chiuse il braccio attorno alle sue spalle nude, gli trasmise la stessa scossa di dolore che era passata attraverso il suo cuore. “Scusa se ti ho sgridato,” sussurrò di nuovo.

Italia strinse la presa a sua volta, aggrappandosi, e singhiozzò di nuovo. Altre lacrime sgorgarono dai suoi occhi, inumidirono la giacca di Germania continuando a sgorgare fino a prosciugarlo.

Chiuso nel suo profumo di ferro, di terra, di un campo di battaglia immerso nei fumi di zolfo e bagnato di sangue, tornò a provare la sensazione a cui si era appeso quando il proiettile gli aveva trafitto il cuore, quando si era trovato disteso a terra, con occhi vitrei e persi nel vuoto, il respiro mozzato e il corpo freddo, il battito debole. Quando stava per morire e il suo unico pensiero era stato il rimorso di non averlo abbracciato un’ultima volta. 

   
 
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