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Autore: My Pride    05/06/2009    11 recensioni
La vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita.
Restai solo lì, immobile, la bocca aperta in una muta parola; lo vidi però inclinare di lato la testa, con un sopracciglio nero sollevato mentre si rimetteva in spalla la sacca dopo averla chiusa per bene.
«Aye?»
[ Monaco di Baviera, 1924 ~ After Shanbara wo iku mono ]
[ Partecipante alla challenge «Contest of Passions» indetta da ellacowgirl ]
[ Prima classificata al contest «A contest for the chocolate» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco ]
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Monaco di Baviera, 1924' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Lovely Cool Fake
[ Prima classificata al contest «A contest for the chocolate» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco ]

Titolo: Lovely Cool Fake
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 3966 parole ]
Personaggi: Edward Elric, Roy Mustang
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale

Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen ai, Movieverse, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

La vita è come una scatola di cioccolatini.
Non sai mai quello che ti capita.
- Tom Hanks, Forrest Gump -

    Quel giorno era stato in assoluto il peggiore che avessi mai vissuto.
    Non avevo fatto altro che vagare per le strade di quella nuova - quanto sconosciuta - città alla ricerca di una biblioteca che contenesse nei suoi archivi un libro che avrebbe potuto aiutarmi a tornare a casa, ma nessuno di quelli che avevo sfogliato era sembrato fare al caso mio.
    Il fiore all’occhiello della Germania: Monaco di Baviera.
Veniva definita così, eppure in quel momento non mi serviva a nulla. Anche adesso, mentre continuavo a girare svogliato le pagine di uno dei tanti libri che avevo preso in prestito, quel pensiero mi vorticava nella testa. Ero seduto in un locale abbastanza affollato, con una tazza fumante di cioccolato caldo e con il libro aperto sul tavolino, facendo scorrere velocemente lo sguardo su quelle pagine un po’ impolverate alla ricerca di parole diverse da quelle che stavo leggendo. Forse speravo che dietro a quelle lettere stampate ci fosse altro, ma il significato, per quanto mi sforzassi, era sempre lo stesso. Non cambiava di una virgola.
    Sbuffai tra me e me, richiudendo il libro con un tonfo sordo che, in quel chiacchiericcio generale allegro e un po’ fastidioso, fu solo come un flebile ronzio. Lo abbandonai sul tavolino che avevo occupato, allungando una mano per prendere la mia tazza e bere un sorso, non prima di aver soffiato un po’ sulla cioccolata.
    Sorseggiai il contenuto piano, senza fretta, e mentre ero intento in quello facevo scorrere lo sguardo nella ressa del locale, osservando distrattamente le persone ivi presenti senza farlo davvero Scorgevo i loro volti, i loro sorrisi; le amabili chiacchiere in cui molti di loro si erano gettati mentre brindavano, chi con qualcosa di leggero chi con alcool che andava oltre il limite pensabile. E ciò non faceva altro che rendermi nostalgico. Non sapevo perché, anche se da un po’ di tempo tutto mi dava quella sensazione.
    Se fossero i visi così familiari ,a richiamare tale nostalgia, non lo sapevo con certezza: l
’uomo del bar che serviva i clienti mi ricordava il soldato che stava sempre di guardia al Quartier Generale, con cui ogni tanto mi intrattenevo a parlare; un paio di uomini, seduti al lato opposto da dove mi trovavo io, sembravano anch’essi militari che prestavano servizio nel mio mondo, anche se la somiglianza era poca. Per non parlare poi di tante e tante altre persone così simili a quelle che avevo conosciuto. Era un mondo parallelo, dopotutto, quindi non avrei dovuto stupirmi, ma ogni qual volta incontravo un volto familiare, ne restavo sempre sconcertato. Forse non era l’aggettivo giusto, ma era qualcosa di simile la sensazione che provavo. Stessa cosa dicasi per mio fratello Alphonse, che l’anno prima era riuscito chissà come a seguirmi.
    Era stupido, dopo quel tempo passato, farsi cogliere dal rimorso della mia scelta. Io stesso avevo deciso di riattraversare quel portale e tornare in quel mondo, e avrei dovuto quindi mettere da parte ogni apprensione o cruccio che mi coglieva di tanto in tanto per vivere la vita che mi ero scelto da solo. Il ricordo del passato, però, spesso mi opprimeva. L’ultimo ricordo che possedevo del mio mondo era il suo volto, il volto di quello stupido Colonnello. La sua espressione triste e distante, disperata, mentre reggeva mio fratello per evitare che mi seguisse in quella decisione. Quel suo unico occhio color pece che mi osservava, poi il suo lieve sorriso. Erano quelle le cose che racchiudevo nel mio cuore, cose che non sarebbero mai svanite nemmeno con il passare degli anni. Tristi e malinconiche, certo, ma mi riportavano alla mente lui e tanto bastava.
    Trassi un lungo sospiro, posando sul tavolino la tazza ormai vuota, dando una rapida occhiata all’orologio da taschino che Alphonse mi aveva regalato per il mio compleanno. Erano quasi le cinque del pomeriggio, dunque avevo poco più di quindici minuti per raggiungere la stazione e salire sul prossimo treno in partenza, se non volevo passare la notte fuori casa. E di chiamare Al, nemmeno a parlarne. Così mi alzai, riagguantando il mio libro e pagando la bevanda che avevo ordinato per uscire svelto fuori in quel pomeriggio plumbeo. Rispecchiava quasi il mio umore. Grigio e spento.
    Scossi la testa per scacciare quel deprimente pensiero, ficcandomi nella tasca del giaccone il libro per incamminarmi nella folla che vigeva fra le strade, a capo chino. Non mi andava di guardare in faccia nessuno. Mi sentivo troppo giù di morale per farlo, perché avrei visto volti distesi e rilassati o, nel peggiore dei casi, visi ancor più cupi dei miei, e quel che non mi serviva era proprio demoralizzarmi più di quanto non lo fossi già.
    Raggiunsi la stazione giusto sette, otto minuti dopo. Mancava ancora un po’ di tempo alla partenza del treno, e feci vagare il mio sguardo per tutto il paesaggio circostante; scorsi persone che si affrettavano a salire su quelli che cominciavano già a fischiare e a sbuffar vapore, mentre altra gente si intrattenevano semplicemente vicino alle poche bancarelle presenti, attendendo proprio come facevo io. Una tra le tante attirò la mia attenzione, e mi avvicinai un po’ per osservarla meglio. Era una bancarella di dolci e bignè, gestita da un’anziana signora che sorrideva amabile ai propri clienti, per lo più donne con i loro bambini. Stranamente ci persi più tempo del previsto a guardare la merce esposta, controllando distrattamente l’orario; ma alla fine mi decisi, sorridendo stupidamente come un infante.
    «Signora, mi scusi», la chiamai, vedendola voltarsi verso di me con quel solito sorriso. «Una mela caramellata e un bignè, per favore».
    Il suo sorriso aumentò, accentuando di poco le rughe sulla sua fronte, coperte appena da qualche ciuffo di capelli sfuggito alla cricca in cui erano legati. «Subito, caro», mi disse, occupandosi abile di tutto; prese il sacchetto di carta, poi le pinzette, e utilizzò una tale cura che la mela nemmeno restò incollata quando me lo porse con mani un po’ tremolanti a causa dell’età insieme al bignè.
    Pagai svelto, sentendo il fischio del treno. «Arrivederci», la salutai chinando il capo, sentendola in risposta rivolgermi un “A presto, giovanotto.” Con il bignè in una mano, mi apprestai a prendere la piccola mela caramellata, consumando prima quella con ingordigia.
   
Salii sul treno giusto qualche attimo prima che i controllori salissero a loro volta per dar il via alla partenza. Mi guardai intorno alla ricerca d’un posto libero, trovandolo e gustandomi poi quel piccolo pranzo fino a finirlo; mi leccai persino le labbra, accartocciando il sacchetto e riponendolo nella tasca vuota per puntare poi sguardo sul dolce ricoperto di cioccolato. Il vagone cominciava frattanto a riempirsi, sommergendomi d’un altro piacevole chiacchiericcio, però, quando il treno partì, mi ritrovai a guardare fuori senza un motivo preciso. Il paesaggio dapprima scorse lento, poi sempre più veloce, prima di confondersi in una sinfonia di colori e suoni di sottofondo.
    Restai ad osservarlo sfrecciare sotto il mio sguardo, perdendomi in esso. Il rumore delle ruote del treno mi cullava in un piacevole dormiveglia, per quanto mi fossi portavo il mio dolce alle labbra, consumandolo a piccoli morsi. Altre persone occuparono i posti dinnanzi a me, e solo con la coda dell’occhio le guardai senza il benché minimo interesse. I loro discorsi mi riempirono subito dopo le orecchie, interrompendo la quiete che il paesaggio fuori mi aveva donato così splendidamente. Non mi toccò far altro che far finta di nulla, riprendendo a mangiare. Il gusto della cioccolata si scioglieva in bocca, lasciandomi una piacevole sensazione. Dolcezza, serenità ,quasi appagamento. Era strano che un semplice dolce al cioccolato racchiudesse in sé così tante emozioni, o forse ero solo io ad avere quell’impressione.
    Quando finalmente il treno arrivò alla mia fermata, quel buon dolce che avevo comprato era purtroppo già finito. Era ormai da una settimana buona che mi rimpinzavo di cioccolata e simili. Alphonse mi prendeva sempre in giro dicendo che era per carenza d’affetto, ridacchiando tra sé, ma gli avrei dato pienamente ragione se avesse saputo cosa mi affliggeva. In effetti era per carenza d’affetto, quindi mi attaccavo a quel piccolo desiderio proibito che la cioccolata riusciva a donarmi, gustandone il dolce sapore nel palato e sulla lingua.
    Mi distrasse dai miei pensieri qualcosa che mi venne addosso, facendomi perdere l’equilibrio e finire con il sedere per terra; alzai lo sguardo giusto in tempo per vedere un ragazzo con una sacca sulla spalla correre via, insinuandosi in mezzo alla folla e facendo slalom tra i passanti. Nemmeno a chiedere scusa, eh? Che razza di maleducato.
    Borbottai qualcosa tra me e me, sistemandomi meglio il giaccone per cominciare ad incamminarmi a propria volta fra la calca di gente, cercando di sfuggire a quello che era ormai divenuto un ingorgo fino a riuscire ad abbandonare la stazione senza perderci troppo tempo. Trovai quello stesso ragazzo che mi aveva urtato proprio lì, intento a frugare nella sua sacca alla ricerca di qualcosa.
    Mi avvicinai a lui senza un motivo preciso, aggrottando la fronte. «Ehi, tu», lo chiamai, vedendolo voltarsi poi verso di me. Ero quasi ad una spanna da lui, tanto che se avessi allungato un braccio avrei potuto benissimo picchiettargli una spalla, ma mi fermai di botto non appena scorsi il suo viso. Quei capelli sbarazzini color della notte, quegli occhi a mandorla dal taglio orientale... e quando incontrai quelle iridi, due oceani senza luna, persi un battito. Non riuscii quasi a credere che quegli occhi scuri mi stessero osservando. Non erano i suoi, e ne ero consapevole, ma in quel momento non mi importava. Restai solo lì, immobile, la bocca aperta in una muta parola; lo vidi però inclinare di lato la testa, con un sopracciglio nero sollevato mentre si rimetteva in spalla la sacca dopo averla chiusa per bene.
    «Aye?» mi chiese, e alla sua voce temetti davvero di poter svenire. La stessa identica voce. E, sebbene fosse un po’ meno indurita dall’età, era comunque sensuale e calda, ovattata e dolce.
    Non seppi cosa dire, distogliendo lo sguardo per non dover ancora sostenere il suo. «Nulla, scusa», borbottai tutto d’un fiato, con il cervello ormai in panne. In qualsiasi mondo, in qualsiasi modo, quel maledetto idiota riusciva a mandarmi in fumo ogni neurone nonostante avessi ormai un’età considerevole. La sorte, molto probabilmente, voleva deridermi.
    «Ci siamo già visti, per caso?» domandò ancora, e lo vidi con la coda dell’occhio fare qualche passo in più per avvicinarsi a me, con un cipiglio curioso in volto.
    Sei il mio Colonnello, evitai di dirgli, mentre sentivo la tristezza invadermi nuovamente. Sapevo che non era così e che non era lui, era solo un ragazzo che gli assomigliava. Scossi quindi la testa, sentendo un fastidioso pizzicore agli angoli degli occhi. Avrei fatto una figura di merda sicura, se avessi pianto lì. «Nay, è la prima volta che ti vedo», mormorai, e mi costò molto dire quelle parole. Anche se sarebbe stata solo finzione, mi sarebbe piaciuto davvero tanto gettarmi fra quelle braccia, sentire il calore di quel corpo che mi stringeva a sé, inebriarmi del suo odore... ma sapevo bene che non potevo permettermelo, dovevo mettermelo in testa. Non era lui.
    «Mi hai scambiato per qualcun altro?»
    Quelle sue parole furono come una pugnalata in pieno petto. Chinai il capo, sentendomi un groppo in gola. Le lacrime premevano sempre più agli angoli degli occhi. «Se ti dicessi di sì?» chiesi io, non avendo il coraggio di guardarlo in viso.
    Lui, però, rise. Non era derisorio, solo... dolce. Dolce quanto quella cioccolata che mi tentava da un po’. La sua mano leggera si posò d’improvviso sulla mia spalla, come se cercasse in quel modo di richiamare la mia attenzione, ma a quel gesto mi trassi quasi istintivamente indietro, guadagnandoci un’occhiata stranita. Scrollò le spalle e sollevò ironicamente un sopracciglio, così come un angolo della bocca in quello che, dovetti dolorosamente ammettere, mi ricordò il sorriso sghembo e provocatorio del Colonnello. «Ehi, scusa», rimbeccò con una punta di sarcasmo. «Non volevo fare nulla di male».
    Mi diedi mentalmente dello stupido, massaggiandomi le palpebre con due dita. Riuscii ad alzare la testa per osservarlo, stavolta, nonostante sentissi un fastidioso bruciore agli angoli degli occhi. «Nay, scusami tu», mi ritrovai a dire, agitando poi una mano come per liquidare cortesemente l’intera faccenda. «Ho i nervi a fior di pelle da un po’ di tempo, mi coglie tutto alla sprovvista».
    Non capii perché mi stessi giustificando con lui ma, in quel momento, il mio cuore sembrava voler guidare il mio corpo e la mia voce contrapponendosi con la mia mente, che non faceva altro che dirmi di andarmene il più in fretta possibile.
    «Anche io, posso capirti», replicò, tranquillo e a proprio agio, stiracchiandosi poi con le movenze d’un grosso gatto. «Colpa dei corsi all’università, ho indovinato?»
    A quelle parole parole restai di sasso, tanto che non mi trattenni dal porgergli a mia volta una domanda. Un po’ troppo personale, forse, ma non potevo tenermela dentro. «Scusa, quanti anni hai?» gli chiesi, e quasi mi pentii d’averlo fatto.
    La sua espressione appagata e ironica mutò in una di assoluto stupore, prima che quelle labbra sottili sulle quali mi ero incantato si arricciassero per dar vita ad una piccola smorfia. Quasi offesa, avrei osato dire. «Ne compio diciannove il ventisette di questo mese», borbottò, imbronciandosi. «Anche tu come tanti altri mi hai scambiato per un trentenne, eh?»
    Mi venne quasi spontaneo rispondergli di sì o che, per lo meno, gli avrei dato qualche anno in più. Un Roy Mustang quasi più pic-... ehm, giovane di me? Com’era strano e vario il mondo. Scossi la testa e agitai ancora una volta la mano, distratto. Ci mancava solo che restasse con quell’espressione su quella solita faccia da schiaffi. «Nay, ti sbagli», mi affrettai a dire, sulla difensiva. «E’ solo che ti facevo un pochino più grande. Te l’ho detto, mi ricordi un mio amico e...» mi bloccai nuovamente al pensiero di lui, e abbassai lo sguardo per un motivo che nemmeno io compresi.
    Perché quel ragazzo doveva capitare proprio in quel momento?
Era a questo che pensavo mentre incassavo la testa nelle spalle per guardare ancora una volta il terreno, facendo finta che lui non esistesse e che dinanzi a me non c’era nessuno. Ma era alquanto difficile, la cosa.
    Lo sentii avvicinarsi un po’ di più e, anche se con fare esitante, una sua mano si permise di passare delicata sotto al mio mento, alzandomi il viso. Incontrati i suoi occhi, quasi fui sul serio sul punto di perdermi su quelle labbra. Quelle stesse labbra che ora si muovevano per dare vita ad un sussurro. «Questo tuo amico ti manca molto, vero?» mormorò, quasi come se mi avesse letto chissà come nel pensiero. «Ti sei intristito, e mi dispiace».
    Non mi meravigliai affatto del suo modo di fare. In qualsiasi mondo, per me, sarebbe rimasto sempre il mio stupido Colonnello, e quel ragazzo me ne stava dando la prova tangibile. Pur non conoscendomi, si stava preoccupando per me. Non sapevo se definirla una cosa carina o semplicemente idiota.
    «Senti, voglio farmi perdonare», fece con voce ovattata e morbida. «Ti va di mangiare qualcosa con me? Offro io, mi sento in colpa».

    Stavolta lo guardai, sbattendo un po’ le palpebre, e mi venne quasi naturale sorridere ironico, forse un po’ amaro. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, recitai in mente mia. «E’ così che chiedi appuntamenti alle donne?» domandai, sarcastico e stranamente indispettito. «Le abbordi alla stazione per poi vedere se qualcuna abbocca?»
    Per l’ennesima volta, il suo viso assunse una strana espressione. Potei quasi giurare che fosse imbarazzo, quello che era andato a colorargli le guance. Roy Mustang imbarazzato? Il mondo stava davvero andando a rotoli. A disagio, stavolta, si sistemò la sacca sulla spalla, nonostante non servisse. Aveva anche distolto lo sguardo, grattandosi con finta non curanza dietro al collo. «Magari ci sapessi fare, con le donne», rispose infine, facendomi spalancare la bocca dallo stupore.Non era possibile, mi stava prendendo in giro. Non potevo credere alle sue parole.
    Avvicinai il mio volto al suo così da poterlo osservare meglio, vedendolo ritrarsi un po’ quando quasi annullammo troppo le distanze. Incertezza, disagio... inesperienza. Quegli oceani d’antracite lasciavano trasparire solo quello.
    «P-Perché mi guardi così, ora?» mi chiese con voce un po’ incrinata, deglutendo, e
dovetti trattenermi dal non scoppiare a ridere come un idiota. Invece mi allontanai un po’ mettendo da parte quella conversazione, cercando di dar vita al sorriso più sensuale che potevo permettermi solo per godere del suo imbarazzo.
    «Se tanto ci tieni ad offrirmi qualcosa, voglio qualcosa di dolce», gli dissi, vedendolo accigliarsi per poi tossicchiare, forse per riprendere il controllo di sé e delle sue emozioni.
    Annuì, rivolto più a se stesso che a me, traendo un lungo sospiro. «C’è un localino che li fa proprio a pochi passi da qui.» mi informò, facendogli cenno di seguirlo; il suo passo era veloce ma deciso, proprio come lo ricordavo, anche se forse un pochino impacciato. Era divertente e un po’ malinconico, quel suo modo di fare. L’aspetto era quello del Colonnello, e solo di tanto in tanto lo erano anche i modi d’agire e di comportarsi, ma era inutile mentire a se stessi.
    Sospirai e cercai di stare al suo passo, vedendolo poi svoltare a destra per scomparire in un piccolo vicolo che, quando lo raggiunsi, dava su una piccola taverna. Più un posto per alcool e pasti semplici, che per dolci. Con rinnovato spirito lui si voltò verso di me, sorridendo e tenendo aperta la porta.
    «Coraggio, dai», mi incitò, entrando per primo.
    Riluttante, lo seguii, ritrovandomi in un confortevole ritrovo, caldo e pieno di chiacchiere allegre. Le persone presenti mangiavano di tutto, proprio come avevo immaginato; c’era chi consumava un panino al volo o chi un brodo, o chi beveva semplicemente qualcosa. Niente dolci, mi aveva fregato.
    Lo vidi al bancone a parlare animatamente con il proprietario, scambiandosi risate e sorrisi come una coppia di vecchi amici mentre di tanto in tanto lui mi guardava.
Stavano ridendo di me, me lo sentivo. Un ragazzino ingenuo che era caduto nella tela del ragno. Andai a cercarmi un posto imbronciato, con l’idea di dirne quattro a quello stupido da strapazzo, ma mi evitò di farlo non appena lo vidi una bella fetta di torta al cioccolato poggiata su un piattino, con tanto di panna.
    «Offre la casa», disse scherzoso, accomodandosi.
    Lo fulminai con un’occhiataccia. «Non dovevi offrire tu?» replicai, giusto per avere l’ultima parola, ma gli provocai un’altra sonora risata.
    «L’ho fatto, visto che qui ci lavoro per pagarmi l’università», rispose, come se la cosa fosse ovvia. E infatti lo era.
    Guardai lui e poi il dolce, non potendo evitare di sorridere come uno scemo. In qualsiasi mondo, non cambiava mai. Non avrei smesso di ribadirlo ancora e ancora. Senza dire nulla, presi la forchetta, tagliando un bel pezzo dalla fetta che avevo davanti; me lo portai alle labbra assaporandone il sapore quasi con devozione, sentendo il dolce gusto del cioccolato mandare in delirio le mie papille gustative. Era il dolce più buono che avessi mai mangiato. La glassa e la panna erano squisite, si fondevano quasi con quello che doveva essere pan di spagna.
    «Cavoli», mi ritrovai a dire, inghiottendone immediatamente un altro po’. «Fai i miei complimenti a chi ha fatto questa torta e anche la cioccolata. E’ una bontà».
    Lo vidi sorridere con la coda dell’occhio, il volto sorretto nel palmo della mano. «Non credo ce ne sarà bisogno», disse, quasi con tono estasiato. «Sta già vedendo che il suo lavoro è parecchio apprezzato».
    In un primo momento non feci caso a ciò che disse. Ero troppo impegnato a consumare quel divino dolce che avevo dinnanzi, ma quando il mio cervello, non ancora annegato nei fiumi di cioccolata che lo imperversavano, realizzò finalmente quelle parole, lasciai cadere sorpreso la forchetta, guardandolo sconcertato. «L’hai fatto tu?» chiesi come un idiota.
    Sorrise maggiormente, annuendo anche se con un certo imbarazzo. «Che non si sappia in giro, però», scherzò un po’, seppur si vedesse benissimo che era orgoglioso del suo operato. Spostò il suo sguardo sul dolce al mio viso, allungando distrattamente una mano. Un suo dito mi sfiorò le labbra, facendomi correre uno strano brivido dietro alla schiena; quando lo allontanò, potei scorgere sul suo polpastrello un po’ di cioccolata. Mi sorrise ancor di più, portandoselo poi alle proprie labbra.
    Lo osservai ammaliato. Guardai le sue labbra, sulle quali fece passare il dito; guardai la sua lingua, che era guizzata fuori per ripulirlo. E continuò quel sensuale quanto involontario gioco tranquillamente, senza dar peso a quel che gli capitava intorno o a chi lo stava osservando. Quando finì, però, sentii la situazione stranamente opprimente. O imbarazzante, chi avrebbe potuto dirlo.
    «È ancor più dolce», fece quasi pensoso, ma con sensualità. «La ricordavo un po’ più farinosa». Non seppi cosa rispondere, poiché mi sentivo accaldato. Più accaldato di quel che credessi. «Aspetta, vado a prendere una cosa», disse poi, alzandosi con un sorriso. «Devi assolutamente assaggiarlo, lo reputo uno dei migliori che mi sono riusciti».
    Feci per aprire la bocca e replicare, ma non potei dir nulla che lui era già sparito. Abbassai lo sguardo tornando a guardare il dolce, decidendo di consumarlo mentre aspettavo. Era uno spreco lasciarlo lì a metà, bisognava finirlo. Così, anche se con pensieri poco casti e puri per la testa e con il mio Colonnello protagonista, cominciai a finirlo piano, lappando la forchetta ogni qual volta si sporcava di cioccolata. Il mio gesto probabilmente era erotico, ma poco mi importava, in quel momento. Anzi, se fossi stato solo, avrei probabilmente fatto qual cosina in più per appagarmi.
    A distrarmi dai miei pensieri tutt’altro che innocenti, fu nuovamente il suo arrivo, prima che si sedesse al mio fianco sulla sedia libera; r
eggeva fra le mani un vassoio, dove dava bella mostra di sé una rosa interamente ricoperta di cioccolato, con spicchi di fragola intagliati qua e là. Era una meraviglia. «Ma... è bellissimo», mormorai inconsciamente, sentendomi come una ragazzina, però non c’era aggettivo migliore per descriverlo. Guardai lui, corrugando un po’ le sopracciglia. «Quasi mi dispiace mangiarlo e rovinarlo»
    Lui scosse la testa con fare divertito, concedendosi il lusso di darmi un piccolo buffetto sul naso. «L’ho fatto perché si mangiasse, non perché restasse ad ammuffire», replicò, falsamente autoritario e indispettito. Il sorriso, però, lo tradiva.
    «Ma io...» riprovai, e stavolta un suo dito mi zittì, ponendosi sulle mie labbra.
    «Niente ma, assaggia. Questo sono sicuro che ti piacerà e ti tirerà un po’ su», disse poi, con voce dolce. «Ha il cuore di liquore».
    Il cuore di liquore. Presunsi whisky, sollevando le labbra un triste sorriso. Ecco un altro ricordo di quando giocavamo a fare gli innamorati. Quell'idiota di un Colonnello mi si avvicinava con i miei dolci preferiti mentre ero disteso sul materasso, ben conscio però che non sarebbe potuto andare oltre ai semplici baci. Avevo solo sedici anni, a quei tempi. Mi porgeva il piccolo vassoio in argento su cui li riponeva e io ne rubavo svelto uno mangiandolo con gusto, sotto i suoi attenti e divertiti occhi d’onice; poi ne prendeva uno anche lui e se lo metteva in bocca, invogliandomi. E quasi mi sembrava di sentirlo, in quel momento, mentre quel ragazzo così simile a lui mi accarezzava il volto con dolcezza e si avvicinava alle mie labbra, quasi timido, ma sorridendo amabilmente come solo lui sapeva fare.
    “Ci sono modi migliori per consumare della cioccolata, Ed.













Commento del giudice:
Una parola sola: FANTASTICA.
Mi hai fatto innamorare di questa storia!
E’… è semplicemente meravigliosa! Dolcissima, ma allo stesso tempo si può trovare una buona dose di malinconia!
Mi sono sentita esattamente come Edward, ho provato le sue stesse emozioni!
E, nonostante io sia SEMPRE per i lieto fine, ho adorato questo finale, un finale, forse, un pochino sofferto, perché Ed SA, che non è il suo Roy… ma cosa può fare se non cedere all’amore infinito che prova per lui?
Brava, brava e ancora brava!!! ^^
Solo una cosa: la grammatica. xDD
Sostanzialmente era molto curata, anche se i periodi erano un po’ troppo lunghi e non c’era la sacrosanta pausa virgolesca; ma quello che ti ha “fregata” è stato un singolo errore, ripetuto più volte: aperto il discorso diretto, e una volta deciso di voler farlo terminare, è corretto mettere il “.” dopo le virgolette! Esempio: “Come va?” “Bene!”.
Capito? ^^
A parte questo, la storia è meravigliosa così com’è! ^^
Ancora complimentoniiii!! ^^



- 7 punti alla grammatica;
- 10 punti all'originalità;
- 9 punti allo stile;
- 8,5 punti per l'utilizzo dell'elemento cioccolatoso;
- 5 punti al giudizio personale.


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