Apro gli
occhi e ciò che
vedo è un soffitto così basso che pare volermi
schiacciare da un
momento all'altro. Lascio che le palpebre accarezzino il mio sguardo
confuso, quel tanto che serve a spazzar via la nebbia dello
smarrimento, e quando riporto la percezione alle mie iridi è
nuovamente li, quel soffitto opprimente, madido di quella
umidità
che posso odorare nell'aria.
Dove mi trovo? E' giorno o
notte? E perché la testa mi duole dannatamente?
Porto i palmi delle mani sul
viso alla ricerca di ricordi che non mi riesce di rammentare, ma
tutto quello che ottengo è il godimento della mia fronte
bollente,
deliziata dalla frescura delle dita.
Respiro profondamente il
puzzo che aleggia nella stanza, e quando non vi è
più modo di andar
oltre lascio che il fiato scivoli sulle mie labbra in un soffio
leggero, che muta, quasi senza averne controllo, in un ringhio di
rabbia.
Punto le mani sul materasso
e mi sollevo a sedere, tastando le lenzuola che posseggono il
medesimo colore dei muri che mi circondano, di un giallo consunto, e
mi accorgo di aver indosso gli stivali, insudiciati da della
fanghiglia ancora fresca, ma d'essere orfana della giacca
dell'uniforme.
Scruto l'ambiente che mi
circonda alla ricerca dell'indumento mancante e di un qualunque
indizio che possa venire in aiuto alla mia mente, sgombra di quella
memoria che bramo più d'ogni altra cosa al mondo.
Vi è un piccolo mobiletto
accanto al letto, un pezzo di poco valore, guastato dal tempo e dai
tarli che vi hanno banchettato al suo interno. Una sedia con una
gamba più corta rispetto alle altre tre, nell'angolo, una
finestra a
cui manca un una porzione di vetro, con gli scuri accostati, privi
anch'essi di qualche tassello, e null'altro.
Nient'altro cattura la mia
attenzione, così, ormai spazientita, conduco le gambe oltre
il bordo
del giaciglio e quando i piedi si posano sul pavimento percepisco al
di sotto un cumulo di stoffa. Il mistero è svelato, mi chino
leggermente a raccogliere la giacca perduta, che scopro bagnata, come
qualsiasi cosa in questo maledetto luogo.
Impongo al mio corpo un
ulteriore sforzo per trovare una posizione finalmente eretta e
lasciare il tugurio in cui mi trovo, e non è impresa facile
per le
mie gambe malferme e per l'equilibrio che ha deciso di abbandonarmi.
Cosa diavolo mi è accaduto?
Quale potente droga hanno usato per ridurmi in un tale stato? Che sia
stata colpita?
Porto una mano alla testa e
mi aspetto di trovarvi una ferita, una protuberanza, un dolore che
possa dare una conferma alla supposizione formulata poc'anzi, ma non
avverto nulla e l'ira si fa sempre più vigorosa, la sento
serrarmi
le viscere e farsi strada in ogni nerbo del mio essere, fino a farmi
ribollire il sangue nelle vene.
Devo andarmene da questo
alloggio, immediatamente. Porto un piede dinnanzi all'altro, con
decisione, con la baldanza che contraddistingue il mio incidere da
che ne ho memoria, incurante del tremore che striscia al di sotto dei
muscoli delle mie gambe, ed è così che mi ritrovo
nella stanza
principale di quella che fatico a definire casa.
Scopro un locale poco più
grande della camera da letto, ne osservo lo scarno arredamento e quei
dettagli che mi fanno agognare la fuga, ed ancor prima che la ragione
possa impartirne l'ordine, i miei piedi hanno di già
compiuto i
movimenti che mi stanno conducendo verso l'uscita, ma è nel
tragitto
che mi divide dalla porta che il mio passo colpisce qualcosa.
Un tintinnio, che ruzzola
per rincorrere un suono gemello, parla al mio orecchio raccontando
una ovvietà che i miei occhi non hanno bisogno di guardare,
per
averne conferma.
Una bottiglia di vino
scadente e un calice di vetro scheggiato.
Ecco la mia droga, la rossa
maliarda che da tempo immemore ha il potere di affascinare i miei
sensi, carpendo ogni ombra d'intelletto, fino al completo
stordimento. Una dolce morte che mai delude le proprie promesse,
deliziando la lingua con il suo dolce nettare e uccidendo senza
rimorso le voci che straziano l'anima, il cuore e la mente.
Debbo ammettere che questa
volta pare aver svolto il proprio lavoro con lodevole dedizione,
poiché sembra esservi l'oblio nella mia memoria, o forse
sono io a
non voler scorgere la verità? Chi può dirlo.
Arresto la mia fuga e mi
seggo sulla sola poltrona che vi è nella stanza, usurata
anch'essa
come qualsiasi oggetto che dimora in questa abitazione, ma non
m'importa, ho smesso d'essere esigente tanto tempo fa. Poggio i
gomiti sulle ginocchia e lascio che i palmi avvolgano, in una
delicata morsa, le tempie e il capo, mentre fisso scioccamente
incantata i miei lunghi riccioli biondi ricadermi dinnanzi agli
occhi. E qualcosa torna alla mente, un ricordo o l'ultima vestigia di
un sogno?
Suppongo di aver paura di
scoprirlo, perché ciò che la mia testa rammenta
è qualcosa che
spero sia soltanto la visione mostruosa di un incubo.
No non può essere vero, non
può essere accaduto.
“Tradimento”
“Non
devi aver paura, io ti ucciderò chiedendo perdono a
Dio...”
Allontano
la luce dai miei occhi premendovi contro le mani, divenute gelide,
come toccate dall'alito della morte. Se fossi morta e questo fosse il
purgatorio?
Sorrido
della mia insensatezza, da quando il comandante Oscar Francois De
Jarjayes consente all'irrazionalità di prendere il
sopravvento sulla
ragione?
Vi è
ancora, dietro questa vecchia maschera incrinata, il comandante
forgiato da anni e anni di duro lavoro e regole morali?
Forse
solo un lieve rimpianto, offuscato dalla consapevolezza d'essere
fallibile e di compiacersene, poiché non vi è
peccato nella paura,
nell'errore, e nell'amore, ma solo la dimostrazione della
molteplicità e la bellezza dell'animo umano.
Ho
gioito di questa vittoria, ne ho pianto di felicità, eppure
ora
darei qualunque cosa per un istante di stordimento, baratterei
qualsiasi cosa per un altro sorso di vino. Ma non mi è
possibile
esaudire questo desiderio, e non posso far altro che rimanere nella
medesima posizione sperando, o temendo, che uno spiraglio di
lucidità
porti ordine dove ora vi dimora il caos.
Immobile
nella mia postura seguito a velare le mie azzurre iridi con il nero
dell'oscurità, la pesantezza del capo riversata sui palmi e
mi par
quasi di aver trovato la pace, ma è in questo momento di
calma che
sento una mano afferrarmi il polso, con fermezza, e l'istinto del
soldato mi porta a tentare di liberarmi della presa e ad innalzare la
testa, volgendo il viso verso il nemico.
“Oscar,
ti senti bene? Sono stato da Bernard, possiamo contare sul suo aiuto,
non vi saranno problemi per...”
ti vedo,
odo la tua voce, ma credo di aver smesso di ascoltare ciò
che stai
dicendo.
Sento le
tue dita stringere il mio polso ed ora rammento.
“...non vi muovete perché io adesso andrò via assieme ad Oscar”
Ora ricordo ogni cosa.