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Autore: Adeia Di Elferas    20/03/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina stava aspettando impaziente nello studiolo del castellano. Era più agitata di quanto non sembrasse. Riusciva a tenere le mani ferme solo perchè le aveva appoggiate alla scrivania, ma sapeva che non appena ne avesse sollevata anche solo una, si sarebbe potuto quantificare il suo nervosismo dal tremore irrefrenabile delle sue dita.

Aveva chiesto che i figli venissero portati prima di tutto in una stanza per gli ospiti, lontani dagli altri prigionieri, che avrebbero potuto o farne simboli e cominciare un'improbabile ribellione, o incolparli per la loro condizione e sfogarsi su di loro fino a farli a pezzi, e poi aveva ordinato che venissero accompagnati uno per volta – Cesare per primo – al suo cospetto.

Quando la maniglia si abbassò, la Contessa non represse un fremito, ma Cesare, preso com'era dal proprio tormento interiore, non se ne accorse.

“Aspettate fuori.” ordinò la donna a Mongradini, che si ritirò all'istante.

Cesare non accennava a muoversi dalla porta. Teneva il capo chino, mettendo in mostra la tonsura, le braccia erano inerti lungo il corpo e le spalle, curve, erano smosse di quando in quando da un mezzo singhiozzo.

Caterina restava ancorata alla sua sedia, incapace di aprir bocca. Temeva quello che avrebbe potuto fare, se si fosse alzata e si fosse avvicinata al suo secondogenito.

“Madre, perdonatemi.” furono le prime parole che Cesare riuscì a dire.

“Perché dovrei?” chiese la Contessa, indugiando sugli abiti scuri del figlio, gli stessi, se ne rese conto subito, che aveva indosso il giorno in cui Giacomo era stato ucciso.

“Sono stato reso cieco dall'odio...” si spiegò Cesare: “Ho capito troppo tardi quello che stavo facendo... Mi sono lasciato convincere e ho peccato contro di voi e contro Dio.” a quell'ultima affermazione, le sue mani dalle lunghe dita corsero al crocifisso che portava al collo.

“Hai capito troppo tardi che ti stavi rendendo complice di un omicidio?” chiese la Contessa, non riuscendo a mascherare troppo l'ira che attizzava il fuoco sotto la sua accusa: “E sì che tutti dicono che sei intelligente.”

Il ragazzino sollevò finalmente lo sguardo e incrociò quello della madre. Nemmeno un pazzo avrebbe avuti dubbi sulla sincerità di quel pentimento.

Caterina si decise a lasciare la scrivania e si accostò al figlio. Cesare era sempre stato il più affettuoso dei suoi bambini, quando era piccolo, ma poi, alla morte del padre, aveva cominciato ad aggrapparsi sempre di più a Ottaviano, forse in cerca di una figura maschile di riferimento, e da allora la Contessa lo aveva sentito sempre più lontano.

Vedendo la madre avvicinarsi, il ragazzino ebbe l'istinto di ritirarsi, per difendersi, ma lo dominò alla perfezione, mantenendo i piedi ben piantati in terra.

Il suo movimento, per quanto appena accennato e quasi impercettibile, ferì ugualment Caterina, che gli si mise davanti in silenzio. Lo guardò a lungo e poi alzò una mano, come se volesse dargli uno schiaffo o anche un colpo più pesante.

Cesare tenne il mento alto, pronto a quell'assaggio della punizione che la sua carne avrebbe di certo subito per le sue colpe, ma quando il braccio calò su di lui, la velocità si rivelò decisamente inferiore a quella attesa e, una volta alla sua guancia, il pugno chiuso si aprì in una carezza. Una carezza ruvida, distaccata, a modo suo violenta, ma pur sempre una carezza.

Colto da una commozione profonda, il ragazzo gettò la prudenza alle ortiche e allargò le braccia, stringendo a sé la madre. Caterina si lasciò abbracciare, ma non ricambiò la stretta. Non era ancora pronta per quello.

Quando il figlio si allontanò da lei, in lacrime e paonazzo, la Contessa gli disse: “Spera che tuo cugino Raffaele riesca a provvedere a te. Da oggi mi disinteresserò dei tuoi studi e della tua vita. E ora vai a chiamare tuo fratello e fallo venire qui.”

Cesare deglutì, si asciugò il naso con la manica nera della sua giacchetta da mezzo prete e, facendosi il segno della croce, uscì dallo studiolo dicendo: “Dio è grande e misericordioso!”

Caterina lo guardò mentre lasciava la stanza e si tenne per sé un amaro: 'Se lo fosse, tu non saresti mai nato'.

 

Quando Ottaviano entrò nello studiolo, trovò la madre in piedi accanto alla finestra, intenta a guardare fuori, apparentemente assorta nella contemplazione del paesaggio e del tutto disinteressata a lui.

Il sedicenne fu tentato, in un malsano guizzo di autolesionismo, di annunciarsi con qualche frase pungente e offensiva, ma non ne ebbe bisogno. La Contessa si era accorta eccome della sua presenza, ma era palese che non volesse guardalo in faccia.

Restando voltata, la donna chiese, controllata, ma implacabile: “Perché lo hai fatto?”

Ottaviano non rispose. Si tormentava le mani e i suoi occhi rancorosi correvano da un angolo all'altro della camera senza posa. Sentiva delle gocce di sudore gelato scendergli lungo la schiena e la gola seccarsi.

Cesare era tornato sano e salvo da quell'incontro, ma Ottaviano non credeva di poter essere altrettanto fortunato. Suo fratello era sempre stato uno dei preferiti di sua madre, per quanto fosse difficile capire per quali dei figli la Contessa provasse un minimo di trasporto.

Egli, invece, era sempre stato il più detestato, il meno sopportato, quello più apertamente disprezzato...

Quella volta sua madre non si sarebbe lasciata scappare l'occasione di punirlo in modo esemplare, ne era certo.

Ottaviano deglutì con fatica, sentiva gli occhi pizzicare, mentre si immaginava a porgere alla donna che aveva difronte e che sentiva di non aver mai conosciuto realmente una domanda che in nessun caso avrebbe avuto il coraggio di formulare in sua presenza: 'Perché non mi avete ucciso prima di farmi nascere?'

“Allora? Mi rispondi?” insistette Caterina, voltando appena il viso, abbastanza da poter vedere da sopra la propria spalla il profilo del primogenito.

A differenza di Cesare, Ottaviano si era cambiato.

“Di chi sono quei vestiti?” domandò la Contessa, rigirandosi verso la finestra dopo la rapidissima occhiata agli abiti indossati dal figlio.

“Di Paolo Denti.” rispose Ottaviano, con la voce che tremava.

“Le maniche ti stanno corte.” lo rimbrottò la madre.

“Lo so.” si difese pallidamente il ragazzo.

“Sei grande, grosso e inutile, proprio come era tuo padre.” commentò aspra Caterina, cedendo con facilità alla tentazione di indugiare in simili offese.

Stava facendo già abbastanza fatica a tenere le mani a posto, dunque doveva permettere almeno alla sua lingua di trovare uno sfogo, o non avrebbe più risposto delle sue azioni.

“Perché lo hai fatto?” chiese ancora una volta la Contessa, i cui occhi vitrei indugiavano sull'orizzonte, senza neppure vedere il cielo azzurro che si stendeva sopra Forlì.

“Che differenza fa?” sputò Ottaviano, sorprendendo tanto Caterina, con il suo tono sprezzante, da farla voltare di scatto: “Tanto mi avete sempre odiato! Vi ho solo dato una scusa più valida del semplice fatto che sono nato!”

La Contessa stringeva i denti con tanta forza che si poteva sentire il rumore del loro sfregare. Il figlio le stava tenendo gli occhi puntati addosso, tutta la paura che aveva dimostrato fino a poco prima scomparsa, anzi, tramutata in ostentata ostilità. Era proprio come se si credesse già condannato. Come se sapesse che ogni appello sarebbe stato vano.

“Ti do un'ultima possibilità – disse Caterina, sforzandosi di mantenere un tono pacifico – dimmi perché l'hai fatto.”

Ottaviano soffiò con forza dal naso e poi, guardando in alto e allargando le lunghe braccia, per poi lasciarle ricadere teatralmente contro le cosce, dichiarò: “Perché quell'uomo vi condizionava. Per lui avreste messo a ferro e fuoco il mondo, madre. Quello stalliere stava mandando il nostro Stato al macello. Voi non avevate più alcuna lucidità nelle vostre scelte e...”

“Non mentire a tua madre!” lo interruppe con furia Caterina, portandosi tanto vicino a lui che Ottaviano poteva sentirne il respiro rovente in faccia: “Non è per questo che l'hai fatto! Questo è quello che hai detto alla bestie che hai assoldato per convincerle a fare tutto il lavoro sporco al posto tuo! Dimmi perché lo hai fatto! Voglio il motivo vero!”

“Perché mi ha dato uno schiaffo! In pubblico!” ribatté d'impeto Ottaviano, a voce tanto alta da superare perfino quella della madre: “Io, un Conte! Preso a schiaffi da un misero stalliere ripulito, il cui unico vanto era quello di poter montare la Tigre di Forlì ogni qualvolta volesse, fino pure a ingravidarla!”

A quella dichiarazione, la donna si ritrasse. I suoi occhi verdi si erano fatti di ghiaccio e il suo viso aveva perso tutto il colore che l'aveva acceso durante la precedente esternazione di rabbia.

Con la precisione e la ferocia di un navigato boia, Caterina caricò il colpo e diede a Ottaviano uno schiaffo in piena guancia tanto forte da farlo cadere in terra: “Ecco. Ora trova qualcuno che uccida anche me.” gli disse, atona.

Il Conte si rialzò con fatica, portò entrambe le mani al volto e, stando un po' chino, sulla difensiva, lanciò uno sguardo stranito alla madre: “Non avete intenzione di giustiziarmi?”

“Non ho ancora deciso cosa fare con te. Per ora posso solo dirti che questo Stato non sarà mai tuo e che dovrai rinunciare al tuo titolo e alle tue sostanze. Da oggi e finché avrò fiato, farai solo quello che ti ordinerò io. Non ho intenzione di ucciderti, questo no. Non sarò l'assassina di mio figlio per colpa tua.” rispose la donna, andando alla porta, passandogli accanto come un refolo di vento: “Ma essendo tu come tuo padre, ti sarà più penoso vivere, che non morire.”

La Contessa aprì l'uscio e additò Mongardini, ordinando: “Confinate il Conte in una delle stanze della rocca e mettete delle guardie alla porta. Che nessuno gli parli, che nessuno gli faccia visita e che nessuno gli porti da mangiare o da bere fino a che non avrò deciso altrimenti.”

Ottaviano era ancora immobile nel mezzo dello studiolo, quando Mongardini gli arrivò alle spalle e, prendendolo con fermezza per le braccia, lo portò via.

Mentre si allontanava, strattonato dal Capitano al soldo di sua madre, il Conte non staccò per un istante gli occhi da quelli della Contessa.

Quando lui e il suo carceriere girarono l'angolo, sparendo alla vista della Tigre, Ottaviano cedette al pianto e si chiese ancora una volta, con maggior disperazione, perché mai sua madre non lo avesse ucciso ancor prima di lasciarlo nascere.

 

“Come sarebbe a dire?!” sbottò Tommaso Feo, bloccando la strada a Caterina, quando la incrociò, quella sera: “L'avete solo fatto chiudere nelle sue stanze? Che razza di punizione sarebbe, questa?!”

La Contessa guardò il Governatore di Imola con fermezza e sentenziò: “Sono io che comando e io che amministro la giustizia.”

“Ma vostro figlio ha fatto uccidere mio fratello!” insistette l'uomo, la cui superiorità fisica appariva schiacciante, mentre fronteggiava tanto sfacciatamente la sua signora in quel corridoio già buio.

Caterina, che fin dal primo pomeriggio aveva avvertito uno strano malessere crescerle dentro che nulla aveva a che fare con lo sconvolgimento subito dalla sua vita, non aveva alcuna voglia di mettersi a discutere con un suo sottoposto, per quanto fosse suo cognato.

Così, agitando la mano sbrigativa, concluse: “O aiutate i miei Capitani con gli interrogatori e le esecuzioni, o tornatevene a Imola. Non ho bisogno di qualcuno che critichi le mie decisioni.”

Tommaso sporse in fuori il mento e, rimangiandosi la rabbia che stava per riversare sulla Contessa, si congedò: “Partirò prima dell'alba, non abbiate paura.”

In altri momenti, Caterina avrebbe cercato di riparare a quella frattura, magari, in via eccezionale, anche mettendo da parte l'orgoglio e inseguendo il cognato che si stava allontanando, ma non quella volta.

Portandosi una mano alla testa dolorante, la Contessa decise di evitare la cena e si andò a coricare immediatamente, tanto confusa da non riuscire nemmeno a cambiarsi per la notte.

Bruciò di febbre fino al mattino dopo, quando, un bel po' dopo il sorgere del sole, uno dei servi bussò alla sua porta per chiederle se desiderasse qualcosa per colazione.

Quando non ottenne risposta, il ragazzo aprì bene le orecchie e si mise in ascolto. Sentì la donna lamentarsi e a quel punto preferì rischiare di essere indelicato, piuttosto che superficiale, ed entrò.

Trovò la Contessa che si rigirava nel letto, sudata e arrossata in viso, febbricitante e apparentemente vittima di orribili allucinazioni.

“Ludovico!” gridava: “No... Ludovico! Ghetti... Orsi! Berdardino... Rosaria! Ludovico! Ludovico!”

Spaventato da quella visione, il servo corse fuori in cerca del medico che, non appena giunse al capezzale della donna, non poté fare altro che chiedere che gli venissero portate pezze bagnate e alcuni ritrovati messi a punto dalla Contessa in persona per abbassare la febbre: “E chiamate anche sua madre!” aggiunse il dottore, temendo il peggio, visto lo stato debilitato della sua straziata paziente.

 

Bianca Landriani guardava con disinteresse il proprio riflesso allo specchio. La serva che si occupava di lei le stava sistemando i capelli in un'acconciatura semplice, una di quelle che preferiva.

La mattina era ancora acerba e fresca. La calura non si era ancora scatenata sulla città e Bianca sperava che il clima divenisse presto più clemente. Non sopportava l'afa.

Imola stava vivendo giorni difficili. Dopo l'impiccagione di un paio di parenti di Ghetti, c'erano stati alcuni arresti, su ordini giunti direttamente da Forlì, ma più che altro regnava l'incertezza.

Gian Piero Landriani, in qualità di castellano della rocca, aveva cercato di orchestrare al meglio tutto quanto, ma non era stato semplice. Essendo però un uomo dall'indola pacifica e pacata, quei tempi di agitazione non facevano per lui e lo mettevano in gran difficoltà. Aspettava con ansia il ritorno del genero, che, di certo, per quanto sicuramente sconvolto per la morte prematura e improvvisa del fratello, avrebbe saputo meglio si lui che fare.

Bianca, invece, non era ottimista come suo padre. Temeva quello che ritrovarsi solo con Caterina avrebbe potuto risvegliare in suo marito. Ora che la Tigre era rimasta sola, la sorella non voleva nemmeno immaginare come avrebbe potuto reagire. Avrebbe scacciato tutti, oppure avrebbe accolto a braccia aperte il miglior surrogato disponibile del suo defunto Giacomo?

E Tommaso... Diventava un debole, quando si trattava della sua adorata Contessa.

“Vai tu.” fece Bianca, quando qualcuno toccò la porta della camera.

La serva fece una rapida riverenza e andò a vedere chi fosse. Una delle guardie del palazzo le parlò in fretta e la domestica annuì, per poi richiudere la porta e tornare alla sua padrona.

“Vostro marito – disse la serva – è stato appena visto entrare in città.”

“Tommaso è qui?” chiese Bianca, incredula.

La serva fece segno di sì con la testa, e provò a rimettere le mani tra i capelli di Bianca, che però si era già alzata di scatto, guardandosi l'abito che aveva addosso: “Questo non va bene...” farfugliò tra sé: “Presto! Aiutami a toglierlo e a mettere quello rosso, quello che gli piace...”

Il Governatore di Imola arrivò a palazzo pochi minuti dopo e ad accoglierlo trovò la moglie. In quel momento, con indosso i colori di Milano, gli parve bellissima.

Bianca guardò con apprensione il marito, cercando di valutare l'esatta entità del danno causato perdita di Giacomo.

Vide gli occhi cerchiati, le guance, coperte da un accennato strato di barba brizzolata, più incavate di quanto ricordasse, e una strana ombra nelle sue pupille.

“Tua madre ha voluto restare a Forlì.” disse Tommaso, avvicinandosi a Bianca.

“A me basta che ci sia tu.” rispose la giovane, provando ad allungare una mano verso il viso dell'uomo che le stava davanti e ad accarezzarlo con dolcezza.

Da quando avevano ricevuto la notizia della morte di Giacomo, Bianca non era ancora riuscita a dedicare al marito un solo gesto di gentilezza. Era partito subito come una furia, senza darle il tempo di consolarlo.

Al tocco lieve della mano della moglie, Tommaso avvertì un crampo all'addome e sentì risvegliarsi dentro di sé la forza stessa della vita, pulsante ed egoista.

Senza preavviso, sotto gli occhi un po' increduli e un po' imbarazzati della serva che aveva accompagnato fino a lì la moglie del bel Governatore Feo, l'uomo prese in braccio Bianca e camminò a marce forzate fino alla loro camera.

La buttò sul letto senza troppi riguardi, ma la donna non parve particolarmente indispettita per quell'improvvisa iniziativa.

Mentre si toglieva con fervore il cinturone a cui era assicurata la spada, lasciandolo cadere in terra con un suono sordo, Tommaso confessò: “Quanto sono felice che in questo letto ci sia tu e non tua sorella...”

Bianca si sentì improvvisamente euforica. Quella per lei era la più grande delle vittorie. Forse era insensibile, da parte sua, soprattutto in quel momento, ma non poteva che gioire come mai in vita sua per quella dichiarazione.

Mentre ancora si beava delle parole del marito, Bianca quasi non badò a quello che accadeva sotto le sue gonne e si lasciò prendere dal suo uomo, che, mosso dalla frenesia del desiderio, si trovò a giacere stremato sopra di lei dopo pochissimo tempo.

Sfinito fisicamente ed emotivamente, Tommaso affondò il viso nel collo della moglie, solleticandola con il suo respiro caldo e, mentre la donna gli accarezzava la testa con fare quasi materno, il Governatore le sussurrò: “Sei la cosa più sana della mia vita.”

 

Forlì ribolliva ancora, le carceri di Ravaldino si erano trasformate in avelli infernali ricolmi di grida e tormenti, e la volontà di sostenere il Conte Riario a discapito della madre sembrava essersi persa nelle nebbie della paura, anche se della Tigre non c'era traccia da quasi tre giorni.

Ottaviano, che era rimasto segregato nella sua stanza fin dal momento in cui sua madre gli aveva ordinato l'isolamento, cominciava a straparlare per la sete. Sentiva di essere al limite della sopportazione e si era reso conto fin troppo presto di quanto le guardie alla sua porta fossero fedeli alla loro signora.

Per quanto lui avesse urlato, pianto e implorato, cercando perfino di scappare un paio di volte, nessuno si era degnato di rivolgergli anche solo un rimbrotto, limitandosi, quando necessario, a ricondurlo dentro la stanza, alla stregua di un qualsiasi carcerato riportato in cella.

Aveva chiesto da bere, sopra ogni altra cosa, ma i soldati parevano del tutto insensibili e ben contenti di lasciarlo morire di sete e stenti come l'ultimo dei condannati.

Stava per perdere le speranze, quel giorno, sentendosi tanto debole da faticare perfino a stare seduto, la bocca così secca da sentire la lingua ruvida come la pelliccia ispida di un cinghiale, e la mente tanto svuotata da renderlo annebbiato. Stava coricato sul letto, ma gli sembrava di navigare in mezzo al mare, per come la testa gli girava. A risvegliarlo dal torpore in cui stava cadendo fu la voce di sua sorella Bianca.

La sentì ridere amabilmente appena fuori dalla porta, poi ci furono parole e risa maschili e si sentirono dei passi.

Quando la porta si spalancò, la giovane Riario si lanciò dentro e porse con urgenza la bocca di una brocca colma fino all'orlo d'acqua al fratello.

Senza fare domande, Ottaviano bevve quasi tutto, combattendo coi conati di vomito dovuti allo stomaco troppo vuoto.

“Che cosa ci fai qui?” riuscì a dire, quando l'acqua iniziò a rendergli la lingua meno legata: “Non hai paura di nostra madre? Dove sono le guardie?”

Bianca, col viso teso, gli occhi quasi grigi che saettavano apprensivi alla porta a ogni secondo, scosse piano il capo e spiegò: “Le guardie le ho distratte. Sono due soldati giovani... Conosco entrambi e li ho convinti a... Oh, lascia perdere. Bevi, muoviti!”

Ottaviano non se lo fece ripetere e sorbì fino all'ultimo sorso d'acqua. Tuttavia, appena deglutì l'ultima goccia ristoratrice, chiese di nuovo alla sorella che cosa stesse accadendo fuori da quella stanza.

“Messer Tommaso è tornato a Imola – disse in fretta Bianca, controllando tanto la porta quanto lo stato del fratello, che le sembrava oltremodo deperito in soli tre giorni – e Mongardini e Calderini continuano con gli arresti. Nostro fratello Cesare non fa altro che chiudersi in chiesa a pregare e recitare penitenze... A volte sembra essere uscito di testa. Nostra madre sta male. Ha la febbre molto alta, non è cosciente e delira chiamando i nomi di quelli che ha fatto uccidere. Il medico dice che potrebbe trattarsi di un attacco di malaria.”

A quelle parole, Ottaviano parve resuscitare. Afferrò il braccio della sorella con irruenza e i suoi occhi si riempirono di quella che pareva essere pura speranza.

“Potrebbe morire?” chiese il ragazzo, in un soffio.

Bianca inorridì, nel riconoscere nel viso del fratello la lucida follia che ricordava di aver visto mille volte nel volto del loro signor padre. Si divincolò con un gesto secco dalla sua stretta e gli dedico un'occhiataccia severa.

“Tu la vuoi morta?” chiese la ragazzina, incredula.

“Pensaci, Bianca...” disse Ottaviano, comprendendo, però, di aver appena commesso un passo falso proprio con l'unica persona che sembrava intenzionata ad aiutarlo: “Se lei morisse, io prenderei il potere e...”

“Mi fai schifo.” sibilò Bianca, già pentita di essersi lasciata vincere dallo scrupolo di controllare se il fratello fosse ancora vivo o già morto di sete.

Si allontanò subito dal letto e uscì dalla stanza senza lasciare tempo al fratello di aggiungere anche solo una mezza frase di spiegazione o di scuse.

Ottaviano buttò indietro la testa, una mano sullo stomaco improvvisamente disteso dall'acqua ingurgitata. Anche sua sorella lo disprezzava. Forse l'aveva fatto sempre. Poco importava. Intanto era ancora vivo, grazie a lei. Lo aveva dissetato e ora avrebbe potuto resistere ancora giorni, dopo quella brocca d'acqua fresca.

Il giovane si chiese se il mancato arrivo di cibo e acqua nella sua stanza da recluso fosse dovuto solo alla malattia della madre. Forse nessuno aveva osato prendere iniziative, mentre la Contessa era incosciente. O forse, anche se fosse stata sveglia e vigile, lei stessa avrebbe impedito di rifocillare il suo figlio più odiato.

Quale che fosse la realtà, Ottaviano vedeva davanti a sé altri giorni di fame e patimento, ma lo rincuorava sapere la madre vittima della malattia che la cui ombra l'aveva spaventata per anni.

Sarebbe stato interessante vedere chi sarebbe morto prima. Lui, di fame e sete, o sua madre, per la malaria e i suoi fantasmi?

 

 
   
 
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