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Autore: Andy Black    21/03/2017    1 recensioni
Un uomo senza scrupoli dona ad un altro uomo senza scrupoli l'opportunità di tornare nel suo tempo, dal quale era stato bandito, imprigionato ed incatenato in una cella d'un tempio di mille anni prima. Lionell Weaves tornerà nel presente carico d'odio, pronto per consumare la vendetta che bramava da tempo nei confronti della figlia, oracolo e cristallo di Arceus, secondo le sue fonti. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: uccidere sua figlia Rachel e recuperare il cristallo di Arceus, da consegnare al malvagio Xavier Solomon. Tuttavia l'intera Unione Lega Pokémon avrà qualcosa in contrario e farà di tutto per fronteggiare la minaccia di un mondo senza un dio.
[Diversi personaggi][OldrivalShipping, CandleShipping, SpecialJewelShipping e tanto altro][Storia con linguaggio volgare e parti violente];
Buona lettura;
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Green, N, Nuovo personaggio, Silver, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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18. My Bad
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Angelo
 
“... dalle riprese dei nostri elicotteri siamo in grado di vedere un grande scontro tra quelli che sembrano essere due Pokémon molto somiglianti a un Gyarados ed uno Steelix. Delle Megaevoluzioni, così si chiamano. Sul posto c’è l’intero corpo di Capipalestra di Johto con l’eccezione del rappresentante di Mogania, carica ancora mancante. Oltre ai Capipalestra ci sono anche i possessori dei quattro Pokédex in circolazione nella regione di Kanto e sono arcinoti per le loro abilità nella lotta. Le Rovine d’Alfa sembrano essere sotto l’attacco di un’organizzazione paramilitare che intende rubare i mosaici e in questo momento i rappresentanti della Lega di Johto...”.
 
Cindy non batteva gli occhi da quasi trenta secondi.
Cominciavano a bruciare.
Non era rimasta entusiasta di come suo marito l’avesse liquidata, quella notte. Avevano trovato finalmente un po’ d’intimità, dopo le notti passate a fare i conti nel locale. Erano nudi nel letto, a scambiarsi baci e carezze di velluto quando il cercapersone suonò.
E quando Angelo sentiva quel rumore voleva dire soltanto una cosa: guai.
Valerio aveva rapito la sua attenzione, e lui ovviamente non poteva mancare, né chiedere all’emergenza di aspettare perché i desideri di sua moglie dovessero venire soddisfatti. E così, come ogni volta che Angelo abbandonava il suo letto nottetempo, Cindy si alzava e andava a farsi una doccia calda, poi s’asciugava lentamente e avvolgeva il suo corpo in una lunga vestaglia. Quindi  scendeva al piano inferiore, con un buon libro e un caffè alla cannella fumante da sorseggiare.
La televisione rimaneva accesa sul telegiornale 24h, ma senza volume; di tanto in tanto buttava un occhio e guardava le ultime news in sovrimpressione.
Quel giorno però sentiva nel cuore, nello stomaco e nella testa una pressione senza pari che non riusciva ad allontanare in alcun modo. Passò un’ora, cercando di concentrarsi, girando e rigirandosi il libro tra le mani senza la voglia effettiva di aprirlo. Poi lo fece, rilesse per nove volte la pagina sessantatré, perché distratta, e solo infine alzò bandiera bianca.
Lo gettò sul divano e andò a prendere un bicchiere d’acqua.
 
“... la situazione non sembra delle migliori. Da lontano riusciamo a vedere due corpi stesi per terra, tra i Capipalestra. Non riusciamo ad avvicinarci più di così perché è in corso una lotta tra un MegaGyarados ed un MegaSteelix all’interno di quella che un tempo era la Sala 1 delle Rovine D’Alfa. Adesso l’edificio è totalmente distrutto. Rimaniamo in attesa per nuovi aggiornamenti...”.
 
La testa parve scoppiarle con forza. Gli occhi bruciavano, le fauci le si seccarono immediatamente. Affondò con le spalle nei cuscini del divano e respirò profondamente.
“Non gli è successo nulla…” sussurrò. “Come sempre andrà tutto bene”.
Ma il cuore batteva e le lacrime fuggivano via senza controllo.
Il respiro le si rarefaceva tra i denti. Le labbra tremavano.
Poi il campanello suonò.
Cindy guardò l’orologio e il cuore prese a martellare con forza. Era davvero troppo presto perché qualcuno bussasse alla sua porta e la televisione non la tranquillizzava.
S’alzò, afferrando il cellulare, e telefonò Angelo, pregando che quello almeno suonasse.
 
 
Era libero ma non rispondeva.
“C-chi è?” fece poi, avvicinandosi alla porta, col cuore che ormai faceva su e giù nello stomaco con semplicità assoluta. L’orecchio era ancora al telefono, mentre l’occhio s’accingeva a guardare dallo spioncino.
“Sono Xav. Xavier” sentì rispondere.
Quindi aprì sorpresa, con la preoccupazione che cresceva per la risposta che non riceveva e la curiosità di sapere perché a quell’ora della notte l’uomo fosse venuto da lei. Aveva i capelli spettinati, lui, come sempre, assieme al viso stanco e alle occhiaie che ben s’abbinavano al color blue navy del maglioncino che indossava.
“Entra” disse, sentendo poi il cellulare staccare automaticamente la chiamata. “Merda!” si lamentò, quasi piangendo. “Non risponde!”.
“Sta bene. Credo. Sono venuto appena l’ho saputo...” disse l’altro, facendo un passo avanti e permettendo a Cindy di chiudere la porta.
“E come fai a saperlo? Telegiornale?”.
“No, mi ha chiamato Green Oak. A quanto pare... No, niente, lascia perdere...” sbuffò Xavier. “Non so neppure perché sia venuto qui, a dire il vero. Forse ho sbagliato, Angelo potrebbe tornare da un momento all’altro e pensare a qualcosa di male, no, lascia stare. Vado via” diceva il biondo, stringendo gli occhi in un’espressione più che compressa. Fece per voltarsi quando Cindy gli afferrò il polso.
“Xav...” disse, usando quel tono di voce con cui riusciva a catturarlo ogni volta.
Lui sospirò; non poteva tollerare il pensiero di averla abbandonata in difficoltà, nonostante tutte le brutte cose che avesse passato per causa sua. “Ti prego, stai con me... Ho una paura tremenda che sia successo qualcosa...”.
Xavier sospirò e la vide esplodere in un pianto disperato, che le riempiva gli occhi smeraldini di lacrime calde e sapide.
“N-Non saprei cosa fare... Ti suppli-ico, fam-mi compagnia... T-ti offro qualcosa di c-caldo, dai...” diceva, cercando di calmare i nervi e tirandolo per mano verso la cucina. Xavier la seguì in silenzio, guardandole le caviglie sottili e poi più su, sui polpacci scoperti dalla vestaglia a fiori. Entrarono in cucina, la vide mettere il bollitore sul fuoco e poi voltarsi, appoggiandosi al banco e incrociando le braccia sotto al petto.
Sospirò, col viso pieno di lacrime. Lo guardò, sospirò ancora poi annuì.
“Mi spiace… So che è tardissimo e non vorrei costringerti a stare qua… ma sono terrorizzata...”
“Tranquilla” sussurrò Xavier, nel silenzio disturbato soltanto dal brusio del televisore nella camera adiacente. “Sono venuto io, qui. Avevo paura che fossi colta da un attacco di panico”.
La bella sorrise, amaramente. “È quasi un paradosso: prima che arrivassi tu stavo riuscendo tranquillamente a...” starnutì “... a gestire... a gestire tutto, ecco...”.
I loro sguardi s’incrociarono. Xavier si limitò ad annuire, non sapendo bene cosa dire. Fece spallucce e la vide ridere.
 “Appena ti ho visto sono scoppiata in lacrime!” esclamò, ancora più bella, con gli occhi tristi e la bocca felice. L’uomo sentì quella sensazione pessima che lo attanagliava quando la vedeva, quando la sentiva, quando la poteva toccare e prendere. Ma poi ricordava che non fosse sua.
Gettò lontano quel macigno ed espirò, liberando i polmoni dal veleno.
“Stai tranquilla. Green non mi sembrava molto impaurito... Credo sia riuscito a gestire la cosa...”.
“Hanno visto dei corpi, al telegiornale. Dei corpi per terra…”.
Riprese poi il cellulare e lo riportò all’orecchio. Gli occhi di Xavier percorsero l’intera lunghezza del suo viso, e poi del suo collo, fino a terminare nella scollatura coperta dalla vestaglia.
Quella sospirò e fece cenno di no con la testa.
“Dio, aiutami tu…” disse, perdendo un’ultima lacrima silenziosa, che le baciò il viso e colò finì per pendere sul mento. Xavier rapprese le labbra e si avvicinò a lei, stringendola in un abbraccio accogliente. Cindy poggiò la fronte sul suo petto, sentiva il cuore battere forte.
Alzò gli occhi, così vicini alla bocca dell’uomo.
E poi il bollitore prese a fischiare. Si staccò subito, quella, allontanando i pensieri che stava per fare. Non avevano senso, in quel momento.
“L’acqua è pronta…” fece. “Tè o tisana?”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Ospedale Civile
 
“Non credo ci siano dubbi...” sussurrò Green, con le mani tra i capelli. Il vetro di divisione dell’obitorio era trasparente abbastanza da permettere a lui, ad Angelo e a Valerio di guardare ciò che succedeva all’interno della fredda sala delle autopsie.
“Quella è Jasmine...” sussurrò il poliziotto, mordendosi il labbro e sospirando, quasi sbuffando.
Guardarono entrambi il Capopalestra di Amarantopoli, come a chiedere conferma della cosa. Conferma che arrivò con un rapido cenno del capo.
Videro il medico pulire il volto della salma dal sangue incrostato e, successivamente, praticarle un’incisione a y per aprirle cavità toracica e addominale.
“Il fatto è che non riesco a spiegarmelo. Una donna totalmente identica a Sandra ha mandato Gold in coma e rapinato una banca ad Aranciopoli, con la nostra Sandra sotto le lamiere, presente lì e le registrazioni a testimoniarlo…” ragionava Green. “Una copia di Fiammetta ha ammazzato Rafan e svaligiato una miniera di diamanti, mentre lei era con Rocco Petri e la sorella minore. Infine Jasmine…Tutti noi abbiamo visto la vera Jasmine fuori, accanto a Chiara, vero?”.
Valerio e Angelo annuirono contemporaneamente.
“I mosaici sono tutti andati?” chiese quest’ultimo.
“No. Red ha salvato quelli della Sala 1. Sono gli unici che quel gruppo di mercenari non è riuscito a prendere”.
La porta alle loro spalle si spalancò. Lance entrò, con le braccia incrociate.         
“Non credevo fosse una situazione così difficile da fronteggiare” fece, nella penombra più che totale. I lunghi capelli rossicci erano dritti sulla testa e ben s’accostavano al giubbino di pelle che gli fasciava il torace. Valerio gli diede un’occhiata torva, e tornò a guardare avanti.
“Solo l’intervento dei Dexholder ci ha salvati. In caso contrario saremmo morti tutti” ribatté, quasi a colpevolizzarlo.
“Siete tutti grandi Allenatori, Valerio” rispose Lance, avvicinandosi a Green. Quello lo salutò con un gesto della mano.
“Due dei tuoi grandi Allenatori sono morti, oggi. Tutto questo perché la vostra presenza era troppo preziosa per la regione di Johto”.
Angelo inarcò le sopracciglia, rimanendo a guardare la mano fasciata.
“Sai bene che non è come dici. La Lega di Kanto e Johto è in tutto e per tutto...”.
“Non raccontarmi le solite stronzate! Avresti dovuto prendere i Superquattro per le orecchie e fiondarti da noi! Raffaello e Furio sarebbero ancora vivi, adesso, se non fossimo rimasti da soli!”.
Lance rimase in silenzio. Prese un lungo respiro e annuì.
“Interventi del genere sai bene che non possono essere stabiliti solo da me o dai Superquattro... C’è una commissione che...”.
“Che cazzo me ne fotte della tua commissione!” sbottò l’altro, voltandosi verso di lui e puntandogli l’indice contro il viso. La rabbia sul suo viso stentava ad abbandonare gli occhi blu, deformando quel viso candido e pulito e trasformandolo in una maschera di disperazione.
“Valerio, devi calmarti...” fece Angelo.
“Non ho da calmarmi un cazzo, Angelo! Questi signori dovevano saltare sul primo Pokémon e volare a sporcarsi di sangue, come noi!”.
“Sono io a chiedermi come sia possibile che dei semplici criminali siano più forti dei miei Capipalestra...” ribatté Lance. “Hanno trafugato i nostri mosaici e hanno distrutto un’area importantissima per la nostra regione”.
“Non è la tua regione!” urlò di contro Valerio. “È la mia! Quella di Angelo! Quella di Jasmine, quella di Chiara! Quella di tua cugina Sandra! Questa è la terra della mia gente e tu non hai fatto nulla per noi! Perché ho l’impressione che per te sia tutto un gioco?! Raffaello è morto davanti ai miei occhi, stanotte!” s’alterò il poliziotto. “Ed era uno dei migliori Allenatori dell’intera regione!”.
“Sicuramente, Valerio... Non volevo prenderti in giro ma siamo di fronte ad una delle crisi peggiori che la nostra regione abbia mai fronteggiato”.
Con tempismo perfetto, il Pokégear di Lance emise uno strano rumore. Il Campione lo guardò e sospirò, abbassando lo sguardo, sconfitto.
“Chiara non ce l’ha fatta...”.
Angelo chiuse gli occhi e rapprese le labbra mentre Green rimase immobile, spostando di poco lo sguardo verso il pavimento. Valerio sentì invece ribollire il sangue nelle vene, fino a quando non gli fu impossibile sostenere i suoi pensieri. Gli partirono dalle viscere, risalirono rapidi come un fiotto acido e vomitò fuori tutta la sua rabbia.
“Vaffanculo, Lance! Fanculo tu e la fottuta Lega Pokémon! E fanculo la Palestra di Violapoli! Mollo tutto!”
L’uomo si allontanò, sbattendo la spalla contro quella del Campione e spingendo con forza la porta, che emise un tonfo sordo quando batté nel muro. Lance sorrise amaramente.
“Anche Jasmine ha lasciato il suo posto, a Olivinopoli, aggiungendo la sua posizione ai posti vacanti ad Azalina, Fiordoropoli, Fiorlisopoli, Violapoli e Mogania. Nessun altro? Amarantopoli non ti piace più, Angelo?”
“Io ho una responsabilità verso la mia città e ne rimarrò il Capopalestra. Ma ciò che ha detto Valerio è vero: è gravissima la vostra mancanza di supporto”.
Il Campione non annuì neppure, guardò direttamente Green e lo interrogò con gli occhi.
“Avete capito chi sono, queste persone?”.
Il Dexholder fece cenno di no.
“Avevamo catturato Jasmine” disse, indicandola con la mano che puntava oltre il vetro della sala delle autopsie. “Ma si è suicidata davanti ai nostri occhi”.
“Quindi brancoliamo nel buio. Parlerò con Pino e Karen, per fare in modo che tengano d’occhio il mercato nero. Prima o poi qualcuno venderà le tessere dei nostri mosaici e sarà allora che li beccheremo” sospirò il Campione, avvicinandosi al vetro che divideva l’obitorio dall’antisala. Guardava il corpo di quella versione di Jasmine e inarcò un sopracciglio.
“È incredibile come quella donna assomigli a Jasmine… Siamo sicuri non sia morta proprio lei?”. Si voltò in direzione del Dexholder, in cerca di risposta.
“No” tuonò Green. “Quella è una copia, una strana versione di lei di un altro universo. Non riesco a essere più preciso ma è così che funziona… E poi hai detto che ci hai parlato prima”.
Il medico legale estrasse dal corpo della donna un cuore dalle proporzioni spropositate.
“Uò…” sussultò Valerio. “Quello è il cuore di un bue…”.
“È effettivamente enorme” rispose Lance.
“Non è Jasmine” concluse infine quello dagli occhi verdi. “Jasmine è fuori da questa stanza. Ne sono sicuro”.
Angelo sentiva i morsi della fame, i conati di vomito e le grinfie del sonno.
“Adesso che facciamo?” domandò.
Tutti si rifecero al Campione, spostando lo sguardo verso di lui.
“Dobbiamo solo aspettare, per ora non possiamo fare nulla. Riposatevi e domani indirò un’assemblea della Lega Unificata di Kanto e Johto, per ufficializzare gli addii e lavorare alle sostituzioni…”.
Green sospirò, con l’angoscia che gli cresceva lentamente in corpo. “Io vado a dormire”.
“Ne hai bisogno” aggiunse Lance. “Vai pure e grazie per quello che avete fatto per Johto”.
“Di nulla” sospirò il Dexholder, aprendo la porta e sparendo oltre l’uscio.
Blue lo aspettava in piedi, con le braccia incrociate. I suoi occhi erano stanchi e i capelli, spettinati come non mai, le cadevano disordinati davanti al volto.
“Blue...” sussurrò Green, avvicinandosi a lei.
Quella lo guardò, sbuffando. “Dobbiamo andare ad aggiustarti il naso...” rispose, con lo stesso tono basso e provato.
“Xavier Solomon mi ha preso a pugni, sì...” fece, stanco. “Ma se vuoi puoi... puoi andare in albergo a riposare. Senza problemi. Faccio un salto al pronto soccorso e mi faccio raddrizzare il setto...”.
Gli occhi della donna si chiusero e si riaprirono, sempre più stanchi. Poi si voltò, lei, con movimenti lenti e posati, fino a sparire oltre la porta del reparto.
L’uomo annuì, storcendo il muso.
“Faccio da solo. Ciao”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
Blue arrivò in albergo una ventina di minuti dopo. Era stanca e confusa e l’unica cosa che le serviva era un buon letto. Fece cenno con la mano a un bambino che la salutava, nella hall che si stava risvegliando. Prese le chiavi alla reception e si piazzò davanti all’ascensore, aspettando che arrivasse. Il leggero brusio del televisore, a pochi metri da lei, stava per mandarle in corto il cervello; necessitava di silenzio, di una bella doccia calda e di almeno dodici ore di sonno.
L’ascensore era tra il sesto e il quinto piano, intanto pensò all’abbraccio che Red diede a Yellow subito dopo il suicidio di quella copia malsana di Jasmine. Forse fu una lucida follia, quella che le stava passando per la mente, ma all’improvviso Green non parve essere più una sua priorità.
Pensava ancora a Red.
Rivedeva nella mente quell’abbraccio e cercava di immedesimarsi in Yellow, provando a raccogliere il calore di quell’abbraccio e farlo suo.
Voleva le attenzioni di quell’uomo, e voleva finalmente scendere da quella giostra che la stava portando al delirio. Quando poi rivide il volto di Yellow si rese conto del fatto che lui stesse con la ragazza, la bionda buona e ingenua, sensibile e delicata, senza malizia.
Sbuffò, ricordò il passato e pensò che fosse stata lei a forgiare Yellow, creando la persona che gli stava rubando le caramelle e che le mangiava deliziata.
Quando l’ascensore aveva appena raggiunto il secondo piano, però, Blue capì che, nonostante la sua voglia di parlare con Red, di passare il tempo assieme a lui e rubare il suo sguardo ogni volta che potesse, non sarebbe stato giusto.
Abbassò lo sguardo. Forse si sbagliava?
Forse avrebbe dovuto scegliere se stessa, quella volta? Oppure avrebbe dovuto mantenere intatta la felicità di quelle due persone?
Aveva già creato loro dei problemi, e dopo un duro scossone quelli si erano rimessi in carreggiata.
Forse si stava accanendo. O Forse no.
Non lo sapeva. E non sapeva neppure a chi chiedere, data la delicatezza della cosa. Ciò di cui era certa al cento percento, però, era che non amava Green e che non le pareva giusto continuare a perdere altro tempo accanto a lui, illudendolo di un amore fittizio e vuoto, come un palloncino gonfio di parole forzate e sguardi lascivi.
Era vuoto. E una volta che quello se ne fosse accorto, si sarebbe reso conto d’aver perso soltanto tempo. Poi l’ascensore arrivò, lei vi salì, senza essersi minimamente posta il problema d’aver lasciato il suo uomo da solo all’ospedale, a farsi medicare. Anzi, non la turbava quel pensiero. Avanzò nella cabina e premette il tasto del suo piano, pregustando un lauto e guadagnato riposo.
Ebbe soltanto un accenno di pensiero, più che altro un ricordo, del volto di Karen da ragazzina, associato al suo.
“Che illusione...”.
Aprì la porta della camera ed entrò in bagno. Venti minuti dopo era nel letto, che dormiva distesa sul fianco. Dava la schiena alla porta.
Non avrebbe condiviso la sua parte del letto con nessuno.
 
*
 
Un’ora dopo anche Green raggiunse la hall dell’albergo.
Camminava lentamente, con la testa che gli scoppiava e il naso dolorante, fasciato dalle mani sapienti di un’infermiera. Piccoli ematomi violacei erano spuntati al di sotto delle orbite.
Sembrava un pugile non in serata.
Andò al bar, con la voglia di qualcosa che gli bruciasse le papille gustative, si sedette allo sgabello e ordinò uno scotch. Il bartender non riuscì a non guardare l’orologio, appurando che fossero circa le dieci del mattino.
“Certo, signor Oak” rispose.
“Senza ghiaccio” aggiunse quello. “E doppio”.
Pochi secondi dopo buttò giù il drink e strinse i denti, con ancora l’intero volto dolorante.
Il primo pensiero andò a Furio, quindi sospirò e riversò la testa sul tavolo. Era stato il suo maestro, gli aveva insegnato la disciplina e il modo corretto di affrontare le situazioni, dal momento che ne aveva particolarmente bisogno dopo la morte dei suoi genitori.
Ricordava benissimo quei giorni in cui non sapeva scegliere contro chi urlare, vittimizzando il nonno e sua sorella Margi per l’incidente avvenuto a mamma e papà. Era diventato un ragazzino intrattabile, lo ammise a se stesso;
 
“Finitela di trattarmi tutti come un bambino!”.
“Tu sei un bambino, Green!” urlava Margi, in preda al pianto. “E io non ti ho fatto nulla! Per quale motivo mi urli contro?!”.
“Tu non capisci! Voi credete che adesso tutto sia normale, vero?! È passato tempo e quindi dovrei essermi abituato a non vedere papà rientrare in casa la sera, vero?! Non è così! Quando la mattina mi sveglio sento ancora il profumo della mamma! Posso sentire ancora la sua voce! Non è giusto, Margi! Non è giusto!”.
Poi aveva tirato il lembo di una tovaglia e rovesciato l’intero pranzo addosso a sua sorella. Margi aveva urlato, spaventata, vedendo infine suo fratello correre fuori, in lacrime.
Si alzò, prendendo la cornetta del telefono. Quel giorno non le venne voglia di giocare col filo, come faceva di solito.
No.
Tre squilli, poi qualcuno rispose.
“Betty, sono Margi! Passami subito il nonno!”.
 
Green ricordava ancor meglio il volto di suo nonno quando lo vide, in riva al mare come faceva tutti i pomeriggi. Così pieno di rabbia e contemporaneamente compassione.
 
“Hey, campione...” diceva, avvicinandosi lentamente.
Il ragazzino odiava quella cautela. Gli pareva che tutti stessero avendo a che fare con un pazzo suicida pronto a gettarsi da un ponte.
“Nonno... che vuoi?” aveva risposto, brusco come sempre, da qualche mese a quella parte.
“Voglio parlare un po’ con te”.
Green si era voltato e lo stava guardando negli occhi.
“Sai... Io ho perso una figlia, in quest’affare. Una figlia che amavo molto e che pensavo un giorno avrebbe visto morire me. Sai, siamo un po’ egoisti, noi genitori, su questo fatto. Certamente nessuno augura la morte di qualcuno, qui, eh... anzi. Il posto della tua mamma, ed anche del tuo papà a cui volevo tanto bene, sarebbe dovuto sempre essere questo, qui, accanto a noi... tuttavia noi siamo nonni, a nostra volta mamme e papà... e dimentichiamo che certe cose accadono. Ecco, io ho lavorato sodo per vedere tua madre crescere, per farla studiare e appassionare a ciò che più le piacesse. A farla innamorare del tuo papà, dannazione...” aveva sorriso poi, lentamente. Si era seduto sulla sabbia, invitando il nipote a fare altrettanto. “Una volta che diventi abbastanza adulto, che i tuoi figli diventano grandi e fanno a loro volta dei figli, cominci a stendere il tappeto ad una convinzione così malsana e strampalata, e spesso falsa: noi genitori pensiamo di morire prima di voi, figli. Perdere un caro è sempre una cosa brutta e io ricordo che, quando morì mia madre, avrei voluto fare le più grandi stupidaggini della mia vita, lasciarmi andare e gettarmi tutto alle spalle, facendo finta di nulla. E lo feci! Ci provai, Green! La nonna Aurelia aveva da poco partorito tua madre e la zia Kylie aveva poco più di quattro anni...”.
“Tu già avevi dei figli” aveva osservato il piccolo.
“Oh, sì. Mia madre è morta quando ero già adulto, ma perdere un caro è sempre una brutta esperienza, campione. E feci tante stupidaggini”.
“Che facesti?”.
“Cominciai a diventare sempre più iracondo, proprio come te adesso. Trattai male la nonna, cominciai a rincasare tardi, rimanendo all’Osservatorio a volte anche per quarantotto ore... E alla fine mi accorsi che avevo passato parecchio tempo arrabbiato, dando odio alle persone che mi volevano bene. Senz’alcun motivo, per altro... Non ero più felice e non mi stavo godendo la felicità delle mie figlie, Green. La felicità di mia moglie. Mi serviva disciplina, e credo che serva anche a te”.
“Io già vado a scuola, nonno”.
“No” rideva Samuel Oak, divertito. “Non intendo quello. Ti manca disciplina nel pensiero, Green. Ti manca l’abilità nel riuscire a riposizionare tutto quando uno scossone crea disordine. Tu sei come me, il disordine c’innervosisce... Ma non possiamo costringere le persone che ci stanno accanto a sopportarlo. Quindi devi mettere a posto ogni cosa fuori dal proprio binario per fare in modo che la nostra vita proceda regolare...”.
“E tu che facesti?”.
“Andai da un mio vecchio amico. Si chiama Furio, vive a Fiordoropoli, a Johto”.
“Che schifo, Johto!” aveva esclamato il ragazzino dagli occhi verdi.
“Hey, Green! È una regione bellissima, piena di città meravigliose! E la nonna Aurelia era di Azalina, pensa un po’!”.
“Azalina è a Johto?”.
Il Professore aveva annuito. “Azalina è a Johto, sì...”.
“E che ti fece Furio?”.
“Mi aiutò a reagire, a non venire assalito dai miei istinti. E tornai dalla nonna e dalle mie bimbe più felice di prima. Sai, temevo che, durante la mia assenza, qualcuno avrebbe potuto sostituirmi accanto a loro... insomma, diventare il nuovo marito di mia moglie, il nuovo padre delle mie figlie. Ora avresti avuto un altro nonno, per esempio”.
“Avevi paura che la nonna ti tradisse?”.
“No” aveva risposto prontamente. “La nonna non avrebbe mai fatto una cosa del genere... Ma io non sapevo a che pensare, Green. E, riflettendoci ora, non sarebbe stata una cosa impossibile. Nonostante due gravidanze, la nonna era una donna bellissima”.
Il volto di Green s’era increspato. “Le gravidanze sono le volte che una donna è incinta, vero?”.
Sì, campione. E con una gravidanza il corpo di una donna diventa più sgraziato, si modifica. La nonna Aurelia invece era rimasta una donna parecchio appetibile...”.
“Appetibile...”.
“Bella. Significa Bella. E proprio perché era bella dovevo aspettarmi che qualcuno me la portasse via...”.
“E invece è rimasta lì”.
“Invece è rimasta lì. Però la nonna Aurelia era speciale. E a meno che non trovi un’altra donna come lei, meravigliosa e piena di vita, devi stare attento con le persone. Perché, una volta che si accorgono del disordine nella tua mente, potrebbero decidere di andare da un’altra parte. Di abbandonarti per sempre”.
 
Green accettò a malavoglia d’intraprendere lo stesso viaggio che aveva fatto suo nonno, per ritrovare se stesso. Però, quel mattino, ordinando il terzo giro di scotch, s’era reso conto di non esser mai riuscito totalmente a ordinare la stanza nel quale tutto veniva sballottato qui e lì.
E Blue se n’era accorta.
Anche lui s’era reso conto di una cosa: l’aveva persa.
Aveva di nuovo perso Blue.
 
 
Johto, Amarantopoli
 
La riunione era per il giorno dopo e Lance lo aveva congedato rapidamente.
Angelo aveva percorso la strada dall’ospedale alla stazione assieme a Valerio, lasciandolo lì e dandosi appuntamento dopo ventiquattr’ore, quando si sarebbero incontrati tutti negli uffici dell’Altopiano Blu. Lui, Valerio, Sandra e Jasmine, ciò che era rimasto del vecchio corpo dei Capipalestra di Johto.
Il maestro di tipo Spettro camminava lentamente tra la gente, che lo salutava preoccupata, stupita per gli avvenimenti delle Rovine D’Alfa e per il suo braccio, fasciato e tenuto al collo da una banda di sostegno. Si permise di passare per qualche minuto in Palestra, sbrigare tutte le pratiche che c’erano da organizzare e delegare tutto a Timothy, il suo assistente.
“Mi raccomando. Non fare errori” gli aveva detto.
“Tranquillo. Si vada a riposare, Signor Angelo”.
Aveva lasciato i suoi Pokémon a riposare lì, portando con sé soltanto Gengar, per evenienza, e lentamente passeggiò per il corso, diretto verso l’Harold’s.
Quando vi arrivò prese un’aranciata da bere per strada, dato che Cindy, a detta delle sue cameriere, quel giorno non si era presentata.
 
“Stanotte avrà fatto l’alba davanti al telegiornale, ragazze. Occupatevi voi del locale”.
“Sicuro, Signor Angelo” aveva risposto la più grande tra le cameriere, Gwyneth, dai lunghi capelli neri e gli occhi azzurri. Soleva portare sempre una catenina col crocifisso; le ballava sul petto, al di sopra della divisa.
 
La salutò, sorseggiò la bevanda e arrivò davanti casa, prendendo le chiavi.
Poi le riposò, erano quelle della Palestra. Le confondeva sempre, in tasca.
Aprì la serratura e smontò l’armatura da uomo di legge, da uomo con corsie preferenziali, da uomo con visioni mistiche e rimaneva soltanto lui.
Soltanto un uomo.
Sentiva il televisore acceso, il telegiornale parlava ancora del disastro delle rovine. Pensò che Cindy si fosse addormentata sul divano, pregando e sperando che nessun diavolo sarebbe venuto a prenderlo quella notte. Passò prima dalla cucina, lavò il bicchiere dell’Harold’s e lo poggiò sul bancone, quindi smontò la fascia dai capelli e levò con attenzione la maglietta.
Entrò poi in salone a petto nudo, con il preciso intento di svegliare Cindy e portarla a dormire a letto.
Ma quello che si ritrovò davanti fu l’espressione di qualcosa di cui, era certo, prima o poi si sarebbe dovuto occupare: Xavier dormiva sul suo divano.
E Cindy, sua moglie Cindy, era stesa accanto a lui.
   
 
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