Capitolo 10: Who’s gonna save us
Who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight tonight
Who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight tonight
We’ve been way too cool
for this
But it’s just too
strong to fight
So tell me who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight
(“Who’s gonna save us”- Gavin DeGraw)
Alfonso
era soddisfatto della giornata appena trascorsa: si era seduto al fianco del Re
nella Sala del trono e, con le sue chiacchiere e la sua inventive, aveva tenuto
testa a un gentiluomo come Francesco Gonzaga di Mantova, riuscendo forse a
convincerlo a rinunciare al progetto di formare una lega di eserciti per
attaccare i francesi. Si sentiva importante ed era convinto che anche Sua
Maestà avesse finalmente compreso la sua utilità, lasciando perdere i suoi
assurdi propositi di vendetta per qualcosa che, in fin dei conti, non era
dipeso da lui.
Purtroppo
per lui, si sbagliava.
Certo,
Re Carlo aveva apprezzato il modo in cui il Principe si era sbarazzato del Duca
di Mantova ed era stato molto compiaciuto del fatto che non avrebbe dovuto
impiegare il suo esercito in una battaglia dall’esito incerto, potendosi invece
dedicare ai preparativi per il ritorno in Francia. Quella era una questione
urgente, poiché il sovrano francese non aveva figli e, per assicurare una
pacifica successione, avrebbe dovuto scegliere personalmente il suo erede.
Tuttavia
una cosa tra le tante che il giovane Principe aveva detto gli era rimasta in
mente e non se ne voleva andare.
Il
ragazzo aveva spiegato al Duca di Mantova che l’investitura del Re francese
come sovrano di Napoli aveva fatto parte di un piano abominevole per liberarsi
di lui, mandandolo a contrarre la peste, al fine di mettere suo figlio Goffredo
su quel trono.
Aveva
anche specificato che, per fare questo, il Papa Borgia doveva essere a
conoscenza della pestilenza che affliggeva Napoli prima di chiunque altro.
Appariva
dunque chiaro che la peste a Napoli si era diffusa prima che si venisse a sapere che il Re di Francia voleva
conquistare il Regno, pertanto non poteva essere stato il Principe Alfonso a infettare
la città, non ne avrebbe avuto alcun motivo.
Restavano
comunque due domande senza risposta.
Chi aveva informato il
Papa Borgia della pestilenza?
E,
cosa ancora più importante, come aveva fatto quella febbre insidiosa ad
arrivare fino al palazzo reale, se si trattava di una malattia che infuriava
nei sobborghi e nei luoghi più sporchi della città?
Qualcuno
doveva dare una risposta a quelle domande, e Sua Maestà aveva anche una mezza
idea di chi avrebbe potuto farlo…
Quella
sera, mentre il Principe Alfonso si preparava per la cena, due guardie
irruppero improvvisamente nella camera che divideva con il Generale e,
incuranti delle sue proteste e delle sue grida spaventate, lo trascinarono
senza tanti complimenti nella sala da pranzo di Re Ferrante, ancora più tetra e
spaventosa alla fioca luce di poche torce. Gettarono il giovane sull’unica
sedia vuota e, sghignazzando, ce lo legarono saldamente.
“Perché
mi state facendo questo?” gridò angosciato il Principe, sforzandosi di non
scoppiare a piangere. “Oggi sono stato utile a Sua Maestà, non ha ragione di
punirmi!”
“Davvero?
Eppure è stato proprio Sua Maestà a ordinare che questa sera tu cenassi qui”
replicò una delle guardie con un ghigno.
“Di
che ti lamenti, Principe? Non raccontavi a tutti che anche a tuo padre piaceva
cenare qui? Adesso farai come lui” disse l’altra guardia. Poi entrambi se ne
andarono ridendo sguaiatamente, lasciando Alfonso solo nella terribile stanza.
Le
torce erano troppo poche e l’ambiente si faceva ogni istante più spaventoso. Il
Principe, terrorizzato, gridò e chiamò aiuto per lungo tempo, singhiozzando
disperato e strattonando le corde che lo legavano alla sedia di Giuda, ma nessuno accorse, né per soccorrerlo, né per
minacciarlo. Alla fine non poté fare altro che accasciarsi sulla sedia,
continuando a piangere silenziosamente, con la gola che gli bruciava per aver
urlato tanto e con i polsi scorticati dopo tanto sfregare inutilmente contro le
corde.
La
cosa che più lo sconvolgeva era non capire il perché di quella terribile
punizione: cosa aveva fatto per meritare un simile trattamento? Non si era
forse comportato bene con il Duca di Mantova? Aveva offeso il Re in qualche
modo? Ma quale? Poi smise anche di porsi domande, era del tutto inutile, non
aveva già sperimentato più volte che Sua Maestà non aveva bisogno di alcuna
ragione valida per fargli del male? Forse si era soltanto stancato di lui e
voleva lasciarlo lì a morire di fame, di sete e di paura. Sì, di paura perché…
Alfonso
trasalì e alzò la testa di scatto, fissando l’uno dopo l’altro le orribili
figure degli antichi avversari di suo padre, ormai da anni imbalsamati e messi
beffardamente in posa attorno a quel tavolo. Aveva sentito un rumore…
possibile? Forse qualcuno degli armigeri si era nascosto nella sala da pranzo
per giocargli un brutto tiro e spaventarlo a morte o forse… no, era
impossibile.
Ma
lo era davvero?
La
mente offuscata e confusa dal terrore e dalla stanchezza giocava contro il
giovane Principe e gli faceva apparire le cose come non erano; quel cadavere,
quello in fondo a destra, non si era forse mosso? E quell’altro, proprio di
fronte a lui, aveva cambiato posizione, sì, ne era certo, prima teneva il
braccio appoggiato sul tavolo e ora, invece…
Un
gelido panico si impadronì del ragazzo e una folle certezza si fece strada in
lui: quegli uomini, orribilmente assassinati da suo padre, adesso volevano
vendicarsi e, poiché Re Ferrante era morto da tempo, volevano rivalersi sul suo
unico discendente, il figlio che adesso si trovava in loro potere, indifeso,
prigioniero, impossibilitato a muoversi e a scappare!
Sì,
era così, era questo il modo che Re Carlo aveva scelto per sbarazzarsi di lui!
“Vi
prego” cominciò a mormorare il giovane, tra le lacrime e tremando pietosamente,
“vi scongiuro, non fatemi del male. Io… io non vi ho fatto niente, è stato mio
padre a ridurvi così. Per favore, io non c’entro, non vi ho fatto niente…”
Alfonso
continuò a piangere e a supplicare, stringendo forte gli occhi per non vedere
le cose orrende che lo circondavano, per non vedere se davvero si stavano
muovendo, se davvero gli si stavano avvicinando per strangolarlo o peggio. Non
sapeva più quanto tempo fosse passato, minuti, ore o forse addirittura giorni? Il
terrore gli aveva fatto perdere ogni aggancio con la realtà e il povero
Principe vagava con la mente tra allucinazioni e ricordi spaventosi.
All’improvviso
la porta della sala da pranzo si spalancò ed entrò Re Carlo, spinto sulla sua
sedia a rotelle dal Generale e seguito da alcuni servitori che portavano altre
torce. Quando le ebbero sistemate, il sovrano li mandò via tutti per restare da
solo con il Principe e il Generale.
Era
giunto il momento della verità.
“Caro
Principe, sei sconvolto” esordì mellifluo il Re. “Che strano, non ti è piaciuto
trovarti nella sala da pranzo di tuo padre? Eppure tu stesso amavi raccontare
che Re Ferrante si dilettava a cenare qui… dobbiamo pensare che suo figlio non
abbia le stesse abitudini?”
“Vostra
Maestà” intervenne il Generale, serio in volto e chiaramente a disagio, “credo
che dovreste rivolgere le vostre domande al Principe senza ulteriori indugi. Il
ragazzo è esausto e spaventato e potrebbe non darvi risposte sensate se
continuate a tormentarlo.”
“Tu
ti preoccupi troppo per questo stupido ragazzino” borbottò il Re, poi però un
ghigno gli apparve sul viso. “Tuttavia hai ragione, vogliamo delle risposte chiare
e il Principe dovrà fornircele subito!”
Il
Generale guardò con tristezza il viso pallidissimo e bagnato di pianto del
giovane, i suoi polsi graffiati, il suo esile corpo che tremava; avrebbe tanto
desiderato slegarlo e stringerlo tra le braccia, fargli sentire che era lì per
lui e che lo avrebbe protetto da ogni male… ma non poteva. Qualunque sua
debolezza nei confronti di Alfonso sarebbe stata una condanna per entrambi.
Sperava
soltanto che il Principe lo capisse e non si sentisse tradito anche da lui.
“Dunque,
Principe Alfonso” riprese bruscamente Re Carlo, abbandonando ogni falsa
gentilezza, “la prima domanda è: come faceva Rodrigo Borgia a sapere della
pestilenza di Napoli? Al Duca di Mantova hai detto che ci ha incoronato
appositamente perché occupassimo questo Regno e venissimo contagiati, ma chi lo
aveva informato del morbo?”
Ancora con questa
storia!
Dovevo immaginarmelo… non avrei dovuto
raccontare quelle storie al Duca, ora mi incolperà di nuovo e io…
Lentamente,
Alfonso rialzò il capo e si sforzò di guardare il Re. Lacrime silenziose
continuavano a solcargli le guance.
“Io
non lo so…” mormorò, stancamente. “Già una volta un sicario dei Borgia era
venuto a Napoli e si era introdotto alle terme sulfuree… forse ce ne sono stati
altri… forse c’erano delle spie… non so altro!”
“Davvero?
O forse sei stato tu, in accordo con il Papa: lo hai informato della pestilenza
e lui ci ha mandato qui a morire” insisté perentorio il sovrano. “Sei stato tu?
Avanti, rispondi e non azzardarti a mentire!”
“Se
davvero fossi stato io” replicò debolmente Alfonso, “se fossi stato complice
del Papa, perché mai sarei fuggito senza che nessuno mi aiutasse? Se fossi
stato suo alleato, il Papa Borgia mi avrebbe trovato un rifugio sicuro…”
Re
Carlo rifletté un istante sulle parole del Principe.
“Forse.
O forse no se, come dicevi al Duca, avesse voluto liberarsi anche di te per
mettere sul trono di Napoli il suo figlio bastardo” insinuò poi.
“Io
non ho mai avuto nessun contatto con il Papa e non ho mai preso accordi con
lui” ribadì il ragazzo, sfinito. Non sapeva quale fosse la risposta giusta o
quella sbagliata o, magari, non c’era né l’una né l’altra e Sua Maestà stava
semplicemente cercando una scusa per condannarlo una volta per tutte.
“Pensi
che dovremmo credergli, Generale?” domandò il Re al suo uomo di fiducia.
“Il
Papa è molto astuto” rispose il militare, continuando a fissare Alfonso con
infinita pena. “Se il Principe fosse stato suo complice avrebbe trovato il modo
di farlo fuggire da qui, magari lo avrebbe fatto rifugiare a Roma. Se avesse
voluto eliminarlo, avrebbe trovato un modo più semplice e sicuro tenendolo
vicino a sé.”
“Probabilmente
hai ragione, quel serpente ne sa una più del Diavolo!” commentò il Re,
sghignazzando per la sua battuta. “Va bene, Principe, dunque tu non eri
complice del Papa. Abbiamo però un’altra domanda da farti: com’è accaduto che
il morbo si sia diffuso nel palazzo reale?”
“Vostra
Maestà, temo che queste pestilenze si propaghino nell’aria e che non ci sia un
luogo sicuro dove rifugiarsi” azzardò il Generale, ma il sovrano lo rimbeccò
subito.
“Non
è la tua opinione che ci interessa, adesso. Vogliamo una risposta dal Principe,
e la vogliamo adesso!”
“Forse
sono stati i servitori… dalla città… per questo sono scappato…” tentò di dire
Alfonso, terrorizzato.
“Dovremmo
credere che tu non abbia cercato di rinchiuderti nella reggia per sfuggire al
contagio? Avresti potuto sbarrare le porte, impedire a chiunque di entrare e
invece tu stesso sei fuggito all’esterno, rischiando di ammalarti. Non è una
scelta molto logica, Principe, vuoi spiegarcela meglio?”
Il
giovane era stremato, confuso dalla paura e voleva solo che
quell’interrogatorio finisse.
“Va
bene, va bene!” gridò, sconfitto. “Ho saputo che voi stavate per arrivare a
Napoli con il vostro esercito e l’investitura solenne del Papa… non sapevo cosa
fare, non avevo nessun posto dove andare e nessuno a cui chiedere aiuto. I
servi parlavano di un morbo letale che si era diffuso in città e io… ho pensato
che, forse, se la peste fosse entrata a palazzo e io fossi riuscito a scappare,
forse…”
“Continua,
Principe” lo incoraggiò il Re, con un terribile ghigno stampato in faccia. “La
cosa si fa interessante, continua pure.”
“Ho
fatto trasportare alla reggia i cadaveri di alcuni appestati, ho lasciato che i
miei servi venissero contagiati e morissero! Volevo che il palazzo diventasse
una trappola mortale e io sono fuggito, sperando di resistere finché non…
pensavo che sarei tornato dopo la vostra morte, ma non sapevo cosa facevo! Non
ho pensato che sarei potuto finire contagiato anch’io, o che sarei potuto
morire di fame sulle pendici del Vesuvio, non avevo un piano, ero disperato e
spaventato!” confessò finalmente Alfonso, scoppiando poi in un pianto dirotto.
Con
un sorriso malignamente soddisfatto, il Re francese si voltò verso il suo
Generale.
“Allora,
Generale, hai sentito anche tu: ha confessato” disse, compiaciuto. “Che cosa
dovremmo fare adesso?”
L’uomo
aveva tentato di restare impassibile, ma il suo volto si era incupito e
manifestava tutto il dolore che provava. Tuttavia non poteva mostrarsi debole
proprio in quel momento, altrimenti sarebbe stata davvero la fine per il
giovane Principe.
“Vostra
Maestà può fare quello che desidera, dopo ciò che ha detto il Principe Alfonso
è indifendibile” rispose dunque, facendo violenza a se stesso. “Se posso
permettermi un consiglio, tuttavia, ritengo che non dovreste privarlo della
vita, nonostante le sue colpe: la sua presenza vi è stata comunque utile fino ad
ora e potrà esserlo ancora di più in futuro, considerato ciò che sappiamo sul
Duca di Mantova e sui suoi tentativi di costituire una lega di eserciti contro
di voi.”
Re
Carlo finse di rifletterci su, ma in realtà aveva già deciso cosa fare, il suo
era solo un modo per mettere alla prova il Generale e per terrorizzare ancora
di più il Principe.
“Hai
ragione, non è nel nostro interesse eliminare il ragazzo” disse poi. “Anzi, per
continuare ad avvalorare la farsa della sua alleanza con noi è anche necessario
che appaia in buona salute, perciò non gli faremo alcun male. Lo rinchiuderai
in una delle stanze del palazzo e lo lascerai là. Un servo sarà incaricato di
portargli i pasti due volte al giorno e, per il resto, non dovrà vedere nessuno
né uscire dalla stanza, a meno che non necessitiamo della sua presenza.”
“Come
desiderate, mio sovrano. Lo porterò subito in una stanza dove rimarrà
prigioniero” rispose il Generale e, dopo un rispettoso inchino, si avvicinò al
giovane Principe per slegare le corde che gli serravano i polsi e le caviglie.
Il ragazzo era semisvenuto e il comandante francese sperò che non avesse udito
ciò che aveva appena ordinato il Re, ma sapeva anche che, molto presto, si
sarebbe accorto che le cose erano cambiate. Desiderava con tutte le sue forze
prendere in braccio il Principe e stringerlo a sé, consolarlo, confortarlo… ma
non poteva farlo o Sua Maestà si sarebbe infuriato e sarebbe stato molto
peggio.
Dal
canto suo, Re Carlo osservava la scena e vedeva chiaramente il dolore dipinto
sul volto del suo Generale, del suo uomo di fiducia, il suo braccio destro.
Attese che l’uomo slegasse il Principe e lo sostenesse per accompagnarlo nella
stanza dove sarebbe rimasto confinato prima di intervenire nuovamente.
“Generale,
abbiamo soltanto voluto metterti alla prova” rivelò, con un sogghigno soddisfatto.
“Ora sappiamo quanto sei fedele e leale e che non ti lasci dominare dai tuoi sentimenti.
Non vogliamo punirti: il Principe ti è stato affidato e così resterà, puoi
tenerlo con te e continuare a tenerlo d’occhio. Questo è il tuo dono.”
Sorpreso
e incredulo, il Generale si inchinò di nuovo, ancora più profondamente per
manifestare la sua gratitudine al sovrano.
“Vostra
Maestà, io… vi ringrazio con tutto il cuore. Voi sapete che la mia lealtà va a
voi e a voi solo e ciò non cambierà mai. Vi sono infinitamente grato per il… dono che mi avete concesso” disse,
cercando di tenere ferma la voce.
Un
servo entrò nella sala per accompagnare il Re nei suoi appartamenti, mentre il
Generale, finalmente, poté prendere in braccio Alfonso e dirigersi con lui
verso la loro stanza. Aveva veramente temuto di perderlo e non si saziava di
contemplarlo e di stringerlo a sé, mentre il giovane pareva ancora frastornato.
Arrivati
nella loro stanza, il Generale depose il Principe sul letto e si distese
accanto a lui, abbracciandolo ancora una volta.
“Principe,
so che hai avuto paura, so che ti sei sentito tradito perché non ti ho difeso”
gli disse piano, accarezzandogli i capelli. “Non potevo farlo, lo capisci? Se
mi fossi schierato dalla tua parte, Sua Maestà sarebbe andato in collera e
forse avrebbe… Non potevo fare altro, Principe Alfonso, riesci a comprenderlo,
vero?”
Inaspettatamente,
Alfonso aprì gli occhi e lo guardò dritto in faccia. Per la prima volta in
quella tragica serata pareva lucido e padrone di sé.
“Sono
io che vi chiedo perdono” ribatté, serio. “Se avessi saputo che tra i francesi
c’eravate voi… un uomo così valoroso, sincero e leale… io non avrei mai tentato
di infettare la reggia. Mi dispiace davvero… ho rischiato di fare del male a
voi che avete soltanto…”
Commosso
da quelle parole sorprendenti, il Generale lo interruppe baciandolo e
avvolgendolo di nuovo in un abbraccio protettivo. Le emozioni di quella sera
avevano infine preso possesso di lui: la paura di perdere il Principe, il
sollievo nell’averlo lì con lui e adesso quella spontanea dichiarazione di
amore e affetto da parte di Alfonso… L’uomo continuò a baciarlo profondamente e
ad accarezzarlo dovunque; dopo il timore di essere per sempre separato da lui
non riusciva a placare il desiderio di sentire la presenza del Principe, il
tepore del suo corpo delicato, il suo sapore, la morbidezza della sua pelle
vellutata. Si spinse lentamente dentro di lui come se non volesse mai più
separarsene e ogni angoscia e tormento si quietarono in quel lungo e intenso
amplesso.
FINE