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Autore: esmoi_pride    21/03/2017    3 recensioni
"Storie di Saab" è un medieval fantasy slash nato nel mondo di Pathfinder che racconta le vicende della famiglia imperiale dell'Alba di Saab, città devota al dio minore Saab e dalla recente fondazione, luogo di grandi promesse e di speranza. E' l'ideale se siete alla ricerca di drow poco ortodossi, elfi carini, slash andante e una misteriosa storia sulle origini del Dio e della sua città, da scoprire capitolo dopo capitolo.
E' una storia che si domanda cosa è giusto e cosa è sbagliato, e lo scopre attraverso le esperienze di Vilya Goldsmith, un ragazzo che non sa se potrà mai riuscire a diventare un uomo. Lo scoprirà proprio a Saab, città creata sotto antiche rovine secondo la missione di suo padre Azul: riunire la gente oppressa e discriminata in un solo popolo che guadagni forza e unità, e che accolga tutti quelli come loro. Intrecci tra molteplici personaggi mostreranno una città ricca di diversità, e le azioni di Vilya ci porteranno a chiederci quanto possa essere doppia la linea estrema dove le cose non sono più giuste, né sbagliate, e quanto spesso potremmo finire per percorrerla.
Genere: Dark, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Saab'
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Ciao a tutti! Sono cosciente che questo capitolo sia giunto dopo soli tre giorni dall'ultimo invece della solita settimana rituale, e questo perché mi è partita la mano sulla tastiera ed è andata così spedita da poter pubblicare già adesso. Spero che vi faccia solo piacere! Vi avviso che a un certo punto la storia verrà censurata per via del regolamento di EFP, dunque, se desiderate leggere la scena non censurata, vi basterà cliccare su questo link OPPURE sui tre asterischi rossi ( *** ) che vedrete nel punto in cui la scena è stata censurata. Buona lettura!



 
Accettazione.






“C’è qualcosa che non va.”
Il tono incupito della voce di Valentino si espanse nella stanza intoccata dal sole. Le luci di alcuni candelabri colpivano le pareti e il pavimento di pietra senza riuscire a raggiungere il soffitto né a illuminare pienamente il resto. Due candele erano poste ai lati dell’incantatore, sul tavolo davanti al quale era alzato, con le mani imposte verso di esso. Al centro del tavolo un glifo grosso quanto lo stesso lampeggiava di un azzurro innaturale in una lenta intermittenza. All’altro lato del tavolo era seduto Azul. I suoi occhi di rettile scrutavano la sagoma del mezz’elfo. Non si leggeva emozione umana in essi. Imesah era in piedi accanto all’Imperatore e fissava nella stessa direzione con l’espressione attenta ma inanimata di una statua.

Dall’umidità era ovvio che si trattasse di un luogo molto vicino alla terra, se non sotto di essa.
Valentino si sforzò di intensificare la ricerca. Contrasse la smorfia che aveva sul viso giovane e chiuse gli occhi. Strinse gradualmente le palpebre, emise un ansito affaticato. I suoi muscoli si tesero l’uno dopo l’altro e il glifo iniziò a illuminargli la faccia. Riuscì persino a riflettere sulla corona dorata dell’Imperatore prima che Valentino cadesse in avanti, stremato, sul tavolo. Le spalle e la fronte si accasciarono sulla superficie di legno, le braccia troppo indebolite per poterlo sostenere.

Gli occhi di rettile di Azul reagirono con un solo sbattere di palpebre. La testa appesantita dalla corona d’oro si smosse verso Imesah con la lentezza di un serpente che assaggiava il terreno. Imesah posò gli occhi sul compagno e ruppe il silenzio.

“Non possiamo allarmare l’intero Palazzo per una brutta sensazione, e non sappiamo da dove proviene il pericolo. Ci limiteremo a tenere gli occhi aperti e avvertire le guardie di fare particolare attenzione in questi giorni.”

Un rantolo provenne dal tavolo che i due stavano ignorando.

“Questo non basterà…” mugugnò Valentino, che cercò di riacquistare forza nelle braccia per rialzarsi dal tavolo. Riuscì a guardare i due. I suoi occhi azzurri rilucevano alla luce delle candele che davano persino a un mezz’elfo comune come lui uno sguardo ambiguo e innaturale. “Qualcosa si è introdotto furtivamente nel Palazzo. Se colpirà non verrà notato finché non sarà troppo tardi.”

“E allora cosa proponi di fare.” Il mento affilato dell’Imperatore, un uomo piccolo, magro e spigoloso, si sollevò in un gesto che ne denotò ciò che il tono non faceva trapelare: la stizza. Valentino ricambiò il suo sguardo. Non poté sostenerlo con la stessa intensità.
“Tenetevi pronti. Non dormite da soli. Non abbassate la guardia. Voi e i ruoli più importanti a Palazzo.”
Azul abbassò le palpebre con fredda sufficienza.
“Avviseremo il Consiglio, ma non possiamo allarmare il Principe.” Disse Imesah.
Valentino corrugò la fronte nel cercare il suo sguardo.
“È per la sua salvaguardia, Cavaliere.”
“Mi occuperò io della sua salvaguardia.” Ribatté il Cavaliere Grigio.
Azul finalmente rialzò i grandi occhi su Valentino; si alzò dalla sedia in un gesto autoritario ed elegante.
“Il vostro potere non può nulla contro le minacce dei nostri nemici. Ne terrò conto.”
Azul poté vedere la faccia imperlata dal sudore di Valentino mutare tragicamente in un’espressione negativamente sorpresa, prima di indurirsi di nuovo.
“Sto facendo del mio meglio, Imperatore. L’energia e la magia di questa minaccia sono irrintracciabili da alcuno.”
“Lo vedremo.” Mormorò freddo il drow, sostenendo i suoi occhi azzurri. Dopodiché non lo degnò di un altro sguardo: si voltò e si incamminò nel buio della stanza. Venne inghiottito dal vuoto, là dove la luce delle candele non lo avrebbe raggiunto. Imesah sostenne lo sguardo del Consigliere ancora per poco prima di seguire Azul.




 
***




Ra’shak entrò nella Caserma, accompagnato da Soldato.

“È qui.”

Dopo i campi di addestramento si trovava un grosso e alto edificio adibito ad armeria, ufficio della milizia e sala di addestramento. Quell’edificio era la Caserma, e la maggior parte di essa era costituita da un’unica grande sala dove la luce del sole affiorava da delle finestre sottili quasi quanto feritoie orizzontali, abbastanza da illuminare tutto senza creare problemi alle creature più sensibili alla luce, come Ra’shak.
Prima ancora di entrarvi, il drow aveva notato come le prime file del campo di addestramento erano state disertate, con armi lasciate per terra e alcuni punti della ringhiera, addirittura, distrutti.

C’era una folta fila di uomini, presumibilmente quelli spariti dai campi di addestramento più alcuni curiosi. Soldato li superò in breve e Ra’shak lo seguì per arrivare a uno degli spiazzi che riempivano la sala. Erano spiazzi da allenamento, delimitati da alcuni pali di legno collegati tra loro da spesse corde che impedivano agli avversari di cadere fuori e invadere gli spiazzi adiacenti. Davanti a lui si aprì una scena di combattimento: un drow slanciato e muscoloso stava gestendo da solo lo scontro con una halfling e un umano. In una manovra sbatté l’halfling a terra con una forza tale da costringerla a rimanervi e con un calcio fece in modo che l’umano baciasse vigorosamente uno dei pali prima di svenire. Subito un altro paio di reclute scavalcarono le corde per impegnare il drow in un altro scontro.

“Sta stendendo tutte le reclute.” Borbottò Soldato, a disagio. “Non… ho idea del perché. È semplicemente arrivato e ha iniziato a creare casino.”
Ra’shak sbatté le palpebre interdetto: ecco dove l’aveva visto. Sbuffò una risata goliardica.
“Ma quello è il figlio dell’Imperatore!”
Soldato gli rivolse un’occhiata sconvolta.
“Intendi il Principe…?”
Ra’shak rise di nuovo e scosse il capo.
“No, no. L’altro figlio dell’Imperatore.”
Vide Soldato sussultare spaventato quando entrambe le reclute inciamparono sulla corda davanti a lui e caddero all’indietro ai suoi piedi, senza che se lo aspettasse. Proseguì.
“Vilya, il primogenito.”
“Oh.” Soldato alzò lo sguardo preoccupato verso il drow che ora stava prendendo a pugni un nano armato. “Beh, se potessi fermarlo faresti una cortesia a te stesso e alla tua reputazione.”

Prima che qualcun altro scavalcasse le corde fu Ra’shak a farlo. Come lui si aspettava nessuno osò seguirlo. Un sorriso soddisfatto rivelò alcune rughe del suo viso mentre camminava verso l’altro jaluk, portandosi davanti a lui e fermandosi a tre metri di distanza.

Il corpo di Vilya era ansante e lucido per via del sudore. I muscoli allenati dai combattimenti serpeggiavano sottopelle ad ogni movimento, visibili fin oltre le anche dove dei pantaloni lo coprivano, ripiegati fin sotto le ginocchia. Aveva le labbra dischiuse per respirare velocemente e insieme per rivolgere un ghigno compiaciuto verso il Comandante. I capelli mori erano appiccicati al collo umido e alla fronte, e ci stava appena passando una mano scura per tirare indietro quella massa spettinata. Nei suoi occhi blu si leggeva una scintilla di folle eccitazione. Era bello ed energico, nel pieno delle sue forze. Ra’shak considerò che sarebbe stato un ottimo esemplare se solo non fosse stato per i colori distorti che si portava addosso e che lo rendevano, agli occhi del Comandante, uno sfortunato aborto.

In un gesto il più anziano si liberò delle fibbie che ne circondavano il busto e le lasciò cadere insieme alle armi che esse trasportavano. Avanzò verso il moro ma egli non accennò ad attaccare né indietreggiare. Si ritrovarono a fronteggiarsi con le loro facce a pochi centimetri di distanza. Il sorriso di Vilya si rafforzò in una smorfia ancora più distorta. Ra’shak scrutò nei suoi occhi. Perché stava creando caos? Cosa lo stava spingendo? Perché lo stava sfidando? Si liberò presto di questi interrogativi: non era nient’altro che un attaccabrighe, si disse.

Non fu troppo tardi quando si accorse che Vilya aveva approfittato del suo istante di perplessità per colpirlo: intercettò per un pelo il montante diretto allo stomaco e lo parò con l’avambraccio. Si preparò a restituirglielo con l’altro e lo prese in pieno. Lo fece piegare in avanti in un singulto e approfittò per assestargli una ginocchiata in faccia. Vilya indietreggiò e si raddrizzò.
A Ra’shak bastò avanzare di un passo per raggiungerlo di nuovo. Gli diresse un gancio di lato, verso il viso: un colpo all’orecchio lo avrebbe destabilizzato in breve e sbattuto al tappeto. Ma Vilya lo parò. Nel contatto tra il suo pugno e il proprio braccio, il moro intraprese una languida carezza. La sua mano scivolò sul braccio di Ra’shak e finì per afferrarlo. Lo tirò a sé come se volesse farselo cadere addosso e quando Ra’shak strattonò per ritirarsi Vilya approfittò di quella resistenza per reggersi sul suo braccio e girarsi di lato. In un gesto veloce sollevò la gamba, la piegò sul proprio petto, e tendendola scaricò tutta la forza su di lui in un calcio frontale con il tallone. Lo liberò dalla presa per vederlo cadere all’indietro, a un paio di metri da lui.

Riportò la gamba a terra senza scomporsi e restò a guardare il Comandante dall’alto. Quando Ra’shak rialzò il viso verso di lui poté vedere i suoi occhi languidi che lo cercavano, affamati. Non era il calcio in pieno petto a destabilizzarlo, non la caduta: il ragazzo gli incuteva disagio. Stava cercando di ignorarlo, ma era difficile non notare quanto fosse diverso dagli altri guerrieri. I suoi colpi erano carezze, poteva sentire il calore del suo corpo da ogni tocco. O forse era solo una sua impressione? Non capiva come il suo solo sfiorarlo potesse urtarlo così tanto. Si sentiva paradossalmente vulnerabile e insicuro. Ra’shak si rialzò e ricacciò quei pensieri nel fondo della sua mente. Non poteva permettersi certo di perdere davanti a tutti: doveva concentrarsi.

Affrontò di nuovo Vilya e stavolta rispose ai suoi colpi con prontezza. Per quanto fosse difficile gestirlo, Ra’shak si rese conto di avere una conoscenza militare molto più profonda di lui. Se i colpi di Vilya erano imprevedibili, forti e disorientanti, quelli di Ra’shak erano invece precisi, ben dosati e pianificati. Ra’shak aveva una strategia che mancava a Vilya, il quale era caotico nel combattimento come nel suo comportamento. Questo fece capire a Ra’shak come mai era stato capace di stendere tutte le reclute sino ad allora: mancavano della stessa conoscenza che lui non aveva, temprato invece dalle risse – Ra’shak non poteva non notarlo.

Rassicurato nel comprendere il suo avversario, Ra’shak assestò molti colpi su Vilya che però si rivelò più resistente di quanto il Comandante immaginasse. Non si decideva ad arrendersi né ad affaticarsi, e continuava a rivolgergli un ghigno compiaciuto indipendentemente dalla quantità di sangue che gli colava dalle labbra e dal naso. Vilya approfittò di un istante di indecisione del più anziano per dargli un pugno che gli fece perdere l’equilibrio. Cadendo all’indietro Ra’shak si aggrappò a Vilya che cadde su di lui. Si ritrovò la faccia del ragazzo sulla sua e le sue labbra che lo sfioravano. Il respiro affannoso del più giovane lo soffocava. Gli occhi blu erano ben aperti a scrutare nei suoi. Il corpo aderiva al suo, scivoloso nel sudore di entrambi in un modo che fece inarcare Ra’shak e gli fece sentire un vergognoso calore nei pressi del bassoventre.

Fu disorientato: non capiva cosa diavolo stesse succedendo. Quello che Vilya stava facendo non era niente che si facesse in uno scontro. Il suo sguardo non era ardente di morte, ma di desiderio. Ra’shak non riceveva sguardi del genere dagli uomini. Lo avrebbe reputato privo di senso… disdicevole. Perché qualcuno avrebbe dovuto guardarlo in quel modo? E come avrebbe dovuto sentirsi lui a riguardo? Quando Vilya rafforzò di nuovo il suo sorriso, probabilmente accortosi della reazione fisica del più grande, Ra’shak si rese conto dell’espressione spaventata che aveva sul volto. Riuscì a sganciare un pugno sulla faccia ghignante del moro e lo fece cadere dall’altro lato.

Alzandosi si rese conto che il suo gesto non aveva nascosto la bruciante vergogna nel venire scoperto dall’altro e sperò che nessun altro lo avesse notato a parte Vilya. Il giovane si alzò presto, come Ra’shak aveva previsto, e il Comandante era pronto davanti a lui per provare a stenderlo nuovamente a terra. Non ci riuscì: Vilya era troppo sfuggente. I suoi calci lo prendevano alla sprovvista. Ma era ormai stato stancato dal combattimento e quando gli scagliò contro l’ultimo calcio circolare con la lunga gamba ad altezza viso non considerò che Ra’shak si sarebbe accovacciato per schivarlo e poi rialzarsi e, non appena avesse riabbassato la gamba, assestargli un pugno dritto in faccia. Lo prese in pieno. Vilya perse l’orientamento, cadde sulle ginocchia e poi crollò disteso, prono, al suolo. Non si rialzò.
Era svenuto.

Ansante e provato Ra’shak guardò il giovane uomo dall’alto in basso. Attorno a sé sentì il boato delle reclute che idolatravano la sua figura. L’ombra di un sorriso gli solcò il viso, ma era troppo fioca per vincere la confusione che lo scontro con il suo avversario gli aveva lasciato. Lasciò perdere quel corpo svenuto per tornare dal vice.
“Io lo so com’è iniziata.” Sentì una voce nella folla. Si interruppe per spiare le chiacchiere di due combattenti femmina. “Quell’uomo ci stava provando con me. Johan era geloso e lo ha sfidato.” “Non dirmi fesserie. E perché avrebbe proseguito?” “Beh, gli ho sentito dire anche questo:” Ra’shak lanciò un’occhiata alle due donne. L’ultima terminò:
“Aveva detto che ormai si stava divertendo troppo.”




 
***





Il Serpente sbatté l’uomo spalle al muro e lo tenne inchiodato per il colletto insanguinato della maglia con una mano. L’uomo aveva capelli cortissimi di un biondo grano, pelle chiara, era robusto. Indossava un’armatura imbottita che era stata danneggiata nello scontro. Il Serpente era più sottile e snello. Indossava una tuta attillata di nero e verde anonimo, che scorreva sui muscoli e le ossa della spia in sinuose spirali verso l’alto. Il muso era nascosto, ma due occhi gialli dalle pupille verticali erano ben visibili e puntati sulla sua vittima.

“Chi è quest’uomo.” Chiese il Serpente.

Azul era seduto su un piccolo trono al centro della stanza circolare. La stanza era stretta e piena di oggetti. Alle spalle del trono una lunga scrivania ospitava numerosi ingredienti insoliti sulla sua superficie di legno e nei cassetti. La figura del drow era poggiata esanime sullo schienale e il capo era reclinato all’indietro. Dagli occhi sgranati si vedeva solo il bianco del bulbo oculare: i suoi occhi erano gettati all’indietro. Sul grembo aveva una testa mummificata senza orbite, circondata da una collana di occhi di serpente, e le mani erano adagiate su essa come in una carezza.

Sonia, la Vipera, avanzò di un passo. Era entrata con l’altro Serpente; quest’ultimo ebbe un lieve sussulto. Le sue iridi assunsero un colore castano, la pupilla si arrotondò, e nello stesso momento Azul portò improvvisamente in avanti la testa e prese un respiro, come appena uscito da un’apnea. I suoi occhi tornarono a guardare davanti a sé in un punto impreciso. L’uomo biondo cercò di approfittarne per liberarsi della presa del Serpente ma lui lo sbatté di nuovo alla parete con prontezza.

La donna aveva lunghi capelli mori, folti e mossi, che ne incorniciavano i tratti allungati. Gli occhi di rettile avevano dimensioni umane, non come le iridi grandi e sporgenti dell’Imperatore. Con quegli occhi fermi scrutava il piccolo drow davanti a sé.

“È la minaccia.” Rispose.
“L’abbiamo sventata.” Azul piegò le labbra chiuse in un sottile ghigno. I suoi occhi si socchiusero in due fessure affilate. “Dovremo dare la cattiva novella a Valentino.”
Sonia annuì senza particolari espressioni. Poco dopo la porta si aprì di nuovo per far entrare Imesah e poi richiudersi immediatamente.
“Imesah, prendilo.” Con un cenno sbrigativo del capo Azul gli indicò l’intruso. Imesah lo trovò e lo raggiunse per sostituire la mano del Serpente, che lo lasciò a lui e indietreggiò obbediente.
Solo allora l’Imperatore scrutò l’uomo con i suoi occhi.

“Chi ti manda qui?”
Il biondo non replicò. Si limitò a guardare il drow, combattuto, cercando ogni tanto di resistere alla presa del Cavaliere. Azul abbassò lo sguardo e inspirò piano dalle narici.
“Vorrei… farti dire quello che desidero con le cattive, ma non è nel nostro stile.” Rivelò all’uomo. Tornò a indagare nei suoi occhi. “Verrai risparmiato. Tutti qui vengono trattati… nello stesso modo, ricevendo una seconda opportunità.” Le sue labbra sorrisero di nuovo, più di prima. “Siamo famosi per questo, non è così?”
L’uomo corrugò la fronte, a disagio. Diede un’occhiata a Imesah. Il Cavaliere ricambiava il suo sguardo ma non esprimeva assolutamente niente. Dischiuse le labbra.
“I nobili di Picco del Diamante, signore. Provengo da lì.”
“Ma certo.” Ribatté Azul con voce leziosa.
“Come aveva detto Ra’shak.” Commentò Imesah, in una smorfia.
Sonia e l’altro Serpente si ritirarono e rimasero in disparte ad osservare i tre.
“Continua a parlare, carino.” Mormorò l’Imperatore. Inclinò il capo di lato e i fili d’oro della sua corona lo seguirono nel movimento. L’uomo esitò di nuovo.
“Signore… dubito dei vantaggi che questo comporterebbe.”
Azul non poté trattenere uno sbuffò derisorio dalle labbra che si evolse in una risata gutturale. Non ci si sarebbe aspettato che un verso roco come quello potesse essere scaturito da una creatura esile e piccola come quella, che poco prima vezzeggiava l’intruso con voce deliziata.
“Ho capito… vuoi del denaro.” Alzò gli occhietti su di lui. Trovò luccicare i suoi e assottigliò di nuovo le palpebre con avidità. “Posso darti tutto quello che chiedi.” Chiuse le labbra in un nuovo ghigno compiaciuto. Una mano affusolata sfiorò la corona d’oro, con gemme di giada grandi come occhi incastonatevisi. “Vuoi la mia corona? Tutto, per la salvezza del mio Regno.”
“Sì, signore.” Si affrettò l’uomo. “Voglio la vostra corona. E che mi lasciate andare stanotte stessa.”
Scaturì una risata più esplicita del drow che piegò il capo all’indietro prima di ricomporsi e impartirgli l’ordine:
“Parla.”

L’uomo si scucì subito la bocca.
“Si tratta di un’alleanza. Tutti quelli che avete fatto arrabbiare... sono dentro. Picco del Diamante, stregoni, Nobili del Passo… È inutile che cerchiate di sovrastarli: sono maggiori in numero e potenza. Non potete nulla contro di loro.”
“Numeri. Dati precisi, ragazzo.” Lo istigò Azul.
“Gola di Futhar, Collina Intessuta, Risvith, il Regno della Signora Bianca, Città Alta, persino la colonia dei drow di superficie da Charrvelraughaust. Centinaia di migliaia di guerrieri, signor drow. E di certo non vorrete sottovalutare le potenze militari di chi se lo può permettere. Rispetto a una città di miserabili…” borbottò l’uomo. Negli occhi di Azul si lesse un lampo, gli occhi si sgranarono dall’offesa. L’uomo, contrariato, mantenne un’espressione aspra.
“… Certo, perché dovreste temerci? Perché dovresti? Tu avrai salva la vita, qualsiasi cosa tu dica, e noi siamo poveri plebei in confronto ai vostri re e grandi signori.”
L’uomo esitò prima di annuire.
“Mh. Dov’è il centro dell’alleanza?” Chiese Azul con tono nuovamente secco.
“Città Alta.”
Azul annuì piano. I suoi occhi scattarono su Imesah, che lo stava già fissando.
“Abbiamo bisogno di altro?”
Imesah scosse il capo. “Niente che lui possa dirci.”

Allora Azul si alzò piano dal trono. Lo percorse per poggiare sul tavolo la testa mummificata che aveva tra le mani.
“Mi bastano due persone. Tu resta, Imesah. Voglio il Serpente. Puoi andare, Sonia, non ti trattengo oltre.”
Tornò davanti al trono. Rivolse a Sonia uno sguardo serafico, mentre l’intruso iniziava ad agitarsi.
“Dovrai dire a Valentino che, visti i nuovi accadimenti, dovrà convincermi a non sostituirlo con una fatina.”
Sonia annuì. Azul si avvicinò all’uomo biondo.
“Lasciatemi andare. Non potete alzare le mani su di me.”
“Oh, andiamo, bel soldatino. Non crederai veramente che dei brutti ceffi come noi potessero mantenere la parola data, vero?” La mano del drow si sporse verso l’uomo e gli sfiorò la guancia con l’indice, saggiando la sua pelle.
“Aprigli la casacca.” Imesah istruì il Serpente, che obbedì silenziosamente. Il biondo invece iniziò a dimenarsi. Emise un urlo.
“No! Non osate toccarmi!”
Azul fu scosso da un’altra risatina ilare, deliziato.
“Avevo proprio bisogno di te. È da giorni che non mangio come si deve.”
“Cosa… cosa insinuate…” ansimò la vittima.
Il Serpente sbrogliò l’armatura imbottita dell’uomo e rivelò la maglia leggera sotto, unica protezione del ventre. Gli sganciò la cintura come poteva, tenendogli il braccio bloccato. Le contorsioni dell’uomo erano sedate da Imesah, che lo sbatteva alla parete e lo teneva fermo bloccandogli l’altro braccio. Questo non lo rese meno agitato.
“Fermatevi!” Esclamò lui nella disperazione. “Non sapete… io posso essere utile…”
Quando Imesah tirò fuori la lama di un pugnale, i suoi ansiti divennero uggiolii.
“Non c’è niente che possa salvarti, qui, carino.” Mormorò Azul con voce roca.
L’uomo mugugnò delle preghiere. Azul restò ad ammirare la sua paura. Lo ascoltava rapito. Imesah attese. Quando la vittima comprese di essere ormai spacciata, in uno sguardo allucinato fissò l’Imperatore dritto negli occhi.
“Non è ancora finita. Vi vedrò presto farmi compagnia nel Mondo dei Morti.”
Azul inclinò il capo di lato, mesto.
“Lo vorrei tanto, piccolo soldato.” Gli rivelò con dolce malinconia. Fece un cenno a Imesah.

Il Cavaliere non aveva espressione sul volto quando penetrò il petto dell’uomo nel centro. Facendo forza affondò con il pugnale e poi lo fece calare. La pelle si aprì sotto il passaggio della lama e così la carne resistente sotto di essa. Il suo corpo si aprì gradualmente lungo gli addominali e il sangue colò rapido verso il basso per bagnargli i pantaloni. Azul corse a recuperarlo: si inginocchiò scomposto e si sporse in avanti per succhiare la pelle intrisa di sangue sugli addominali dell’uomo che urlava di dolore. La sua voce era soffocata dalla mano del Serpente che aiutava Imesah a tenerlo. Il Cavaliere ritirò il pugnale in un colpo e Azul si affrettò per risalire allo sbocco dello scabroso labbro di ferita che apriva il ventre dell’uomo per bere il sangue appena sgorgante. Presto ci si immerse per strappare i primi lembi di carne. Il suo corpo si agitava affamato, le unghie bucavano i fianchi della vittima su cui si stava reggendo. Quando ormai l’uomo era svenuto di dolore Sonia si voltò e aprì la porta per allontanarsi.




Appena uscita sbucò nel mezzo del chiostro che circondava la Stanza del Negromante. Rivelò un’espressione sorpresa nel trovare un mezzodrow dai lunghi capelli biondi andarle incontro.

“Sonia, buonasera.”
So’o si fermò davanti a lei. La Vipera lo scrutò meglio, interdetta, prima di avvicinarglisi ulteriormente.

“Principe, dovreste stare già dormendo. Fatevi accompagnare alle vostre stanze.”
Gli avvolse le spalle con premura e lo portò con sé dalla parte opposta del chiostro. Il ragazzo rivolse uno sguardo sospettoso alla Stanza prima di dargli le spalle e farsi guidare dalla donna.





 
***





So’o sospirò accanto a Vilya mentre si incamminava verso la sua stanza. La sera era ormai calata. Quel pomeriggio non aveva avuto proprio voglia di uscire. Gli allenamenti lo avevano stancato parecchio e voleva solo rilassarsi. Vilya per fortuna era stato comprensivo e gli aveva trovato una zona deserta del Palazzo dove potessero leggere insieme e chiacchierare un poco.

Rifletté sugli ultimi insegnamenti. I poteri di So’o si stavano intensificando. Questo perché aveva imparato a controllarli e incanalarli correttamente. Non c’era un Maestro adatto ad insegnare a So’o come gestirli, dal momento che si trattava di poteri divini derivanti dalla sua discendenza diretta con Saab, un caso senza alcun precedente, ma veniva seguito dalla Somma Incantatrice Gretel e qualche volta dalla Sacerdotessa Inva. Non potevano essere trattati come incantesimi da Gretel perché non erano magici, ma neanche Inva li conosceva: il potere di So’o non gli veniva concesso da suo padre, ma apparteneva a lui stesso. In più, si trattava di un potere dalle potenzialità ignote. Si era appreso il suo campo di influenza solo con la pratica e, vista l’acerbità del giovane Principe e la sua inesperienza bellica, non se ne conoscevano ancora i limiti. Vilya si era rivelato curioso a riguardo.

“Quindi sei in grado di manipolare la materia.”
So’o fece una smorfia prima di rispondergli.
“Sarebbe come dire che Saab è in grado di manipolare il sangue, quando in realtà il potere di Saab consiste nel-”
“Muovere le stelle. ‘Un cambiamento innocuo ai nostri piccoli occhi, con conseguenze grandi come l’universo’, già. Allora muovi le stelle?”
Di nuovo il fratello minore inasprì il viso, stavolta con una stilla di sufficienza.
“Temo proprio di no. Non credo di avere un potere così vasto. Ma posso muovere questo mondo.”
Si voltò per guardare Vilya che, come lui immaginava, lo stava fissando e ghignava catturato, con i suoi occhi blu che luccicavano alla luce delle fiaccole del porticato.
Si fermò davanti alla porta della stanza del Principe e si voltò verso di lui.
“Voglio vedere.”
So’o prese un respiro.
“Sono stanco…”
“Una cosa piccola! Dai. Ti prego.”

So’o fissò dritto negli occhi speranzosi del moro. A volte gli ricordava proprio un cane. Un grosso cane scemo. Di quelli alti più di un metro, con la lingua di fuori e che scodinzolano in modo ridicolo. E con gli stessi occhioni entusiasti a cui non si può dire di no.

Esalò un sospiro e frugò in un sacchetto agganciato alla cintura finché non tirò fuori una sfera di metallo. La sua grandezza non riusciva a riempirgli il pugno. Puntò gli occhi su di essa e rimase a fissarla intensamente per lunghi secondi.
Ad un certo punto la sfera grigia iniziò a fondersi nella sua mano. A So’o bastò puntare gli occhi in un punto preciso della pozza di metallo perché un lembo si sollevasse in una stalagmite e si solidificasse una volta definito. Riportò la stalagmite a uno stadio appena più malleabile per poterla rimodellare in una spirale. Attorno alla base di essa fece scorrere il resto di quella pozza fino a creare una confusa corona di petali che si solidificò definitivamente nella sua mano.

Porse la rosa di metallo al fratello maggiore che la prese meravigliato.

“Ora fammi andare a riposare.”
“Mh.” Annuì il fratello maggiore. Rialzò gli occhi sul minore, si sporse verso di lui e gli premette il muso contro il lato della nuca per schioccargli un bacio sulla chioma bionda.
“A dopo fratellino.” Mormorò al suo orecchio prima di allontanarsi.
“A dopo.” So’o ricambiò l’ultimo sguardo in un’espressione schiva, ma compiaciuta.





Entrò nella stanza senza richiuderla. Non ce n’era motivo: se si fosse intrufolato qualcuno sarebbe stato quantomeno emozionante. Accese un candelabro accanto alla parete e iniziò a spogliarsi poggiando man mano i vestiti sul letto. Stava per levarsi di dosso la tunica quando intravide un piccolo movimento nell’angolo della stanza. Uh? Che strano, pensò. Forse era un gatto? Avrebbe potuto adottarlo, dargli un nome? Alzò lo sguardo nella direzione del movimento e si rese conto che quello che si trovava a ridosso della parete non era sicuramente un gatto.

La creatura accovacciata aveva la pelle così scura che a tratti non si distinguevano i bordi della sua figura. I capelli scomposti e nerissimi ne lambivano le spalle piccole. Era piccola, lunga ed esile, ed aveva due enormi occhi tondi che riflettevano appieno tutta la luce che riuscivano a trovare nella stanza. Dalla loro profondità scura si intravedeva un rosso fioco quanto allarmante.

So’o si accorse che si trattava di un elfo dei boschi. Era immobile e puntava proprio lui, in uno sguardo sinistro. Il mezzodrow si sentì braccato. Si irrigidì e fu scosso da un brivido. La sua mano mollò il mantello, che cadde a terra.

“… hey?”

Chiamò l’elfo. Sapeva che lui poteva capirlo. Era una creatura molto intelligente. La creatura era vicino alla parete e rivolta del tutto verso il Principe. So’o si accorse che quella zona della stanza, in particolare, era molto più buia del resto, anche se la luce del candelabro avrebbe dovuto illuminarla per bene. Al suo richiamo essa non si smosse dalla sua posizione ma sollevò piano il mento, mantenendo gli occhi fissi sulla sua faccia.

All’improvviso l’elfo si alzò e si avvicinò verso So’o. Insieme a lui anche il resto della stanza venne avvolto dalle tenebre, come se fossero una propagazione di quella creatura. Diramazioni di fitte venature di oscurità serpeggiarono sulle pareti e inghiottirono il lucore che proveniva dal candelabro. So’o, spaventato, inciampò e cadde all’indietro, per terra. Si trascinò indietro per porre una distanza con la creatura. Era stranamente alta per essere piccola. Il rosso nei suoi occhi iniziò a lampeggiare lentamente, e ad ogni lampeggio si intensificava finché gli occhi sbarrati non divennero due sfere rossastre. So’o sentì i battiti del suo cuore aumentare freneticamente. Aveva la bocca dischiusa: voleva urlare ma non riusciva a pronunciare nessun suono. Iniziò ad ansimare. L’elfo fece un altro passo. Solo quando il buio raggiunse il candelabro e riuscì a spegnere tutte le fiammelle delle candele in un solo momento, So’o ebbe la forza di gridare.

L’oscurità lo afferrò. L’unica fonte di luce nel vuoto erano gli occhi spalancati della creatura che si stava avvicinando inesorabilmente a lui. Questo lo aiutò a gridare di nuovo, più forte e con più disperazione mentre si accorgeva di aver ormai raggiunto l’altra parete con la schiena e non potersi più allontanare. Gli occhi si fecero ancora più grandi e, anche se sapeva che l’elfo non poteva ancora toccarlo, So’o iniziò ad annaspare nel panico.

La porta si aprì e sbatté sulla parete e una luce fioca bruciò l’oscurità. Due fuochi fatui, bianchi, vennero scagliati nella stanza buia. Vide Vilya interrompersi tra l’elfo e la porta per vedere la creatura illuminata dai fuochi. Nel buio era stata avvolta da spire di tenebre che le davano un aspetto grottesco. Bastò lo sfiorare di un tentacolo nero a spegnere il primo fuoco fatuo. Prima che il secondo potesse estinguersi Vilya si scagliò sul fratello e si inginocchiò rivolgendosi verso la creatura per fare da scudo. So’o, afferrato dal terrore, si sporse in avanti e si aggrappò al drow cingendo le braccia attorno al suo petto in una presa soffocante. Anche l’ultimo fuoco fatuo si estinse e i due vennero inghiottiti dal buio più nero. Non sapevano cosa stava succedendo attorno a loro: potevano solo vedere gli occhi rossi della creatura raggiungerli.

Poi sentirono un boato. La luce improvvisa invase tutta la stanza e li accecò. Urlarono. So’o sentì Vilya rigirarsi tra le sue braccia contro di lui e lo strinse ancora più forte. Emise un guaito. Sentì un urlo. Era maschile, giovane. Cercò di riaprire gli occhi ma di nuovo venne accecato dalla luce. Colse il suono di un tonfo, poi un verso animalesco che gli fece accapponare la pelle. Strinse Vilya più forte e nascose la faccia contro il suo collo. Sentì altri due tonfi, e alla fine l’unico suono rimasto era l’ansito di lui, del fratello maggiore e di una terza persona.




Quando tirò fuori la testolina dal collo del più grande si accorse che la luce si era affievolita. Tutte le luci dei candelabri erano state illuminate di una luce naturale. Spostò gli occhi verso la porta e vide Valentino che si avvicinava al centro della stanza con il petto che si alzava e si abbassava. Nella mano destra portava una staffa magica con una pietra alla sommità che luccicava ancora dell’incantesimo precedente. Lo vide chinarsi: la sua mano scostò la spalla dell’elfo, che era caduto per terra su se stesso, in modo da vedere la sua faccia. In pieno petto c’era una ferita profonda da cui colava una abbondante quantità di sangue, eccessiva perché la creatura fosse ancora viva. I suoi occhi infatti erano semiaperti e fissavano il soffitto vacui.
Valentino esalò un sospiro teso.




 
***





Valentino ebbe tempo di spiegare loro cosa fosse successo prima che i suoi genitori irrompessero nella stanza. Imesah era sconvolto, ma Azul aveva degnato la creatura solo di uno sguardo prima di gettarsi sui suoi bambini. Li aveva stretti nella morsa nervosa delle sue esili braccia, dimostrando una forza insospettabile, e nascosti al piccolo corpo, aggrappato come un mollusco al proprio scoglio per non venire trascinato via dalla spuma del mare. Una volta usciti avevano trovato il cadavere di un Serpente nascosto tra gli arbusti del chiostro: si trattava della donna che Imesah aveva posto a guardia di So’o quando non poteva stargli vicino, come aveva spiegato suo padre poco dopo. Ricordava ancora lo sguardo di biasimo che gli occhi severi di Valentino rivolsero a Imesah.

So’o invece aveva chiesto di essere lasciato in pace dopo quella brutta esperienza. Aveva preteso di dormire con il fratello maggiore ed era riuscito ad ottenere l’approvazione di Azul. Imesah non avrebbe mai approvato, ma si trovava costretto: sapeva che Azul avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa So’o gli avrebbe chiesto, in quel momento. Si limitò a mettere delle guardie davanti la porta – non che questo potesse, come solito, rassicurarlo davvero, visto che non si fidava di Vilya.

So’o era avvolto nelle lenzuola del letto, steso sul fianco. Aveva le braccia incrociate e la testa incassata nelle spalle in una postura tesa. Vilya gli era di fronte e lo guardava, dall’altro lato del letto, steso anche lui sul fianco. Sbatteva piano le palpebre mentre lo scrutava, ben più calmo di lui.

“Come stai?” Chiese Vilya con un soffio di voce.
So’o abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle. Una di esse sbucava dallo scollo della maglia. Sentiva ancora lo sguardo di Vilya su di lui. Una sua mano si sporse per accarezzargli la guancia e scostargli alcune ciocche bionde. So’o chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi facendosi cullare da quelle premure.
“Volevi proteggermi?”
Riaprì gli occhi per cercare l’altro e lo vide sorridere.
“Ovvio. Altrimenti avrei dovuto aspettare altri diciassette anni per un nuovo fratellino. Sarebbe stata una seccatura.”
So’o sbuffò e rise, e una sua mano si scostò dalla postura rigida per dare uno schiaffo al fratello maggiore. Lo vide strizzare gli occhi in una faccia buffa e cercare invano di schivarlo. La mano del moro si scostò dal suo viso per premergli sul petto e spingerlo via.
“No!” Esclamò So’o ridendo di nuovo e tentò di levarsi la sua mano di dosso, in un gesto meno sfacciato, per non venire buttato giù dal letto. Vilya fu comprensivo e smise di spingerlo. Lasciò la mano sul suo petto. Mosse le dita in una carezza accennata. So’o tenne gli occhi nei suoi. Sbatté piano le palpebre.

Strinse le dita attorno al polso del drow e lo scostò via dal petto. La sua mano scura si sollevò di nuovo a mezz’aria. Si muoveva piano. Quella di So’o la seguì e cercò di intrecciarsi alle sue dita per spingerla sul materasso, nello spazio che separava i loro visi. Vilya si oppose e la staccò dalla sua per aggirare le difese e tornare sul suo viso. Tornò ad accarezzarlo. So’o socchiuse gli occhi. Il suo respiro rallentò e iniziò a sentire un vago sonno conciliante. Però non riusciva ad addormentarsi. Sentiva… troppe cose.


Rialzò di nuovo gli occhi su Vilya, che ricambiò il suo sguardo diretto. Lo sentì infrangere le dita tra i propri capelli biondi. Si smosse dal letto così da reggersi con un gomito sul cuscino. Voltandosi un poco indietro verso di lui Vilya gli rivolse un’espressione interrogativa e pettinò i suoi capelli fino a una certa lunghezza per poi interrompersi, probabilmente senza accorgersene neanche, impegnato a capire cosa l’altro stesse per fare. So’o prese piano il respiro dalle narici, poi si avvicinò al fratello maggiore e si sporse in avanti.

Tenne gli occhi in quelli del fratello finché non sentì il suo respiro sulle proprie labbra. Poi li abbassò e piegò un poco il capo di lato. Si chinò piano. Le sue labbra aderirono a quelle di Vilya. Serrò gli occhi e le premette sulle sue. Ricevette una risposta, un gesto identico al suo. Si separò appena. Ad occhi chiusi sentì la punta del naso sfiorare quella del più grande e vi si strofinò lentamente, prima di piegare ancora il capo e assaggiarlo di nuovo. Vilya lo aspettava e gli rispose, schiudendo di più le labbra. So’o lo assecondò e approfondì il bacio, senza alcuna fretta. Sentì la sua bocca umida sulla propria e strofinò piano le labbra sulle sue in un gesto sensuale. Vilya staccò appena la nuca dal cuscino per far scontrare i loro nasi e sfiorare le fronti, poi inclinò il capo all’indietro per catturare di nuovo le sue labbra. So’o si lasciò sfuggire un sospiro dalle narici mentre infilava la lingua nella sua bocca. Il bacio si chiuse in un sigillare delle loro labbra e quando le ridischiusero in un nuovo bacio il biondo trovò la lingua di Vilya ad accoglierlo nella bocca e a rispondere alle sue carezze.

“Mph…”

Una mano del più piccolo salì per reggersi sulla spalla nuda del fratello maggiore e trasferirvi parte del suo peso. Inarcò la schiena e il bacino, sporgendosi, creò una curva distinta sotto le lenzuola. Continuarono a baciarsi in silenzio, con il sottofondo del loro respiro e di piccoli schiocchi e suoni umidi. Poi So’o si staccò e aprì gli occhi su quelli di Vilya, che fece lo stesso.

Vilya sospirò, come di sollievo. Diede a So’o la sensazione che avesse aspettato molto tempo per quel bacio. Si soffermò a guardare le sue labbra, che dovevano essersi gonfiate leggermente per via dei baci. So’o le sentiva calde e bagnate. Il drow tornò a scrutare i suoi occhi.

“… e questo è perché ho cercato di salvarti?” Inarcò le sopracciglia con sarcastica sorpresa, provocandolo.
“Deficiente.” Gli rispose So’o con voce bassa, senza scomporsi.
Vilya tirò un lato del labbro in un ghigno accennato, che si smorzò poco dopo. Proseguì con voce graffiata.
“Lo sai che mi stai baciando perché sei sconvolto, vero?”
So’o premette le labbra in una smorfia vaga. Lanciò un’occhiata dalla parte opposta, poi tornò a lui.
“Non credo di essere talmente fatto di adrenalina da limonarti solo per quello, no.”
Vilya tornò a guardare la sua bocca e scrollò appena il capo.
“… non ho detto questo.” Sussurrò. Lo fissò di nuovo negli occhi.
So’o lo sostenne con il proprio sguardo determinato per molti secondi, prima di avvicinarsi e tornare a baciarlo.


Portò una mano ad accarezzare il viso del fratello mentre esplorava la sua bocca. La mano scese verso il collo ancora con un ritmo lento, saggiando la sua pelle. Sentì un braccio di Vilya insinuarsi sotto di sé per cingergli il fianco e tirarlo verso di lui. Si fece trascinare contro il suo corpo e per reggersi meglio poggiò la mano sul suo petto glabro, che riempì il palmo aperto. Mugugnò appena nella sua bocca e rincarò i baci, affamato.


 



So’o rimase accasciato su di lui e si prese del tempo per regolarizzare il respiro.

“… c’erano delle guardie fuori?”
Borbottò stranito Vilya, con voce impastata.
So’o scosse il capo. Non voleva dire ‘no’. Voleva dire ‘vuoi che me ne freghi qualcosa, in questo momento? ’
Era sicuro che Vilya avrebbe compreso l’antifona.






 
So'o e Vilya.
   
 
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