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Autore: Francine    22/03/2017    2 recensioni
Spagna, Febbraio 1979.
In un paese che si sta risvegliando dalla dittatura franchista, un giovane Shura si rifugia alle pendici dei Pirenei - lì dove è diventato Santo di Athena e dove inizia il Cammino di Santiago - per ritrovare se stesso e placare la mente dagli incubi e dai dubbi che lo tormentano dalla Notte degli Inganni.
Ma esiste davvero un angolo di pace per colui che ospita Excalibur nel proprio braccio?
Pre Episode G
Prima pubblicazione: 12.01.2006
Versione riveduta e corretta.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Capricorn Shura
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scripta Manent'
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La Canzone del Cavaliere
 

 
Cordova.
Lontana e sola.
Puledra nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
(Federico García Lorca, Canzone del Cavaliere, 1918)





Chi è stato ad un passo dall’annegare è pronto a sottoscrivere col proprio sangue che la presenza dell’acqua nelle vie respiratorie brucia quanto e più del sale sulle ferite aperte.
Se non stesse annegando, Rodrigo concorderebbe anche se non è esattamente acqua quella che lo sta soffocando. Si porta le mani alla gola, d’istinto; ha tenuto la bocca chiusa, l’assalto del fango gli ha spalancato le labbra ed è corso ad occupare ogni spazio della trachea, e poi giù, fino ai polmoni.
Il Capricorno si dimena, contorce la coda, rotola sul pavimento della cappella, la bava alla bocca e gli occhi spalancati che non vedono altro che un velo denso, nero, che sembra quasi volersi sostituire al suo corpo.
È freddo, lo sente evaporare a contatto con la pelle che, invece, ribolle.
Vorrebbe poter vomitare fuori tutto, ma la bocca è tenuta aperta dal fango e il movimento di discesa è più forte di lui. Spinge, spinge, spinge. Esofago, stomaco, narici, orecchie. La sostanza gli preclude ogni contatto con l’esterno, e lui teme che voglia arrivargli dritta al cervello, lasciandosi dietro una scia di bruciature sulla carne viva.
Persino Excalibur è inutile.
Morirò così?, si chiede mentre l’onda verde si richiude su di lui.
Buio.


Il battito del cuore gli arriva lontano, attutito, come quando da bambino aveva l’otite e Lupe gli infilava un batuffolo intriso di olio tiepido nell’orecchio malato. Ora si sommano anche delle voci, lontane, come un televisore lasciato acceso nella stanza accanto. Il suono è familiare anche se fatica a capire cosa stia succedendo, o di cosa stiano parlando.
«Infilzalo con la spada! Passalo da parte a parte, come un tordo!»
Diego. E Isabel. Parlano di lui. Parlano di eliminarlo. È Isabel ad aizzare il suo compagno. È furiosa. Cieca di rabbia. Vuole annientarlo ora che è inerme, ora che non può più torcere un solo capello al suo Diego.
«Portiamole la sua testa», propone, con voce sibilante.
Portiamole. Una donna, pensa Rodrigo. Apre gli occhi. È in una bolla, davanti ai suoi due nemici, e la membrana che lo separa dall’esterno sembra curiosamente proteggerlo dai suoi carcerieri. 
Diego lo fissa come farebbe con un ragno che ha costruito la propria tela a ridosso di un mobile pregiato. Il viso di Isabel è una maschera di livore, le unghie lunghe che assomigliano agli artigli di una pantera che non chiede altro che di ghermirlo e dilaniarlo.
Vogliono la sua testa per farne omaggio a colei che li ha riportati in vita. Ma di chi si tratta? E Diego, non aveva forse detto di non conoscere il loro, se così si può chiamare, benefattore?
Rodrigo spera con tutto se stesso di essere incappato nei classici cattivi da operetta, quelli che svelano il loro piano geniale e diabolico all’eroe in catene, convinti della sua eterna e prossima disfatta.
«Ne sarà lieta… », insiste Isabel, alimentando le speranze di Rodrigo.
«Può essere», le concede Diego, ben intenzionato a non sbottonarsi troppo. «Tuttavia, non sappiamo se egli accetterà, se incontreremo il suo favore.»
Egli? Ma non si trattava di una donna?
L’opzione «vecchio scienziato pazzo che rivela il piano all’eroe» non è praticabile. Può solo attendere che gli si avvicinino quel tanto che basta e tentare una sortita. 
Il fango pulsa, come a voler attirare la sua attenzione. 
Buio.


C’è un ragazzo che cammina per strada. È a Teruel, ma in un altro quando
Medioevo?, si chiede Ruy.
Il ragazzo passeggia sotto un palazzo. Gli pare di averlo visto strada facendo. No. L’ha scorto quand’è salito sul tetto della casa di Crostobal e ha visto una torretta brillare gialla nel tramonto, la stessa verso cui il ragazzo lancia ogni tanto un’occhiata distratta.
Poi Ruy vede una mano sporgersi e lanciare qualcosa che il ragazzo raccoglie all’istante e protegge nella cintura. Quindi scappa via, come se avesse il diavolo alle calcagna.
Buio.


Altra scena, stesso ragazzo, qualche anno più tardi. È in chiesa. Accanto a lui, un prete. Gli parla fitto fitto, come se gli stesse dando dei consigli. Lui annuisce, ma il suo sguardo è altrove. Alla statua della madonna. C’è una ragazza inginocchiata davanti a lei. Trecce nere e abito color corda, la ragazza prega e depone un garofano bianco ai piedi della statua benedicente. Accanto a lei, un donnone grosso e lucido come una palla di sego che si guarda intorno preoccupata. Fa finta di non vedere, ma si è accorta di chi sta osservando la sua padroncina, la quale ricambia con fugaci sguardi con la coda dell’occhio.
La ragazza si segna, si alza ed esce dalla chiesa.
Il ragazzo guarda il prete.
«So che è una pazzia, don Jaime, ma lo farò lo stesso.»
Buio.


Il ragazzo di prima. In un palazzo di arricchiti. Mercanti, forse. Lui e la sua famiglia, invece, hanno la dignità dei nobili decaduti. Seduto su una specie di scranno c’è un uomo con un gran naso e una folta barba a chiazze nera e a chiazze bianca. 
Alla sua destra, la moglie. Giovane. Bella. Ingioiellata come una statua da portare in processione. A sinistra, dei ragazzi poco più grandi del nobile decaduto, i figli del padrone di casa, a giudicare dalla somiglianza. In fondo, la ragazza che Rodrigo ha già visto in chiesa e, dietro di lei, il donnone vestito di arancio.
«E sia, acconsento», dice il vecchio. 
Il volto del ragazzo si illumina, come quello di lei.
«Tuttavia, don Diego», dice ancora l’uomo alzando una mano per frenare quella gioia, «devo chiedervi di dimostrarvi degno di mia figlia.».
«Chiedete pure, don de Segura.»
L’uomo sorride compiaciuto, mentre osserva il ragazzo cadere nella sua rete.
«Partirete alla ventura. Diverrete cavaliere sul campo servendo la mia casa. Vi chiedo di impegnare così i cinque anni che mancano a Isabel per poter diventare la vostra sposa.»
«Attenderò», risponde il giovane, ben sapendo in cuor suo che avrebbe incontrato degli ostacoli. Cinque anni.
Il vecchio sorride e a Rodrigo sembra che stia per calare una pugnalata in pieno petto al ragazzo.
Buio.


Alba.
Diego è a cavallo. Alle sue spalle un altro ragazzo, poco più anziano di lui. Jorge Mendoza de Carrion. Assapora questo nome. Sa di viscido. Isabel si avvicina e lega una manica del suo abito alla lancia. È azzurra, di stoffa leggera e lui vi vede sorgere un’aurora calda attraverso.
Buio.


Sole alto.
Fragor di battaglia e clangor di spade. Urla. Odore di morte, vita, merda, sangue e sabbia. Terra. Nella bocca, sulle mani, negli occhi. Il sole infuoca le armature e riverbera dalle lame. 
Jorge combatte accanto a Diego. La bandiera con la mezzaluna sventola nel cielo. Scimitarre. Urla moresche. Picche che s’infrangono contro gli scudi e cavalli veloci.
Il destriero di Diego è ferito all’addome da un fante nemico. S’impenna e cerca la salvezza nella fuga, portandosi dietro il cavaliere. La sella cede.
Jorge vede sparire il suo compagno, trascinato via nella polvere.
Buio.


Il fuoco del camino.
Una lettera che brucia.
Il riflesso delle fiamme su un diaspro rosso.
Buio.


È sera.
Il donnone passa il pettine tra i capelli lisci della sua madonnina. È stanca. Ha passato un altro giorno a ricamare il suo corredo. Sei mesi. Tra sei mesi la sua bambolina diventerà una sposa. Se ne andrà. E lei? Cosa farà lei?
Il donnone ricaccia indietro le lacrime. Non vuole guastarle questo momento, e Isabel è troppo stanca per accorgersene.
Bussano alla porta. Il donnone è perplessa. Chi sarà mai?
Entra la matrigna. Furente. I capelli sciolti oltre le spalle e le labbra serrate.
«Vestiti e scendi. Ora», e sparisce giù per le scale.
Isabel trema. «Diego! È successo qualcosa a Diego!», e si veste il più veloce possibile.
Esce. Il donnone resta con la spazzola in mano. Si avvicina alla porta e alla tromba delle scale, col cuore in gola. Sente Isabel gridare.
«Diego! Diego! Diego!!»
La spazzola cade a terra.
Buio.


Le fiamme del camino.
Una lettera che brucia.
Il riflesso del fuoco su un diaspro rosso.
Buio.


L’Autunno ha deciso di presentarsi in anticipo, quest’anno. Nei campi i contadini seminano grano e segale, piantano gli spauracchi per tener lontani gli uccelli, alcuni ritardatari arano al passo dei buoi.
Rodrigo vede lo stesso ragazzo cavalcare al passo in direzione di Teruel e delle sue torri. Ha il viso stanco, la barba sfatta e i segni della malattia si notano insieme alla magrezza. Una spada pende al suo fianco. È di buona fattura, lo si intuisce dall’elsa su cui spicca uno smeraldo grande quanto una noce. Opera dei mastri spadai di Toledo.
Il ragazzo in armatura conduce il cavallo al passo, nonostante la sete e la voglia di arrivare che gli fa torturare le redini tra indice e pollice della mano destra, la sinistra sul pomolo della sella.
La bestia è stanca. Ha galoppato da Toledo sino a Teruel in soli due giorni, rispetto ai quattro che s’impiegano in media. Soste a pranzo e per dormire, quando l’animale cadeva stanco morto al suolo. Non ha sufficiente moneta per cambiare cavallo alle stazioni di posta, e il rischio che la bestia muoia per lo sforzo è alto; tuttavia, sarà lui a morire se non avrà rivisto la sua Isabel. La pelle morbida, gli occhi neri, le spalle tonde, il seno florido…
Quante volte la mano di Diego aveva viaggiato lenta, inseguendo un fantasma?
Sorride al pensiero che presto, molto presto sarà la sua sposa, in carne, sangue e umori. L’abito della festa, la Chiesa, il pranzo con i parenti e vino rosso a litri. E aringhe sotto sale, e agnello alla burgalese, anatre ripiene di pesci, uva, mele arrosto e miele caramellato. E la faccia di don Jaime. Sarà lui a sposarli, lui che non credeva possibile che il vecchio gufo desse il consenso, lui che gli consigliava di lasciar stare.
Ha faticato, ma ne è valsa la pena. I Mori al sud, i predoni lungo la costa, i Baschi al Nord e vassalli turbolenti ad Est. È un cavaliere, ora. Armato e addobbato nientemeno che dal duca Ramiro di Toledo. È sopravvissuto alla peste. 
Il suo unico rimpianto è di aver perso Jorge nella battaglia. Gli hanno detto che è morto, calpestato dai destrieri arabi, e lui ha giurato che chiamerà il suo primo figlio maschio come il suo fido scudiero.
Io per te e tu per me.
Un carro alle sue spalle. Botti di vino grosse come cristiani e un ragazzetto rubicondo a cassetta. La strada è stretta. Gli chiede se può fargli la cortesia di lasciarlo passare. Dice che aspettano il vino per una festa. Una grande festa, e il cavaliere si domanda se, per caso, non siano già stati informati del suo ritorno a casa. Ma in che modo, se è partito subito dopo la sua investitura a cavaliere ed ha galoppato più veloce del vento?
«Che si festeggia?», chiede al ragazzotto.
«Un matrimonio», risponde questi e nella testa di Diego, come in quella di Rodrigo che osserva la scena, scatta qualcosa.
«Di chi?», domanda ancora il cavaliere. 
Il ragazzotto è stranito. Che importa a quel cencioso guerriero di chi sia la festa? Non penserà certo d’imbucarsi e gozzovigliare a spese altrui? Meglio non dire nulla, e non perdere tempo in ciance inutili, altrimenti il padrone gliele suonerà di santa ragione col bastio, come ai somari.
«Di qualcuno.»
«Rispondi, o non ti lascio passare», replica Diego minaccioso, così minaccioso che il ragazzotto trema tutto e dimentica i suoi propositi di poco prima.
«Don Jorge Mendoza de Carrion impalma donna Isabel de Segura.»
Buio.


Il vescovo, braccia alzate e il bastone dorato tra le mani, benedice gli sposi seduti a tavola.
Irrompe un cavallo nel giardino del palazzo. Tutti si voltano. I «Chi è? Chi è?» si rincorrono tra i tavoli. Un cavaliere. Armato. E male in arnese. Il cavallo stramazza a terra, bava alla bocca. Il cavaliere avanza verso gli sposi, barcollando. Si alzano i parenti.
«Diego!», grida Isabel.
Lo ha riconosciuto. In cuor suo sapeva che non poteva essere morto, non lui, non il suo Diego.
Joaquin, il fratello maggiore della sposa, interviene. Sono tutti felici di saperlo sano e salvo, anche se la sua faccia esprime l’esatto contrario. Batte le mani e chiede che si porti un piatto anche per il figliuol prodigo.
Diego grida. Non vuole mangiare né bere, vuole solo sapere perché la sua promessa sia andata in sposa al suo scudiero.
«Vi credevamo morto», risponde Joaquin tranquillo, mentre pensa che il suo fresco cognato non è neppure in grado di recidere per bene le corregge di una sella.
«Sono vivo!», urla disperato Diego.
Capisce che è tardi, che non hanno alcuna intenzione di annullare il matrimonio e che la ragione della sua vita appartiene adesso ad un altro. Le menzogne di Jorge, il fedele scudiero e amico che avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta; è tornato a casa con i suoi onori e le sue lettere ed è diventato un cavaliere.
Armerà il suo braccio. La sua famiglia sarà con lui, il duca Ramiro gli darà la sua protezione.
«Ho mandato delle missive…»
«Mai ricevute», afferma don José de Segura nascondendo le mani.
Interviene il vescovo. È saggio che Diego rinunci. È solo. Suo padre non ha retto alla notizia ed è morto. La madre ha raggiunto la sorella ad Ávila e suo fratello ha seguito re Sancho nella Crociata per liberare il Santo Sepolcro. Lui è solo. E loro sono tanti.
E il vescovo gli fa capire che non gli offrirà mai il suo appoggio.
Isabel è davanti a lui, vicina e lontana allo stesso tempo, come può esserlo una donna in un dipinto.
Non sarà mai sua.
«Un bacio. Solo un bacio.»
Implora. Lui, ventesimo pretendente al trono di Castiglia, implora un suo vassallo di concedergli quello che gli spetterebbe di diritto. Il mondo va alla rovescia.
Jorge, la serpe in seno, gli nega anche quel gesto di carità.
«Se acconsentissi, avallerei la mia malafede. Mi dispiace, don Diego, ma non è possibile. Ne va del mio onore.»
Il suo cuore si spacca.
Esce dal giardino, la testa bassa, senza dar peso ai commenti degli invitati. Chi sono loro per giudicarlo? Che vogliono da lui quelle sanguisughe buone solo ad ingozzarsi alle spalle altrui e a fare numero agli occhi dei poveri?
Il cavallo è morto. Diego lo supera, esce dal cortile del palazzo e si trova puntati addosso gli occhi dei passanti che l’hanno visto sfrecciare per le calli di pietra come fosse uno dei Cavalieri dell’Apocalisse.
«Largo, largo! Fate largo!»
È arrivato un carro. Botti grosse come un cristiano. A cassetta un ragazzetto rubicondo. Dice se lo fa passare anche lui. Dice che deve consegnare il vino per la festa.
La festa. Già. Il matrimonio.
Isabel.
Isabel s’è sposata…
Isabel…
Il sole è caldo sulla sua testa.
Isabel…
Cade al suolo, il cuore spaccato in due come una mela.
Buio.


La camera da letto.
Il donnone pettina Isabel. La sposa è vestita a lutto. Più che una persona sembra un automa, di quelli che si incontrano nei racconti che i saltimbanchi tengono durante le feste in piazza. Il donnone si chiede come si possa darle torto. Diego è morto, e lei con lui. È riuscita ad ottenere di occuparsi del funerale del suo amato promesso sposo.
«Il rifiuto di quest’uomo ha ucciso don Diego, il mio legittimo promesso sposo. Pretendo di occuparmi almeno della sua salma, prima che costui mi sfiori!», e anche la sua matrigna ha dovuto cedere.
La balia sa che in tutta quella brutta faccenda c’è lo zampino di donna Cristina, parente di Jorge, e si chiede se davvero l’ambizione e i soldi possano giustificare ogni azione. Quella donna non ha cuore, pensa, ma d’altro canto donna Cristina ha mai accostato al proprio seno la sua creatura, quella che ha avuto da don José – da don Joaquin – la primavera scorsa? 
Non sono più madre io, di lei?
«Balia Gonzala?»
«Sì, madonnina?»
«Stringete di più le trecce.»
«Ma, madonnina…»
«Stringete le trecce», e Isabel precipita nuovamente nel suo mutismo.
Gonzala ha paura, ma esegue lo stesso il desiderio della sua piccina. Le forcine fissano la chioma in una stretta acconciatura, e lei si alza, esangue. Vorrebbe consigliarle del bistro che le ravvivi un po’ l’incarnato, ma sta andando ad un funerale, non ad un ballo.
Isabel esce dalla stanza, testa ritta e sguardo assente, come una statua.
«Addio, balia», le dice con un sorriso spento, poi è fuori con un solo passo.
E Gonzala ha paura.
Buio.


La chiesa è deserta.
I parenti di don Diego sono stati avvisati, ma non arriveranno che a cose fatte. E il morto non può più aspettare. Isabel segue la bara dalla prima fila del corteo. È stanca. Ha vegliato il suo promesso e pianto tutte le sue lacrime. Il corteo entra in chiesa. Gli uomini depongono la bara ai piedi dell’altare illuminato da mille candele. Fanno per richiuderla ad un gesto di don Jaime, quando Isabel li ferma.
«Aspettate», dice loro deponendo una corona di garofani bianchi sul petto di Diego. «Lasciate che lo saluti per l’ultima volta», e si china su di lui.
Le sue labbra sono così fredde e il suo cuore si ferma in quell’istante. 
Crack.
Buio.


Continua a chiedersi il perché di quelle visioni. Cosa sono? Sogni? Ricordi? Frammenti del passato di Diego e Isabel? Ma perché vogliono fargli conoscere la loro storia? Per distrarlo? Per impedirgli di liberarsi?
Non ti muove a compassione il nostro fato?
Una voce. Uomo e donna insieme. 
Chi sarà?, pensa.
Non hai pietà per il nostro amore? A che è servito vivere? Perché nascere, allora, se non c’è una seconda opportunità?
Sa che non può perdere tempo a rispondere a quella voce. Sa che deve ricreare la genesi di una stella dentro di sé. E c’è solo un modo per farlo: porsi la domanda con cui Javier lo assillava durante l’addestramento. 
Perché sono nato, io?
«Se non trovi una risposta soddisfacente, fai pure fagotto e tornatene a casa tua», aggiungeva brusco accendendosi una delle sue sigarette senza filtro.
Quella domanda arrivava sempre nel momento più strambo della giornata. Si sarebbe aspettato che gliela ponesse durante l’allenamento quotidiano, o che costituisse il materiale su cui far lavorare il cervello durante le ore passate sulle rocce aguzze a meditare. Qualcosa simile a Chi siamo?Dove andiamo?, Da dove veniamo?, eccetera, eccetera, che lui si era effettivamente chiesto guardando un punto indefinito nel cielo terso e chiaro che spuntava da oltre i denti aguzzi dei Pirenei.
E invece no.

Javier è stato un maestro sui generis anche in quello. Lo riempiva di esercizi su esercizi, piegamenti sulle gambe appeso per i piedi ad un ramo a strapiombo sulle gole buie e senza fondo, gli faceva trascinare cataste di legna legate alla schiena nella neve alta un metro e mezzo abbondante, e mille e mille flessioni sul pavimento di assi di quercia, con Javier intento a leggere il giornale comodamente sdraiato sulla sua schiena.
Poi, quando il cervello dell’apprendista spegneva ogni interruttore e il suo corpo andava avanti in automatico, il maestro, zac, gli poneva quella domanda, affilata come un colpo di fendente.
«Ti chiedi mai perché sei nato, Ruy?»
Oh se se l’era chiesto! Così come s’era chiesto tante altre cose: perché proprio lui era rimasto orfano? Perché non l’avevano lasciato assieme a Burgos? Perché Javier l’aveva portato lassù sulle montagne grigie, tra mucche placide e capre dalle corna aguzze?
Non aveva mai trovato un risposta diversa dal boh? che gli faceva alzare le spalle e riprendere le normali attività. Non sapeva il perché, sapeva solo di essere stato clamorosamente sfortunato e che, forse, le cose potevano soltanto migliorare. Forse: non se la sentiva ancora di scartare l’opzione scavare dopo aver toccato il fondo.

La prima volta che Javier gli aveva fatto quella domanda, lui ricorda di aver risposto alzando le spalle, come a dire: «non lo so e nemmeno me ne importa».
Allora, il maestro si era alzato dalla poltrona accanto al camino spento, aveva lasciato da parte il camoscio che stava intagliando in un ciocco di legno che aveva attirato la sua simpatia, gli aveva preso il mento tra indice e pollice della mano sinistra e aveva sibilato: «Trova una risposta convincente, oppure fai fagotto.». Ed era serio.
«Diventare un santo di Athena?» aveva risposto, buttandosi nel vuoto. E gli era andata bene.
Javier aveva fatto una smorfia simile ad un sorriso e gli aveva lasciato la faccia.
«Può essere un inizio», e l’aveva lasciato in pace per quasi tre mesi buoni.
Poi, in una sera di fine novembre, mentre la cena era pronta in tavola, le patate stavano finendo di cuocersi sotto la brace e lui stava per portare alla bocca la prima cucchiaiata di minestra, zac, Javier gli aveva chiesto con voce flautata: «Ti chiedi mai perché sei nato? Qual è il tuo scopo, a questo mondo?».
E anche lì, stessa pantomima, lui che rispondeva con un’espressione insicura e Javier che gli indicava la porta.
Alla fine aveva compreso e che razza di gioco stesse giocando il suo maestro. C’erano due scopi in ballo: il primo era quello di far crescere in lui la consapevolezza di ciò che stava facendo, di fargli comprendere che c’erano dei motivi dietro tutti quegli allenamenti al limite del sadico cui si sottoponeva ogni santo giorno, piovesse, nevicasse o cascasse il mondo; il secondo scopo era quello di farlo abituare a vedere le cose da diversi punti di vista, ad ampliare le prospettive, ad avere diverse angolazioni. E insegnargli a trovare di conseguenza nuove soluzioni.
Aveva smesso di tormentarlo quando aveva finalmente risposto, sbottando: «Per quale altro motivo vuoi che sia nato? Perché sono un Santo di Athena, no? E perché sono l’unico e il solo cui la dea possa affidare Excalibur».
Javier aveva sorriso soddisfatto e non aveva commentato oltre.

Sono un Santo di Athena e sono l’unico cui la dea abbia potuto affidare Excalibur.

No, non è ammissibile morire così, non ora, non adesso, non in questo modo.
Il suo Cosmo riluce nel buio in cui è immerso, lo può veder brillare anche ad occhi chiusi lungo la sua pelle, le braccia, le gambe, i capelli, il diadema con le corna ritorte verso l’alto, il giaco e gli schinieri. È oro, oro puro, dai bagliori caldi e attraenti.
Non può morire, non adesso, non può lasciarsi sconfiggere da due morti che si sono rianimati; Ade, il nemico contro cui Athena si batterà, sta per rinascere a nuova vita e ci sarà bisogno di tutti i Santi devoti alla dea. E adesso ci sono degli innocenti da salvare, prima che sia troppo tardi.
Mio Cosmo, compi il miracolo ancora una volta.
L’energia di Shura si concentra tutta in un raggio dorato che fora la bolla e schizza in alto, oltre i tetti e il cielo, oltre l’atmosfera, sino alla Costellazione del Capricorno. Le stelle entrano in risonanza con quel Cosmo e lo deflettono indietro, verso la Terra e quel figlio che ha bisogno di aiuto. Deneb Algedi risponde all’appello, anni luce più in basso, e riversa su di lui una pioggia d’oro e potere che scende turbinando verso quel puntolino azzurro.


Le persone ammassate oltre il posto di blocco hanno sentito solo un gran fracasso provenire dal cuore della vecchia Teruel, seguito da un luce dorata che splendeva e rischiarava la notte salendo verso il cielo, prima di sparire oltre le nubi. Tra la gente che si segna, tra chi si perde a fissare quello strano fuoco d’artificio, e chi suda freddo, Hernán si volta verso Gregorio.
«Cosa pensi sia successo?»
«E chi lo sa? Chi ci capisce più niente?», risponde questi torcendo con più forza il barbone da cappuccino.
«Ma potrebbe essere? Sì, insomma, potrebbe darsi che…?», insiste l’uomo tornando ad osservare la sagoma della torre della chiesa di San Pedro. «Che succederebbe, allora?»
«Non lo so!», l’interrompe Gregorio, livido in viso. «Non. Lo. So. Dobbiamo soltanto aver fiducia in lui. L’ha scelto il Sacerdote, che sa il fatto suo, e anche se le apparenze possono ingannare, sono sicuro che il nobile Shura abbia più frecce al suo arco di quelle che noi possiamo immaginare. Quindi, stai calmo e goditi lo spettacolo.»
«Ma c’è un ragazzino di sedici anni laggiù! Come puoi dirmi di starmene zitto e buono a guardare?», sbotta Hernán del tutto dimentico del sergente García che fissa entrambi stupefatto, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Senti amico», gli risponde Gregorio mettendogli una mano sulla spalla. «Quel ragazzino di sedici anni è un Santo d’Oro, non una mezza cartuccia come te e me. Se non ce la fa lui…»
Pausa.
«Se non ce la fa lui?»
«Allora, è arrivata l’Apocalisse.»
Hernán fissa gli occhi decisi del compagno e dal suo tono di voce comprende che deve fidarsi. Deve rimettere tutta la sua esistenza e il suo futuro nelle mani di uno sbarbatello col vizio di parlar poco e con un pesante accento del nord.
«Siamo venuti qui per dare una speranza a queste persone. Sai dirmi cosa accadrebbe se ci lasciassimo andare e perdessimo la calma? Eh? Te lo dico io, sarebbe il panico», prosegue Gregorio digrignando i denti ad ogni parola. «Quindi fammi un favore: calmati e stai buono. E aspetta il ritorno del nobile Shura.»
Gregorio si allontana, le mani nelle tasche del cappotto, verso il sergente García, che sembra avere l’aria più stralunata del solito.
«Che accade?»
Hernán lo sente rivolgersi al suo compagno, con gli occhi dilatati dalla paura di non capire che stia avvenendo attorno a lui e ai suoi piedini da fata.
Gregorio mormora qualche scusa poco convincente ed Hernán si guarda intorno: i curiosi che erano presenti al momento del loro arrivo sono dimezzati non appena è calata la sera. Gli irriducibili piantonano le transenne di legno sfidando la Guardia Civil in un gioco di sguardi poco rassicurante. Una donna, settant’anni sulle spalle curve, se ne sta imbacuccata e seduta sulla sua sedia di vimini a fissare lo spettacolo di luce che si accende e spegne in mille bagliori dorati. Tutte le sue cose sono ammassate accanto alla sua sedia, dal televisore alla radio, alle pentole alla fotografia del suo matrimonio che tiene in grembo.
Non vorrai distruggere le speranze di tutte queste persone, vero Hernán? E allora, calmati, respira a pieni polmoni e pazienta, si dice tornando a fissare la torre della chiesa di S. Pedro. Anzi, una cosa che può fare c’è: aiutare il giovane Shura con il suo Cosmo. 
Almeno questo.
 


 
 

 









Note:  note ridotte all'osso, quest'oggi. Ho anticipato l'aggiornamento di un paio di giorni, perché i miei tempi stanno diventando sempre più instabili e incerti, sicché avevo un attimo di tempo e ne ho approfittato, infischiandomene del mio essere una procrastinatrice indeffessa quale io sono.

   
 
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