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Autore: ___Page    22/03/2017    6 recensioni
Law non capiva e non voleva nemmeno capire. Quello che Law voleva in quel momento era la mamma.
...
«Mi dispiace. Non piangerò e lavorerò perciò, ti prego, non uccidermi.»
...
«Una cosa?»
«Proiezione mentale.» ripeté atono Law, come se fosse ovvio.
Lei rimase interdetta per un attimo, prima di riscuotersi. «Tu pensi che io sia una proiezione mentale?»
«Io so che tu sei una proiezione mentale.»
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Koala, Trafalgar Law
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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TONIGHT
 



It's another bad dream…

Poison in my blood stream

I'm dying but I can't scream
 

Il caldo era insopportabile. Avrebbe voluto muoversi e cambiare posizione, strisciare via dall’ammasso di cadaveri come i vermi cominciavano a strisciare sulle carogne di quelli che si trovavano in fondo della pila. L’odore della carne in putrefazione e del sangue fresco era insopportabile, gli si era attaccato alla gola e alle narici ed era certo che non se ne sarebbe liberato mai più.
Ma, anche se aveva l’impressione che la pelle gli si stesse sciogliendo, anche se aveva i crampi per la prolungata immobilità, anche se aveva lo stomaco massacrato dalla puzza di cadavere, Law sapeva che doveva restare immobile dov’era. Doveva restare lì, tra i corpi senza vita di donne e uomini che aveva conosciuto o che non aveva mai visto ma con cui aveva condiviso la patria. Una patria che ormai era solo cenere e sangue e qualche focolaio non ancora estinto ma che presto sarebbe stato soffocato dall’intervento di un qualche ammiraglio che avrebbe messo tutto a tacere.
Law non capiva e non voleva nemmeno capire. Quello che Law voleva in quel momento era la mamma.
Voleva la mamma e voleva piangere e voleva scappare via dalla pila di cadaveri che schiacciavano le sue esili spalle ma non poteva avere niente di ciò che desiderava. Perché la mamma non c’era più, piangere era troppo pericoloso e i cadaveri la sua ultima speranza di salvezza. Avrebbe abbandonato quel mattatoio quando sarebbe stato sicuro che più nessuno gli avrebbe sparato a vista. Sarebbe sopravvissuto, non per molto certo, non più di quel che il decorso della malattia gli avrebbe permesso. Ma sarebbe stato abbastanza. Abbastanza per appagare la sete  di sangue e vendetta e morte che sentiva crescere dentro di sé ogni instante che trascorreva lì sdraiato in mezzo alle carogne crivellate.
La Marina non si sarebbe preso anche la sua vita. No, lui sarebbe sopravvissuto, sarebbe sopravvissuto, sarebbe sopravvis…
Riaprì gli occhi di scatto e sollevò appena il capo per riuscire a scuoterlo e scacciare il torpore che minacciava di sopraffarlo.
Non poteva dormire.
Se si fosse addormentato, avrebbe rischiato di perdere il momento propizio. Se si fosse addormentato avrebbe dovuto rivivere tutto di nuovo.
Gli spari, le esplosioni, le urla. I suoi genitori morti con i proiettili di due caricatori in corpo. Le fiamme che avevano divorato l’ospedale e quel che restava della vita di sua sorella. Strinse i denti con rabbia quando si accorse di avere le guance bagnate.
Non doveva piangere. Si asciugò il viso nella manica di un cadavere gettato accanto a lui.
Non doveva piangere. Piangere gli faceva sentire ancora di più la mancanza della mamma. E il pensiero che la mamma e il papà potessero essere tra quei corpi, resi irriconoscibili dalla deflagrazione dell’incendio, gli faceva venire ancora più voglia di scappare via.
Non doveva piangere ma non riusciva a smettere. Faceva male, tutto faceva così male. Le ossa, i muscoli, la pelle, il cuore. Le mani si strinsero spasmodiche intorno al braccio inerme della ragazza che guardava il cielo senza poterlo più vedere. Law serrò la mascella così forte fino a sentire dolore alla mandibola, in un gesto che lo faceva sembrare così adulto, in un gesto che lo rendeva così simile a suo padre, e pressò il viso contro il fianco della giovane donna, per soffocare i singhiozzi.
Il suo corpo era ancora caldo o forse era solo il maglione che indossava e, stranamente, i suoi capelli biondi emanavano un profumo che sembrava essersi salvato dal puzzo di morte che impestava la fossa comune. E, per un attimo, per un breve attimo, Law si dimenticò di tutto, del pericolo e della prudenza, del dolore e della realtà e pianse, convinto di essere di nuovo al sicuro tra le braccia della mamma. Pianse, attento nonostante tutto a non fare rumore. Pianse, finché il sonno non approfittò della sua momentanea distrazione per vincerlo.
 
***
 
L’odore di morte e decomposizione era scomparso. Il peso sulle sue spalle dissolto. Il pizzicore alla pelle causato dalla malattia, dal caldo e da qualche verme di passaggio era stato sostituito dal piacevole solleticare del vento. Lo sciabordio delle onde lo cullava gentile nel sonno ristoratore da cui stava lentamente riemergendo.
Sarebbe bastato un profondo respiro per risprofondarci dentro e l’idea era molto allettante ma non abbastanza da non permettergli di notare che c’era qualcosa di profondamente sbagliato e fuori posto.
Lottò contro la stanchezza e aprì lentamente gli occhi rivolti verso la volta stellata. Una sconfinata spiaggia bianca e candida, che rifletteva la luce argentea della luna, si estendeva a perdita d’occhio ai suoi lati e si scontrava, di fronte a lui, con un altrettanto sconfinato mare. Alle sue spalle, una scogliera di pietra grigia chiazzata di verde, impossibile da scalare. Law si guardò intorno spaesato.
Dov’era Flevance e dov’erano le carcasse dei suoi concittadini? Dov’era l’odore di carne e cemento bruciati? Dov’era finita casa sua?
Granelli di sabbia scivolarono sotto le sue unghie quando Law artigliò la spiaggia in preda al panico. Lo avevano scoperto e abbandonato su un’isola completamente deserta. Sapeva che non si sarebbe dovuto addormentare. Sapeva che era una questione di vita o di morte eppure era stato debole e aveva ceduto al richiamo del sonno e ora… ora lui sarebbe… morto.
Il bambino aggrottò le sopracciglia.
Non aveva senso. Non aveva alcun senso.
Il rischio più grande che correva era venire bruciato insieme agli altri cadaveri ma se anche qualcuno lo avesse sentito piangere subito prima che si addormentasse, nessuno avrebbe mai osato toccarlo. Lo aveva visto bene quanto quegli stupidi marines senza pietà fossero terrorizzati dalle macchie bianche sulla loro pelle. Sì, era certo che se anche qualcuno lo avesse scoperto quel qualcuno gli avrebbe ficcato una pallottola in fronte, mantenendosi a debita distanza. O, se anche avesse avuto abbastanza fegato da avvicinarsi, lo avrebbe tutt’al più gettato in mare con una zavorra legata ai piedi.
Ma mai, nessuno di quegli uomini, per quanto sadico fosse, si sarebbe preso la briga di portare un malato terminale di sindrome del piombo ambrato su un’isola deserta, solo per farlo morire di fame.
Quindi, dov’era?
Si mise in piedi e avanzò, barcollante e malfermo, verso la riva. Si stupì quando, fatti pochi passi, sentì l’acqua tiepida lambirgli i piedi. Gli era parso molto più lontano, l’oceano.
E si stupì ancora di più quando, guardando istintivamente in basso, scoprì di essere scalzo, i pantaloni arrotolati a metà polpaccio. Eppure era certo di non essersi sfilato le scarpe così come nemmeno, notava solo in quel momento la sua assenza sul proprio capo, il cappello. Lanciò un’occhiata oltre la propria spalla ma non c’era traccia di nessuno dei due indumenti abbandonati sulla spiaggia, dietro di lui. A essere precisi poi, i vestiti che aveva addosso in quel momento non corrispondevano a quelli che indossava quando la follia distruttiva che aveva colpito la sua isola era cominciata.
Ma, soprattutto, la sua pelle non presentava nemmeno la più piccola macchia bianca.
Sollievo e urgenza lo travolsero in ugual misura. Stava sognando, non era abbandonato a se stesso su un’isola deserta. Ma se stava sognando significava che stava ancora dormendo e nemmeno questo andava bene. Doveva sbrigarsi a tornare dall’altra parte. Ogni momento sarebbe potuto essere quello giusto per fuggire. Ogni momento sarebbe potuto essere quello sbagliato per abbassare la guardia.
Anche se quel luogo profumava di libertà e dall’altra parte lo aspettava solo oppressione, puzza e voglia di distruggere. Ma era deciso a sopravvivere e niente lo avrebbe distolto dal suo obbiettivo.
A grandi passi tornò verso il solco nella sabbia che aveva la forma della sua sagoma e si inginocchiò per sdraiarsi di nuovo quando la sensazione di non essere solo gli mandò una scarica lungo la schiena. Si girò di scatto e fece vagare lo sguardo avanti e indietro lungo la riva.
Non la notò subito, nella penombra. Ma l’impressione di avere visto una sagoma attirò l’attenzione di Law abbastanza a lungo da darle il tempo di raggiungere la fetta di luce che la luna proiettava sulla spiaggia.
Law trattenne il fiato. «Lamy…» soffiò sottovoce, osservando la bambina che barcollava senza meta.
Si rimise in piedi e corse verso di lei. Non gli importava se era un sogno. Non gli importava se stava perdendo tempo prezioso e rischiando tutto. Voleva riabbracciare sua sorella, lo voleva a qualunque costo.
Se non che quella bambina non era affatto Lamy. Se ne accorse solo a pochi passi da lei e si fermò bruscamente. Capelli in disordine, viso sporco, vestita di stracci. Law rabbrividì quando si accorse che il cencio che indossava per maglietta era lacero sulla schiena e in quei punti la pelle della bambina era aperta a mostrare la carne viva, sporca di sangue tutto intorno alle ferite.
«Ehi.»
Una parte di lui non si era ancora convinto che quella non fosse Lamy. L’età, la statura, il colore dei capelli erano più o meno quelli di Lamy. Era una sua proiezione mentale, poteva benissimo essere sua sorella. Ma se ne convinse quando vide gli occhi della bambina.
Quegli occhi erano tutti sbagliati. Il colore, un misto di blu e viola difficile da definire, non era quello degli occhi di Lamy. Ma quegli occhi sarebbero stati tutti sbagliati sul viso di chiunque.
Vitrei, opachi, spenti, senza vita. Senza traccia del sorriso che la bambina gli stava rivolgendo.
«Mi dispiace…»
Law smise di scrutarla negli occhi e tornò a guardarla in viso, perplesso. «Cosa…»
«Mi dispiace. Non piangerò e lavorerò perciò, ti prego, non uccidermi.»
Law sgranò gli occhi scioccato.
«Di che stai parlando?»
«Mi dispiace di aver rovesciato l’acqua. Non succederà più.»
«S-smettila!»
«Ti prego, non picchiarmi. Tornerò subito nello stanzino della punizione e non piangerò. Non uccidermi, per favore.»
«Smettila non ho nessuna intenzione di picchiarti o ucciderti!»
«Non piangerò…»
«Non mi hai sentito?»
«Per favore, non uccidermi.»
«Smettila!!!»
L’urlo di Law riecheggiò nella solitaria isola, contro la parete rocciosa, sulla sabbia candida, fermando l’inquietante cantilena. La bambina si zittì ma nulla cambiò nella sua espressione. Si guardarono per un lungo istante, Law con il fiato grosso, lei rigida come un tronco e immobile, immobile finché non si inginocchiò ai piedi di Law in un goffo inchino, ignara della sua espressione scioccata.
«Grazie. Grazie, prometto che non sbaglierò più. Lavorerò e non mi lamente rò. Grazie, grazie. Grazie davvero. Grazie. Gr…»
«BASTA!!!»
La bambina si ritrovò di nuovo dritta sulle gambe con Law che le stringeva le spalle e la scuoteva con violenza, urlandole in faccia. «Basta, basta, basta!!! Sei al sicuro, chiaro?! Smettila! Smettila, sei al sicuro ora!!!» 
Per un attimo tutto parve fermarsi. Per un attimo Law si chiese se stesse davvero parlando con lei e di lei. Poi qualcosa nel sorriso della bambina si spezzò ma i suoi occhi non si riempirono di lacrime come Law si sarebbe aspettato. E, di nuovo, Law non capiva. Se era un sogno, se era una sua proiezione, perché non si comportava come lui si aspettava? Perché, anziché piangere, lo guardava come se non capisse nemmeno che lingua stesse parlando?
«Al… sicuro?» domandò spaesata la piccola. Law si limitò ad annuire. «Cosa significa “al sicuro”?»
Law sbatté le palpebre interdetto. Che razza di scherzo gli stava giocando la sua mente? Era completamente impazzito? Non aveva più un briciolo di senno in corpo? Come poteva la mente di un bambino di dieci anni concepire un sogno tanto orribile?
«Significa…» Law deglutì a vuoto. «…che nessuno può farti del male.»
La bambina sgranò gli occhi e schiuse le labbra, metabolizzando le parole del moro. «Non è possibile.» sussurrò e la stretta di Law sulle sue spalle aumentò.
«Sì invece!» la scosse ancora una volta, prima di obbligarla a voltarsi e guardarsi intorno. «Sei al sicuro! Guarda! Non c’è nessuno qui, non c’è nessuno! Nessuno può farti del male! Sei al sicuro con me!»
Gli occhi ancora grandi come due fondi di bottiglia, la piccola si girò di nuovo verso di lui, sempre incredula. «Con te?» chiese e Law colse qualcosa nel suo tono che lo fece rabbrividire. Colse speranza.
Una speranza che non aveva la forza di spezzare. «Sì. Sei al sicuro quando sei con me.» ripeté, deciso.
La bambina si voltò completamente verso di lui, allungando le manine a stringere il davanti della maglietta di Law. «Al sicuro…» mormorò, come se stesse cercando di memorizzare una parola nuova e difficile da pronunciare.
«Sì.» ripeté ancora Law, sfinito.
Era sfinito e lentamente si ritrovò a scivolare nella sabbia, trascinandosi dietro la bambina, che seguì senza opporre resistenza il suo movimento.
«Al sicuro.» disse ancora la piccola, mentre si sdraiavano nella sabbia e lei si accoccolava contro il suo petto. «Al sicuro.»
«Sì.» Law la strinse e le permise di affondare il viso nella sua maglietta. «Sei al sicuro…» L’insensato impulso di chiederle il suo nome cercò di farsi strada in lui ma Law lo ricacciò indietro.
Non aveva un nome, era solo una sua produzione mentale. E anche se ce lo avesse avuto, non voleva saperlo.
Voleva fingere di avere Lamy tra le braccia un altro po’.
“Solo un altro po’” pensò mentre chiudeva gli occhi.
 
***
 
Will you show me the way?
 

Era tornato.
Il caldo, l’odore di carne in decomposizione e di cenere, il bruciore sulla pelle. Tutto era tornato. Lui era tornato. Tornato tra i cadaveri che lo schiacciavano e circondavano. Tornato a quella vita a cui era deciso a rimanere aggrappato come era aggrappato al cadavere, ora non più così profumato, di quella ragazza bionda.
Era tornato in quel mondo che gli avrebbe dato il voltastomaco anche senza tutto quel puzzo a circondarlo. Law era tornato e quando aprì gli occhi capì anche che era ora di andare, che era giunto il momento. Era fuori da Flevance, aveva superato il confine.
Soppresse gemiti di dolore quando concesse al proprio corpo di ricominciare a muoversi per strisciare fuori dall’ammasso di cadaveri. Chiuse gli occhi per sopportare i crampi e per un attimo la sua mente fu invasa dal viso della bambina. Law riaprì veloce le palpebre e riprese a strisciare.    
Ora sapeva cosa significava quel sogno, sapeva perché l’aveva fatto e chi era quella bambina. Era il suo memorandum. Lei era lì per ricordargli cosa un essere umano era capace di arrivare a fare a un altro essere umano. A un bambino. A una bambina come sua sorella. 
Lei era il simbolo di un mondo marcio fino al midollo che, ormai, aveva intaccato anche lui.
 

 
§
 
In the darkest night…

 
Stava sognando.
Era certo di stare sognando perché il senso di oppressione al petto era sparito e non c’era modo per cui da sveglio potesse sentirsi libero da quel peso.
Per questo non si stupì quando capì di essere in mezzo alla neve, nonostante avesse abbandonato Minion da una settimana ormai.
Anche se il ghiaccio in cui era seduto fosse stato vero, comunque, Law dubitava che avrebbe sentito freddo.
Da sette giorni, non provava più niente. Che fosse caldo o freddo, fame o sete o sonno. Paura o determinazione. Da sette giorni, Law non provava più niente se non dolore e rabbia. Anche quando sognava, anche in quel momento.
Perché sì, il senso di oppressione non c’era più ma quella era solo la parte fisica del suo dolore. Il male al cuore, quello lo martoriava ormai senza posa notte e giorno, tanto che Law se lo sarebbe voluto strappare.
Si prese il capo tra le mani, distrutto dalla sofferenza, distrutto dal senso di colpa. Voleva cancellare le immagini che si susseguivano nella sua testa in ordine sparso, senza dargli tregua, notte e giorno, voleva cancellare il rumore di quei tre spari che si era impresso a fuoco nella sua mente, voleva cancellare quello che era successo. Ma non poteva. Che fosse sveglio o addormentato, era destinato a reiterare quel momento ancora e ancora e ancora.
Strinse le mani a pugno contro le tempie, soffocando un verso che sembrava l’urlo di una belva ferita.
Perché? Perché era morto? Per cosa, poi? Per lui?! Poteva esserci un motivo più stupido e inutile per morire?! Lui?! La sua stupida, stupida vita a cui lui si era stupidamente aggrappato! Se solo avesse accettato il suo destino a Flevance tre anni prima, tutto quello non sarebbe successo! 
«Stai male?»
Una mano si posò tra le sue scapole tremanti. Law sollevò la testa di scatto e trattenne il fiato. Nonostante il caos in cui versava la sua mente, la riconobbe all’istante. I capelli erano ancora in disordine ma almeno la salopette e la maglia che indossava erano pulite, così come il suo viso. E i suoi occhi, ancora impauriti, non erano più opachi e vacui come li ricordava.
C’era qualcosa in fondo alla sua iride viola, una luce fioca che però Law vedeva bene. Che Law conosceva bene. La voglia di aggrapparsi a qualcosa, di aggrapparsi a una vita che forse non valeva nemmeno la pena di essere vissuta. Lui ne aveva appena avuto la prova.
A sopravvivere aveva ottenuto solo di uccidere l’unica persona al mondo a cui avesse mai voluto bene e che gli avesse mai voluto bene, dopo lo sterminio di Flevance. Stava guarendo, era vero, ma a che prezzo?
«È successo qualcosa?» chiese la ragazzina, senza scostare la mano dalla sua schiena.
Law si rese conto che la stava ancora fissando senza vederla. Gli angoli degli occhi presero a pizzicargli e la rabbia ribollì nel suo stomaco e su fino alla gola.
«Vattene.» sibilò il ragazzo, alzandosi in piedi e allontanandosi da lei. Affondò con i piedi nella neve fresca e dopo neanche un metro si fermò, gli occhi chiusi, prendendo profondi respiri per cercare di calmarsi.
«Mi dispiace se stai male.»
Law riaprì gli occhi incredulo. Era ancora lì? Cosa ci faceva ancora lì?
Era il suo sogno, quello. Com’era possibile che ogni volta che quella  ragazzina appariva lui non riuscisse ad avere più alcun controllo sul proprio sogno?
«Anche io sto ancora tanto male.» proseguì lei, imperterrita, anche se lui non aveva dato segno né di essere interessato, né di averla sentita. «Ma ora sono libera sai? Non so come tornare a casa però sono libera. Non… non come vorrei. Ho ancora tanta paura ma ora, almeno quando dormo, riesco a essere serena.»
«Buon per te.» vomitò fuori Law, il tono carico di rabbia e rancore, quasi fosse colpa di quella ragazzina se lui non riusciva a stare bene nemmeno nel sonno. «Ora lasciami stare. Vattene dal mio sogno.»
Non gli serviva il memorandum, non gli serviva ricordarsi che il mondo era marcio. Lo sapeva, lo sapeva bene, il mondo lo aveva intaccato e lui aveva intaccato Cora e tutto, tutto era marcio e niente aveva più senso.
«Qui puoi essere sereno se vuoi. Sei al sicuro.»
Law le lanciò un’occhiata da sopra la propria spalla, le iridi sbiancate dalla rabbia e dall’incredulità.
«Me lo hai detto tu che qui siamo al sicuro.» ripeté la ragazzina e Law cominciò a tremare.
«Tu non sai niente!» sibilò, avanzando furioso verso di lei. «Non si tratta di me! Non sono io il problema! Sono gli altri che non sono al sicuro con me! Io sono marcio, lo capisci?! Io sono marcio dentro  e sarei dovuto morire tre anni fa e invece sono qui e sono vivo e Dofla mi vuole e nessuno, nessuno sarà mai al sicuro con me!!!» le gridò in faccia tutta la sua frustrazione, la consapevolezza di essere destinato a una vita di solitudine e senso di colpa e rimpianto. Senza un obbiettivo, senza nulla a cui aggrapparsi.
Il fiato gli morì in gola quando una mano piccola e calda si posò sulla sua guancia, con innocenza.
«Io sì.» affermò la bambina e Law sgranò gli occhi, guardando dritto dentro ai suoi, la finestra su un animo spezzato che pure non aveva ancora smesso di lottare. Esattamente come lui tre anni prima. «Io sono al sicuro con te. Sono al sicuro quando sono con te.»
Stava ancora lottando. Non la sentiva più, la determinazione che gli aveva permesso di salvarsi dal massacro di Flevance, ma d’altra parte erano giorni che non sentiva più niente. Era fin troppo chiaro il messaggio che il suo cervello gli voleva lanciare con quel sogno.
Era spezzato, era sfinito ma non era ancora arrivato il momento.
Non poteva ancora arrendersi. Prima doveva portare a termine la missione di Cora. La missione che Cora non aveva potuto finire a causa sua, per salvare la vita a lui.
Faceva male ma doveva lottare. Faceva male ma doveva vivere e rendere giustizia all’uomo che gli aveva fatto da padre. All’uomo che lo aveva guarito e che, solo ora se ne rendeva conto, gli aveva anche lasciato in eredità una ragione per vivere.
Chiuse gli occhi e piegò il capo di lato, premendo la gota contro il piccolo palmo.
«Qui siamo al sicuro.» ripeté la bambina. «Qui puoi essere sereno. Puoi essere sereno quando sei con me.»
Law non rispose. Si limitò ad ascoltare quelle parole, ripetute con lo stesso tono cantilenante che la stessa ragazzina aveva usato tre anni prima per implorarlo di non ucciderla. Questa volta non gli dava fastidio. Questa volta, in qualche modo, era rassicurante. E Law non rispose, per non interromperla, e si limitò ad ascoltare finché il corpo non ritornò pesante e scivolò piano nella neve fresca, che si dissolse lentamente mentre usciva dal sogno e ritornava dall’altra parte. 
 

§
 

If the world goes blind and I lose my mind
Will you show me the way?

 
Le foglie secche scricchiolarono sotto la suola degli stivali mentre si avvicinava alla grotta, in mezzo alla foresta. Le fronde rosse degli alberi intorno a lui permettevano al sole di filtrare a fatica nel sottobosco, creando un malinconico gioco di luci. E malinconia era esattamente ciò che si respirava nell’aria.
Law non si chiese cosa ci facesse lì e perché stesse approcciando quella piccola caverna. Non c’era bisogno di trovare una risposta. Era solo un sogno.
Entrò senza esitare nel rifugio naturale che si apriva nella roccia e avanzò ancora di qualche passo, abituando gli occhi alla penombra, la nodachi pigramente appoggiata alla spalla, prima di notarla, sdraiata a terra e con la schiena rivolta verso di lui.
Fece volutamente rumore, calpestando un mucchietto di foglie più alto degli altri, per avvisarla della propria presenza. Lentamente, si girò a guardare chi fosse l’intruso.
«Oh, ciao.» lo salutò, inespressiva.
Law aggrottò le sopracciglia, perplesso, quando lei si rigirò senza aggiungere altro. Se non aveva niente da dirgli, perché la stava sognando?
Deciso  ad arrivare in fondo alla questione, Law si postò di lato e si sedette a qualche passo dai suoi piedi, la nodachi appoggiata sulle gambe incrociate, in attesa. Lei cercò di ignorarlo ma dopo poco più di un minuto si arrese, snervata dal suo sguardo puntato addosso, e si mise a sua volta a sedere a gambe incrociate, fronteggiandolo.
Law la studiò qualche istante. Non era più una bambina ma non si poteva nemmeno definire ancora una ragazza. Era chiaro che fosse ormai alla soglia della pubertà e qualche forma si cominciava a intravedere sotto la maglietta a righe bianche e azzurre. Aveva i capelli più lunghi dell’ultima volta e Law si chiese, di nuovo, perché la sua mente si ostinasse ad apportare quei cambiamenti in lei. L’impressione che stesse crescendo insieme a lui, come se fosse una persona reale, non era per niente sana a suo avviso. Anche se, in qualche contorto modo, aveva senso dal momento che era una parte di lui.
Quell’ultima considerazione lo riportò al cuore della questione. Cosa ci faceva lì? Qual era il messaggio?
L’ultima volta che l’aveva sognata, più di un anno prima ormai, lei era a pezzi e in lacrime per la scoperta della morte di un certo zio Tiger che le aveva salvato la vita ma Law non si era più di tanto stupito, dal momento che mancavano pochi giorni all’anniversario della morte di Cora. L’aveva consolata, constatando quanto meglio stesse, i capelli non più ispidi ma lisci e lucenti, il viso di nuovo pieno, nonostante fosse contratto in una smorfia di dolore, vestiti puliti e adatti a lei. Ora, oltre ad avere addosso abiti sgualciti e i capelli tirati indietro con un elastico, come se così lunghi le dessero noia ma non avesse la possibilità di tagliarli, Law non poté non notare come fosse più smagrita e tirata e, soprattutto, la sua espressione arrabbiata e addolorata al tempo stesso.
Stava per chiederle cosa volesse dirgli ma lei lo precedette.
«Sei cambiato.» constatò, squadrandolo attentamente. «Sembri quasi un uomo.»
Law si passò meccanicamente una mano sulla mandibola, su cui da qualche mese aveva cominciato a crescere una leggera peluria che non poteva ancora chiamare barba e che gli adombrava appena le guance. A sedici anni si rendeva conto di dimostrarne di più e la cosa volgeva solo a suo favore.
«Che hai sul petto?» chiese ancora e Law abbassò lo sguardo, incuriosito. Le felpe erano il suo indumento preferito ma non era la prima volta che, in un sogno, si ritrovava con addosso vestiti che nemmeno possedeva. Nella fattispecie, una maglietta grigio-blu con uno scollo leggermente a V, abbastanza profondo da lasciar intravedere il tatuaggio che, di recente, gli adornava il torace. Stava valutando di farne anche uno sugli avambracci.
«Non lo sai?» chiese Law, sollevando scettico un sopracciglio.
«Dovrei?» ribatté lei, arcuandole entrambe.
Law rimase per un attimo perplesso ma poi decise di seguire il flusso del sogno, nella speranza di trovare più rapidamente una risposta. «È un tatuaggio. Forse il Jolly Roger della mia ciurma, sto ancora valutando.» si strinse nelle spalle, come se non fosse niente di importante.
«Sei diventato capitano di una ciurma!» esclamò lei e, per un attimo, rabbia e dolore l’abbandonarono e i suoi indaco brillarono di orgoglio e contentezza. Law si sentì a disagio sotto quello sguardo compiaciuto. Non era tipo da autocompiacersi ma si era ormai abituato al fatto che quella proiezione non gli desse mai retta.
Si schiarì sonoramente la gola, distogliendo lo sguardo. «Siamo in due per il momento, ma abbiamo in programma di trovare altri compagni.» Law tornò a guardarla colpito da un pensiero. «Pen avrà più o meno la tua età.»
Sì, nonostante la luce nei suoi occhi e il modo di parlare fossero molto più adulti, Law era certo che non potesse avere più di tredici o quattordici anni e forse era quello il fulcro della questione. Forse quel sogno riguardava Pen e per questo lei gli appariva così cresciuta. Ma cosa poteva esserci che non andava con Pen?
«Che succede?» si accigliò, Law.
Lei lo osservò per un breve istante, colta alla sprovvista, poi rabbia e dolore tornarono a riempirle gli occhi e fu il suo turno di distogliere lo sguardo. «Sono stati loro. I miei concittadini e mia… mia madre.» caparbia, si asciugò una lacrima ribelle con il dorso della mano. «Loro hanno consegnato zio Tiger alla Marina. Lui mi ha riportata a casa e loro lo hanno mandato a morire. E pensavano anche che non lo avrei scoperto!» pestò furiosa un pugno nel terriccio ricoperto di foglie e Law sobbalzò appena, perplesso.
Si reputava una persona intelligente, anche più della media, ma qui si stava proprio perdendo i pezzi. Che razza di messaggio era?
«Così…» riprese lei, sollevando la mano e ripulendo il fianco dalla terra e dai pezzetti di foglie. «…me ne sono andata. Sono scappata e ho intenzione di unirmi ai Rivoluzionari. Ho sentito che da loro non fanno distinzioni tra esseri umani e uomini-pesce.»
Law aggottò le sopracciglia senza più parole. «Rivoluzionari?».
La ragazza si girò di scatto a guardarlo, con aria di sfida. «Sì!» confermò, il mento sollevato con fierezza. «È per caso un problema?»
Law sollevò entrambe le sopracciglia e soppresse l’impulso di ghignare. «No. Ma sei una proiezione mentale molto strana e indisciplinata.» le rispose e fu il turno della ragazza di aggrottare le sopracciglia.
«Una cosa?»
«Proiezione mentale.» ripeté atono Law, come se fosse ovvio.
Lei rimase interdetta per un attimo, prima di riscuotersi. «Tu pensi che io sia una proiezione mentale?»
«Io so che tu sei una proiezione mentale.»
«Io non sono una proiezione mentale! Sono una persona! Una persona vera che ogni tanto finisce nei tuoi sogni e ogni tanto ti ritrova nei propri! Per inciso, questo è il mio sogno!»
Law non rispose per alcuni secondi, sconcertato, per poi aprirsi in un ghigno di scherno. «Certo, come no?»
«È vero!» si alterò lei, stringendo i pugni.
«Va bene, come vuoi.» concesse il moro, alzando le mani ai lati del viso, lasciando intendere che non ci credeva nemmeno un po’. Con suo stupore, la ragazzina si alzò in piedi, furente.
«Smettila!» sibilò, tremante di frustrazione. «Non trattarmi come una bambina! Non sono una bambina! Ho dovuto smettere di essere una bambina a quattro anni! Perché nessuno lo capisce?! Sei come loro! Come tutti loro!» pestò un piede a terra, la voce a un’altezza normale ma la rabbia palpabile nei suoi gesti e nel suo tono. «Pensavano che non lo avrei scoperto, pensavano che anche se lo avessi scoperto lo avrei accettato! Tanto sono troppo piccola per fare qualsiasi cosa ai vostri occhi vero?!»
«Non ho detto questo.» si accigliò Law ma ormai lei era un fiume in piena. Si allontanò a grandi passi da lui e si avvicinò all’ingresso della caverna, i pugni ancora stretti lungo i fianchi, lo sguardo perso sulla foresta all’esterno.
«Ma glielo dimostrerò. Gli farò vedere cosa può fare una ragazzina come me. Gli farò vedere che io posso davvero fare la differenza. E non per loro né per me. Lo farò per zio Tiger. Per finire quello che lui ha iniziato.»
Lo disse senza una sola esitazione. Lo disse con così tanta determinazione che sembrava fosse già una realtà. Lo disse con così tanto coraggio che Law rabbrividì di emozione. E, finalmente, il messaggio era chiaro.
Era solo un piccolo memorandum perché non si arrendesse. Insolito, perché mai era stato tanto convinto dei propri obbiettivi come in quel periodo, non necessario ma comunque apprezzato e bene accetto. Aiutandosi con la nodachi, si rimise in piedi e si avvicinò a lei che continuò a voltargli le spalle, testarda.
Si irrigidì appena quando Law le posò una mano sulla spalla ma non si sottrasse al suo tocco.
«Non temere.» mormorò Law, puntando a sua volta lo sguardo sulla foresta tinta di rosso, giallo e ocra. «Renderemo loro giustizia.»
 
§
 

…when I need your light
Will you show me the way?

 
«Oh dannazione…» la voce uscì arrochita dalla sua bocca mentre, sdraiato in mezzo a qualcosa di morbido e molto profumato, le mani intrecciate dietro la nuca, una gamba piegata e l’altra stesa, si guardava intorno con sguardo appannato. La volta notturna era trapunta di stelle ma difficile da vedere attraverso i rami carichi di petali rosa, che ricoprivano anche il suolo in ogni suo centimetro.
Fiori di ciliegio, chiaramente. Che, uniti al rumore del ruscello che scorreva lì accanto e alle lanterne aranciate spenzolanti dai rami, creavano nel complesso un’atmosfera che non si sarebbe potuta identificare se non come romantica.
«Lo so, ho esagerato questa volta.» Law girò il capo verso di lei. Era sdraiata su un fianco, accanto a lui, braccia e gambe abbandonate tra i petali e il suo immancabile sorriso sul volto. «È che sono innamorata dell’amore oggi.» aggiunse, con un sospiro trasognato.
Law sollevò un sopracciglio. Si era rassegnato a sognarla anche senza un motivo e aveva smesso di cercare un significato nascosto in tutte le sue apparizioni. A volte era ancora il suo memorandum ma sempre più spesso era semplicemente un’onirica compagnia. Era certo che fosse il caso di quella sera, perché lui non si sentiva innamorato proprio di un bel niente.
«Era proprio necessario coinvolgermi?» domandò con tono piatto.
«Sei tu che sei nel mio sogno.» protestò lei, facendogli roteare gli occhi. Si era rassegnato anche al fatto che lei continuasse a sostenere di essere una persona reale, ormai. Non che ci credesse, ovviamente. «E non negare che lo trovi bello anche tu.»
Law tornò a guardarla. Fissò per un attimo i suoi occhi grigi in quelli indaco di lei prima di concedersi di squadrarla rapidamente. Indossava un kimono di seta giallo oro, con un raffinato disegno bianco e rosso, gli stessi colori del piccolo kanzashi che le trattenevano indietro i capelli sul lato destro, e l’obi blu scurissimo. Posato in mezzo a loro, giaceva un ombrellino parasole chiuso, in tinta con la spessa cintura annodata a fiocco sulla sua schiena, che camuffava le sue prosperose forme.
Aveva diciassette anni, ormai, o almeno lei così sosteneva, ed era lontana anni luce dalla bambina che aveva sognato per la prima volta quella lontana notte a Flevance. Nel corpo come nello spirito. Era diventata bella, piena di vita e di voglia di farcela, di ottimismo e coraggio, di luce e calore. Identica a lui sotto alcuni aspetti, il suo complemento sotto gli altri. Il suo memorandum, che fosse per ricordargli tutto ciò che era o ciò che non era ma che, nel profondo, se avesse voluto, sarebbe potuto essere.
«Non mi fa né caldo né freddo.»
«E allora perché lo sti sognando?»
«Credevo fossimo nel tuo sogno.» rispose, dopo pochi secondi.  
Lei socchiuse gli occhi indagatrice. «Credevo di essere una tua proiezione mentale.»
Law si girò a sua volta sul fianco, sfiorando l’ombrellino parasole con la mano. «Stai insinuando che tutta questa è opera mia?» domandò, accigliato, ottenendo di farle allargare ancora di più il sorriso.
«È solo una logica conclusione basate sulle tue convinzioni. È così impossibile?»
Law fece finta di rifletterci qualche istante, guardandosi rapidamente intorno un’altra volta. «Che io sogni il giardino dei mille petali rosa, attraversato dal ruscello di sciroppo di glucosio? Sì, abbastanza.» rispose con sarcasmo, sorridendo sghembo. «Senza contare che non mi piacciono le righe e nemmeno le carpe koi.» ci tenne a precisare, riferendosi alla fantasia bianca e blu degli hakama e al ricamo dorato sulla schiena dell’haori. Non che si fosse soffermato sul proprio abbigliamento. Sapeva che era così e basta.   
«Mi spiace deluderti ma non sapevo nemmeno che stessi arrivando, figuriamoci sceglierti i vestiti.» commentò lei mentre, afferrato l’ombrellino, balzava in piedi con agilità, nonostante la molta stoffa che le arrivava fino alle caviglie e l’altezza vertiginosa degli okobo, calzati sui piedi nudi. Law si puntellò sugli avambracci e sollevò il busto. «Comunque, dal momento che sei qui, temo proprio che ti toccherà accompagnarmi sul sentiero che costeggia il ruscello di sciroppo di glucosio.»
«Oppure potrei rimanere qui a sonnecchiare tranquillo, senza nessuno che mi disturbi.» ribatté prontamente il pirata.
La giovane si voltò con espressione incredula verso di lui e poi portò al petto la mano libera dal tenere l’ombrellino appoggiato alla spalla, in un gesto sofferente. «E mi lasceresti sola in questo luogo, proprio oggi che mi sento così romantica?»  
«Precisamente.» annuì Law, tornando a sdraiarsi tra i petali, nella stessa posizione in cui si era “svegliato” poco prima. Chiuse gli occhi, godendosi il silenzio.
«Okay!» rispose lei dopo pochi attimi, stringendosi nelle spalle, per niente scocciata o delusa dal rifiuto del moro.
Law riaprì gli occhi e piegò il capo solo per scoprire che si stava effettivamente allontanando senza di lui e, con suo sommo stupore, senza nemmeno una protesta. Testarda com’era, non provava a insistere neanche un po’? Fu più forte di lui, non riuscì a trattenersi e si mise a sedere di scatto, sollevando qualche petalo e provocando solo un lieve fruscio, che non sfuggì alle orecchie di lei e fu sufficiente perché si fermasse.
Law attese pochi attimi e quando capì che non si sarebbe voltata per prenderlo in giro, che non avrebbe fatto commenti sul suo scatto improvviso, rispettando il suo carattere discreto, che anche lei era in attesa, smise di tergiversare e si affrettò a mettersi in piedi, sbilanciandosi appena in avanti a causa della particolare forma dei geta. Riguadagnò prontamente l’equilibrio e si schiarì appena la gola, mentre afferrava i baveri dell’haori in seta blu e li tirava appena per rassettare l’indumento. Si avviò, camminando tra i petali che ricoprivano il suolo come una coltre di neve rosa, sollevati a tratti dal suo passaggio e a tratti dalla tiepida brezza che gli scompigliava i capelli.
Fece solo pochi passi prima di fermarsi di nuovo, gli occhi socchiusi, colpito da un dettaglio. Un segno rosso spuntava dal colletto del kimono giallo di lei, portato morbido per lasciare scoperto il retro del collo e una piccola porzione della sua schiena pallida. Ci mise una manciata di secondi a capire che era il raggio di un sole che probabilmente occupava tutto lo spazio disponibile tra le sue scapole e che sembrava essere stato marchiato a fuoco sulla sua pelle liscia.
Si perse ad osservare la sinuosa curva che faceva capolino, richiamando con il suo colore acceso la decorazione del kimono e il kanzashi, e tornò appena in sé appena in tempo per accorgersi che aveva sollevato la mano con l’intento di accarezzarle il collo, non coperto dai capelli tagliati in un caschetto sbarazzino. Law deglutì a vuoto, sconvolto da se stesso, ma non abbassò la mano.
Per un attimo soltanto, più breve di un battito di cuore, desiderò che fosse vera.
Ma la razionalità non tardò a riprendere possesso della sua mente e il pirata scosse la testa energicamente e si affrettò a raggiungerla e affiancarla, ostentando noncuranza, la nodachi, che neanche si era accorto di avere con sé ma che aveva meccanicamente recuperato da terra, appoggiata alla spalla destra.
Lei gli lanciò un’occhiata di striscio e spostò l’ombrellino parasole sulla spalla sinistra, così da poter agganciare la mano al gomito libero di Law, che si irrigidì per una frazione di secondo ma non si scostò e non provò nemmeno a negare quanto il suo tocco sembrasse reale e quanto fosse confortevole.
Ma non poteva permettersi di farsi influenzare da ciò che il suo corpo gli stava suggerendo. Doveva tenere a mente che si trovava in un sogno, strano per essere suo ma innegabilmente un sogno, e che non poteva rischiare di perdersi là sotto, per quanto allettante fosse.
Tutto ciò che poteva fare era cercare di dargli senso.  
 «Sai…» mormorò mentre ricominciavano a passeggiare tra i ciliegi in fiore e sotto la volta stellata. «…Stavo pensando di tatuarmi il Jolly Roger in versione più grande. Magari sulla schiena.»
«Dai?!» esclamò lei. «E da dove ti è venuta l’idea?»
 
§
 

If the darkness falls, and my angel calls
In my despair
Will you be there?
 
Il rumore dei suoi passi riecheggiava nella valle arida. In un primo momento Law aveva pensato di essere in Piazza Gyoncorde ma il suolo non aveva nulla del fondale marino. Un ovale di terra dura e rotta in tanti tasselli poligonali da cui si sollevava una tremolante coltre rovente.
Nonostante il color rosarancio delle nuvole che venavano il cielo azzurro, che già virava al blu, suggerisse che il sole stava tramontando dietro le pareti rocciose inclinate che circondavano il sito, il caldo era tale che Law aveva l’impressione che la sua pelle si sarebbe potuta sciogliere. Non che lo trovasse sconfortevole. Per la prima volta in vita sua agognava di sentire la pelle ribollire di caldo. Una volta tanto era stufo del freddo.
Ciò che non gli piaceva, di quel sogno, era il silenzio. Il laboratorio di Punk Hazard era immenso e silenzioso e ne aveva abbastanza di riuscire a sentire persino il movimento dei propri globuli rossi su e giù per le vene, pompati da un cuore che per il momento non dimorava nel suo petto. Ma anche lì, in quel luogo che la sua mente aveva creato per dargli, in teoria, un po’ di conforto, gli unici rumori erano le sue suole contro la nuda terra e lo strisciare delle rocce che, per un qualche strano fenomeno fisico, scivolavano intorno a lui sul suolo arido senza l’aiuto di interventi esterni. A Law non importava scoprirlo. Avrebbe solo voluto che fossero più rumorose per evitare di sentire il fracasso dei propri pensieri.
«Credevo che odiassi il caldo.»
 Law si arrestò, per niente sorpreso.
«Ogni tanto arrivo a sentirne la mancanza persino io.»
«Isola invernale?»
«Una specie.» ribatté Law, lo sguardo fisso di fronte a sé.
Un nuovo rumore di passi riecheggiò nella valle arida quando lei si mosse per raggiungerlo e affiancarlo, le mani infilate nelle tasche dei calzoncini abbinati a una leggera camicia bianca. Sentì il suo sguardo blu e denso squadrarlo da capo a piedi ma non accennò a girarsi verso di lei, almeno finché non parlò di nuovo, cogliendolo alla sprovvista. «Trafalgar Law, il Chirurgo della Morte. Chi avrebbe mai detto che ero amica di una superstar della pirateria.»
Law la osservò impassibile per una manciata di secondi prima di sentenziare: «Dovresti smettere di comportarti come se non sapessi già tutto di me.» 
Lei sobbalzò appena, colpita dal suo tono freddo come il ghiaccio, per poi aggrottare le sopracciglia un po’ indignata. «E tu dovresti smettere di comportarti come se avessi capito tutto e cominciare a darmi retta quando ti dico che io esisto davvero.» mormorò, decisa ma meno battagliera di quel che avrebbe voluto. Law emanava freddezza da ogni poro ed era la prima volta, in tutti quegli anni, che si sentiva a disagio in sua presenza.
Non le piaceva, non le piaceva neanche un po’.
«Se non volevi vedermi, potevi evitare di chiamarmi!» alzò un po’ di più il tono, la voce lievemente incrinata, alla disperata ricerca di una sua reazione, una reazione qualsiasi che non si fece attendere.
«Chiamarti?!» Law si girò scioccato verso di lei.
«Pensi che sia io a scegliere di ritrovarmi nei tuoi sogni?!»
«Credevo di sì visto che sei una persona vera.» sibilò con disprezzo il pirata, lasciando intendere quanto trovasse ridicola quella possibilità. La ragazza sostenne il suo sguardo glaciale, senza muoversi di un millimetro e anzi trattenendosi per non spingere sulle punte dei pedi, con l’intento di sembrare più alta e accostare il proprio viso al suo in segno di sfida.
«Perché ti da così fastidio l’idea che io possa essere reale?» domandò lei a denti stretti, tremante di rabbia e frustrazione. Lei non aveva mai dubitato un solo istante di lui.
«Non mi da fastidio. Semplicemente non ci credo. Se sei reale come fai a sapere tutt’a un tratto chi sono? La mia taglia gira da più di due anni e l’hai scoperta solo adesso?»
«Non eri di alcun interesse per i Rivoluzionari finché non sei diventato uno Shichibukai e io non immaginavo che…»
«Sì, certo. I Rivoluzionari di cui fai parte.»
Lei rimase interdetta per un attimo, ferita dal tono scettico e lievemente esasperato di Law. Non capiva, davvero, non capiva cosa lo urtasse tanto. Anche se non credeva che fosse vera, non capiva perché non potesse semplicemente accettare i sogni così com’erano.
«Sì, esatto! I Rivoluzionari di cui faccio parte da quando ho tredici anni! I rivoluzionari di cui sono istruttrice di karate degli uomini-pesce e prova a spiegarti questo con una bella proiezione mentale delle tue, se ci ries…» il fiato le si mozzò in gola quando le mani di Law le strinsero le spalle fino a farle male.
«Smettila!!!» urlò, scuotendola. Lei sgranò gli occhi, scioccata non dal grido rabbioso ma dai tremiti violenti che lo agitavano e dalla luce supplice e sofferente nei suoi occhi. «Smetti di comportarti come se fossi vera!!! Rendi solo tutto più difficile!!!»
Il silenzio che seguì le ferì le orecchie ma resistette all’impulso di alzare le mani per premerci contro i palmi e cercare di bloccare il fischio che le stava penetrando i timpani. Rimase immobile, gli occhi fissi su Law che non aveva ancora smesso di tremare, la mascella serrata, gli occhi spalancati, le sopracciglia contratte. La presa del pirata sulle sue spalle cambiò senza allentarsi, come se lei fosse la sola cosa in grado di sostenerlo e permettergli di reggersi ancora sulle proprie gambe. Rimase immobile, preoccupata che anche solo un soffio di vento lo avrebbe potuto far crollare.
Poi, dopo un tempo che le parve infinito: «Di che stai parlando?» domandò in un soffio, calma ma con il groppo in gola.
Law sobbalzò, preso in contropiede dalla dolcezza con cui gli aveva parlato nonostante la sua violenta reazione e qualcosa si spezzò in lui. Serrò le palpebre e imprecò tra i denti quando le prime lacrime ruppero gli argini. Piegò il busto in avanti per complicare ai singhiozzi il tragitto verso la sua gola, con scarso successo. Lo sentì mormorare qualcosa e subito avvicinò il capo a quello di lui per capire.
«Non voglio morire.»
Trattenne il fiato, pregando di aver sentito male.
«Io non… non voglio morire.» ripeté Law, più forte. «Non mi è mai importato il mio… unico obbiettivo è s-sempre stato f-fin… finire quello che Cora-san… che Cora-san aveva iniziato ma ora… ora n-non voglio morire.»   
Si avvicinò di un altro passo mentre lui arrivava a conficcare i polpastrelli nella carne delle sue spalle.
«Sono un egoista!» singhiozzò disperato. «Non sono voluto morire quando ero un bambino e solo per questo Cora-san si è sacrificato per me e ora che posso finalmente ripagarlo… c-con c-che diritto c-chiedo di non morire? C-con che diritto ho p-paura?! Con che diritto…»
Spalancò gli occhi umidi e appannati di lacrime quando le mani di lei gli circondarono il viso. Così delicate, calde e rassicuranti. Law sbatté rapido le palpebre per poterla almeno intravedere dietro la coltre salata che gli oscurava lo sguardo e rimase colpito dalla sua espressione determinata ma sempre, immancabilmente illuminata da un sorriso.
«Non sei un egoista.» sentenziò, irremovibile e dolce. Le sue mani salirono lente ad asciugargli le guance, ispide di barba. «Hai un mucchio di ragioni per voler vivere.» a sfilargli piano il cappello. «Hai la tua ciurma. Sei un uomo libero e il mondo è così grande. Hai ancora così tanto da vedere e da imparare.» a immergersi nei suoi capelli spettinati, in una rassicurante carezza. «Lui avrebbe voluto che vivessi una vita lunga. È morto perché tu potessi vivere una vita lunga e felice. E poi ci sono…» si zittì di colpo e la parola “io” rimase sospesa nell’aria tra loro per una manciata di secondi prima che lei concludesse: «Ci sono gli altri Shichibukai che di sicuro non sarebbero contenti di dover già cambiare uno dei loro membri un’altra volta.»
Una mezza risata tremolante sfuggì alle labbra di Law che solo in quel momento si rese conto di essere in ginocchio, la fronte appoggiata alla sua spalla e le braccia intorno al suo corpo minuto, alla disperata ricerca di conforto, con le braccia di lei a circondargli il capo e la bocca a un soffio dal suo orecchio, per riuscire a farsi sentire sopra i suoi singhiozzi. La sentì sorridere contro la sua tempia.
«Vivi. Non sei l’unico a volerlo.» 
Law se la trascinò contro, annullando completamente la distanza tra i loro corpi e dando libero sfogo a tutta la paura, la tensione e la stanchezza. Tremò quando sentì i singhiozzi diminuire e le lacrime seccarsi, tremò al pensiero che lei potesse lasciarlo andare nel sentirlo più calmo ma la ragazza non accennò ad allentare l’abbraccio e Law sospirò sfinito contro il suo collo.
«Possiamo… possiamo solo fingere che tutto questo sia reale? Ancora per un po’.»
Gli posò un bacio sulla tempia. «Sì, certo che sì. Possiamo fingere quanto vuoi.»
 
 
§
 

If my time runs out        
And the sky falls down

 
Aprì un occhio incuriosito, senza muoversi dalla posizione semisdraiata, la schiena appoggiata al tronco di un albero – Bepo ne stava approfittando per trascorrere un po’ di tempo con la propria famiglia – e le mani intrecciate sulla nuca. Non stava dormendo, in fondo, aveva solo chiuso gli occhi per staccare un attimo la testa e godersi il clima tiepido di Zou, su cui sarebbero stati ancora per poco, il tempo di terminare i preparativi per la partenza verso Wa. Nella penombra da poco calata sull’isola semovibile, non ci mise molto a distinguere le quattro figure che, a pochi metri da lui, si agitavano e parlavano concitate, passandosi di mano in mano un Gabbiano News.
«Che cosa?!» esclamò Usopp mentre allungava la mano verso Zoro per prendere il giornale, che però fu strappato di mano al samurai prima che il cecchino potesse afferrarlo. Law si accigliò perplesso dal gesto inusuale e agitato della perennemente calma e pacata archeologa.
Osservò Robin allontanarsi di qualche passo dal resto dei compagni e non gli sfuggì come le tremassero le mani mentre girava le pagine, scandagliandole con i suoi grandi occhi blu.
«Ehi Pen?» chiamò, senza nemmeno girarsi a verificare che fosse lì.
Sapeva che era lì.
Pen continuò a occuparsi del proprio nunchaku, che stava pulendo e lucidando con cura, seduto a gambe incrociate sul dorso di Zunisha i capelli fulvi liberi dal cappello. 
«Sì se vuoi dopo lucido anche la nodachi.» rispose prontamente il ragazzo senza nemmeno sollevare la testa.
Law seppe all’istante che nessun altro della ciurma era presente perché Pen si prendeva certe libertà solo quando non c’era il rischio di minare l’autorità del Capitano davanti al resto dei compagni. D’altra parte, quando erano solo loro due, a Pen veniva naturale rivolgersi così a quello che era in tutto e per tutto, tranne che nei geni e nel sangue, suo fratello maggiore. E la cosa era reciproca.
«Grazie. Ma tu sai cosa succede?» chiese il moro, senza lasciarsi scappare l’offerta di Pen, che a quelle parole sollevò gli occhi su Law, incuriosito. Con un cenno del mento, Law gli indicò i Mugiwara di fronte a loro. Pen osservò la scena, Usopp che gesticolava fuori di sé con un impassibile Zoro che lanciava a intermittenza occhiate verso Robin, lo sguardo fisso sul giornale e il corpo irrigidito, a pochi passi da Franky che tentennava, chiaramente combattuto tra il volersi avvicinare per confortare la nakama e il lasciarle i propri spazi, due fiumi di lacrime che gli scorrevano sulle guance.
«…so, Usopp.»
«Bisogna avvisarlo in qualche modo!»
«Nami riceve sempre il Gabbiano News, lo saprà già.» cercò di farlo ragionare Zoro. 
«Ma non possiamo esserne certi!»
Pen si strinse nelle spalle, perplesso quanto il proprio capitano. «Non ne ho idea.»
Con un movimento agile e fluido, Law si mise in piedi e si diresse senza troppi complimenti verso i propri alleati, deciso a scoprire cosa li agitasse tanto, che la cosa gli concernesse o meno. Voleva capire che genere di stati mentali stava per far salire sul proprio sottomarino. In meno di dieci passi li aveva già raggiunti. Scambiò un’occhiata solidale con Zoro, cercando di comunicargli con lo sguardo che era disposto a smembrare Usopp per lui, dato che lo spadaccino non poteva farlo senza porre fine all’esistenza del proprio melodrammatico nakama, prima di superare l’imponente mole di Franky e proseguire verso Robin.
«Nico-ya, che succede?»
«…così calmo, Zoro?! Barbanera ha raso al suolo Baltigo!!!»
Law si girò verso Usopp, incredulo. Aveva sentito bene? L’Armata Rivoluzionaria era stata sconfitta?
Fece per chiedere spiegazioni, districandosi razionalmente tra le mille domande che gli affollarono in un attimo la mente, ma, prima di poter aprire bocca si ritrovò tra le mani il giornale, mentre Robin lo superava per tornare verso i propri compagni.
«Oppure è stato Dragon.» sentenziò l’archeologa, tornata calma e serafica come sempre.
Sulla prima pagina del quotidiano campeggiava una foto delle sede dell’Armata ridotta a un cumulo di macerie fumanti, sovrastato dalla scritta “BALTIGO IN ROVINA” a caratteri cubitali.
«Robin ma di che stai parlando?» chiese Franky, scioccato dall’affermazione della nakama.
Law continuò a ignorarli, leggendo il trafiletto che seguiva, un breve riassunto dell’articolo più esteso che si trovava all’interno insieme alle foto di tutti i Rivoluzionari di cui si conosceva con certezza l’identità.
«Dragon non avrebbe esitato a distruggere la sede dell’Armata una volta evacuati tutti pur di non far cadere certe informazioni nelle mani sbagliate.»
Aprì il giornale e scorse rapido con gli occhi il resoconto dell’accaduto, nient’altro che un cumulo di supposizioni  e ipotesi senza fondamento e senza utilità. Lasciò perdere quasi subito e si dedicò a esaminare il mosaico di volti che occupava la pagina di destra. La prima fila era formata unicamente da due caselle, leggermente più grandi delle altre, raffiguranti, stando alle didascalie abbinate, Leader dell’Armata Rivoluzionaria – Monkey D. Dragon  [Stato attualmente sconosciuto] e Comandante in capo dell’Armata Rivoluzionaria – Sabo [Stato attualmente sconosciuto] . Aveva sentito Cappellaio parlare di lui, chiamandolo “mio fratello”, e si augurò che il ragazzo stesse bene.
«Ad ogni modo non ci sono notizie su eventuali morti o feriti. Se Dragon o Sabo fossero stati uccisi o catturati sarebbe stata quella la notizia da prima pagina.»
Subito sotto Dragon, riconobbe al colpo d’occhio la folta capigliatura che sapeva, dai tempi di Marineford, essere di un osceno color glicine. Ufficiale dell’Armata Rivoluzionaria, Comandante Terza Divisione  – Emporio Ivankov [Non presente al momento dell’attacco].
«Sei preoccupata per gli altri, vero?» sentì Zoro domandare. «Non sono tutti così famosi.»
Law continuò a esaminare il mosaico, ascoltando solo con un orecchio la conversazione che proseguiva a due passi da lui. Combattente dell’Armata Rivoluzionaria, Quarta Divisione – Bunny Joe [Stato attualmente sconosciuto] diceva la foto di un tizio con un’atroce cascata di boccoli castani. E poi ancora, Combattente dell’Armata Rivoluzionaria, Quarta Divisione – Terry Gilteo [Stato attualmente sconosciuto], Sottoufficiale dell’Armata Rivoluzionaria, Vicecomandante Terza Divisione – Inazuma [Non presente al momento dell’attacco].
Robin sospirò. «Se qualcuno anche di poco famoso fosse morto lo avrebbero scritto.»
Ufficiale dell’Armata Rivoluzionaria e istruttore di karate degli uomini-pesce, Comandante Seconda Divisione – Hack [Stato attualmente sconosciuto]. Law si soffermò un po’ di più sulla foto dell’uomo-pesce dall’aria arcigna e folti baffi prima di spostarsi sulla foto accanto.
«Mi preoccupano gli eventuali feriti o dispersi.»
Il suo cuore si fermò per un lungo, lunghissimo attimo, il sangue gli si gelò nelle vene e il fiato gli si mozzò in gola.
Non era possibile. Non poteva essere davvero lei. Lei… Lei non esisteva, era solo frutto della sua immaginazione. Lei…
Era lì stampata sul giornale, radiosa come sempre. Era impossibile sbagliarsi. Gli occhi grandi e brillanti, il caschetto sbarazzino, il sorriso luminoso. Tutto prese a vorticare intorno a lui.
«Per non parlare dei possibili ostaggi di Teach.»
Poi la voce di Robin lo riportò alla realtà e Law si affrettò a cercare la didascalia con un solo pensiero in testa.
“Non presente al momento dell’attacco. Non presente al momento dell’attacco. Ti prego, ti prego, dimmi che non era presente al momen…”
Sottoufficiale dell’Armata Rivoluzionaria e istruttrice di karate degli uomini-pesce, Vicecomandante Seconda Divisione – Koala [Stato attualmente sconosciuto].
«Potresti provare a metterti in contatto con qualcuno di loro.»
«No. Se li stanno cercando potrei accidentalmente rivelare la loro nuova posiz...» Robin non riuscì a finire la frase quando Law passò in mezzo a loro, sbattendo il giornale nelle mani di Franky con violenza e tornando da dov’era venuto senza nemmeno una parola.
Lo osservarono allontanarsi, straniti.
«Ma che gli è preso?» domandò Usopp, perplesso almeno quanto Pen quando si vide il Capitano arrivargli incontro a passo di carica.
Il rosso balzò in piedi. «Law, va tutto bene?» chiese preoccupato mentre si accodava a lui.
«Hai portato la valigetta del primo soccorso sull’isola?» domandò Law, senza fermarsi, lo sguardo sempre fisso di fronte a sé.
«Come sempre.» annuì Pen, sempre più basito. «Ma che co…»
«Mi serve dell’anestetico. Sonnifero. Qualcosa per dormire.» lo interruppe Law, accelerando verso l’accampamento dei suoi uomini, dove Pen aveva sicuramente lasciato la valigetta – che Law definiva del primo soccorso ma che in realtà era una specie di mini-infermeria portatile –. «E mi serve subito.»   
 

***
 

Despite my fear…
Will you appear?

 
Quel sogno non era suo. Non c’erano indizi per sostenerlo, lo sapeva e basta. Ora che sapeva di poter accedere alla dimensione onirica di un’altra persona riusciva a percepire senza alcuna difficoltà che quel sogno non era suo. Il che era senz’altro un sollievo, perché i morti non sognano, ma non significava di certo che Koala fosse fuori pericolo.
Aggirò il basso muro dell’antico tempio Shandia in rovina, un dedalo di massi e arbusti ormai fusi insieme, tra cui spuntava di tanto in tanto la gigantesca scultura di un qualche idolo del popolo. Non sapeva dove stesse andando ma permise ai propri piedi di guidarlo. Era stato razionale abbastanza a lungo, per non dire troppo.
Avanzò sempre più rapido tra le fette di luce ed ombra, che si alternavano a causa dei grossi rami che formavano una tettoria naturale sopra il suo capo, filtrando i raggi del sole. Il lungo corridoio naturale sembrava non avere fine e fu con un certo stupore che Law si ritrovò improvvisamente in  quella che sembrava l’unica parte del tempio ad avere vinto la guerra contro il tempo e l’erosione. Le pareti color terracotta erano ancora in piedi, solide e stabili a protezione del semplice e spoglio altare. E seduta sull’altare, con addosso solo una semplice tunica bianca, la schiena completamente scoperta a rivelare un grande sole rosso marchiato a fuoco nella sua pelle, di spalle a lui, c’era Koala.
Law coprì ancora qualche metro, calpestando rami, foglie e radici, e si fermò davanti al primo dei cinque gradini che portavano all’altare.
«Koala.» chiamò piano e la ragazza sobbalzò appena prima di girare il busto verso di lui. Si illuminò non appena lo vide e balzò giù dall’altare, per correre da lui e gettargli le braccia al collo.
«Sei arrivato.» mormorò, felice e sollevata. «Temevo che non avresti fatto in tempo.» aggiunse poi, staccandosi da lui e rimanendo sul secondo gradino in modo da essere più o meno alla sua altezza.
Law deglutì a vuoto. «In tempo? In tempo per cosa?» domandò, impassibile.
“In tempo” non era per forza un male. “In tempo” poteva riferirsi a tante cose. “In tempo prima che mi svegliassi”, “in tempo prima che io andassi a farmi un giro nella dimensione onirica di qualcun altro”, “in tempo prima che l’abside pericolante di questo tempio Shandora crolli sulle nostre teste”.
Ma poteva essere anche “in tempo prima che io passi dall’altra parte”. E quell’opzione era tutto fuorché un bene.   
«Come sono le tue condizioni?» le chiese, senza più tergiversare.
Inaspettatamente, Koala si portò le mani ai fianchi e sollevò un sopracciglio. «Una proiezione mentale può avere delle “condizioni”? E poi non dovresti dirlo tu a me?»
Law sgranò gli occhi incredulo. Aveva veramente voglia di fare la difficile in un momento del genere?! Cosa voleva, delle scuse ufficiali?! Poteva aspettare e sperare per il resto della sua vita, allora.
«Ho visto la tua foto sul giornale.» mormorò cupo il pirata.
«La mia foto era sul giornale?!» Koala sgranò gli occhi, simulando sorpresa. «Com’è potuto succedere?! Non capisco!» sobbalzò, fingendo di avere appena ricevuto un’illuminazione. «Credi… Credi che sia perché esisto davvero?!»  
«Quello che credo è, dal momento che il posto dove vivi è saltato in aria dopo essere stato assaltato da uno Yonkou, che potresti essere in condizioni critiche e non mi sono iniettato il diazepam in vena per giocare all’improvvisazione, Koala! Tra qualche ora devo partire da Zou alla volta di Wa e non potrò cambiare rotta!»
«Law…»
«Se mi dici dove siete, posso chiedere a Nekomamushi di mettere a disposizione una sua nave al posto della mia e venire da voi. Vi servirà un medico.»
«Law…»
«Possono andare anche senza di me, li raggiungerò dopo.»  
«Law stammi a sentire!» alzò la voce Koala, portando le mani ai lati del suo viso e scuotendolo appena.
Law la sfidò con gli occhi ancora qualche secondo prima di schioccare la lingua, un po’ scocciato. «Non puoi dirmelo.». Non era una domanda.
Koala sorrise. «Hai una bella faccia tosta a fare l’apprensivo dopo quello che hai combinato a Dressrosa. Anche se l’ho scoperto solo dopo che abbiamo lasciato l’isola.» soffiò dolcemente il suo rimprovero, mentre portava una mano a sfiorare con i polpastrelli la sutura con cui Leo gli aveva riattaccato il braccio.
Più calmo, Law portò gli occhi sulle dita della ragazza, fissandole immobile per una manciata di secondi.
«Noi stiamo bene. Più o meno. Me la sono cavata con qualche taglio.». Quando Law tornò a guardarla un taglio profondo e frastagliato si apriva sullo zigomo di Koala e il pirata corrugò impercettibilmente le sopracciglia. Sembrava fresco e stillava ancora sangue. «Dragon ha evacuato la base e l’ha fatta esplodere personalmente a mezz’ora dall’inizio dell’attacco. Siamo riusciti a limitare le perdite grazie a questa decisione.»
«Quanti?»
«Cinque… Uno per salvare me…» ammise ad occhi lucidi la rivoluzionaria e una goccia di sangue rotolò fuori dal taglio e lungo il suo viso, come una lacrima cremisi. «Quella Catarina Devon è la vergogna degli uomini-pesce…»
«Il fratello di Rufy?» domandò cauto Law mentre, senza pensare, sollevava la mano pe ripulirle la guancia.
«Sabo sta bene.» lo rassicurò, voltando obbediente il viso per permettere a Law di esaminarle il taglio con occhi e mani esperte.
«Bene.» mormorò Law. «Dovrebbe rimarginarsi abbastanza bene se tra voi c’è qualcuno in grado di fare una sutura decente.»
«Se anche restasse la cicatrice non mi importerebbe.» affermò Koala, decisa e determinata. «Law, ascoltami, hai detto che state per partire per Wa?». Law annuì. «Allora c’è una cosa importante che devi sapere.»
«Dimmi.»
«Anche un reparto della Cipher Pol è diretto a Wa, con un ben preciso obbiettivo. Qualcosa su cui il Governo Mondiale non deve mettere le mani o sarebbe la fine.» Law si accigliò perplesso, ascoltando attento ogni parola. «Se Dragon sapesse che te l’ho detto… Ma questo attacco ci ha bloccati e rischiamo di non arrivare in tempo. So di lasciarla in buone mani se la affido a te.»
«Di cosa si tratta?»
Koala esitò solo un istante prima di rispondere. «Uranus. La terza arma ancestrale è su Wa. So di chiederti molto ma sei la nostra ultima speran…» fu il suo turno di venire interrotta a metà frase dalla mano di Law premuta sulla sua spalla. Koala puntò i propri occhi in quelli del pirata, così grigi e ghiacciati da rendere impensabile che fossero in grado di emanare tutto il calore che però in quel momento stavano effettivamente emanando.
 «Ho capito. Dimmi dov’è. Ci penso io.»
      

 §
 
 
Will you be there?
 

«Sta fermo Law-san.» si raccomandò Kinemon con il suo vocione profondo e il suo gesticolare teatrale. Law trattenne a stento un sospiro, fissando il samurai con sguardo atono.
Per carità, anche lui era contento che fosse finita, che Wa fosse stata liberata dalla tirannia di Kaido e che la Cipher Pol fosse fuggita con la coda tra le gambe. Festeggiare era giusto, era necessario anche, per dimenticare almeno per qualche ora la concreta minaccia che Kaido avrebbe rappresentato per tutti loro, non appena gli fosse giunta voce della sconfitta della sua flotta di stanza sull’isola dei samurai. Solo non capiva la necessità di vestirsi per forza a quel modo, senza contare che aveva una certa fretta di trovare qualcuno dell’Armata di cui fidarsi abbastanza da consegnargli Uranus che, insospettabilmente, si era rivelata tanto piccola quanto letale. Un’arma ancestrale tascabile. Gli ricordava qualcuno.
L’ideale sarebbe stato consegnarla a Dragon in persona ma il leader dei Rivoluzionari non aveva raggiunto Wa insieme alle due divisioni che erano intervenute a battaglia già iniziata, segnando una svolta che si era rivelata indispensabile per la vittoria. Ergo, la scelta ricadeva inevitabilmente su Ivankov e avrebbe preferito evitare di presentarsi all’okama vestito da samurai, innescando tutta un’inevitabile serie di commenti che, già lo sapeva, gli avrebbero fatto venire voglia di porre fine alla sua ambigua esistenza.
Ma tant’è, quello prevedeva la tradizione dell’isola e dal momento che la festa si sarebbe tenuta nel giardino interno di palazzo Kozuki, l’unico luogo rimasto intoccato dalla battaglia, Law si guardava bene dal lamentarsi e offendere l’ospitalità di Momonuske e dei waniani in generale.
«Concentrati sul tipo di kimono che ti piacerebbe.» lo invitò Kinemon e stavolta Law non trattenne il sospiro, mentre puntava lo sguardo oltre la spalla del samurai alla ricerca d’ispirazione. Pen e Shachi, uno in rosso con il dragone e l’altro in kaki con il colibrì, stavano dando incoraggianti pacche sulle spalle a Bepo, che si sentiva a disagio senza la sua tuta arancione, rassicurandolo su quante stesse bene con il kimono.
Law non riuscì a trattenere un sorriso e fu con più serenità e ottimismo che chiuse gli occhi, provando a evocare l’immagine di uno yukata adatto a lui. Qualcosa di semplice, senza troppi fronzoli, scuro possibilmente e…
«Doron!»
Riaprì gli occhi preso in contropiede. Non gli aveva dato nemmeno il tempo! Quando la sensazione di essere appena stato lanciato dentro una nuvola scemò, Law era tornato alla modalità omicida ma Kinemon non sembrò farci minimamente caso.
«Che eleganza, Law-san.» si complimentò l’uomo.
Law esaminò rapidamente gli hakama a righe bianche e blu che gli coprivano le gambe e si allacciavano alti in vita, sopra il kosode blu scuro, in tinta con l’haori di seta. Corrugò le sopracciglia. Dov’è che aveva già visto quei vestiti?! Perché gli sembravano famigliari?!
«Ehi bella scelta le carpe koi, Torao!» esclamò Usopp, passando alle sue spalle con in mano una cesta di ventagli che aveva appena finito di dipingere a mano.
Law si raddrizzò di scatto. Carpe koi?
A lui non piacevano le carpe koi! E nemmeno le righe!
«Ehi Kinemon!» fece per andare dietro al samurai, che si era allontanato per complimentarsi con Robin e Nami, impegnate a spupazzare Momo, e provare a sbriciare dentro i loro kimoni, ma le righe e le carpe koi diventarono l’ultimo dei suoi pensieri. Qualche metro più in là, Cappellaio stava parlando con un ragazzo biondo vestito di blu, un’abrasione intorno all’occhio sinistro e un viso per lui famigliare.
Suo fratello. Il Comandante in capo dell’Armata Rivoluzionaria. La persona perfetta a cui affidare Uranus.
Con rinnovata urgenza, Law fece per muoversi verso di loro.
«Ha ragione sai? Le carpe koi non sono niente male.»   
Un brivido gli percorse la schiena e lasciò passare cinque secondi abbondanti prima di voltarsi lentamente.
Improvvisamente ricordò dove aveva già visto i vestiti che aveva addosso. Era stato un sogno. Lo stesso sogno in cui lei era vestita con un kimono dorato, bianco e rosso, chiuso da un obi blu scurissimo. Esattamente come in quel momento.
«Questo sarebbe un buon momento per dire qualcosa tipo “ciao”. Anche perché se non dici qualcosa entro dieci secondi la cosa potrebbe diventare molto imbarazzante.» suggerì Koala con tono confidenziale, sporgendosi appena verso di lui.
Law sobbalzò appena e scosse impercettibilmente il capo. «Ciao.» la salutò con tono basso e lievemente incredulo.
Perché non era un sogno. Non poteva essere un sogno. Non questa volta.
Koala allargò il sorriso, gli occhi carichi di emozioni, e le bastarono pochi secondi per capire cosa Law stesse pensando. «Se è un sogno non è mio.» lo avvisò, prendendolo un po’ in contropiede, dal momento che il pirata non era abituato a venire letto così facilmente. Ed era ancora più assurdo se pensava che quella era la prima volta che si incontravano per davvero. Sempre che non fosse un suo sogno e lui non ne fosse consapevole.
Si sentiva più confuso di quello che avrebbe voluto ammettere perché fino a quel momento era sempre stato in grado di distinguere il sogno dalla realtà, per quanto si somigliassero, ma la presenza di Koala lo obbligava a rivalutare tutto.
Eppure in sogno non si era mai sentito così. Così a casa. Perché, in fondo, aveva di fronte la bambina con cui era cresciuto, la ragazza che gli era stata accanto nei momenti più bui, la donna che non gli aveva mai negato un sorriso.
Lo stupiva sempre quanta forza potesse avere un sorriso.
«E se è tuo e stai sognando Iva devo cominciare seriamente a preoccuparmi per la tua sanità mentale.»
«Yyyy-ahhhh!!!»
Law lanciò uno sguardo oltre la propria spalla, verso l’okama dai capelli viola che si stava esibendo in un’inquietante e ambigua danza con i ventagli. Con un brivido di ribrezzo, riportò lo sguardo di fronte a sé solo per trovare Koala che rideva divertita dall’esibizione di dubbio gusto. La risata scemò ma il sorriso rimase quando Law le prese il mento tra pollice e indice per farle voltare il viso e controllare il taglio, ombreggiato dai capelli.
Koala lo lasciò fare alcuni secondi prima di lanciargli un’occhiata di striscio e chiedere: «È abbastanza decente come sutura, dottore?»
«Abbastanza da non lasciarti la cicatrice.» concesse Law senza sbilanciarsi più di tanto, mentre la lasciava andare. «Non sapevo che fosse venuta l’Armata al completo.»
«Tenere Sabo lontano da Rufy è un’impresa pressoché impossibile.» si strinse nelle spalle la rivoluzionaria. «E poi anche io avevo i miei buoni motivi per accompagnarlo.» aggiunse sollevando entrambe le sopracciglia, eloquente. Law piegò le labbra in un ghigno e fece per ribattere con un commento salace che però non arrivò a lasciare le sue labbra quando Koala portò una mano sulla sua guancia appena un po’ ispida di barba. Sgranò gli occhi, colto alla sprovvista. Che stava facendo?! «Sono felice che tu sia vivo.» mormorò Koala, genuina, come se quelle dimostrazioni di affetto in pubblico non fossero un problema e fossero, anzi, una cosa perfettamente normale. 
E no, non lo era ma la sua mano sulla guancia era così calda e profumata e rigenerante. E Law era stanco e, non lo avrebbe ammesso mai ad alta voce, felice di vederla viva e felice di averla lì, così vera e vicina da poterla toccare. Certo, se non si dava una mossa tutti i presenti e soprattutto i suoi uomini lo avrebbero visto in quella situazione intima e poteva anche dire addio per sempre alla propria reputazione.
Con una delicatezza che di solito usava solo per operare, Law alzò il braccio e circondò la mano di Koala con la propria, obbligandola gentilmente a toglierla dalla sua guancia ma senza lasciarla andare, almeno non subito.
«Ho visto che c’è un ruscello di sciroppo di glucosio qui vicino.» disse, passando, senza neanche rendersene conto, il pollice tatuato sul dorso della sua mano. «Facciamo due passi.» aggiunse poi, più speranzoso di quanto avrebbe mai ammesso.
Il cuore gli perse giusto un battito quando Koala, dopo aver fatto finta di pensarci un paio di secondi, piegò la testa di lato e i suoi grandi occhi blu guizzarono felici. «Agli ordini capitano!»
 

 
Tonight…*
 
***
 

«Ehi Sabo! Non sapevo che la tua amica conoscesse bene Torao!» esclamò Rufy mentre, perplesso, si grattava la nuca.
«Nemmeno io.»
Sabo, le mani infilate in tasca, studiò ancora qualche attimo l’interazione tra Koala e del Chirurgo della Morte, interazione che era sicuramente più eloquente e palese per chi li osservava da fuori che non per loro due che c’erano dentro.
Quando e come la sua migliore amica si fosse presa una cotta per la supernova sfuggiva alla comprensione di Sabo. Ancora più complicato capire quando e come Trafalgar Law si fosse preso una cotta per Koala.
Il biondo provò a rifletterci un attimo e vagliare tutte le possibili opzioni ma un rumore cavernoso e gorgogliante si levò nell’aria, sovrastando persino i suoi pensieri. Si voltò verso Rufy mentre il fratello si voltava verso di lui.
«Vedo che i nostri stomaci sono ancora sincronizzati!» sorrise felice Sabo prima di lanciare un’ultima rapida occhiata alla coppia a pochi metri da loro. Con una stretta di spalle decise di accantonare la questione e venirne a capo più tardi. Forse. Se avesse avuto abbastanza energie e voglia. «Andiamo a mangiare?»
«Ciiiiiiiiiiiibo!!!» rispose Rufy, lanciando le braccia al cielo, prima di scattare di corse verso Palazzo Kozuki. «L’ultimo che arriva è un maiale!!!»
«Oh molto maturo, Rufy! Davvero molto maturo!» gli urlò dietro Sabo, scattando a sua volta. «E poi non vale! Sei partito a tradimento!»
    
 
  
 
      
  
  
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