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Autore: Milla Chan    24/03/2017    3 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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And, though I was a soul in pain, my pain I could not feel

Era passato un mese da quando Akaashi aveva visitato con l’Accademia la sede della CCG in cui veniva tenuto l’esemplare di ghoul che l’aveva spinto a concorrere per ottenere quel posto.
Qualche giorno prima, Akaashi aveva ricevuto la lettera che lo informava che il punteggio ottenuto era abbastanza alto da permettergli di partecipare al Progetto 150410. Mentre la leggeva, aveva sentito ripagati tutti gli sforzi di quel mese d’inferno.
Non sapeva con esattezza perché l’avesse fatto: quando aveva iniziato l’Accademia, avere contatti diretti con i ghoul non rientrava nelle sue aspirazioni. Eppure, da quando aveva visto quel ghoul in gabbia, in quel pomeriggio di maggio, una curiosità incontenibile si era impossessata di lui. Voleva sapere di più, conoscere, capire.
Aveva sperato fino all’ultimo di essere selezionato per quella collaborazione. Aveva aspettato a lungo di avere l’occasione di rivedere quel ghoul che tanto l’aveva colpito e turbato.
Quando lo avevano riportato in quella stanza, un piano sottoterra, assieme agli altri tre vincitori, nulla sembrava essere cambiato. Il tempo sembrava non scorrere, lì dentro. L’esemplare 150410 se ne stava seduto al centro della gabbia vuota, con addosso un completo grigio e un po’ rovinato. Non gli aveva rivolto più uno sguardo.
Avevano spiegato ad Akaashi il funzionamento dei macchinari in modo più approfondito rispetto a quando aveva visitato la struttura con l’Accademia. C’erano quattro telecamere a sorvegliare la gabbia: negli uffici al piano di sopra si controllava la situazione su degli schermi, e se il ghoul aveva comportamenti troppo violenti o si dimostrava particolarmente ostinato o non collaborativo, rilasciavano scariche elettriche tramite il collare.
Andare lì dopo la mattina in Accademia era stancate e faticoso, ma anche interessante, e gli permetteva di vedere più da vicino ciò che avrebbe dovuto fare una volta ottenuto il diploma.
-Presto inizieremo una serie di esperimenti per testare come le cellule Rc reagiscono a determinate sostanze. Il vostro compito sarà solamente di assistere gli scienziati, ma credo che sarà un’esperienza formativa molto importante, anche per la vostra carriera futura. Complimenti per essere arrivati fin qui.- gli avevano detto, stringendogli la mano con entusiasmo.

Fino a quel momento non aveva ancora avuto l’occasione di stare da solo con l’esemplare 150410. Passavano lunghi pomeriggi nei laboratori, o davanti ad un computer, o a calibrare apparecchi strani e di tempo libero per sgattaiolare dove volevano ce n’era ben poco. Akaashi iniziò a pensare di essersi costruito aspettative troppo alte, di aver fantasticato troppo.
Poi, un giorno, successe.
-Akaashi, per favore, scendi nella Stanza 3 e portami i fogli dei parametri che ho mandato in stampa.- disse un Investigatore a cui Akaashi era stato affidato, seduto alla scrivania, lo sguardo concentrato su una tabella sullo schermo del computer.
La gabbia del ghoul si trovava proprio nella Stanza 3. Akaashi ci mise qualche secondo per realizzarlo, e subito una sorta di agitazione gli avvinghiò lo stomaco.
Esitò per un attimo prima di alzarsi e scendere le scale con una certa fretta: era da un mese che sperava accadesse.
Scese un’altra rampa di scale. Sentiva il cuore in gola e i suoi passi rimbombare nel corridoio deserto.
Aprì la porta della Stanza 3 come se stesse aprendo uno scrigno. L’unico rumore che sentiva era quello meccanico delle apparecchiature alte quasi come tutta la parete. Il ghoul gli dava la spalle, accovacciato a terra.
Deglutì e si avvicinò per prendere i fogli appena usciti da una delle stampanti. Inspirò a fondo e si voltò verso di lui.
Gli dava sempre una strana sensazione di tristezza.
-Come ti chiami?- chiese Akaashi dopo che lo ebbe fissato per qualche secondo, prendendo coraggio.
L’espressione del ghoul cambiò immediatamente. Sembrò illuminarsi, risvegliarsi: spalancò gli occhi e lo guardò incredulo, come se si fosse appena immaginato quelle parole. Rimase in silenzio per qualche secondo, completamente immobile.
-Io?- mormorò con voce roca, le sopracciglia corrugate.
Akaashi si chiese se stesse bene, perché gli sembrava che i suoi occhi fossero lucidi. Annuì lentamente e si avvicinò un po’ alla gabbia, senza movimenti bruschi.
-Qual è il tuo nome?-
Il ghoul continuò a fissarlo con la bocca socchiusa.
-Io sono… Bokuto Koutarou.- sussurrò, come se stesse svelando un segreto.
-Ti hanno portato da mangiare?- chiese Akaashi, vedendo le vecchie ossa lasciate in un angolo della gabbia.
Bokuto era ancora seduto. Scosse la testa, continuando a guardarlo come fosse la creatura più meravigliosa sulla faccia della Terra.
La distanza tra i due era minima. Akaashi sentiva il cuore battere così forte che temeva che sarebbe potuto uscire dal petto. Aveva paura. La sentiva scorrergli addosso e gli rendeva difficili i movimenti, ma non c’era solo quella: c’era anche stupore, nel sentirlo così umano e simile a sé. C’era curiosità e passione.
C’era un’atmosfera irreale, in quella stanza.
Bokuto fu scosso da un singhiozzo, ma sembrava che stesse sorridendo. Abbassò la testa e si sfregò gli occhi col dorso della mano.
-Perché piangi?- chiese subito Akaashi, appoggiando una mano alle fitte griglie di metallo che costituivano  la gabbia. I buchi che formavano erano talmente piccoli che a malapena ci sarebbe passato un dito.
-Stai parlando con me…- mormorò quello, andando lentamente carponi verso Akaashi. Appoggiò le mani sulla gabbia, vicino a quelle del ragazzo, fissandole con un’espressione concentrata, come a voler carpirne i segreti più oscuri. Non era mai stato così vicino alla pelle di un essere umano senza sentirsi in bisogno di attaccarlo o difendersi.
-Non parli mai con gli investigatori? O gli scienziati?-
Bokuto scosse la testa, le labbra strette forte per non farle tremare.
-Perché?- chiese Akaashi.
Bokuto non ricordava l’ultima volta che aveva usato la voce per articolare parole vere, parole che non fossero rivolte solo a se stesso. Non c’era qualcuno con cui parlare: le uniche volte che vedeva delle persone era quando svolgevano esperimenti su di lui. Aveva smesso di provare a parlare con loro molto tempo prima, quando si era reso conto che era inutile, che non lo ascoltavano, che la sua voce non aveva alcun valore, non innescava nessuna reazione in quelli che lo circondavano.
Parlava con se stesso, però. Lo faceva tutti i giorni. La maggior parte delle volte, nella sua mente.
Non ricordava che qualcuno gli avesse mai davvero rivolto parola, da quando era lì.
Era strano avere qualcuno a cui indirizzare la sua voce senza che la sua gola emettesse grida o ringhi.
Si sentì incredibilmente frustrato nel rendersi conto che non sapeva come spiegarglielo: aveva una gran voglia di parlare, di fare un lungo, lunghissimo discorso, di esprimere la sua felicità. Eppure, era come se il suo cervello non riuscisse ad elaborare una risposta abbastanza in fretta, o con le giuste parole. Fissò un punto indefinito nel vuoto e appoggiò la fronte contro la gabbia.
Akaashi si inginocchiò per guardarlo in faccia.
Non voleva giungere a conclusioni affrettate, ma aveva dei forti dubbi sul metodo utilizzato dagli studiosi che seguivano il Progetto 150410. Era un progetto prettamente scientifico, certo, ma ad Akaashi sembrava inconcepibile trascurare l’aspetto sociale, considerato che era una creatura molto più simile agli umani di quanto volessero far credere.
-Mi dispiace per tutto quello che ti hanno fatto…- disse con sincerità e una nota di colpevolezza. -Bokuto, ora devo andare, mi hanno mandato qui solo per prendere dei fogli.- continuò, gli occhi fissi su di lui. -Probabilmente si stanno chiedendo dove io sia finito.-
Bokuto alzò di poco il capo, le labbra che tremavano e l’espressione di chi non vuole essere abbandonato.
-Io mi chiamo Akaashi.-
-Akaashi.- ripeté il nome di quel ragazzo in tono quasi sognante, distante, per imprimerselo nella mente. -Ti piace parlare con me?-
Il ragazzo rimase un attimo spiazzato nel vedere quella faccia piena di speranza. Aprì e richiuse la bocca più volte, incerto su cosa dire. Non aveva esattamente avuto una vera conversazione con lui, ma sembrava essere così importante, per lui, perciò...
-Per favore torna.- disse Bokuto prima che Akaashi potesse rispondere.
L’altro gli rispose con un debole sorriso infelice.
-Certo.-
Fece fatica ad andarsene da quella stanza. Soprattutto, non aveva idea di come avrebbe fatto a guardarlo in faccia i giorni successivi, quando avrebbe iniziato ad assistere agli esperimenti.

Kuroo non aveva mai tenuto in mano tanti soldi e più li ricontava, più la sua risata si faceva accesa e squillante. Avrebbe voluto lanciare le banconote in aria, addosso a Kenma, girare su se stesso sotto una pioggia di denaro.
-Il mio primo stipendio!- disse con un sospiro liberatorio, sollevando la mazzetta in aria con entrambe le mani.
Era da tanto che Kenma non vedeva Kuroo con un sorriso del genere.
Quel mese, il primo mese in cui aveva vissuto da solo assieme a Kuroo, sembrava essere volato. Non era successo molto: aveva fatto più o meno amicizia con gli altri camerieri del Nekoma, Yaku aveva insegnato loro come funzionava la lavatrice e aveva spiegato senza girarci troppo attorno che il loro appartamento, fino a qualche tempo prima, apparteneva ad un altro ghoul che aveva fatto una brutta fine. Non era stata un’informazione molto gradita, soprattutto per Kuroo, che aveva passato qualche giorno nell’autosuggestione, immaginandosi inquietanti rumori notturni presumibilmente emessi da un’entità sovrannaturale. Kenma aveva finito due volte il suo gioco sul Nintendo, aveva rotto uno dei bicchieri nella credenza del loro appartamento e aveva cercato di insegnare ad uno dei gatti del Nekoma a rotolare su se stesso a comando: aveva, insomma, cercato di abituarsi alla sua nuova vita cercando di immergervisi il più possibile, senza pensare ad altro, anche se in certi momenti era stato quasi impossibile, soprattutto perché la fame iniziava veramente a farsi sentire.
Come se non bastasse, Shouyou continuava a scrivergli. Con il passare delle settimane, aveva iniziato a mandargli solo una mail al giorno -prima, nei giorni immediatamente successivi all’incendio, erano molte di più, insistenti, allarmate, malinconiche. Kenma leggeva tutto quello che gli mandava e la tentazione di rispondergli lo tormentava ogni giorno, tanto che più di una volta aveva premuto l’opzione “Rispondi”, per poi tornare immediatamente indietro, senza scrivere nulla.
La televisione non aveva mai rivelato i nomi delle vittime dell’incendio e il caso di cronaca era stato superato. A volte Kenma si ritrovava con gli occhi lucidi senza accorgersene perché, da quello che gli scriveva Shouyou, aveva capito che dava per scontato che fosse morto, e allora si chiedeva perché si ostinasse a mandargli quei messaggi sempre più corti in cui gli raccontava cose stupide, o gli diceva che gli mancava. Lo faceva arrabbiare, in qualche modo, ma non riusciva a cancellare neanche una mail.
Avrebbe voluto dirgli che stava bene, era vivo, ma non avrebbe potuto spiegargli tutto, considerando anche che ormai faceva parte della CCG ed era troppo pericoloso.

-Te lo sei meritato.- commentò Kenma, riportando la mente al tempo presente e spegnendo il fornello sul quale la caffettiera aveva iniziato a borbottare, per poi voltarsi verso Kuroo.
-Sì!- esclamò il più grande, appoggiando i soldi e la busta sul tavolo della cucina per poi stringere le guance di Kenma tra le mani con trasporto. -Avremo dei vestiti decenti, finalmente!-
-… Non dobbiamo più alternare quelle due brutte magliette da 400 yen.- realizzò Kenma, spalancando gli occhi.
Kuroo rise per il suo sguardo, improvvisamente luminoso, continuando a tenergli il viso come se fosse un oggetto prezioso. Sembrava che la consapevolezza lo avesse appena colpito in faccia.
-Compreremo il miglior caffè in circolazione!- continuò giulivo Kuroo, scuotendolo un poco.
-Compreremo degli asciugamani degni di questo nome…?- aggiunse Kenma, con una chiara felicità in volto, come se fosse una liberazione.
-Compreremo un intero camion di asciugamani!-
-Niente più conbini…?-
-Mai più conbini, Kenma!- rise Kuroo, annuendo con veemenza, mentre lo scuoteva con un po’ più di forza per sottolineare il concetto. -E ora fammi versare il caffè in quei contenitori da freezer e facciamo i ghiaccioli al caffè più buoni che si siano mai visti!-

Quel delirio di onnipotenza durò molto poco. Scontrarsi con la realtà fu come andare a sbattere contro un muro.
Dovettero mettere da parte i soldi per pagare l’elettricità, l’acqua e il gas: si chiesero come facessero gli umani, che dovevano anche far fronte a delle spese non indifferenti per quanto riguardava il cibo. Non era così facile gestire i propri risparmi.
Alla fine, i soldi avanzati per le loro fantasie non erano poi molti e il conbini era rimasto ancora la loro prima opzione, ma almeno i ghiaccioli fatti di caffè si erano rivelati un rimedio decisamente efficace contro il caldo di giugno.
Ad ogni modo, riuscirono davvero a recuperare dei nuovi vestiti e decisero che avrebbero riportato al più presto la felpa e la t-shirt ad Iwaizumi.
 
Kenma ci mise un po’ a ritrovare il negozio di fiori in cui, il mese prima, era stato contemporaneamente salvato e mutilato. Kuroo non aveva potuto accompagnarlo a causa del turno di lavoro, e Kenma aveva impiegato qualche ora per trovare la forza di andare da solo.
Entrò a passo felpato e un campanello risuonò nella stanza piena di verde e di macchie di altri colori brillanti. Sentì dei rumori nel retro del negozio e pochi secondi dopo, la tenda dietro il bancone fu scostata e apparve Oikawa.
-Ma chi si vede!- esclamò stupito, dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte. -Ci penso io, zio!- disse, dopo essersi voltato indietro un attimo, rivolto ad un interlocutore che Kenma non poteva vedere.
Oikawa ridacchiò e appoggiò entrambi i gomiti al bancone. -Quindi Kenma-chan è diventato biondo? Questa sì che è una sorpresa.-
Kenma ignorò le sue parole e gli porse frettolosamente una borsa. -Sono venuto a riportare i vestiti che Iwaizumi mi aveva prestato…-
-Che carino, grazie!- cinguettò l’altro rivolgendogli un sorriso cordiale. In una frazione di secondo, però, la sua espressione cambiò e iniziò ad osservarlo con attenzione.
-Come vi trovate al Nekoma?- chiese, lanciando una veloce occhiata alla pelle lucida e in rilievo sul suo braccio.
-Bene, credo…- Kenma abbassò un attimo il capo, per poi guardare il ragazzo direttamente negli occhi. Sette in silenzio qualche secondo prima di riuscire a parlare. -Ah, dovrei chiederti un favore, Tooru…-
La faccia di Oikawa era sorpresa e interessata. Assottigliò gli occhi e si chinò verso di lui, il mento tra le dita.
-Vorrei scoprire cosa è successo davvero ai miei genitori.-
Il sorriso che si aprì sulle labbra di Oikawa sbilanciò l’armonia del suo volto. Kenma cercò di sostenere il suo sguardo e stinse le labbra, perché era una faccenda importante, sulla quale aveva pensato a lungo durante quei trenta giorni.
-Piacerebbe saperlo anche a me, perché è interessante e inusuale.- sussurrò Oikawa con aria persa, continuando a penetrarlo con gli occhi marroni. -Ci pensavo già e, ti dirò un segreto: ho bisogno di Iwa-chan per scoprirlo.-
Kenma ascoltava i suoi mormorii con le orecchie tese e si chiese il perché di quell’espressione addolorata.
-Ma lui non sa ancora nulla, quindi non voglio sentire uscire neanche una parola da quelle tue belle labbra, intesi?- esclamò con un’intonazione stranamente allegra, facendolo  sussultare e portandosi un indice davanti alla bocca mentre gli faceva l’occhiolino.
Quel velo di colpevolezza era sparita nel nulla senza lasciare traccia.
Oikawa Tooru era come l’acqua di uno stagno, calma in superficie, ma anche torbida e illeggibile, e lo terrorizzava.
 
Oikawa sapeva di dovere tutto ad Hajime da quando era stato raccolto mentre si sentiva scivolare nel buio della morte, rassegnato, arreso, quasi, al freddo vetro che gli riempiva la carne. Erano passati più di cinque anni da allora, e Oikawa si era reso conto che il tempo li aveva cuciti l’uno all’altro con un doppio filo, lentamente, senza farsi scoprire. Non si ricordava il momento in cui si era accorto di non potersi più immaginare senza di lui.
-Iwa-chan!- chiamò Oikawa con una voce svenevole, entrando nella camera buia del ragazzo, chiedendosi perché tenesse le imposte chiuse. -Basta dormire!-
-Non sto dormendo.- lo avvisò Iwaizumi, rigirandosi nel letto per guardarlo storto. -Mi sto godendo il silenzio. Stavo.-
-Allora dovresti goderti la mia compagnia, ora.- Oikawa alzò le sopracciglia e si sedette sul bordo del letto con un sospiro. -Indovina chi è passato a trovarci? Kenma-chan! Ma tu sei troppo maleducato per scendere a salutare...-
-Come facevo a saperlo…!- ringhiò l’altro, ma Oikawa non si lasciò interrompere.
-Ti ha riportato i vestiti che gli avevi prestato. Lui e Kuroo stanno bene, sono sollevato.-
Iwaizumi inizialmente spalancò gli occhi, poi lo guardò il suo sorriso poco convinto, con una smorfia.
-Sei davvero contento.-
Non era una domanda, ma un’affermazione: l’aveva capito, e lo sorprendeva che non l’avesse detto solo per fare conversazione.
-Certo che lo sono!- strepitò Oikawa, portandosi una mano al petto. -Avevi dubbi? Mi ritengo personalmente offeso!-
-Non sembrava interessarti poi molto, di loro.- osservò il ragazzo sdraiato.
Oikawa sospirò e iniziò a passargli distrattamente una mano tra i capelli neri.
-Sono io che li ho messi nelle mani di Nekomata.- iniziò, un po’ più serio, mentre inclinava appena la testa e lo guardava incantato nella penombra. -Tra meno di due mesi avrò diciotto anni. Voglio diventare il perno attorno a cui girano tutti i territori con cui abbiamo contatti e per essere a capo di qualcosa bisogna fare buone decisioni, e far sì che la gente ti conosca e ti rispetti. E ti tema.-
Iwaizumi guardava il soffitto ma lo ascoltava attentamente, anche se senza alcuna espressione sorpresa in viso, perché già lo sapeva. Erano anni che Tooru, con suo zio, si dava da fare per ricreare quella rete di favori e conoscenze che apparteneva ai suoi genitori. Suo zio diventava sempre più vecchio e presto sarebbe stato Tooru il centro nevralgico di tutto, l’erede di quello che sembrava essere un piccolo impero invisibile. Non era certo di dove lo avrebbe portato tutto ciò, vista la sua tendenza a voler superare i propri limiti, ma sapeva che non avrebbe mai potuto lasciare il suo fianco. Era però anche pronto anche a tenerlo a freno, se fosse stato necessario e se fosse diventato un pericolo per se stesso.
Appoggiò la mano sulla sua, sovrappensiero. Oikawa guardò sorridente le sue dita che giocherellavano con le proprie; sollevò la mano a mezz’aria e le loro dita si intrecciarono con delicatezza.
-A proposito di futuri diciott’anni, Iwa-chan…-
Iwaizumi spostò gli occhi su di lui per guardarlo, interrogativo.
-Devi scusarmi per quello che farò.- confessò Oikawa sottovoce, il volto immobile e la mano libera che continuavano a lasciare carezze sulla sua testa, sulle sue tempie, sulla pelle di quella tonalità che creava un piacevole contrasto con la propria.
Iwaizumi non capiva il perché di quello sguardo pieno di dolcezza e malinconia. Non capiva neanche il senso di quelle parole. Aggrottò le sopracciglia e aprì la bocca per dire il suo nome, ma Tooru lo fermò premendo la bocca sulla sua con uno schiocco leggero, le mani che tenevano fermo il suo capo.
Tutto si fermò. Il tempo sembrò congelarsi per una manciata di secondi prima che Oikawa si allontanasse dolcemente.
-Volevo che fosse il tuo regalo di compleanno.- mormorò a fior di labbra, gli occhi chiusi, con una risata debole. -Ma non potevo aspettare una settimana.-
Iwaizumi stette in silenzio, il cuore in gola, gli occhi che fissavano quelle palpebre serrate. Deglutì e alzò piano le braccia, appoggiandone una sulla sua schiena.
-Che regalo penoso, Tooru.- sussurrò poi, portando l’altra mano tra i suoi capelli morbidi per riavvicinarlo a sé con un mezzo sorriso sulle labbra.
Oikawa trattenne il respiro e sentì il petto riempirsi di una sensazione densa e invadente. Avrebbe voluto identificarla come pura e semplice felicità, ma in realtà sapeva che era mischiata ad altro, sapeva che le scuse di poco prima non erano solo per avergli finalmente dato il bacio che entrambi aspettavano da anni, perché sapevano di appartenersi da molto tempo addietro.
Quello che provava per Hajime non aveva niente a che fare con gli inganni e l’eterna lotta tra ghoul e umani. Hajime per lui era solo luce. Se chiudeva gli occhi e si lasciava abbandonare al torpore, Oikawa si sentiva come se fosse dentro il bocciolo di un fiore, morbido e vellutato: nel bocciolo, rinchiusi dentro, al sicuro e in silenzio, solo lui con Hajime, a sfiorarsi il cuore.
Si vergognava di aver scelto di baciarlo proprio in quel momento, perché non era nei suoi piani, ma non era riuscito a trattenersi. Avrebbe dovuto solo parlargli, iniziare un discorso che in quel momento non sapeva come riprendere senza sembrare inopportuno.
 
-Devo chiederti un favore.- disse infatti, quasi un’ora dopo, ancora steso nel letto accanto a lui e il suo braccio dietro il collo. Avevano parlato, riso, scherzato: il tempo assieme volava, non c’era niente da fare, era sempre stato così.
Si girò quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi, serio, ma con una strana sensazione a chiudergli la gola.
-Fatti amico Tobio-chan.- disse, senza mezzi termini, e quelle parole stonarono in modo terribile con l’atmosfera che si era venuta a creare.
Iwaizumi aspettò un po’. Poi si mise a sedere e lo guardò dall’alto con un’espressione a metà tra l’infastidito e il divertito, come se gli stesse facendo uno scherzo, visibilmente confuso da quella richiesta insolita e improvvisa. -Cosa? Perché dovrei?-
-Perché alla CCG sta succedendo qualcosa di strano e voglio sapere cosa. L’intera famiglia di Tobio ne fa parte, è impossibile che non sappia.-
Iwaizumi lo fissò per capire se lo stesse prendendo in giro, poi sbuffò e si sdraiò di nuovo, incrociando le braccia dietro la testa. -Ci sono decine di persone che possono farlo al posto mio.-
-Ho bisogno che lo faccia tu.- disse subito Oikawa, toccandogli il braccio per attirare di nuovo la sua attenzione. -Perché so che tu sei il tipo di persona che può tenergli testa, caratterialmente parlando. E poi devo sapere tutto quello che Tobio dice e fa, non un riassunto veloce, per quanto dettagliato. Io voglio ogni parola e tu sei la persona di cui mi fido di più.-
-Mi stai chiedendo di fare amicizia con un umano che per di più ha stretti legami con la CCG?- chiese con calma e lentezza analitica, come a riassumere in un’unica frase tutte le richieste assurde che gli aveva fatto in meno di un minuto. -Vuoi farmi ammazzare, Tooru?-
Oikawa corrugò la fronte e scosse la testa, deciso. Ci aveva pensato a lungo, sapeva quello che stava dicendo e c’era un senso nelle sue parole. Non era solo un capriccio, non del tutto almeno, e avrebbe voluto spiegarglielo con calma, senza che lo incalzasse in quel modo.
-Ascolta, Tobio sarà anche un piccolo prodigio, ma è pieno di orgoglio e ingenuo come un bambino e questo binomio lo rende un soggetto facile da abbindolare, più facile di quel che sembra e di quel che credi.-
Iwaizumi lo guardò con una serietà tale da farlo rabbrividire.
-Credi che io ti dirò di sì perché mi hai baciato, vero?-
Oikawa sentì il cuore contrarsi a quelle parole e tenne per qualche secondo gli occhi congelati nei suoi, verdi e duri e in cerca di una risposta che non arrivò in tempo. Con lo stomaco stretto in una morsa, Oikawa guardò Iwaizumi mentre si alzava seccato, e ascoltò impotente i suoi passi che scendevano le scale.
Non era quello che voleva. Non voleva essere frainteso. Non voleva che il suo gesto venisse interpretato in quel modo e si diede dello stupido per aver avuto tanta fretta. Strinse i denti e alzò gli occhi al soffitto mordendosi le labbra e con il petto dolorante.
Aveva sbagliato e non lo sopportava.
 
Akaashi cercava di non prestare attenzione alle dita di Bokuto aggrappate alla gabbia, fingere di non vedere che tremavano per la paura, o per il dolore, o per la rabbia, o per tutte e tre le cose.
Distolse lo sguardo. Erano giorni che gli esperimenti andavano avanti. Teneva in mano un foglio con l’elenco delle sostanze iniettate e svariati numeri e segni quasi indecifrabili appuntati velocemente, nella speranza che tutto finisse presto.
Sentiva lo sguardo di Bokuto gravargli addosso e non sopportava che potesse pensare che lo avesse tradito.
 
Qualche ora dopo, durante una pausa, Akaashi riuscì a sgusciare silenziosamente in quella stanza vuota e illuminata solo dalle luci artificiali. Aggirò a passo sicuro la gabbia per poterlo guardare in faccia.
Bokuto era seduto per terra, praticamente attaccato alla gabbia, le spalle un po’ in avanti e la testa china: sembrava non essersi accorto di lui, ma Akaashi sapeva che non era possibile.
-Sono io.- disse piano e cauto, stando a distanza di sicurezza.
Bokuto prese un lungo respiro e alzò le mani. Le appoggiò alla gabbia, tenendo le palpebre chiuse, tremanti. Contrasse le dita per un attimo, prima di tirare una forte testata contro la griglia della gabbia, con un grido che riempì la stanza e la testa dell’altro ragazzo.
Akaashi indietreggiò istintivamente e sgranò gli occhi.
-Bokuto.- disse preoccupato, prendendo coraggio e decidendo di avvicinarsi di nuovo. -Le telecamere non hanno microfoni, non possono sentire che parliamo, probabilmente non ci stanno neanche guardando, ma non ti devi agitare o attirerai l’attenzione e faranno partire l’elettroshock.-
Il ghoul aprì gli occhi con respiro affannoso e Akaashi rabbrividì nel vedere le piccole pupille rosse proprio al centro degli occhi neri, che lo fissavano con bramosia.
-Ho fame.- disse il ghoul con la voce spezzata e i denti stretti. -Stai più lontano.-
Akaashi lo guardò smarrito.
-Ti prego Akaashi stai più lontano.-
Akaashi aveva sempre considerato i ghoul come mostri mangiauomini, cosa che effettivamente erano, ma non solo. Non sapeva spiegarselo: c’era troppa umanità in quel mostro, e troppa mostruosità negli umani. Il confine tra il bene e il male non gli era mai sembrato tanto labile.
Il ragazzo dall’altra parte della gabbia metallica continuava a sbattere la fronte contro di essa e teneva gli occhi chiusi, strizzati forte, i capelli grigi che ricadevano sulla fronte sudata e le dita rosicchiate che cercavano di stringersi attorno all’inferriata.
Akaashi inorridì e si chiese come si potesse trattare una creatura in quel modo.
-Scusami.- sussurrò cupo, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso e con l’impressione di star provando un dolore molto simile al suo. -Ho scelto di voler collaborare al Progetto 150410 perché volevo sapere di più su di te, direttamente da te. Io non voglio farti male. Non pensavo che avrei dovuto assistere a delle torture e…-
-Non voglio mangiarti!- lo interruppe il ghoul con un urlo tremendo, portandosi le mani tra i capelli e fissando il pavimento mentre scoppiava a piangere.
L’aveva gridato a se stesso, più forte che poteva. Per sovrastare i propri pensieri, perché non sentiva altro.
Akaashi serrò la bocca. Non poteva parlargli in quelle condizioni e averne la conferma in quel modo fu più sgradevole di quanto potesse immaginare: la sua presenza e il suo odore non facevano altro che peggiorare la sua fame e doveva ancora smaltire le sostanze che gli erano state somministrate.
Guardò la sua schiena tremante, poi il pavimento piastrellato, e infine si voltò per uscire, pieno di rabbia.
Non riusciva a trovare una soluzione eticamente corretta nella dicotomia che governava il mondo.


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Note e chiarimenti
Innanzi tutto chiedo scusa per il ritardo! Non ho avuto internet da pc per parecchio e per revisionare i capitoli ci metto un po'... Grazie per essere così pazienti.
Eccoci quindi con l'ottavo capitolo: le cose si stanno veramente scaldando e non  avete idea di cosa vi aspetta nei prossimi capitoli. L'unico modo per saperlo, è continuare a seguirmi nonostante i miei ritmi ubriachi.
Il titolo del capitolo è tratto da "The Ballad of Reading Gaol" di Oscar Wilde, un'opera che mi uccide ogni volta. La frase si riferisce sia al nostro povero Akaashi che al nostro poverissimo Bokuto.
Akaashi poiché, conscio della propria situazione, si è riscoperto a soffrire per un ghoul- ma sa anche che deve reprimere questa sensazione, che forse non può permettersi di essere triste per un mostro ma non può farne a meno.
Bokuto perché, completamente estraniato e lontano dal mondo esterno, finisce col diventare un opaco riflesso di se stesso, senza sapere più cosa sia davvero reale e cosa no.
Potrebbe anche riferirsi ad Oikawa e alle sue sofferenze profonde e nascoste, che in qualche modo rifiuta di guardare direttamente in faccia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere-
Alla prossima!

 
   
 
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