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Autore: LysL    25/03/2017    1 recensioni
Tutti, in quel piccolo villaggio sperduto sui monti Urali, conoscevano la leggenda; Otabek era cresciuto sentendo raccontare della terribile Regina di ghiaccio e del suo castello, nascosto tra le nebbie della montagna, oltre il bosco innevato, in quelle terre che il sole non riusciva a raggiungere.
Dal testo:
Una mano gli artigliò la spalla e Otabek fu costretto a girarsi per assecondare quel movimento; la mano lo spinse in ginocchio nella neve e Otabek percepì la lama spostarsi dalla propria gola fino alla nuca. Era ancora in posizione di svantaggio, ma almeno adesso poteva parlare.
«Chi sei?» chiese e ricevette un calcio tra le scapole; il colpo gli strappò il fiato dai polmoni e lui si ritrovò a boccheggiare, tossendo del sangue per terra, il sapore ferroso gli riempì sgradevolmente la bocca.
«Chi sei
tu? E come ti permetti di venire qui e parlarmi come se fossi un tuo pari.» La testa gli venne strattonata all’indietro e solo in quel momento Otabek vide chi realmente gli stava parlando.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Mila Babicheva, Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Note iniziali:
Avvertimenti: menzione di sangue e minori mutilazioni
[5800 parole]
 
 
Capitolo I

 

Quasi sedici inverni erano trascorsi da quella sera in cui conobbe la storia della Regina di ghiaccio e col passare del tempo, il timore verso quella figura misteriosa era diminuito. Nessuno era più entrato nella foresta e la Regina continuava a non manifestare la propria presenza, cosa di cui i locali erano più che felici, nonostante vigesse ancora il divieto di uscire durante le notti d’inverno.
Anche quell’anno la stagione fredda era alle porte e Otabek si apprestava a compiere il suo primo viaggio da solo; qualche giorno prima era arrivato un uomo a cercare qualcuno che potesse lavorare alla fucina del paese vicino e Otabek, incoraggiato dalla sua famiglia, aveva deciso di cogliere quell’occasione, dopotutto la sua abilità nel maneggiare incudine e martello lo precedeva e l’uomo ne era rimasto molto impressionato.
Era partito appena due giorni prima, insieme ad Astra, la sua cavalcatura dal manto nero, e adesso solo un giorno di cammino lo separava dalla sua nuova vita. Aveva salutato sua madre e suo padre, entrambi addolorati di doverlo lasciar andare lontano, ma consapevoli che fosse la cosa più giusta per lui; sua sorella Ayzere invece gli si era appesa al collo, come se non dovesse rivederlo mai più e aveva pianto. Lui l’aveva stretta e le aveva promesso che avrebbe trovato qualcuno che scrivesse per lui quante più lettere possibili, eppure singhiozzi della ragazza lo seguirono fino a quando non ebbe lasciato la stradina sterrata e piena di ciottoli del suo villaggio, immettendosi in quella principale che costeggiava il bosco.
Sebbene non fosse un viaggio troppo impegnativo, già dopo il primo giorno Otabek aveva cominciato a risentire della posizione seduta sulla sella, con la schiena che gli si bloccava nelle posizioni più strane e le gambe piene di lividi a causa del continuo sbattere dei polpacci contro il ventre di Astra. Alla sera del secondo giorno, anche le sue cosce non erano ridotte meglio: lo sfregare del cuoio attraverso la stoffa dei pantaloni era la cosa più fastidiosa dell’andare a cavallo, e anche se ormai era diventato un dolore sopportabile, il lieve bruciore incessante lo rendeva irritabile ed insofferente.
Fu un sollievo scendere da cavallo quella sera; aveva programmato il viaggio in modo da essere in paese prima del solstizio d’inverno, quando la magia della Regina sarebbe stata più forte, così da poter rimanere dentro casa durante le notti in cui il freddo avrebbe fatto da ambasciatore di quella stregoneria.
Si preparò ad accamparsi per la notte, mentre la temperatura si abbassava ancora di più. Per quanto non gli piacesse l’idea di ripararsi al limite del bosco, era una cosa che doveva fare per forza, se non voleva essere attaccato da qualche brigante rimanendo sulla strada maestra, e poi così avrebbe anche potuto legare Astra agli alberi sul confine. Stando alle parole di Yakov, l’importante era non entrare nel bosco.
Il suo tascapane di stoffa gli serviva solo per il cibo e l’unico cambio di vestiti che possedeva, mentre la coperta di spesa lana pesante stava appesa in un fagotto sul fianco di Astra. Adesso Otabek ringraziava mentalmente sua madre per aver insistito affinché la portasse con sé, perché il freddo si faceva sempre più rigido ogni minuto che passava. Aveva preparato un piccolo fuoco, in modo da poter riscaldare un po’ d’acqua e prepararsi qualcosa di caldo da bere, così avrebbe potuto distendersi accanto alle braci e ricevere un po’ di calore durante la notte.
Il buio calò gradualmente, il fuoco si spense, lasciando solo qualche legnetto ardente che brillava d’una rassicurante luce arancione nell’oscurità illuminata solo dal bagliore delle poche stelle che si intravedevano attraverso le nuvole.
Otabek era sicuro che avrebbe piovuto, o forse nevicato, ma sapeva di poter passare la notte tranquillo, fintanto che l’odore inconfondibile dell’umidità non aveva ancora impregnato l’aria; scoprì che dormire, quella sera, era un’impresa più ardua del previsto, visto che Astra continuava a scalpitare. Dopo l’ennesima volta che provava a chiudere gli occhi e veniva puntualmente riportato alla realtà da quel rumore scostante ed irrequieto, Otabek decise di alzarsi e cercare di capire cosa le prendesse.
«Ssh, bella, cosa c’è?» le chiese dolcemente, accarezzandole il muso. La cavalla scosse la criniera, ricercando il contatto con la sua mano e Otabek la conosceva ormai abbastanza bene da sapere che c’era qualcosa che non andava. Astra era sempre stata la più docile e tranquilla cavalcatura del suo villaggio e non era da lei comportarsi in quel modo, ma in quel momento Otabek non la riconosceva: Astra scuoteva il muso, senza star ferma un attimo e fu proprio a causa di quei movimenti che Otabek, spostandosi per evitare uno zoccolo sul piede, catturò un’ombra con la coda dell’occhio, un’ombra sottile ed inconfondibilmente umana.
«Ehi!» gridò. «Fermati!» scattò lontano da Astra, per seguire quel luccichio che aveva notato. Una sagoma si stagliava contro l’oscurità della foresta, longilinea e tremula come se emanasse luce propria, fino a quando Otabek non si accorse che ciò che aveva scambiato per un brillio intrinseco non era che la pelle diafana di chiunque fosse quell’individuo. Non era nemmeno sicuro che si trattasse di un uomo o di una donna, però accelerò il passo, continuando a gridare di fermarsi. Non fece in tempo a raggiungerla però, che la sagoma non scartò di lato e scomparve tra la fitta boscaglia. «Dove stai andando!? Torna indietro, il bosco è stregato!» urlò, sperando che quella persona potesse sentirlo. Otabek avvertì il cuore salirgli in gola, mentre il rombo sordo di un tuono in lontananza squarciava la notte, e lui posava un piede oltre la prima fila di alberi; il nitrito di Astra fu l’unica cosa che lo risvegliò da quell’inseguimento e in quel momento si rese conto di aver appena oltrepassato il confine che sin da piccolo gli era stato raccomandato di non violare mai, per nessuna ragione al mondo.
Il sangue gli fischiava nelle orecchie, mentre faceva un passo indietro e ritornava all’esterno. Si guardò intorno, sperando di vedere qualcuno e capire che, chiunque fosse, non fosse ormai perduto nel bosco stregato, ma non c’era nessuno, era tutto tranquillo, se non per il lieve alone arancione delle braci che illuminava la sagoma scalpitante e spaventata di Astra.
Tornò dalla propria cavalcatura, accarezzandola piano e mormorandole parole dolci per rassicurarla e sospirò di sollievo quando finalmente Astra sbuffò dalle narici e smise di fremere. Otabek non chiuse occhio quella notte e riuscì a prendere sonno appena qualche ora precedente alle prime luci dell’alba, vinto dalla stanchezza.
Il suo sonno fu inquieto e Otabek sognò qualcosa che non gli era più capitato di sognare da anni: una figura bianca e senza volto in una foresta scura; correva dandogli le spalle e lui la inseguiva a passi veloci, scartando gli alberi che gli ostruivano la via. Quando si risvegliò, però, non ricordava niente.
 
 
L’ultimo giorno di viaggio passò senza avvenimenti degni di nota, anche se Otabek non faceva che ripensare a ciò che era accaduto la sera prima, chiedendosi che fine avesse fatto quella persona, senza osare pensare al peggio.
Raggiunse il paese all’ora del tramonto; il sole rosso faceva brillare le punte aguzze della grande roccia che proiettava la propria ombra sulle case. Non gli ci volle molto per capire che quel paese era molto diverso dal suo piccolo villaggio: era più grande, con strade e stradine che si incrociavano come un formicaio, più frenetico e più rumoroso, perfino a quell’orario.
Sorpassò diverse taverne illuminate, dove già cominciavano a radunarsi uomini di ogni tipo, da coloro che sembravano soldati, a giudicare dalle cotte di maglia che indossavano, dalle pesanti spade che pendevano ai loro fianchi e dagli elmi che alcuni di loro tenevano sottobraccio, a semplici contadini dai vestiti usurati. C’erano anche alcune donne, anche se Otabek sapeva bene che non erano lì per divertirsi, ma per divertire. Quell’usanza non gli era mai piaciuta molto, soprattutto dopo che suo padre gli aveva spiegato in cosa effettivamente consistesse e sua madre gli aveva intimato di tenersene alla larga, se non voleva diventare centro delle voci che circolavano e rischiare di non trovar moglie.
L’odore di cibo, alcool e sudore che emanava da quei locali era quasi asfissiante, e si mischiava con quello del terriccio sotto i suoi piedi, in un misto nauseabondo che Otabek non aveva mai sentito prima d’ora in vita sua, complici anche i rigagnoli d’acqua e chissà cos’altro che scorrevano ai lati della strada.
Otabek passò le taverne senza dare una seconda occhiata, limitandosi a cercare l’insegna della fucina; era sceso dalla groppa di Astra, e per quanto si sentisse a disagio a camminare in mezzo a tutta quella gente, sapeva che non avrebbe fatto buona impressione se avesse continuato a camminare a cavallo anche dentro le stradine del paese.
Dovette chiedere ad un paio di persone, ma alla fine trovò ciò che stava cercando. La fucina era una palazzina a due piani, il primo era l’officina vera e propria, dove venivano svolti tutti i lavori, dalla forgiatura alla rifinitura, mentre il secondo ospitava la casa del proprietario e le stanze per gli impiegati forestieri. Otabek legò Astra all’apposita staccionata lì vicino, prima di bussare sul portone di legno; non sapeva cosa aspettarsi; l’uomo che era venuto a reclutarlo al suo villaggio non era il proprietario dell’attività, Otabek al momento non ne ricordava il nome, ma quel tipo aveva incantato sua madre con i suoi modi molto drammatici, facendo ridacchiare sua sorella nel mentre, e adesso Otabek si ritrovava a chiedersi come sarebbe stato il vero proprietario, se fosse un bonaccione, come aveva detto quel tipo o se fosse tutt’altra persona.
I suoi pensieri furono interrotti dal rumore dei cardini che stridevano, mentre la porta veniva aperta e l’odore del fumo e del ferro surclassava qualunque altro. Un uomo sulla quarantina, imponente come un armadio e spesso almeno tanto quanto, riempiva la cornice dell’uscio. «Che vuoi ragazzino?» sbottò. Aveva una voce sorprendentemente calda e non troppo profonda che contrastava con il suo aspetto minaccioso.
«Sono qui per il posto alla fucina. Un vostro dipendente è venuto a richiedere la mia presenza qualche settimana fa, al villaggio più a nord.» rispose Otabek, senza perdere il contatto visivo con l’uomo.
«Oh, sei tu allora! Georgji mi ha parlato di te!» lo squadrò da capo a piedi e si grattò il mento, per poi schioccare la lingua. «Mi aspettavo fossi più alto, ma sei bello robusto! Andrai bene!» gli diede una manata sulla spalla, facendo spazio per lasciarlo entrare. Otabek non disse niente a proposito del commento sulla sua altezza, dopotutto c’era abituato.
Si prese qualche momento per osservare l’ambiente. C’era il fuoco vivo e caldo, i mattoni bianchi ed incandescenti illuminavano tutte le pareti e Otabek sapeva bene che tutta l’attività di quella fucina dipendeva da quel fuoco, come un cuore pulsante, che non avrebbe dovuto spegnersi mai. Sulla sua destra stava la postazione per la lavorazione e la temprata, mentre sulla sinistra vi era un tavolo ricoperto da pezzi di armatura ancora grezzi e lame non affilate, proprio accanto la mola, oltre ad una moltitudine di attrezzi per la lavorazione a freddo.
Nuovamente, fu la voce dell’uomo ad interrompere la sua esplorazione. «La tua stanza è di sopra, insieme alle altre – indicò le scale – il turno inizia domani mattina alle cinque, non un minuto più tardi, ma fino ad allora sei libero, quindi se vuoi andare in giro per il paese a divertirti un po’, fa pure. E a proposito, io sono Feliks, come devo chiamarti, ragazzino?»
«Otabek Altin, signore.» gli rispose, raddrizzando la schiena. «Grazie dell’ospitalità.»
Feliks scosse la testa e mosse la mano davanti a sé, come per dirgli di non essere così formale. «Ve bene, Otabek. Domani vedremo se ne sarà valsa la pena, altrimenti dovrò rimproverare Georgij per avermi portato un incapace.»
Otabek si costrinse a mantenere un’espressione neutra ed annuire in silenzio. Non voleva che l’uomo lo rimandasse a casa, non dopo aver affrontato quel viaggio e non con l’inverno alle porte. E poi cosa avrebbe detto ai suoi genitori?
«Signore, ho anche un cavallo, non vorrei che restasse fuori tutta la notte.» disse; di certo non sarebbe stato contento di sapere che Astra avrebbe dovuto passare l’intera nottata esposta al gelo e chissà cos’altro, ma per fortuna Feliks agitò una mano verso il retro del locale. «Sì, sì, c’è una stalla lì dietro, è sempre vuota, ma sono sicura che la tua cavalcatura la troverà comoda. C’è anche del foraggio, lo teniamo per ogni evenienza, e quella povera bestia dovrà essere stanca, dopo averti portato in groppa fino a qui.»
«Grazie mille, signore.» Feliks gli rivolse un cenno del capo e tornò a fare ciò che aveva interrotto, lo stridio della mola che riprendeva a riempire l’aria.
Otabek uscì di nuovo, stupendosi di come in pochi minuti il cielo si fosse fatto molto più scuro. Astra scalpitava di nuovo, ma stavolta era certo che fosse per l’ambiente nuovo e tutte quelle persone che la circondavano. Sussultò, quando le posò una mano sul fianco, prima di riconoscerlo e nitrire felice.
«Sì, bellezza, siamo arrivati, ti mostro la tua nuova casa, andiamo.» slegò le redini dall’anello e con una pacca convinse Astra a muoversi; la stalla era davvero come aveva descritto Feliks, pulita, asciutta e rifornita e Otabek si prese il suo tempo per togliere la sella ad Astra e spazzolarle la criniera chiara, riempiendole poi la mangiatoia e il secchio dell’acqua. Astra vi si avventò e Otabek le sorrise. «Grazie per ieri sera, se non mi avessi svegliato non so cosa sarebbe successo.» le sussurrò. Sapeva che parlarle non aveva molto senso, ma era anche convinto che Astra fosse molto più intelligente degli altri cavalli che conosceva. «Credi che stia bene, quella persona intendo?» Astra scrollò la criniera, ma non diede segni di nervosismo. «Non so perché me ne preoccupo, non so neanche se fosse un uomo o una donna, o un nemico. Però quel bosco… è pericoloso, e Yakov ha detto che non augurerebbe quella sorte neanche al suo peggior nemico.»
Astra lo guardò, mentre lui appoggiava la fronte sul suo muso. «Forse mi sto solo preoccupando troppo, che ne pensi?» Astra nitrì e Otabek rise. «Lo so, lo so. Sono stanco anch’io, buonanotte, bella.» le carezzò un’ultima volta il muso e uscì dalla stalla per andare ai piani superiori.
La sua stanza era piccola, con un modesto materasso di paglia, un cassapanca, una sedia e un piccolo camino, per cui Otabek ringraziò il cielo. C’era anche uno specchio graffiato e una bacinella per l’acqua, utili per farsi la barba; aprì il proprio involto, gettando la coperta di lana sul materasso e l’unico cambio di vestiti sulla sedia. Avrebbe dovuto accendere il fuoco, ma non era molto sicuro di voler restare in camera, dopotutto, come aveva detto Feliks, poteva andare a divertirsi un po’ come non aveva mai potuto fare a casa. Non sarebbe tornato tardi, si era detto, giusto in tempo per dormire abbastanza da non essere stanco il primo giorno di lavoro. Voleva proprio vedere se le taverne di questo paese erano poi tanto differenti da quello del suo villaggio.
 
Dopo il terzo bicchiere di alcool, Otabek cominciava a sentire la testa più leggera e sperava di riuscire a ritrovare la strada per la fucina, senza incappare in qualche guaio come la sera prima. Al ricordo, un brivido gli percorse la schiena, ma lo attribuì al tocco che gli solleticava la coscia.
Aveva scoperto che non solo le taverne erano diverse, erano anche diverse le donne. Non era mai stato un tipo a cui piaceva quel genere di cose, ma era interessante come un po’ di alcool riuscisse a cambiare la sua visione delle cose, e quella rossa che gli accarezzava languidamente la gamba sembrava all’improvviso tutto ciò di cui aveva bisogno, eccetto che non poteva proprio farlo, non avrebbe mai mancato di rispetto ad una donna in quel modo, non con l’educazione che gli era stata impartita.
Non aveva però messo in conto che la ragazza potesse offendersi. Appoggiato contro il muro, fuori dalla locanda, con l’aria fredda che gli soffiava sulle guance arrossate, Otabek si ritrovò con il collo marchiato di rosso dalle labbra di lei. L’aveva spinta via, non troppo forte, ma abbastanza da farle capire che, anche se il suo corpo poteva sembrare d’accordo, la parte ancora razionale della sua mente non lo era.
«Scusami.» sussurrò, mentre lei si sistemava la gonna, indignata. «Cos’è, non sono abbastanza bella?» sputò la ragazza.
Otabek la guardò bene in viso: aveva un bel paio di occhi azzurri e capelli rossi corti che le incorniciavano il viso minuto e dai lineamenti fieri. No, non avrebbe mai detto che non era bella, era forse una delle più belle donne che avesse mai visto.
«N-no, tu sei molto bella – lei alzò gli occhi al cielo, ma Otabek non si fermò – è solo che… non sono abituato a queste cose e non voglio costringerti a fare qualcosa contro la tua volontà. Mia… mia madre non me lo perdonerebbe mai, se lo sapesse.»
Contro ogni sua previsione (che comprendeva almeno uno schiaffo), lei scoppiò a ridere, con una mano sulla pancia. Si passò le dita sugli occhi spazzando via le lacrime. «Ma di cosa parli? Contro la mia volontà? Ti prego, dimmi che non mi hai preso per una puttana?»
Il rossore sul viso di Otabek dovette essere una risposta abbastanza chiara, perché le sue risate si intensificarono, prima che lei ritrovasse un po’ di contengo e riuscisse a parlare di nuovo. «Tanto per essere chiari, se avessimo fatto sesso sarebbe stato del tutto consensuale, almeno da parte mia. Però grazie, eh, sei un vero gentiluomo… Come hai detto che ti chiami?» gesticolò a suo indirizzo, gli occhi luminosi ed incuriositi.
«Io non l’ho det-» cominciò a dire, poi però si accorse che lei stava per alzare una seconda volta gli occhi al cielo. «Otabek.»
«Piacere di conoscerti, Otabek, ci vorrebbero altri uomini come te in questa stupida cittadina. Comunque io sono Mila.» gli porse la mano e a Otabek parve tutto molto strano, considerato che fino a pochi minuti prima erano avviluppati l’uno all’altra come una coppia di fatto. Ciò non gli impedì di afferrare quella mano, però, sentendola piccola e fragile tra le proprie. «Piacere mio, Mila.»
Mila sorrise. «Appurato che non faremo sesso questa sera, e forse mai, c’è qualcos’altro che ti va di fare, Otabek?»
 
***
 
Passarono alcune settimane, durante le quali Otabek fece del suo meglio per guadagnarsi il rispetto di Feliks ed abituarsi a quei nuovi ritmi.
Il suo capo era rimasto contento del suo modo di lavorare, cominciando anche ad affidargli lavori singoli e non solo ruoli da aiutante. La prima cosa a cui gli aveva permesso di lavorare da solo era stata una spada e Otabek aveva sgobbato per giorni, nel tentativo di creare una buona arma, un’arma che non avrebbe tradito il suo proprietario in battaglia. Aveva usato tutti i trucchi imparati in quegli ultimi tempi, con particolare attenzione al bilanciamento della lama e dell’elsa, aveva studiato la forma della lama, appiattendola e modellandola con precisi colpi di martello ed infine l’aveva affilata e lucidata, senza riuscire a trattenere un sorrisetto soddisfatto quando Feliks, dopo averla osservata per bene, gli aveva fatto i complimenti e gli aveva detto che poteva anche tenerla per sé; da quel momento, la spada stava nella stalla di Astra.
Per il resto, il tempo che non passava all’officina lo passava con Mila. Da quella sera alla taverna, che avevano passato a ballare, si erano visti quasi tutti i giorni e quell’assidua frequentazione aveva reso palese che non ci sarebbe stato niente tra loro, perché Mila era davvero troppo rumorosa e aveva una concezione della vita di coppia diametralmente opposta alla sua, così avevano deciso che sarebbero rimasti amici, perché dopotutto si godevano la compagnia l’uno dell’altra.
 
Quel giorno Feliks l’aveva mandato a prendere dei materiali appena fuori paese e Mila aveva insistito per andare con lui, perché non le andava di rimanere a casa con sua madre. La donna, si lamentava Mila, non faceva altro che annoiarla con i suoi discorsi sul prendersi cura della casa e della famiglia e Otabek, il quale sapeva benissimo che tipo fosse Mila, non era affatto stupito dalla reazione della ragazza.
Di certo non avrebbe mai potuto aspettarsi che quella piacevole gita avrebbe preso una piega del tutto inaspettata, e Otabek fu colto totalmente di sorpresa, quando successe.
Stavano tornando verso la cittadina, sempre costeggiando il bosco a cavallo di Astra, e Otabek era grato che il sole fosse ancora abbastanza alto nel cielo. Non l’aveva detto a Mila, perché la prima volta che le aveva parlato di quella sua credenza, lei aveva riso e gli aveva assicurato che era solo un’antica superstizione ormai troppo vecchia per essere ancora verosimile.
Tuttavia, la sua mente si chiedeva ancora che fine avesse fatto quella persona che l’aveva svegliato settimane prima, se fosse stata fortunata come Yakov e si fosse salvata o se invece fosse diventata un corpo senza vita, sepolto dalla neve.
Aggrappata al suo busto, con il mento appoggiato alla sua spalla, Mila gli stava raccontando della sua ultima conquista – se la madre di Otabek l’avesse sentita parlare in quel modo, probabilmente ci sarebbe rimasta secca sul colpo, ma Otabek si era abituato a quel lato poco convenzionale (e anche piuttosto inadeguato) del carattere di Mila e doveva ammettere che lo divertiva ascoltarla e gli piaceva sapere che lei riuscisse a godersi appieno la propria vita, in barba alle tradizioni e ciò che gli altri ritenevano inappropriato.
Ed anche in quel momento l’avrebbe ascoltata volentieri, se le sue orecchie non avessero captato un suono anomalo, diverso dalla sua voce chiara e squillante.
Era iniziato come un gemito, poi si era fatto più alto, diventando quasi un urlo.
«Ssh.» Intimò a Mila, con una mano alzata ad enfatizzare.
« “Ssh” a me?» Lei gli allungò una gomitata dalla propria posizione con le braccia attorno al suo busto.
«Zitta, non senti?» Otabek le afferrò un polso, perché Mila non voleva saperne di starsene ferma.
Proprio quando finalmente Mila chiuse la bocca e smise di lamentarsi, la voce si sentì di nuovo. Lei gli diede un’altra gomitata, stavolta con urgenza, muovendosi nervosa dietro di lui. «Cosa stai aspettando, Otabek? Andiamo a vedere cosa sta succedendo!»
Otabek diede un colpo sul fianco di Astra con il tallone, spronandola verso la fonte del rumore; sembrava provenire dalla radura accanto la strada che Otabek aveva visto settimane prima. Girò l’angolo e tirò le redini.
Di fronte a lui, in mezzo alla piccola mezzaluna di alberi, nella luce morente del tardo pomeriggio, un gruppo di banditi, probabilmente gli stessi che stavano seminando il panico da qualche giorno a quella parte, aveva circondato quello che sembrava essere un ragazzo poco più giovane di lui.
Non ebbe tempo di guardarlo bene, distratto dai banditi che continuavano a stringersi attorno a lui, ma notò il suo vestiario, troppo elegante per essere un semplice paesano come loro, inoltre la sua pelle chiara era segno di una vita vissuta lontano dal sole.
Mila scese da Astra con un balzo e Otabek le fu subito dietro, sguainando la sua spada che Feliks gli aveva consigliato di portare sempre con sé. Nonostante non gli fosse mai servito fino a quel momento, Otabek si era allenato un po’ con il proprio capo e sapeva come maneggiare un’arma, quindi era sicuro che se la sarebbe cavata, il problema principale era il numero dei banditi; non finì nemmeno di pensarlo, che due di loro caddero a terra senza essere stati apparentemente toccati da nulla, inerti nella neve, lasciando gli altri due in piedi e furiosi, ma non ebbe tempo di rifletterci su, perché uno dei due rimasti lanciò un grido di rabbia e caricò verso il ragazzo, la sua spada macchiata di ruggine che roteava con potenza e velocità, anche se la collera rendeva la traiettoria del colpo scomposta.
«Spostati da lì, quello ti uccide!» Si ritrovò a gridare in direzione del giovane. Questi voltò la testa di scatto verso di lui: fu un secondo, ma al suo volto dai lineamenti fini si sovrappose un viso sfocato e bianco; quando Otabek sbatté le palpebre l’immagine era già scomparsa e il ragazzo aveva fatto un balzo di lato, evitando un fendente che se l’avesse colpito gli avrebbe aperto lo stomaco, la lama che sibilò proprio ad un soffio dal suo addome. Fece altri due passi indietro, si abbassò in posizione accovacciata e tirò fuori da uno dei suoi stivali uno stiletto argentato. Tornò in piedi nell’arco di un battito di ciglia, sollevando il proprio pugnale in posizione di difesa di fronte al viso. Lanciò uno sguardo verso Otabek e solo in quel momento egli si accorse degli occhi affilati e fieri del ragazzo. Non avevano nulla che invidiare a quelli dei soldati che vedeva alla taverna, e anzi brillavano con ancora più ferocia.
Distratto com’era, riuscì a parare un fendente del secondo uomo solo perché Mila gli gridò di stare attento. Alzò il braccio, con la lama di taglio, che stridette e provocò una pioggia di scintille mentre scivolava sul filo dell’altra. L’uomo grugnì, spingendo la propria arma contro la sua. «Ce l’avevamo in pugno, quel moccioso! Hai visto com’è vestito, di sicuro i suoi genitori pagheranno una bella somma per riaverlo. Possiamo dividere la ricompensa, che ne dici, eh? A te e a tua moglie farebbero comodo un po’ di soldi, si vede da lontano un miglio.» il fiato caldo dell’uomo soffiò sulla faccia di Otabek. Un urlo disumano risuonò nell’aria, e l’uomo dovette riconoscere la voce del suo compagno, perché si distrasse, cercando con lo sguardo la causa di quel grido; la sua distrazione permise ad Otabek di piantargli un piede sullo stomaco, calciando per toglierselo di dosso. L’uomo si rese conto troppo tardi dell’errore che aveva commesso e non fece in tempo a riacquistare l’equilibrio che Otabek ruotò la propria spada che scivolò, gemendo contro la lama nemica, e si incastrò sotto l’elsa. Otabek applicò pressione su di essa, tanto da obbligare l’altro a lasciare la presa, se non voleva ritrovarsi con una mano mozzata. La spada cadde a terra nella neve calpestata e dura e Otabek la calciò via verso Mila che la bloccò con la scarpa.
«Non proporre mai più qualcosa del genere ad un brav’uomo, bastardo.» sputò, prima di colpirgli la testa con il tacco del proprio stivale in modo da fargli perdere i sensi.
Si voltò verso dove aveva lasciato il ragazzo a vedersela con l’altro bandito, e li trovò ancora lì, solo che l’uomo aveva l’intero corpo coperto di tagli più o meno profondi e si teneva una mano stretta sull’addome. Il suo sangue era schizzato sul vestito impeccabile del suo avversario e Otabek avrebbe potuto giurare che quelle strane protuberanze mischiate alla neve ed al sangue fossero dita umane.
Il ragazzo non sembrava più aver bisogno di aiuto: si muoveva tanto velocemente da rendere impossibile prevedere i suoi movimenti e l’altro uomo non aveva possibilità di scampare a quei fendenti sottili e sempre più ravvicinati. Otabek però riuscì a vederlo, il modo in cui il suo giovane avversario mosse il pugnale d’argento tra le dita, stringendolo come un vero e proprio coltello, e capì stava preparando il colpo successivo, capì che sarebbe stato per uccidere. Scattò in avanti, colpendo l’uomo alla tempia con l’elsa della propria spada e lo osservò mentre crollava a terra, tra la neve ridotta a fanghiglia, come i suoi compari. L’odore acre e metallico del sangue gli fece salire un conato di vomito e Otabek si affrettò ad alzare lo sguardo sul ragazzo; i loro occhi si incrociarono per un secondo e gli parve che il tempo si fosse rallentato, prima che questi si inginocchiasse a ringuainare il pugnale e cominciasse a correre verso il bosco.
Otabek si bloccò nei suoi passi, ma ciò non fermò Mila, che urlando un “torna qui, non siamo pericolosi!” si era lanciata all’inseguimento, oltrepassando i primi alberi e scomparendo in un fruscio di stoffa.
«Mila!» Gridò allora. Non ci pensò neanche per un momento prima di correrle dietro, con un ultimo sguardo sconsolato ad Astra, che nitriva spaventata.
Il bosco era fitto, ed il suolo era coperto di arbusti secchi che si impigliavano ai suoi pantaloni, strappandoli, graffiandogli la pelle, gli artigliavano le membra, come avide mani. Tutt’intorno gli pareva sempre uguale, le scarpe scivolavano sulla terra congelata, mentre Otabek ricercava la luce tra i rami mezzi spogli che si innalzavano verso il cielo, dita scheletriche ed ingioiellate di stalattiti e brina, in cerca di qualche segno distintivo che gli facesse capire se fosse già passato da un certo punto o meno. Continuava a urlare il nome di Mila fino a sentire il sapore del sangue nella gola e a volte sentiva la voce di lei chiamarlo a sua volta, ma non riusciva a capire da dove provenisse, era come se stesse girando su se stesso, anche se non aveva fatto altro che andare avanti.
«MILA!» provò un’altra volta. Un senso d’impotenza si faceva strada in lui, unito alla paura e alla consapevolezza che non ci sarebbe stata via d’uscita, alla rabbia perché non solo non era riuscito a salvare il ragazzo, ma anche perché aveva trascinato la sua amica in quel suicidio.
Presto il sole era scomparse dietro le montagne ed il buio ricoprì ogni cosa, il cielo scuro e macchiato di stelle sembrava crepato dai lunghi rami degli alberi che vi si stagliavano contro.
«Cazzo… CAZZO!» imprecò, tirando un pugno all’albero più vicino, e scoprendo che il dolore lo aiutava a pensare più lucidamente, anche se continuava a non avere uno straccio di idea su come fare a uscire da lì.
Continuò a vagare senza meta, le gambe che cedevano sotto il suo peso, le sue grida ridotte a semplici sussurri senza forza, fino a quando non si lasciò andare in ginocchio sul terreno duro e freddo. Ringhiò, prese a pugni la terra, mentre i rami secchi gli si conficcavano nelle nocche, ormai scorticate, poi alzò lo sguardo di fronte a sé, sperando di trovare qualcosa, qualunque cosa che potesse aiutarlo.
Fu allora che si accorse di una sagoma che si muoveva nell’ombra. Scattò in piedi, portando una mano sull’elsa. «Mila?» provò, nessuna risposta. «Chi sei?» provò ancora, ma nemmeno questa volta ottenne niente. La sagoma si mosse, correndo di lato e lui scattò dietro di lei. «Chi sei? Fatti vedere!» e continuò a chiamare e gridare, perché seguire quella sagoma era l’unica cosa che poteva fare in quel momento.
«Otabek!?» Sentì urlare da qualche parte nel bosco. La sua mente formulò una sola parola: Mila! E gridò ancora più forte; questa volta però, la voce non girava intorno, non cambiava direzione, così Otabek decise di provare.
«Mila! Se mi senti, continua a chiamarmi e sta ferma!» Le intimò, sperando che lei l’avesse sentito.
Quando avvertì il cambiamento nelle urla della ragazza, seppe che aveva capito: se prima erano distrutte dalla consapevolezza di star gridando invano, adesso invece erano speranzose, più forti, più potenti, e soprattutto sempre più vicine.
Quando la vide, voltata di spalle, con le braccia strette al corpo e il busto piegato in avanti gli venne quasi da piangere per il sollievo. «Mila! Mila, sono qui!» Esclamò, senza riuscire a far nient’altro che aprire le proprie braccia per accoglierla quando gli corse incontro.
«Otabek.» singhiozzò lei, strofinando la guancia contro il suo collo. «Otabek.»
Le accarezzò i capelli, stringendola più che poteva. «Dobbiamo uscire di qui.» le sussurrò e la sentì annuire, prima di esalare un debole. «Ma come?»
Stava per scuotere la testa, perché il fatto di essersi ritrovati non significava che fossero in salvo, quando tra i tronchi degli alberi intravide di nuovo la sagoma. Trattenne il respiro, per non spaventare Mila, ma le strinse una mano, alzandole la testa con l’altra, il palmo che le stringeva la guancia. «Mila, Mila ascoltami, adesso devi fidarti di me, va bene? Non lasciare mai la mia mano, tieniti con tutte e due se vuoi, aggrappati al mio braccio, ma non lasciarmi andare per nessun motivo, capito? Per nessun motivo.» lei cacciò indietro le lacrime e annuì, muovendo la mano nella sua, in modo da stringerla forte, gli sorrise stanca, ma determinata.
Otabek prese un profondo sospiro e alzò di nuovo lo sguardo di fronte a sé, la figura era ancora lì, nascosta nell’ombra, ma non gli sembrava più minacciosa come prima. Se non l’avesse aiutato a trovare Mila non si sarebbe fidato, però era la sua unica speranza e non importava nient’altro.
Cominciò a camminare piano, stando attento a che Mila non rimanesse indietro; gli parve di camminare per miglia e miglia, non pensava di essersi addentrato così tanto nel bosco, ma quando alla fine le sue orecchie captarono il nitrito di un cavallo e i suoi occhi distinsero la lieve luminosità del cielo stellato, seppe che erano finalmente arrivati.
Accelerò il passo, esortando Mila a fare lo stesso, e non appena superò il confine del bosco e i suoi polmoni si riempirono dell’aria fresca notturna e una risata incontrollata gli proruppe dalla labbra. Si lasciò andare, cadendo per terra e trascinando Mila con sé.
Rimasero distesi l’uno accanto all’altra per un tempo indefinito, mentre Astra nitriva e scalpitava, in preda alla loro stessa felicità.
L’adrenalina gli scorse via dalle vene e venne rimpiazzata da un’improvvisa e confortante stanchezza.
Dopo parecchi minuti, quando anche le lacrime di gioia si furono asciugate sul suo volto, Mila gli fece accorse che i corpi dei banditi non c’erano più e che anche i materiali per Feliks erano spariti. Otabek sentì una nuova rabbia montargli dentro: era tutta colpa di quegli individui se erano finiti in quella situazione e si sentì ancora peggio, quando capì che non era riuscito a salvare quel ragazzo dagli occhi fieri. Era già la seconda persona che perdeva in quella foresta e lo faceva sentire così… inetto.
«Possiamo dire di essere stati aggrediti. Voglio dire, abbiamo l’aspetto di due persone scampate alla morte per puro caso.» Otabek non voleva dirle che era proprio così. «Non ci crederebbe nessuno, se raccontassimo quello che è successo lì dentro.» mormorò lei.
Otabek la guardò, e Mila capì. «Scusa se ti ho detto che non era vero. Non so cosa sia successo nel bosco, ma di sicuro non è qualcosa di normale. Non so ancora come tu abbia fatto a farci uscire di lì.» sospirò, montando in sella dietro di lui e appoggiandosi alla sua schiena.
«Non lo so neanche io.» esalò gettando un ultimo sguardo al fitto della selva, prima di spronare Astra verso il paese.
Quando arrivarono, a sera inoltrata, Feliks non ne fu contento, ma credette ad entrambi quando gli raccontarono di essere stati attaccati e Otabek non ebbe ripercussioni sul proprio lavoro.
Scivolò in un sonno inquieto non appena posò la testa sul cuscino, sfiancato da tutte le emozioni che aveva provato, sognando ombre e grida, sangue mischiato al fango e alla neve e due occhi affilati, verdi, fieri come quelli di un soldato.
 
 
 
 
 
Note finali:
Ed ecco il primo capitolo!
In realtà avrei dovuto pubblicarlo sabato pomeriggio, ma so già che non ne avrei avuto il tempo, quindi ve lo beccate all’una di notte! Evviva i ritmi sani
Ne approfitto anche per dire che, salvo imprevisti, gli aggiornamenti dovrebbero essere sempre durante il fine settimana, perché è l’unico momento in cui mi posso mettere seriamente a sistemare i capitoli T_T
Bene, la storia sta cominciando a prendere forma! Vengono introdotti alcuni dei nuovi personaggi, tra cui Mila.
Parliamo un attimo di Mila! Nonostante possa sembrare, ci tengo a dire che non ci sarà alcun triangolo amoroso perché, oltre a non sapere davvero come gestirli, non sono elementi narrativi che mi entusiasmano più di tanto. Mila e Otabek (tolta la prima sera in cui si sono conosciuti) non hanno mai avuto e non avranno interazioni romantiche, sono semplici amici e lo sono perché io adoro tanto Mila e volevo inserirla nella storia (quindi non insultate la mia bambina, ok? Ok). Avrà anche un ruolo importante più avanti!
Per quanto riguarda il resto dei personaggi, abbiamo un cameo di Georgij, perché anche lui riceve poco amore, e Feliks, proprietario della fucina e capo di Otabek. E penso si capisca benissimo chi sia la figura che Otabek vede nei pressi del bosco entrambe le volte ;)
Mi sono divertita tanto a descrivere le ambientazioni di questo capitolo, perché dopo tutti i libri con ambientazione medievale che ho letto, ho finalmente avuto la possibilità di utilizzare le cose che ho imparato u.u e spero di essere riuscita nell’intento di rendere al meglio l’atmosfera del paese e della fucina dove lavora Otabek!
Concludo con il ringraziare chiunque abbia letto, e spero mi vorrete lasciare un commento su cosa ne pensate della storia fino ad ora, magari sui personaggi (se sono o meno IC, ad esempio) o su cosa pensate succederà nei prossimi capitoli!
Un grazie speciale va a Silvar Tales che ha recensito il prologo, e come sempre alla mia beta _Lady di inchiostro_
LysL
  
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