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Autore: _Mhysa_    25/03/2017    5 recensioni
Sherlolly / Post 4x03
Dopo uno dei loro litigi Molly lascia Baker Street in lacrime. Sherlock è convinto che tornerà come ogni volta, ma si sbaglia. Molly Hooper non è poi così prevedibile.
Dal testo:
"Sherlock si voltò e riprese a fissare le foto e i post-it attaccati alla parete; sentì la giacca cadere sul pavimento e il corpo di Molly allontanarsi a passi goffi e svelti.
Doveva andarle dietro, sapeva che avrebbe dovuto, ma non lo fece. Non fece assolutamente niente. Tanto sarebbe tornata, si disse. Tornava sempre."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Lo faceva da almeno quindici minuti. Lanciava la pallina da tennis contro la parete, quando questa tornava indietro la afferrava con un colpo secco e deciso e poi la lanciava di nuovo. Compiva quel gesto svogliatamente, cercando di colpire lo stesso punto della carta da parati a ogni lancio.  Ci riusciva, il più delle volte.
Raggi tiepidi penetravano attraverso la finestra, illuminando i granelli di polvere che turbinavano nell’aria, rincorrendosi come dei forsennati; ce n’era molta di meno, di polvere, da quando Molly abitava in quella casa. Ma ce n’era comunque, perché a lui dava fastidio che lei spolverasse, allora a volte le chiedeva di non farlo. Glielo chiedeva in modo davvero scortese, ma Molly lo ascoltava, quindi smetteva subito e si ritirava in cucina con in volto l’espressione da cane bastonato che lui tanto odiava.
Mentre osservava la pallina scontrarsi ancora una volta contro la parete, udì un rumore di passi provenire dalle scale. Capì immediatamente che si trattava di Watson; avrebbe riconosciuto il suo passo tra mille. L’uomo attraversò la porta spalancata e si introdusse nel salotto con le mani infilate nelle tasche del cappotto.
“John” lo salutò Sherlock, senza guardarlo.
“Ehi... perché la porta è aperta?” chiese Watson. Da quando non vivevano più insieme di solito la trovava chiusa.
Sherlock non rispose, continuò a lanciare la pallina e a riprenderla prontamente.
“Passavo di qua e ho pensato di fare un salto” disse John, come per giustificare la sua presenza, pur sapendo che non ce n’era affatto bisogno. Poteva andare a trovarlo ogni volta che lo desiderava, in fondo quella sarebbe rimasta sempre casa sua.
“Molly non c’è?” domandò, perlustrando la stanza con lo sguardo.
“No”
John spostò la mascella verso destra e si mordicchiò la parte interna del labbro inferiore, annuendo.
“Se n’è andata di nuovo, vero?”
“Giusta deduzione, John, mi stupisci”
Watson cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza completamente in disordine; diede un’occhiata alla parete su cui erano affisse delle foto e dei post-it colorati. Sherlock doveva aver lavorato a un caso, quella mattina.
“Cosa hai fatto stavolta?” chiese al suo amico.
“Intendi a parte essere me? Niente”.
Quell’essere me significava che le aveva nuovamente rivolto una scarica di offese camuffate da “deduzioni”.
“Cosa le hai detto di così orribile?”
Sherlock lanciò la pallina contro la parete, ma non la riprese quando rimbalzò verso di lui, la lasciò cadere a terra e poi si sporse, staccando la schiena dal divano e poggiando i gomiti sulle ginocchia. Finalmente si decise a guardare John. Angoli delle labbra rivolti verso il basso, sopracciglio sinistro aggrottato, occhi leggermente spalancati; lo stava rimproverando in silenzio. Ed era preoccupato, visibilmente preoccupato.
“Tranquillo, sarà andata da sua zia Trudy” tentò di rassicurarlo. Era convinto che corresse da lei, ogni volta che se ne andava.
“Sherlock…”
“Tornerà”
“E se non tornasse?”
“Tornerà, come sempre”
E se non tornasse, Sherlock? Fossi in te non lo darei per scontato”.
“Oh, andiamo! Lo sai meglio di me, che tornerà. È Molly”.
John, che si era fermato a fissarlo, ricominciò a misurare la stanza a grandi passi; sembrò di colpo arrabbiato con lui.
“Io non capisco… sai? Non ti capisco per niente, certe volte! Tu tieni a lei, so che ci tieni come probabilmente non hai mai tenuto a nessuno, nella tua vita – beh, a parte me, forse - eppure certe volte ti comporti come se non te ne fregasse niente! Ma che diavolo… non ti capisco!”
“John ti stai allarmando per nulla”.
“Chissà cosa le hai vomitato addosso, stavolta. Diamine!”
 
E mentre John si lasciava cadere sulla poltrona, affondandoci praticamente dentro, negli occhi di Sherlock prese vita la scena vissuta poco prima.
 
Stava misurando quella giacca esattamente da tre minuti e quarantasette secondi; la lisciava e la tirava, aggiustandola alla bell’e meglio, e fissava la sua immagine riflessa allo specchio. Lui la guardava, di sfuggita, e desiderava che la smettesse. Perfino quei gesti, che qualcun altro avrebbe compiuto in modo più silenzioso e discreto, lo distraevano. Stava lavorando, e quando lavorava non ammetteva distrazioni, nemmeno quelle più banali e facilmente ignorabili. 
“Che ne pensi? Mi sta male? Cioè so che il colore non è molto… beh, insomma il giallo dà nell’occhio, chi comprerebbe una giacca gialla?” 
Le rivolse un’occhiata fugace; sì, in effetti era una giacca davvero orribile. Ma d’altronde l’intero guardaroba di Molly era pressoché inguardabile. Poche cose si salvavano, pochissime. Non era certo il suo modo di vestire, che l’aveva spinto a stare con lei. 
“Sherlock? Mi ascolti? No, ovviamente no… mi sta così male?” 
Lo stava innervosendo. Non doveva parlare mentre lavorava, non doveva fare niente di niente mentre lui stava lavorando, se non fingere di non essere nella sua stessa casa. 
“Potresti esprimerti? Ti ho chiesto un parere. Mi senti, Sherlock?” 
A quel punto non poté più ignorarla. Si voltò, seccato, e lei capì subito che stava per arrivare uno di quei momenti in cui l’unica cosa che avrebbe voluto era tirargli un pugno in faccia. 
“Sto lavorando” disse lui, semplicemente. 
“Stai sempre lavorando”. 
“Più o meno” 
Molly sospirò e schiuse leggermente le labbra sottili, increspandole fino a formare una M perfettamente definita. 
Sherlock stava già puntando lo sguardo altrove, quando la donna parlò ancora. 
“Mai una volta che mi facessi un complimento. Lo so che non siamo quel tipo di coppia che si fa i complimenti, beh… a volte non so nemmeno se siamo una… coppia. Ma potresti… potresti almeno darmi un parere, quando lo chiedo”. 
Sherlock, sempre più innervosito da quell’insolente insistenza, prese di nuovo a fissarla e mosse qualche passo verso di lei. 
“Vuoi davvero sapere cosa penso di questa giacca?” le domandò, quasi come se fosse una minaccia. 
In fondo lo era, altroché se lo era. 
Molly serrò le labbra, tendendole in una linea retta, e lo guardò decisa a non demordere, non quella volta. 
“Sì, voglio saperlo” rispose, con un filo di voce. 
Sherlock annuì e si avvicinò ancora. Era convinto che non volesse realmente sapere cosa ne pensasse di quella dannata giacca, perché lei era consapevole del fatto che non le avrebbe detto nulla di gentile a riguardo, o di vagamente piacevole, ma volle accontentarla. Dopotutto aveva insistito lei. 
“Tutti comprerebbero una giacca gialla il giallo va di moda quest’anno l’avrai visto praticamente in ogni vetrina di ogni negozio di Londra allora ti è venuta voglia di comprare qualcosa di questo colore nonostante tu non segua la moda eppure la giacca è di una tonalità davvero brutta la peggiore nella scala dei gialli perché è chiara troppo chiara e dà un senso di sbiadito e di vecchio anche se l’hai comprata appena ieri. Ma passiamo al taglio, è carino perché è una giacca avvitata stretta in vita e poi ricade morbida sui fianchi peccato che non ti si addica per niente non porti mai cose avvitate strette o aderenti soprattutto perché c’è ben poco da valorizzare o da mettere in mostra le tue spalle sono esili le scapole alari e quindi sporgenti il seno quasi inesistente i fianchi fin troppo ossuti perciò nascondi il tuo fisico sotto strati di vestiti larghi o comunque che non aderiscono mai troppo alla pelle e la maggior parte degli indumenti che indossi non mi piace per non parlare dei terribili abbinamenti come la camicia a quadri con il maglioncino a righe o il marrone con il viola. E per concludere la qualità della giacca è davvero pessima, comprata da Primark a dieci sterline senza sconto le cuciture sono imprecise si vede un filo di cotone pendere dalla fodera in basso sul lato destro e il terzo bottone è cucito così male che penzola e potrebbe cadere da un momento all’altro e no, non darai nell’occhio, a Londra a nessuno frega niente di come si veste la gente perciò continuerai a essere invisibile per il resto del mondo anche con questa ridicola giacca addosso”. 
Lo aveva fatto di nuovo; aveva pronunciato una serie di commenti a ritmo serrato, senza pause, per dimostrarle che ricordava ogni parola che aveva detto, nonostante non stesse ascoltando, e che aveva notato tutto, nonostante l’avesse guardata solo distrattamente. Ed era stato spietato, come al solito.
Un sorrisetto compiaciuto comparve sul suo volto, mentre quello di Molly si incupiva, diventando meno carino e perdendo un po’ della sua innata dolcezza. 
La donna deglutii a vuoto, sbatté le palpebre lentamente e schiuse le labbra un paio di volte senza emettere alcun suono, prima di parlare. 
“Come… come fai?” 
“Lo sai come faccio”
“No intendo… come fai a offendere così facilmente le persone che ami? Insomma, non ti dispiace nemmeno un po’? Ti riesce così… naturale?” 
Sherlock incrociò le braccia dietro la schiena e fece scomparire il sorrisetto sul suo volto. 
“Sai qual è l’errore che commette la gente normale, Molly Hooper?” chiese; si fermò qualche secondo, fingendo di attendere una risposta che sicuramente non sarebbe arrivata, poi riprese. “Fare differenze fra le persone; non capisco perché tutti vi ostiniate a comportarvi in modo diverso con le persone. Io sono sempre me stesso, con chiunque. Avrei potuto dirti un mucchio di sciocchezze, ma perché? Solo perché sei Molly?”
Lei lo guardava intensamente, dritto negli occhi cerulei. Avrebbe voluto dirgli un sacco di cose; mille pensieri le si affastellarono nella testa, ma sulle sue labbra affiorò solo una domanda. 
“Perché stai con me, Sherlock?” 
“Come?” chiese lui, di rimando. 
Molly spostò il peso da una gamba all’altra e combatté per non piangere le lacrime che le si erano addensate agli angoli degli occhi. Sherlock non sopportava le persone che piangono.
“Mi ami?” gli domandò, in un sussurro appena udibile. “Non me l’hai mai più detto… dopo quella volta”. 
Sherlock sciolse le mani ben intrecciate dietro la schiena e lasciò cadere le braccia lungo il corpo; la sua mente ritornò a quel giorno, uno dei più terribili della sua esistenza. Ricordò esattamente la disperazione che lo invase al pensiero che la casa di Molly Hooper sarebbe saltata in aria con lei dentro, se non le avesse fatto pronunciare le tre magiche parole. Aveva temuto di non riuscirci; ma più di tutto, era stata la richiesta di Molly a sconvolgerlo irrimediabilmente. Gli aveva chiesto di dirle per primo, quelle tre paroline, le più spaventose al mondo. E aveva temuto di non riuscirci, sapeva che non poteva dirle, l’amore non era un sentimento che apparteneva a Sherlock Holmes, nemmeno per finta. Ed era stato proprio questo particolare, a sconvolgerlo: non aveva finto un bel niente. Nell’istante in cui pronunciò quelle parole terrificanti capì che… le pensava. No, non le pensava… le sentiva. Per questo motivo le aveva ripetute due volte; la prima a Molly e a Eurus, la seconda a sé stesso. E per un attimo credette sul serio di aver vinto, quando Molly sussurrò a sua volta la breve frase fu davvero convinto di essere uscito vittorioso da quel duello all’ultimo sangue. Ma era una menzogna; aveva perso, maledettamente, perché “i sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde”. Sentimento; era pervaso, dal sentimento. Quindi si rese conto che l’unica a vincere era stata la sua parte perdente. E aveva distrutto quella bara, perché il fallimento gli era crollato addosso insieme a tutte le certezze che fino a quel momento erano state le fondamenta della sua esistenza, del suo palazzo mentale. E questo gli aveva provocato dolore, frustrazione, sentimenti che lui non sapeva contenere, gestire, perciò li aveva tradotti in rabbia e distruzione. Ma la consapevolezza che più lo logorava era che… l’aveva fatta soffrire. Molly Hooper stava soffrendo, ed era tutta colpa sua. 
“Sherlock… mi ami?” ripeté la donna che gli stava davanti, quella reale, non la persona intrappolata nei suoi ricordi.
Non glielo aveva mai più ripetuto, non aveva mai più pronunciato quelle terribili parole; quando andò all’obitorio da lei, un mese dopo il Problema Finale – solo allora aveva trovato il coraggio di rivederla- John le aveva già raccontato tutto e lui si era limitato a dire: è vero, è tutto vero. Poi non sapeva spiegare bene come da quel giorno erano finiti a vivere insieme, e a condividere cose che non avrebbe mai pensato di condividere con un altro essere umano (tipo il suo letto). E ora lei gli stava chiedendo di ripetere le temibili paroline; e lui sentiva che poteva farlo, possedeva la risposta al quesito di Molly, o meglio lei possedeva lui; la avvertì partire dallo stomaco, risalire l’esofago e piantarsi con i piedi ben saldi sulla punta della sua lingua. Tuttavia non riuscì a dirla; gli si bloccò proprio lì, a pochi centimetri dall’uscita. 
Molly a quel punto non poté più trattenersi; le lacrime le scivolarono sugli zigomi piatti, e brevi singhiozzi le scossero il petto. 
Sherlock si voltò e riprese a fissare le foto e i post-it attaccati alla parete; sentì la giacca cadere sul pavimento e il corpo di Molly allontanarsi a passi goffi e svelti. 
Doveva andarle dietro, sapeva che avrebbe dovuto, ma non lo fece. Non fece assolutamente niente. Tanto sarebbe tornata, si disse. Tornava sempre. 
 
John, che ormai era stufo del mutismo in cui si era rinchiuso il suo amico, decise di alzarsi e andare a fare quattro passi.
“Vieni con me? Andiamo a cercarla?”
Sherlock si voltò di scatto e lo fissò inebetito.
“Tornerà”
“D’accordo. Fa’ come ti pare, ma sappi che secondo me dovresti andare a cercarla e chiederle scusa, qualsiasi cosa tu le abbia detto. E dovresti anche imparare a trattarla meglio, perché verrà il giorno in cui si stancherà di questa storia”.
John gli rivolse un’ultima occhiata di rimprovero, prima di andarsene.
 
                                                                                                  *********
 
Tre ore, ventisei minuti e undici secondi, questo era il massimo che l’aveva fatto attendere, prima di ritornare, dopo uno dei loro litigi a senso unico. Ma non quella volta; perciò dopo tre ore, ventisei minuti e dodici secondi Sherlock si ficcò il cappotto e scese in strada; controllò ogni angolo, ogni posto, ma lei non c’era. Non c’era a casa di sua zia, non c’era all’ospedale, non era con Julie, la sua unica amica di infanzia; non era da Starbucks a bere frappuccino (lo adorava). Non era con nessuno dei suoi compagni del corso di yoga (li aveva telefonati, uno per uno, e tutti avevano affermato di non sentirla né vederla dal giovedì precedente). Allora si era rivolto ai senzatetto, ma anche loro non erano stati di grande aiuto. E poi aveva interpellato un suo vecchio ammiratore, un tizio grassoccio che si occupava di analizzare tutte le registrazioni delle telecamere di sicurezza della metro. Avevano analizzato insieme ogni fotogramma, ma di Molly Hooper non c’era traccia.
Solo a quel punto Sherlock si era rivolto a John; gli aveva inviato un messaggio e l’amico l’aveva raggiunto in un batter d’occhio. Perciò si erano ritrovati a vagare insieme per le strade di Londra alla ricerca di qualsiasi indizio che potesse condurli da lei; e intanto John gli faceva delle domande e cercava di capirci qualcosa.
“Quindi, ricapitolando… non è andata da sua zia, non è con la sua migliore amica, non è all’obitorio, non è andata da Starbucks, non ha visto i suoi amici di yoga e non ha preso la metro, giusto?”
“Esatto”
John si zittì e si mise a riflettere.
“Non è che ti sfugge qualcosa? Insomma, potrebbe esserci qualche amico di cui non sai niente… o magari si è rivolta a Tom”
“Molly non ha molti amici, e Tom vive in Francia con il suo nuovo ragazzo”
“Ragazzo?!”
“Sì”
“Oh… beh…”
“È scomparsa John, volatilizzata”
“Andiamo Sherlock! Sarà da qualche parte”
“Ovviamente sì, la domanda è dove?”
John sospirò e iniziò a riflettere, cercando un particolare che magari era sfuggito al suo amico, ma sapeva che a Sherlock Holmes non sfuggiva mai niente.
“Posso… posso sapere cosa le hai detto?”
“Ha davvero importanza?”
“Sì, beh forse non in questo frangente ma… sì, ha importanza Sherlock”
“Sei una pettegola, John”
“E tu un insensibile, talvolta. Cosa le hai detto?”
Sherlock strinse le labbra carnose e sospirò rumorosamente.
“Non si tratta di qualcosa che ho detto, Watson, ma di quello che non ho detto”
L’uomo non capì subito, scrutò il suo amico che invece continuava a guardarsi in torno in modo frenetico.
“Quello che non hai detto?” chiese, confuso.
Ci impiegò qualche minuto ad arrivarci, Sherlock pensò che il suo cervello fosse troppo lento, ma questo lo sapeva già.
“Oh… non glielo hai mai più detto, da quel giorno?”
“Non ce n’è stato bisogno” si giustificò.
“Cristo, Sherlock! Ce n’è sempre bisogno, invece. Sei davvero una frana con le donne amico, lasciatelo dire”.
“Sono una frana con gli esseri umani John, credevo te ne fossi accorto”.
Watson alzò gli occhi al cielo e scosse il capo, sconvolto da quanto appena appreso.
“Incredibile… eppure la ami, so che la ami… insomma, ti ho visto distruggere una bara perché non riuscivi ad accettare di…”
“John basta così”.
“…amarla”.
Silenzio. Entrambi smisero di parlare per un po’.
“Quando la troverai dovrai dirglielo. Non tornerà se non glielo dirai” constatò John, a voce bassa e misurando con cura le parole. Sherlock non rispose, non lo guardò; dopo qualche minuto prese il telefono.
“Che fai?” gli domandò l’amico.
“Devo contattare Mycroft. Può essere che sia stata rapita, e se fosse stata Eurus? Devo accertarmi che sia ancora nella sua cella speciale…”
“Sherlock stai farneticando. Non c’è bisogno di chiamare Mycroft…”
“Sì invece, se fosse stata qui l’avrei sicuramente già trovata! L’ho cercata ovunque John, ma non ho trovato niente, non un solo indizio…”
“Sherlock…”
“Rapimento, si tratta senza dubbio di rapimento”
“Sherlock”
“Riconosco un rapimento, quanti casi del genere abbiamo affrontato? Tantissimi!”
“Sherlock”
“Smettila di ripete il mio nome come un idiota…”
“SHERLOCK!”
Quella volta John aveva urlato, per attirare la sua attenzione; finalmente Holmes smise di parlare e fissò il suo collega.
“Tu sei un idiota! Guarda”.
John indicò con l’indice destro la vetrina di una tavola calda, oltre la quale Sherlock vide la testa di una donna abbassarsi leggermente in un movimento alquanto brusco; i suoi folti capelli castani erano legati in una coda ordinata e non molto alta.
Non aspettò che si girasse di profilo; senza nemmeno rendersene conto, in un battito di ciglia era già arrivato alla porta del locale, l’aveva spinta verso l’interno ed era entrato, per poi dirigersi verso il tavolo a cui Molly era seduta. La donna se lo ritrovò davanti, ma non si scompose; si limitò a fissarlo con durezza, cercando di non lasciar trasparire la sua sofferenza, che comunque restava percepibile, circondandola come una specie di aura mistica ed espandendosi nello spazio intorno a lei.
Sherlock sbatté le mani sul tavolo e la fissò, quasi infuriato; la penetrava con i suoi occhi ben spalancati, cercando di leggere sul suo volto la mappa del percorso che aveva compiuto da quando aveva lasciato Baker Street fino a quel momento. Non ci riuscì, non vide scritto un bel niente, e questo lo fece imbestialire di più. Era furioso con Molly Hooper, al punto che il resto del mondo perse d’importanza (non che ne avesse mai avuta molta, per lui). Esisteva solo lei.
“Ci hai messo tempo, Sherlock Holmes” lo provocò.
“Dove – diavolo - sei – stata?” le chiese, scandendo bene le parole e ignorando la provocazione.
“Qui” rispose lei, in un sussurro.
“Qui?”
Molly annuì, scuotendo la coda ordinata.
“Impossibile. Sono passato davanti a questo posto esattamente due volte, prima d’ora, e posso affermare con certezza che non eri qui dentro”.
Molly mantenne un’espressione piuttosto seria.
“Intendo… qui… a Londra”.
“A Londra”
“Sì”
Si scrutarono per un lungo istante; gli occhi di Sherlock rimasero perfettamente spalancati, mentre Molly sbatté le palpebre un paio di volte, perché quelle iridi cerulee le stavano quasi bruciando le pupille, quindi avvertì la necessità di interrompere per un secondo il contatto visivo.
“Sono stata sul London Eye. Un amico di mio padre lavora lì, quando ho bisogno di riflettere mi concede qualche giro extra”.
“London Eye” ripeté, incredulo. “Quindi è lì che vai ogni volta”.
“Sì… beh, qualche volta vado da zia Trudy”
“London Eye”
Non poteva accettare l’idea che non fosse riuscito ad arrivarci.
“Sì”
“Ti ho cercata ovunque, Molly Hooper, ovunque! Ho perfino controllato che Tom fosse ancora a Nizza! Ho girato ogni angolo di questa maledetta città, ogni centimetro e tu… tu eri a perdere tempo su una dannata ruota panoramica?”
Molly deglutì rumorosamente e sbatté le palpebre ancora una volta; le sue pupille andavano a fuoco.
“Smettila di urlare” mormorò. Un silenzio tombale era piombato nella tavola calda, inglobandoli come una gigante bolla di sapone. Tutti li guardavano, alcuni divertiti, altri infastiditi, altri ancora semplicemente incuriositi.
“E tu smettila di sparire come se…”
Si bloccò, come era successo quella mattina, quando non era riuscito a darle la risposta che sentiva pronta sulla punta della lingua.
“Come se cosa, Sherlock Holmes?”
Non continuò la frase; aveva ancora le mani ben spalancate, poggiate sul tavolo sporco di briciole che lentamente si conficcavano nella pelle dei palmi.
Molly si alzò, facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento; si diresse alla cassa, pagò il suo conto con la carta di credito e uscì dal locale senza voltarsi indietro.
Sherlock lasciò il suo numero al cassiere e gli chiese di informarlo, se lei fosse venuta di nuovo lì senza di lui e ci fosse rimasta per molto tempo; poi uscì in strada. Non si era nemmeno accorto che Watson era entrato subito dopo di lui, assistendo all’intera scena.
Corse per raggiungerla; chiamò il suo nome ma lei non si fermò. Allora corse più veloce, la raggiunse e le afferrò il polso con una salda presa. A quel punto Molly si girò di scatto e di nuovo puntò i suoi occhi castani in quei laghi ghiacciati capaci di incendiarle l’anima ogni volta, senza ritegno.
Si guardarono intensamente; Hooper non sbatté le palpebre nemmeno una volta. Si lasciò scottare, perché in fondo adorava quella sensazione, adorava lasciarsi bruciare da Sherlock Holmes. Ma sperò che lui non se ne fosse accorto.
“Torna a casa, per favore” sussurrò l’uomo; non era più arrabbiato, anzi. La stava letteralmente supplicando, come quando le aveva chiesto di dichiararsi.
“Dillo”
“Cosa?”
“Dillo e tornerò”.
John aveva ragione, pensò. Poi successe; quelle tre paroline si presero per mano e cominciarono a salire le scale che conducevano alla sua bocca; ma niente, non ci riuscirono. Una forza uguale e contraria cominciò a spingerle per ricacciarle verso il basso, nel luogo ameno in cui erano accuratamente intrappolate, in una gabbia di acciaio e repulsione. Le due parti di sé, la perdente e la vincente, si stavano scontrando; in realtà lottavano perpetuamente, in una stanza sperduta nei meandri della sua mente, solo che il più delle volte lui le ignorava, ma non in quel momento; le sentì respingersi a vicenda, causando un black out totale che mandò in tilt il suo cervello. Non era in grado di fare niente, a stento si ricordava di respirare.
“Molly per favore…” biascicò, fissandola con gli occhi spalancati e le pupille ridotte a due puntini appena distinguibili.
“No” sussurrò, scuotendo il capo. “Voglio che tu lo dica non perché sto morendo, o perché tenti di vincere la sfida col tuo passato, Sherlock. Voglio che tu lo dica perché lo senti”.
Certe volte Molly era davvero in grado di mandarlo K.O. Nessuno ci era riuscito, oltre lei, nemmeno i suoi più acerrimi nemici (perché sì, lui ne aveva, in fondo non era mai stato una persona normale).
“Molly”
“Scrivimi, quando sarai pronto” disse.
Strattonò il suo polso dalla presa dell’uomo, che ormai non stringeva più; poi di nuovo si voltò e a grandi passi si allontanò da lui.
“I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde, vero Sherlock?” gli chiese John; aveva completamente dimenticato la sua presenza.
Quella notte Sherlock era riuscito a tenere a bada la sua parte perdente. Eppure sentiva di aver perso tutto.
 
                                                                                         **********
 
                                                                         Due settimane dopo…

              SH: Pronto. 

              MH: Sicuro? Non so se lo sono io…
 
              SH: Torna.

              SH:Ti sto aspettando.​

Tre ore, ventisei minuti e undici secondi. Il tempo che era passato da quando le aveva inviato quell’ultimo messaggio a cui non aveva ricevuto alcuna risposta. Si era messo a suonare, per ingannare l’attesa; provava la nuova composizione che avrebbe insegnato a Eurus. Non sapeva esattamente quando sarebbe andato a trovarla, nelle ultime due settimane non era uscito da casa; non aveva fatto niente, era come se la sua intera esistenza fosse in pausa. Non gli andava nemmeno di lavorare; pensava che stesse per morire, già, pensò che fosse arrivato sul serio il momento di lasciare per sempre quel mondo di imbecilli.
Non morì; ma attese, prima sé stesso, poi Molly Hooper.
Erano passate tre ore, ventisei minuti e dodici secondi, quando lei varcò la porta rigorosamente spalancata del numero 221B di Baker Street. Non la guardò subito, ma seppe che era lei; smise di colpo di suonare e restò immobile con il violino sotto al mento, prima di poggiarlo sul davanzale della finestra oltre la quale fingeva di guardare il paesaggio sottostante. In realtà fissava la sua immagine riflessa nel vetro.
“Era… era una bella melodia” commentò lei.
“Sì, lo era”.
In quel momento ad attendere era lei; aspettava quelle parole, le aspettava da tutta una vita.
“Hai detto di essere pronto” lo incalzò.
Finalmente si voltò per osservarla; indossava un jeans stretto, una camicetta rosa pastello a tinta unita e la giacca gialla comprata da Primark a dieci sterline. I capelli erano legati nella solita coda e sulle labbra sottili c’era un filo di rossetto chiaro.
“Sono pronto”.
“Lo sei?”
“Sì. Tu lo sei?”
“Sono qui”.
Sherlock annuì appena.
“Ho pensato di sparire dalla tua vita. Insomma, sarebbe tutto più semplice se tu non stessi con me; non è sano avere una relazione con un sociopatico iperattivo”.
“Sherlock…”
“E avevo deciso così, avevo deciso che non sarei mai stato pronto”.
Molly sospirò rumorosamente, chiuse gli occhi per un attimo e scosse la testa.
“Ma poi mi sono reso conto che ho bisogno di te, Molly Hooper, disperatamente; allora mi sono chiesto se si può amare una persona solo perché si ha bisogno di lei”.
“Sherlock… me ne vado, io…”
“Io ti amo, Molly Hooper”
Glielo aveva detto, senza lotte interne, senza blocchi, senza intoppi. Molly sgranò gli occhi, incredula. Pensava che mai più avrebbe udito quelle parole dalle labbra carnose e perfette di Sherlock Holmes; un incendio meraviglioso divampò nei suoi occhi fino ad arrivarle al cuore, facendo esplodere la corazza di malinconia e dolore in cui si era rinchiusa da due settimane a quella parte. Un calore piacevole la invase tutta, irradiandole lo stomaco, le gambe, il petto, la testa e ogni centimetro del suo piccolo e imperfetto corpo.
“Ti amo, e non perché ho bisogno di te. Ti amo perché ci sei, quando ho bisogno ci sei sempre, e ci sei anche quando non mi serve niente. Ti amo perché sei tu, Molly Hooper, così come sei, goffa, timida, sola, dolce, comprensiva. E forte, coraggiosa… insomma sei l’unica persona al mondo che abbia schiaffeggiato Sherlock Holmes”.
Un sorriso le curvò le labbra.
“Ti amo perché sei l’unica persona che è in grado di lasciarmi senza parole. Certe volte dici delle cose, Molly, che non avrei mai pensato potessero appartenerti, e questo mi stupisce, e alle volte fai delle deduzioni degne di una persona davvero intelligente. Tu mi stupisci, Molly Hooper, e io sono un tipo che non si stupisce facilmente. Allora ho capito che sì, ti amo”.
Molly continuò a sorridere, con un’espressione inebetita stampata in volto, gli occhi languidi e pieni di contentezza. Si avvicinò a lui senza mai smettere di guardarlo e con cautela gli accarezzò la guancia sinistra. Sherlock ebbe un fremito.
“Mi dispiace… per quello che ti ho detto, per quello che ti dirò”.
“Non importa. E comunque i sociopatici iperattivi sono decisamente il mio tipo”.
Anche Sherlock sorrise, mostrando i denti grandi e sottili; Molly avvicinò il suo volto a quello del detective, fin quando la punta all’insù del suo naso non sfiorò quello dell’uomo. Sentì il suo respiro caldo sulle labbra; esitò un attimo, poi lo baciò. Con tenerezza, in modo lento, per farlo abituare gradualmente a quel contatto a cui probabilmente si era disabituato. Sherlock inizialmente sembrò volersi allontanare, poi prese il suo volto fra le mani e la avvicinò di più a sé.
Si baciarono per molto tempo, anche se non fu in grado di quantificarlo; desiderava solo che non finisse, almeno non troppo presto. Doveva poter sentire che era lì, tra le sue braccia; doveva poter sentire che sarebbe rimasta, che era tornata per restare.
“Io ti amo, Sherlock Holmes” sussurrò lei, quella volta direttamente sulle sue labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 






Note d’autrice
Salve a tutti! Ho da poco finito Sherlock e subito ho sentito l’esigenza di scrivere qualcosa su Sherlock Holmes e Molly Hooper. Ho amato questa serie come non mi capitava da molto e in particolar modo ho apprezzato tantissimo il personaggio di Molly; non è per niente scontato, non si tratta della solita belloccia camuffata da sfigata, oppure della classica povera ragazza che non ha spina dorsale innamorata del protagonista. Molly è una ragazza qualunque, non bellissima, timida, socially awkward e dalla personalità ben definita. Aiuta Sherlock, lo ama perdutamente, ma è capace di dirgli che è un insensibile quando esagera, o di prenderlo a sberle se commette una sciocchezza. E adoro loro due insieme, credo che siano perfetti con le loro imperfezioni; inoltre sono convinta che nella 4x03 Sherlock abbia realizzato di amarla davvero, perciò ripete le parole “I love you” due volte.
Beh, spero che la storia vi piaccia! Fatemi sapere cosa ne pensate se vi va!
Alla prossima
_Mhysa_
  
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