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Autore: Laylath    26/03/2017    4 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 20. Meccanismi collaudati.

 


 
Il ritorno di Andrew, Laura ed Henry in paese aveva ovviamente scatenato una serie di quesiti a cui la maggior parte della gente non sapeva dare risposta. Tutti si chiedevano il motivo di quel viaggio così improvviso e le ipotesi si sprecavano, fino a sfiorare l’idea dello scandalo, almeno secondo le malelingue più ardite, tuttavia nessuno riusciva a trovare una risposta che soddisfacesse completamente. Nonostante tutte le indagini i diretti interessati ed i pochi intimi a conoscenza della vicenda non si sbottonavano con nessuno e questo non faceva altro che aumentare la curiosità della gente a cui una questione così fuori dall’ordinario faceva gola.
Elisa era una delle poche privilegiate a conoscenza dell’esistenza di Erin e questo le aveva dato occasione di scoprire un lato dei suoi compaesani davvero curioso. Se prima non aveva avuto che pochi pazienti, tutti suoi parenti o amici, adesso sembrava che buona parte delle signore fosse ansiosa di farsi visitare da lei. E, caso ancora più curioso, sembrava che i loro mali non fossero nulla di grave: tutte cose che qualsiasi persona sa curarsi da sola a casa, senza bisogno di presentarsi dal medico; o ancora malesseri praticamente inesistenti al punto che la giovane dottoressa, per amor delle apparenze, guariva consigliando qualche semplice tisana che altro effetto non aveva se non quello di una piacevole bevanda calda per quei giorni freddi. Le occhiate diffidenti si erano trasformate in sguardi affabili, come se tutte si fossero improvvisamente ricordate di quella cara ragazza che avevano visto crescere e che sicuramente sapeva bene come trattare le sue pazienti.
Mi dispiace, ma per il mal di pettegolezzo non c’è alcuna medicina – pensò la giovane, mentre salutava con un sorriso la moglie del droghiere che usciva dallo studio con il broncio e un sacchetto con le erbe per la tisana.
Come la porta si fu chiusa e rimase sola nell’ambulatorio, il suo bel viso assunse un’espressione di disappunto. La faccenda poteva essere divertente da un lato, certo, ma dall’altro si sentiva estremamente sminuita come medico: quelle donne non venivano da lei per reale necessità, ma solo perché speravano di estorcerle qualcosa sulla signora Laura e su quel viaggio ad East City. Se avessero avuto bisogno di un vero consulto medico si sarebbero certamente rivolte al dottor Lewis e non a lei.
Quasi evocato il medico entrò dalla porta che collegava l’ambulatorio al suo studio.
“Dalla tua faccia deduco che la moglie del droghiere non abbia nulla che le giuste chiacchiere non possano guarire, vero? Eh sì, ogni tanto il paese ha queste epidemie di pettegolezzo sfrenato, ma la medicina ci può fare ben poco”.
“Dubito che nei casi precedenti venissero da lei per farsi controllare. Mi sento una sciocca a prescrivere dei placebo quando sappiamo tutti che non c’è niente che non vada. In un ambulatorio di città simili perdite di tempo non sarebbero ammesse: si toglierebbe assistenza a chi ne ha realmente bisogno”.
“Ah, ragazza mia – scrollò le spalle l’uomo, andando ad una vetrinetta e recuperando alcuni flaconcini – ma come ti ho detto più volte la realtà di paese è completamente diversa. Sai che devi giocare una partita ben ragionata se vuoi che alla fine ti accettino come medico”.
“E questo vuol dire assecondarli in queste loro stupidaggini?”
“In questo primo momento sì, non puoi permetterti di allontanarli da te. Mi prenderesti anche alcune garze? Noto che stanno finendo”.
Obbediente Elisa andò a recuperare il materiale richiesto ed osservò con invidia il suo mentore finire di preparare la valigetta di cuoio ormai consunto per il suo quotidiano giro di visite. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo accompagnare, per poter visitare veri pazienti, ma sembrava che quel momento fosse ancora lontano.
“Comunque quegli studi che mi hai fatto arrivare dalla città sono davvero interessanti – commentò il dottore, chiudendo la valigetta e andando a prendere la giacca che stava su un attaccapanni all’angolo dell’ambulatorio – hai lavorato con gente in gamba, si vede”.
“Mi sembra tanto un contentino – sospirò Elisa – una pillola per addolcire una medicina amara”.
“Non esiste un medicinale per quello che stai passando, Elisa Meril – le sorrise, andandole davanti e dandole un buffetto affettuoso sulla guancia – come hai detto tu è solo un placebo per un male che non c’è veramente. Ma se ti può aiutare, sappi che apprezzo davvero tanto il lavoro che fai qui in ambulatorio…”
“… tengo il registro e sistemo i medicinali…”
“… è anche da queste cose che si vede la bravura di un dottore, credimi. Allora, io vado a fare il solito giro di visite; mia moglie tornerà tra poco. Lascio a te il comando della nave, ragazza”.
Con un mesto sorriso Elisa salutò il medico e rimase sola nell’ambulatorio. Si guardò intorno con rassegnazione e poi si mise a rimettere a posto gli strumenti usati per la sua rapida visita alla moglie del droghiere: a parte quella breve attività e l’aggiornare il registro non le restava molto da fare e dunque, a meno di non ricevere altre malate immaginarie, si sarebbe ridotta a leggere un libro come ormai accadeva quotidianamente. Almeno in questo era fortunata: Vato non la lasciava mai sprovvista di letture e sembrava cercare sempre qualcosa di nuovo per stuzzicare il suo interesse.
Almeno per lui le cose sembrano andare bene, lavorativamente parlando – si consolò, andando alla scrivania e recuperando il romanzo che aveva iniziato due giorni prima. Il suo sguardo andò all’anello di fidanzamento, la cui pietra verde approfittò di un raggio di sole per brillare vivacemente: l’idea del matrimonio le sembrava estremamente lontana per come stavano andando le cose. Certo, i loro stipendi si stavano accumulando e, sebbene lentamente, un piccolo gruzzolo stava vendendo messo da parte per l’evento: a vederla in questo modo l’idea di sposarsi ad inizio estate sembrava fattibile, sebbene con qualche difficoltà e sacrificio.
Ma sono io che non voglio sposarmi in simili condizioni – sospirò, giochicchiando col nastrino del segnalibro.
Non era l’amore che mancava, tutt’altro, ma non voleva che il paese l’additasse solo come moglie di Vato Falman. Per quanto potesse passare solo per una paranoia, non le andava di fare quel passo se prima non avesse avuto una stabilità lavorativa vera e propria. Non poteva trovare un equilibrio tra essere moglie ed essere medico se prima non capiva la vera entità del suo lavoro: durante il tirocinio aveva imparato bene cosa volevano dire giornate piene ed emergenze da affrontare e, anche se in paese non si arrivava certo a livelli simili, non poteva permettersi di fare errori di valutazione in questa prima fase. Proprio come diceva il dottor Lewis, era la protagonista di una strana partita a scacchi con la popolazione: il matrimonio con Vato poteva essere un fattore parecchio incisivo in quella strana contesa, sia in positivo che in negativo.
Le sue deprimenti riflessioni vennero interrotte dal campanello che segnalava l’apertura della porta dell’ambulatorio.
“Avanti!” esclamò, in modo che il paziente la sentisse anche dalla piccola sala d’aspetto.
Tirò fuori il suo sorriso di benvenuto, preparandosi ad affrontare l’ennesima paziente immaginaria che veniva a fare due chiacchiere che, inevitabilmente, sarebbero andate a parare sulla signora Laura. Tuttavia abbandonò quell’espressione di facciata quando vide che si trattava di Rebecca.
Era dalla festa del primo dicembre che non la vedeva, sebbene sapesse che da qualche settimana aveva ripreso ad uscire per le vie del paese. Conosceva bene gli eventi che avevano portato alla rottura con Jean e sapeva altrettanto bene quello che era successo con Riza dato che quest’ultima si era sfogata con lei.
Aveva sperato che Rebecca mettesse da parte il suo orgoglio e cercasse di sistemare le cose con la sua migliore amica, ma sembrava che la mora si ostinasse a tenere quell’atteggiamento davvero immaturo nei confronti di chi non lo meritava.
Tuttavia questi sentimenti furono repressi quando vide l’aria sconsolata e preoccupata della ragazza: c’era ben poco della giovane vivace e arguta che era abituata a frequentare. Era come se qualcosa si fosse spento in lei: dal viso pallido, ai capelli che non avevano la solita vitalità, all’atteggiamento remissivo che si evinceva dal modo in cui si stringeva il cappotto addosso.
“Ciao – salutò la giovane, fissandola con sospetto – disturbo?”
“No, vieni pure – le fece cenno Elisa, venendole incontro e chiudendo la porta dell’ambulatorio – non c’è nessuno adesso”.
Questa volta tirò fuori un sorriso incoraggiante, invitandola a sedersi nella sedia davanti alla scrivania: il suo istinto di medico le diceva che doveva esserci qualcosa che non andava e che Rebecca era molto timorosa al pensiero di parlarne.
“Allora, che succede? – chiese con fare tranquillizzante – non hai un bell’aspetto”.
“Si vede così tanto?”
“Non saresti così preoccupata se si trattasse di un banale malanno di stagione, vero?”
Rebecca la fissò per qualche secondo, prima di accasciarsi pesantemente contro lo schienale della sedia. Sospirò con sollievo, come se si fosse finalmente liberata di un grosso peso.
“Ho… ho le nausee…” mormorò sollevando lo sguardo sul lampadario.
“Mh” annuì Elisa, tastandole il polso.
“Sono sempre stanca – continuò Rebecca – spesso mi gira la testa… e…”
“E…?”
“E sono più di due mesi che non ho il ciclo… mi si è anche ingrossato il seno…”
Elisa smise la sua aria professionale per guardare l’amica con aria incredula.
Oh mio dio! – sussultò interiormente mentre cercava di recuperare il controllo e non pensare a tutti i risvolti che poteva avere una simile rivelazione. Adesso doveva pensare a Rebecca in quanto paziente e non in quanto amica ed… ex fidanzata del padre del bambino che portava in grembo.
“Senti, perché non ti sdrai nel lettino così ti posso visitare meglio? – propose – Potresti anche levarti il cappotto così posso…”
“Non posso continuare a nascondere per molto una cosa simile – si disperò la mora – adesso con i vestiti invernali si può andare avanti, ma la pancia diventerà più evidente e… dannazione, quando mia madre scoprirà che sono incinta sarà la fine del mondo”.
“Va bene, calmiamoci – Elisa la incitò ad alzarsi – dici che sono due mesi che non hai il ciclo? Pensi di poter risalire al concepimento? Sarebbe già un inizio…”
L’inizio della fine… cielo! Cielo! Cielo!
“… metà novembre o poco più – scosse il capo Rebecca – non vedo che differenza possa fare! Elisa, ascolta, non ci sono delle erbe per abortire?”
“Che? Rebecca Catalina, ma che discorsi fai? – la rimproverò la dottoressa – Non è così che risolverai i tuoi problemi! Forza, sdraiati adesso: le uniche erbe che ti darò saranno quelle per farti stare meglio, ma senza danneggiare il bambino… se solo Jean ti sentisse dire certe cose…”
“Fammi il favore di non nominarlo in mia presenza – sbuffò l’altra – è stato lui a mettermi nei guai!”
“Queste cose si fanno in due, non essere sciocca!” avrebbe aggiunto anche altro, ma vide le prime lacrime colare sulle guance pallide dell’amica e questo la indusse a trarre dei profondi respiri e calmarsi. Non era così che si comportava una vera dottoressa: doveva tranquillizzare la paziente e non rimproverarla.
“Ehilà, sono tornata!” esclamò la voce della signora Lewis dall’interno della casa.
“Meglio che vada…” mormorò Rebecca, asciugandosi le lacrime e guadagnando rapidamente l’uscita.
“No! No…no! Reby, aspetta!” la chiamò Elisa, ben sapendo che non sarebbe servito a niente.
Rimase a guardare la porta ormai chiusa, mentre la sua testa impazziva all’idea dell’uragano che stava per abbattersi su di loro.
Non possiamo lasciarla sola – si disse, mentre si sforzava di sorridere alla signora Lewis che compariva nell’ambulatorio, ignara che fosse appena andata via la madre del suo pronipote.
Una cosa era certa: che lei fosse medico, che fossero ormai cresciute, erano comunque amiche e compagne e non sarebbero venute meno l’una all’altra.
E se non era Rebecca a fare il primo passo, sarebbe stata un’altra.
 
Il pomeriggio dopo Riza sedeva tranquillamente nel salottino della casa di Elisa, totalmente ignara di quanto si stava preparando. Aveva accettato con gioia quell’invito per il the, desiderosa di potersi concedere un pomeriggio di piacevoli chiacchiere. Adesso che le sue paure per il futuro si erano attenuate riusciva a godersi con maggior tranquillità il presente in paese, in attesa di nuovi eventi.
Si guardò attorno, restando ancora una volta incantata da quell’ambiente: le donne di casa Meril avevano ritagliato per loro quel piccolo e delizioso spazio che godeva di una finestra affacciata sul cortile dove venivano coltivate le erbe medicinali. Tutto, dal tavolino al divano, alla delicata libreria, alla tappezzeria bianca con fiorellini gialli dava un senso di intimità e calore: un angolo perfetto per scambiare confidenze.
“Roy tornerà in paese tra dieci giorni – disse, mentre l’amica le versava del profumato the alla menta, una delle tante delizie che produceva la signora Meril – e porterà la moto con sé. Si prospetta un periodo davvero impegnativo per il capitano Falman”.
“Dimmi la verità, muori dalla voglia di farci un giro” ridacchiò Elisa, sedendosi accanto a lei nel divanetto.
“Senza correre troppo – puntualizzò la bionda, con aria matura – del resto quando mi portava a fare i giri in bici era divertente. Basta non esagerare, come in tutte le cose. E spero che anche gli altri ragazzi saranno dello stesso avviso”.
“Alla gente sembrerà l’opera del demonio, ne sono certa. Figuriamoci: un mostro rumoroso come la moto non può che fare scalpore. Già le poche volte che si vede una macchina pare che sia un sortilegio. Ah, una volta che vai in città ti accorgi fin troppo di quanto sia chiusa la mentalità del paese”.
“Sono sicura che, mentalità chiusa o meno, si abitueranno a un dottore donna – sorrise Riza – se il dottor Lewis nutre tanta fiducia in te vuol dire che sei davvero brava”.
“Brava a tenere in ordine l’ambulatorio, ma pare che anche questo sia importante per un medico. Peccato che per le mie pazienti non sia molto brava… la medicina del pettegolezzo ancora non esiste”.
“Per la questione del viaggio ad East City? – la bionda ridacchiò – La signora Laura è estremamente divertita della cosa: dice che non c’è niente di meglio del vedere certa gente bollire nel proprio brodo. Quando sua nipote verrà in visita qui sarà davvero sconvolgente”.
“Non vedo l’ora di conoscerla”.
“Pure io. Kain e papà sono entusiasti di lei e anche la signora Laura ne parla molto bene”.
Rimasero ancora qualche minuto a parlare del più e del meno, mentre Elisa cercava il modo giusto di iniziare il discorso. Aveva riflettuto se doveva far appello al famoso segreto professionale e tenere la bocca chiusa, ma poi era arrivata alla conclusione che per aiutare Rebecca era necessario un aiuto esterno alla sua famiglia.
“Stamane è venuta Rebecca in ambulatorio” disse all’improvviso, decidendo che non era il caso di rimandare oltre.
“Sì? – Riza si irrigidì fin troppo visibilmente – avevo sentito che ormai esce di casa già da qualche giorno”.
“Sei ancora arrabbiata con lei?”
“Sì – annuì laconicamente l’altra, posando la sua tazza di the sul tavolo. Poi parve ripensarci e aggiunse – insomma, la conosco da anni e sono abituata ai suoi colpi di testa. Però certe cattiverie gratuite che ha detto su di me e sulla mia famiglia non gliele perdono con facilità. Abbiamo fatto tanto per lei… e poi si è comportata così. E non mi ha mai chiesto scusa, nonostante siano passati più di due mesi. Ammetto che l’avrei perdonata se fosse venuta da me il giorno dopo, ero pronta ad attribuire tutto alla sua solita irruenza, come sempre… però…”
“A casa sua la situazione dev’essere pesante”.
“Proprio per questo non devi voltare la schiena ai tuoi amici, non credi? Così ti privi di tutti i sostegni che hai. Posso anche capire che tra lei e Jean le cose non siano andate bene, ma che senso aveva tagliare i ponti con me? Ha fatto un cambiamento di fronte totalmente improvviso”.
C’era molto disappunto nella voce di Riza, proprio come c’era d’aspettarsi. Del resto che le si poteva rimproverare? Era stata vicino all’amica in ogni occasione e poi si era vista rifiutata senza motivo venendo infine coinvolta in un circolo di offese chiaramente rivolte a Jean.
Appunto, proprio perché siamo amiche anche di Jean dobbiamo agire. In fondo il bimbo è suo.
“È venuta in ambulatorio perché non si sentiva bene”
“Davvero? – adesso Riza si girò a guardarla, chiedendosi come mai le venisse detta una cosa simile. Negli occhi castani si intravide un primo barlume di preoccupazione e questo fece ben sperare la giovane dottoressa – Niente di grave, spero… cioè, presumo…”
“Riza – Elisa le prese entrambe le mani – con molta probabilità Reby è incinta”.
Gli occhi castani di Riza fissarono quelli verdi dell’amica con incredulità, quasi le chiedesse se si trattasse solo di una presa in giro. Il suo viso assunse un’espressione indecifrabile, tra sgomento e preoccupazione, come se stesse improvvisamente capendo tutto quello che comportava la confidenza appena ricevuta.
“Accidenti – riuscì a dire alla fine con il fiato leggermente corto, quasi avesse corso per un lungo tratto di strada – questa proprio non me l’aspettavo… insomma, sapevo che lei e Jean erano andati ben oltre i baci, però non… credevo che prendessero precauzioni!”
“Dubito che siano stati attenti in queste cose – sbuffò Elisa – insomma li conosciamo bene entrambi. Sono così impulsivi che certi accorgimenti non li avranno manco presi in considerazione. Insomma noi due sappiamo bene che…” si bloccò vedendo il profondo rossore apparso sulle guance dell’amica.
“Ecco – ammise Riza – non… non è che ne sappia molto in merito…”
“Pensavo che tu e Roy…”
“No, non ancora almeno. Non c’è mai stata occasione”.
Elisa sorrise con gentilezza e abbracciò l’amica, come a rassicurarla che tutto andava bene e non si doveva certo sentire in difetto ad essere l’unica a non aver ancora avuto esperienze sessuali col proprio fidanzato.
“Incinta – disse infine la bionda, staccandosi da quell’abbraccio – e Jean è il padre. Santo cielo, quei due sono tutto meno che pronti ad avere un figlio”.
“Io credo che Rebecca non possa esser lasciata sola in un simile momento”.
“No, hai ragione”.
 
Una volta uno di loro, probabilmente Heymans, aveva detto che erano un gruppo così collaudato da essere in grado di rinsaldare i legami anche in situazioni di emergenza. Come un meccanismo saltato a cui viene improvvisamente messa una nuova rondella che aiuta a far girare tutto per il verso giusto.
Sicuramente c’erano le giunture più affidabili e quelle più capricciose e tendenti a saltare ed era chiaro che Riza apparteneva alla prima categoria, specie se si andava a confrontarla con la sua miglior amica.
L’emergenza aveva spazzato via l’offesa nell’arco di pochi minuti: adesso la bionda già si preoccupava di come poter agire in una situazione così delicata. L’idea che Rebecca e Jean si sposassero dopo quella burrascosa rottura era surreale, ma era vero che un bimbo in arrivo cambiava completamente le cose. In simili casi bisognava mettere da parte l’orgoglio e maturare in fretta.
Vediamo i lati positivi: sicuramente i signori Havoc accetteranno il nipote meglio del previsto. Sono persone molto buone e non chiuderanno le porte in faccia ad un neonato.
Jean in veste di padre le sembrava molto improbabile, ma questo non la scoraggiava: in fondo era un ragazzo di buoni principi e buoni sentimenti e si sarebbe comportato di conseguenza. In casa Havoc quel bambino sarebbe cresciuto serenamente, non c’erano dubbi.
Tutto sommato non è la parte paterna a preoccuparmi – sospirò, mentre arrivava davanti a casa dei Catalina e bussava alla porta.
Sperava che ad aprirle fosse Polly o il signor Catalina o, meglio ancora, la stessa Rebecca, ma non fu così fortunata e si trovò davanti la signora che, ovviamente, la gratificò di uno sguardo sfastidiato ed indignato, quasi a chiederle come osasse presentarsi a casa loro.
“Cosa vuoi in questa casa, Riza Hawkeye?” chiese con voce stizzita, mettendo particolare enfasi sul suo cognome, a sottolineare il legame con lo strambo del paese.
“Vorrei vedere Rebecca, se è possibile” rispose in tono educato la ragazza, cercando di mantenere la calma per non vomitare addosso tutto quello che pensava di questa sua storica antagonista.
“Per cosa? – la donna mise una mano sullo stipite della porta, come ad impedire qualsiasi possibilità d’accesso – Per metterle in testa nuove strane idee? Hai già fatto abbastanza in tutti questi anni, signorina: sono stato una sciocca ad accettare che mia figlia ti frequentasse ed i risultati si sono visti!”
Riza serrò la mascella, indecisa se risponderle a tono o scostarle il braccio ed entrare di forza, ma qualsiasi suo gesto fu anticipato da Rebecca che compariva dalle scale che si vedevano appena oltre l’ingresso.
Elisa le aveva detto delle sue condizioni, ma vederla dal vivo era tutt’altra cosa: indossava un abito di lana decisamente troppo sformato per lei e si teneva le braccia strette attorno alla pancia, come se fosse in preda ad un terribile dolore… o come se volesse nascondere un qualcosa alla vista altrui. Il viso era pallido, con occhiaie fin troppo evidenti, ed i bei capelli scuri erano tenuti legati in una stretta coda che rendeva ancora più affilati i suoi lineamenti.
“È venuta a trovare me, mamma, non te – disse la mora con voce stanca ma decisa, facendosi avanti e levando il braccio della donna dallo stipite – cerca di essere un minimo ospitale”.
“Non sei in condizioni di poter uscire di casa. Guardati, stai chiaramente male e…”
“E allora sarà Riza a venire in camera mia – Rebecca prese la mano dell’amica e la fece entrare, conducendola verso le scale e dando le spalle alla madre – non disturbarci, fammi questo santo favore!”
“Rebecca Catalina!” protestò la signora, ma ormai era tardi.
Con una velocità che smentiva le sue condizioni fisiche, la giovane aveva trascinato Riza su per le scale e attraverso il corridoio, fino alla sua camera. La fece entrare con foga e poi chiuse la porta alle sue spalle, mettendo particolare enfasi nel dare un giro di chiave.
“Che cosa ci fai qui?” bisbigliò, andandole accanto e facendole cenno di tenere basso il tono di voce.
“Perché dobbiamo parlare piano?”
“Se scopre che cosa sta succedendo mi ammazza, non è chiaro? Credo che inizi a sospettare qualcosa, ma per ora il gioco regge: pensa ancora che si tratti di un malessere di stagione”.
“Reby, dannazione, non puoi tenerlo nascosto per sempre: non è da te indossare vestiti simili, persino tua madre se renderà conto presto o tardi! – Riza si staccò da lei e si sedette sul letto fissandola con aria di rimprovero – Possibile che ogni volta ti devi cacciare nei guai?”
“Questo lo chiami guaio? – la mora si sedette accanto a lei e si toccò la pancia – Questa è una catastrofe! E… dannazione a te, potevi venire prima!”
“Potevi venire tu da me e iniziare a chiedermi scusa – sbottò Riza, mettendosi a braccia conserte e guardandola con aria indignata: era proprio da lei cercare di rigirare la frittata – invece no, niente da fare con te! Ti professi tanto matura da voler lavorare con gli Havoc, ma a conti fatti non sei molto cambiata da quando andavi a scuola”.
“Non le pensavo davvero quelle cose su di te e la tua famiglia, lo sai bene – Rebecca arricciò il naso con fastidio, come se non credesse possibile che la sua amica si fosse messa in testa certe idee assurde – ma mi ha fatto enorme rabbia vedere che tu patteggiavi con Jean”.
“Ero dalla parte di entrambi, stupida: non potevi chiedermi di darti ragione a prescindere perché non ce l’avevi… anzi sei passata ad avere torto marcio ed è inutile che lo neghi”.
Si fissarono con astio, occhi scuri contro quelli castani, mentre una strana corrente elettrica passava tra di loro. Quello di dicembre era il primo grosso litigio che avevano avuto da quando si conoscevano: prima si trattava di semplici bronci e di arie offese che passavano non appena una delle due strizzava l’occhio o sospirava con rassegnazione, ma questa volta non aveva funzionato così e di conseguenza non avevano avuto idea di come gestirlo.
“Davvero non sono molto cambiata da quando andavo a scuola? – chiese infine Rebecca, abbassando lo sguardo e giocando colpevolmente con una delle larghe maniche del suo vestito – Ti sbagli, sai? All’epoca sarei corsa fuori casa non appena tu mi avessi chiamato, anche se durante l’intervallo avevamo litigato”.
“Sono venuta a casa tua ogni giorno dopo la festa del primo dicembre, ma non ti sei mai degnata di uscire da camera tua. Ed ero preoccupata per te, lo sai benissimo”.
“Scusami… in quei momenti ero davvero furente: non hai idea dell’umiliazione che provavo dopo quello che aveva detto Jean. Come se non bastasse c’era mia madre che continuava a ripetermi che lei l’aveva sempre detto e per una volta tanto mi sembrava avesse ragione”.
Forse avrebbe aggiunto altro, ma il suo sguardo si puntò sulla gonna di Riza ed immediatamente si portò una mano alla bocca. Ebbe uno strano singulto e poi si alzò di scatto, aprendo con frenesia la porta per poi correre disperatamente nel corridoio.
La bionda si alzò e corse di vedetta al corridoio pregando che la signora Catalina non scegliesse proprio quel momento per salire al piano di sopra. Passarono interminabili minuti, ma alla fine Rebecca ricomparve dal bagno, passandosi la manica destra sulle labbra screpolate.
“Arrivano all’improvviso e dopo venti secondi non posso fare a meno di rigettare – sospirò mentre tornavano in camera e richiudevano la porta. Si sedette sul letto e abbracciò il cuscino – credo di essere dimagrita di un paio di chili nelle ultime due settimane”.
“Dovevi farti visitare da Elisa – scosse il capo Riza, sistemandole una ciocca di capelli neri che erano sfuggiti al fermacapelli – sicuramente qualche rimedio per queste nausee esiste”.
“Riza, forse non capisci – Rebecca la guardò con aria disperata – l’unico rimedio per tutto questo è sbarazzarmi del bambino finché sono ancora in tempo. Credo sia possibile con le erbe giuste e sicuramente Elisa sa come fare, del resto sua madre non è un’erborista?”
“Non puoi dire questo! Insomma, è il tuo bambino… tuo e di Jean!”
La mora scosse il capo e poi scoppiò a piangere, aggrappandosi all’amica. Mai era sembrata così fragile, tanto che si aveva paura a tenerla stretta: pareva che ogni singhiozzo dovesse frantumarla del tutto. Riza non aveva nessuna esperienza di donne in stato di gravidanza, ma per qualche sinistro motivo le venne in mente la foto dove lei stava con sua madre, Elizabeth: le aveva sempre dato l’idea di una donna a cui fossero state risucchiate tutte le forze per poi darle alla figlia.
No, non essere sciocca – si rimproverò, mentre accarezzava i capelli dell’amica – tua madre era già fragile di suo, non è nemmeno da paragonarsi ad una ragazza sana come Rebecca.
“Suvvia, non ne vuoi parlare?” mormorò dolcemente, cercando di scuoterla un minimo.
“E di cosa? – sospirò Rebecca, scostandosi il tanto che bastava per guardarla in faccia – Con Jean è finita, ci vuole tanto a capirlo? Lui non vuole avere minimamente a che fare con me”.
“Però credo che debba sapere del bambino, è anche suo”.
“Per cosa? Per tornare insieme a forza? No, non sarebbe giusto – scosse il capo con rabbia e delusione, un dettaglio che fece capire a Riza come si fosse in parte pentita di come aveva gestito la cosa – e non voglio piegarmi ad un matrimonio riparatore”.
“Secondo me se vi chiarite potreste tornare assieme – propose Riza con serietà – insomma, cinque anni di relazione non si buttano in questo modo. Forse questo periodo da separati vi ha fatto bene”.
“Anche se fosse non voglio che succeda per un figlio in arrivo – la mora la guardò con determinazione – adesso… so che quanto sto per dire sembra orribile ed innaturale, ma io non sono assolutamente pronta per avere un figlio. So che ho sempre parlato di voler sposare Jean, di stare con lui.. ma l’idea di avere dei bambini mi terrorizza perché non sono pronta per un simile impegno”.
“Parlavi di matrimonio escludendo l’idea di avere figli? Reby, sei più immatura di quanto pensassi!”
“Avrei preso degli accorgimenti!”
“E perché non li hai presi subito, accidenti a te!”
“Perché… oh, ma che ne vuoi sapere tu, casta e pura! Non sono cose calcolate quelle che succedono tra me e Jean. Capita che siamo lì, magari a parlare, e poi due secondi dopo succede. Ma guardati, arrossisci come una scolaretta che scopre come funziona tra maschie e femmine: tu e Roy dovreste proprio darvi una svegliata!”
“Intanto nei guai ci sei tu e non io – si difese Riza – quindi non cambiare discorso!”
“Giusto, il discorso – Rebecca tirò fuori un fazzoletto da una tasca del vestito e si soffiò il naso arrossato – non posso avere questo bambino, tutto qui. Non sono pronta e sicuramente non lo è Jean… e non voglio forzature tra di noi, non voglio una storia simile a quella della signora Laura”.
“Jean non è come quell’uomo”.
“Ma il matrimonio è stato forzato per via di un bimbo in arrivo. Capisci che devo abortire?”
“No, non capisco. Sono sicura che a pensarci bene ci saranno delle soluzioni alternative. E prima di tutto dovresti farti vedere da Elisa perché non stai per nulla bene”.
“Andrò da lei solo se mi prometterà di aiutarmi a perdere il bambino – dichiarò Rebecca con testardaggine – diglielo che mi faccio visitare solo a queste condizioni. Altrimenti farò tutto da sola: sicuramente si trova qualche signora che sa come fare”.
“E metterti in pericolo? Sei scema? Sei già debole di tuo, se le cose non vengono fatte per il meglio potresti anche peggiorare le tue condizioni, se non morirne!”
“Credi ancora a quelle vecchie storie?”
“Credo che sia una cosa che vada fatta sotto controllo medico, altrimenti non sei poi così moderna come ti professi – la ricattò Riza – ricorreresti ancora a vecchi metodi che spesso e volentieri non portano a buoni risultati”.
“Se non ho altra scelta vi ricorrerò”.
Rebecca troncò il discorso con quell’ultima frase e di nuovo le due amiche rimasero a fissarsi con determinazione, non essendo disposte a cedere sulle proprie posizioni. Alla fine fu la mora a cedere a quella piccola sfida: con un sospiro tremante si posò contro la spalla di Riza e chiuse gli occhi, sentendosi terribilmente stanca.
La bionda non disse niente, capendo che non era il caso di insistere. Ma dentro di sé aveva già deciso che bisognava impedire a Rebecca di fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentita amaramente per il resto della sua vita.
C’è solo una persona che può convincerla a non fare questa follia.

                           


 
  
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