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Autore: Ormhaxan    27/03/2017    2 recensioni
Scandinavia, IX secolo. Hrafnhildr giunge con il mutare della marea nell'isola di Fyn, regno danese sotto il dominio di Guthrum, spietato comandante vichingo al quale offre i suoi servigi di donna guerriera e di veggente. Guthrum non si fida di lei, così come non si fida Einarr, temuto jarl al suo servizio, eppure ben presto le profezie di Hrafnhildr si dimostreranno vere: quando giungerà il momento di salpare verso le terre a ovest degli angli e dei sassoni, di conquistare i loro fragili regni, entrambi gli uomini si ritroveranno ad avere disperato bisogno del suo consiglio e dei suoi divini presagi, affascinati da quella giovane donna tanto bella quanto misteriosa.
I corvi sono pronti a spiccare il volo, ad affondare i loro artigli nella carne di sovrani deboli e corrotti, far conoscere al mondo la forza e la grandezza dei Figli del Nord.
[Secondo capitolo (indipendente) della serie dedicata ai condottieri norreni che, nel tardo IX secolo, conquistarono con la loro Grande Armata i regni dell'allora Inghilterra.]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Medioevo
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Non era stato un viaggio facile quello intrapreso. Le drakkar avevano navigato su di un mare clemente, le vele erano state gonfiate da un vento forte e impetuoso, eppure non era mancati il freddo e le onde che, con la loro spuma bianca, avevano continuato a bagnare giorno e notte i visi e i corpi dei norreni, far rabbrividire le loro pelli e i loro corpi già provati dalle basse temperature del crepuscolo e della buia notte.
Benché la stagione del nóttleysi fosse iniziata da alcune settimane, le temperature erano ancora rigide, lontano da quelle calde e miti che caratterizzavano quella seconda parte dell’anno; inoltre, la vita in mare non si era dimostrata propriamente semplice, specialmente per una come Hrafnhildr, che mai prima d’ora si era imbarcata in una traversata così lunga o era stata per tanti giorni a così stretto contatto con uomini e donne guerrieri.
La veggente e il conte non avevano più parlato dopo l’ultima volta. Si erano tenuti a debita distanza anche se non erano mancati gli ordini, i consigli e i pasti consumati l’uno vicino all’altra: il loro rapporto, il loro strano e complesso rapporto, si poteva considerare ufficialmente basato sulla reciproca tolleranza, sulla reciproca stima e, soprattutto, sul reciproco aiuto in caso di necessità.
Quella mattina, la mattina del diciottesimo giorno, il sole era sorto silenzioso come sempre ad Est, coperto da delle nubi biancastre che facevano filtrare solo in parte i suoi tiepidi raggi obliqui: il mare era calmo, il suo colore di un verde così profondo da coprire il fondale, e benché alcuni dormissero ancora gran parte dell’equipaggio era già all’opera, impegnato nel dare ordini o nel remare senza sosta.
Hrafnhildr era tra quelli che riposavano, se na stava in un angolo raggomitolata e coperta dal grande mantello blu dal quale non si separava mai.
Il suo sonno, in quella notte appena trascorsa più di ogni altra passata, era stato turbolento, colmo di ombre, sangue, morte: un’aquila insanguinata era stata intagliata da un figlio maggiore in un cortile di pietra, aveva spiccato il volo alla presenza di Odino, compiacendo il signore di Asgard e tutti gli Æsir; i figli minori avevano assistito al rituale, brindato e cantato mentre le urla di una principessa giungevano sorde alle loro orecchie. Ombre scure si muovevano oltre il mare, eserciti le cui fila erano ingrossate da spiriti silenziosi in cerca di onore e gloria; corvi gracchiavano appollaiati sugli alberi spogli, i loro becchi erano affilati e i loro occhi brillavano nell’oscurità; infine c’era stato il vagito di un neonato, così forte e intenso da sovrastare il rumore della battaglia, da prevalere su ogni cosa.
Era stato il suono della vita che prevale sulla morte.
L’acuto garrito di un gabbiano la destò dal suo sonno: il volatile dalle ampie ali bianche volava alto nel cielo, il suo manto si confondeva tra le nubi, ma la sua presenza era reale, profetica, il segnale che da giorni stavano aspettando con impazienza.
La terra ferma era vicina, ancora poco e la flotta sarebbe sbarcata nelle terre degli angli e dei sassoni, avrebbe raggiunto la sua destinazione ultima.

“Remate, remate! – la voce squillante di Einarr ruppe il silenzio, i suoi comandi erano decisi – La terra è oramai vicina, amici, manca poco. Remate, forza!”
C’era impazienza nella sua voce, una sfumatura di euforia che lasciava intravedere la sua voglia di toccare le sponde di quelle terre protagoniste di avvincenti racconti che per anni aveva udito narrare alla corte di Guthrum e nella propria; per anni aveva immaginato le sue scogliere spioventi, i suoi fiumi, i villaggi, le città abitate da sovrani i cui volti erano stati impressi su delle monete di argento e oro, i loro palazzi e i loro ricchi tesori nascosti.
L’orizzonte si aprì in lontananza, il blu cedette il posto al verde e al marrone e al garrito dei gabbiani si accompagnò quello delle onde che si infrangono sugli scogli: l’Inghilterra si ergeva maestosa davanti a loro, bramosa di essere conquistata non senza fatica e morte, era ciò che di più bello Einarr avesse mai visto in tutta la sua vita.
Una nuova speranza, un nuovo futuro, una nuova vita.
“È bellissima… — sussurrò Hrafnhildr al suo fianco, stringendosi nel mantello del colore del mare — È la risposta a tutte le nostre domande, ai sogni enigmatici. Il nostro futuro.”
“Il futuro di tutti noi, sì. – concordò Einarr, continuando a osservare la costa sempre più vicina — Nonostante questo dovremo combattere strenuamente per conquistarci questo nostro futuro, poiché sono certo che i signori di queste terre lotteranno fino alla fine per difendere ciò che è loro, sacrificheranno anche l’ultimo dei loro uomini per mantenere il loro dominio.”
“Potete biasimarli?”
Einarr la guardò con la coda dell’occhio, distogliendo per la prima volta lo sguardo dall’orizzonte: “No, affatto. – rispose – Fossi in loro anche io combatterei fino al mio ultimo respiro per difendere dai miei nemici ciò che mi appartiene, coloro che amo.”
Hrafnhildr si domandò se lo jarl avesse mai amato davvero qualcosa o qualcuno, se il suo cuore fosse ancora in grado di amare: un tempo aveva amato la sua sposa, tutti nel villaggio erano stati testimone di quell’amore di cui adesso era proibito parlare, ma sarebbe mai stato in grado di amare nuovamente qualcosa o qualcuno? A questo, Hrafnhildr non aveva risposte.
“Sono stati i vostri nemici a privarvi di ciò che amavate di più al mondo, della vostra giovane sposa?” chiese, pentendosene immediatamente.
Gli occhi di Einarr si sgranarono, il suo corpo divenne teso, la sua mascella coperta da una bionda barba si contrasse e lo sguardo che la rivolse le fece raggelare il sangue nelle vene: “Cosa ne sapete voi della mia sposa? Chi vi ha detto di lei?”
“Io… — Hrafnhildr tentennò, cercando le parole giuste – Ne ho sentito parlare nel villaggio e…”
“Nel villaggio, dite? – Einarr sorrise algido, un sorriso amaro e nervoso – Dovrei tagliare la lingua ai miei sudditi, forse così impareranno a tacere una volta per tutte.”
“Mi dispiace, non avevo idea…”
“No, infatti, voi stupidi veggenti non potete capire. Voi vi divertite a giocare con il futuro della gente, a sussurrare al loro orecchio parole velenose, menzognere, che portano solo morte e tragedia. – la prese per un braccio e strinse forte – È per colpa di quelli come voi se mia moglie è morta, se tutto ciò che amavo mi è stato strappato via con l’inganno.”
La strattonò più forte, lasciando la presa sul suo braccio, facendola cadere rovinosamente sulle assi di legno della drakkar sempre più vicina alla spiaggia.
Anche quella volta, si disse, aveva rovinato tutto. Non sarebbero mai stati amici, loro due, e lei non sarebbe mai stata vista di buon occhio dello jarl, solo disprezzata per ciò che era.
Nessuno l’avrebbe mai amata, nessuno avrebbe mai voluto la sua amicizia ed era proprio questa la sua condanna: solitudine. Sarebbe per sempre stata sola, vista esclusivamente come un mezzo per avere risposte, per vaticinare i desideri e i voleri degli déi, il labile e sempre incerto destino dei mortali.
Niente amicizia, niente affetto, niente amore. Non per lei, mai per una come lei.


 

**




Percepire la terra sotto i piedi, la sabbia scura resa friabile dall’acqua salmastra fu come ritrovare l’equilibrio.
La drakkar erano state ormeggiate in un’insenatura naturale circondata da alte scogliere raggiungibili attraverso un unico sentiero roccioso e impervio immerso in una folta e vivida vegetazione: qui, i norreni avevano iniziato a mettere insieme un improvvisato e temporaneo accampamento, mandato mezza dozzina di volontari a perlustrare la zona in cerca di qualche segno di vita, di una possibile minaccia da parte degli abitanti di quelle terre.
Hrafnhildr si accomodò sotto una tenda che lei stessa aveva aiutato ad erigere insieme ad altri due uomini e una moglie di lancia, stando ben attenta a restare il più lontano possibile da Einarr che, in quel momento, se ne stava sul bagnasciuga a impartire ordini ai suoi uomini.
Anche Guthrum, l’imperturbabile e severo sovrano dell’isola di Fyn, era impegnato a urlare ordini ai suoi, in un andirivieni nervoso che lasciava percepire la sua impazienza, sensi sempre all’erta, pronti a captare qualsiasi suono o movimento.
Prima di partire il norreno della scura chioma le aveva chiesto un vaticino, di leggere per l’ennesima volta le rune, scrutare nell’immediato futuro: solo quando Hrafnhildr aveva nuovamente profetizzato il loro sicuro arrivo sulle coste inglesi, la loro vittoria e la grandezza che là stava aspettando tutti loro, Guthrum aveva dato ordini di salpare, lasciare la propria terra natia che, con il volere degli Æsir, nessuno di loro avrebbe rivisto tanto presto.
Ben presto la luce lasciò il posto al buio e Máni, insieme ai suoi inseparabili servitori Bil e Hjúki, face la sua comparsa sul suo argenteo carro lunare.
Piccoli fuochi vennero accesi qua e là sulla spiaggia, pallide fiammelle che rischiaravano l’oscurità attorno alle quali i norreni trovarono calore e riparo dei freddi venti notturni: Hrafnhildr sbocconcellò della carne sotto sale, ascoltando con attenzione i discorsi di chi le stava accanto, i piani d’attacco che Guthrum, seduto a gambe incrociate dall’altra parte del fuoco, stava condividendo con i suoi fidati jarl.
“Lasceremo questa spiaggia poco prima dell’alba, così da avere dalla nostra parte le ultime ombre della sera. - stava dicendo con la sua solita voce cavernosa, mentre i suoi occhi resi scuri dalla luce delle fiammelle si spostavano da uno jarl all’altro – Le drakkar veleggeranno a Nord, verso la foce del fiume Humber che risaliremo come hanno fatto i nostri alleati che in questo momento stanno festeggiando nella maestosa città di Jorvìk.”
“La Mercia non ci lascerà risalire il fiume tanto facilmente. – si intromise uno jarl, il volto segnato da rughe e lo sguardo severo di chi aveva combattuto molte battaglie – Ci saranno delle imboscate, frecce saranno scoccate e ora che la Northumbria è senza una guida e in fermento anche le loro terre saranno popolate da briganti, rabbiosi cristiani che tenteranno di attaccarci.”
“Che vengano pure! – esclamò Guthrum, sputando per terra – Non mi farò certo fermare da un branco di cristiani qualsiasi, tantomeno dalle frecce della Mercia e dalle loro minacce. Re Burgred e il suo esercito presto assaggeranno le nostre lame, le loro carni saranno dilaniate dalle punte delle nostre frecce e tutti loro verranno schiacciati dalla nostra forza.”

In silenzio, ombra tra le ombre, Hrafnhildr lasciò la piccola tenda, incamminandosi verso il bagnasciuga deserto, in direzione delle onde di cui percepiva soltanto il rumore del loro andirivieni perenne. Si sedette poco lontano, beandosi della freschezza della sabbia umida tra le dita dei piedi nudi, e alzò lo sguardo verso il cielo: le stelle brillavano, erano una vasta distesa infinita, misteriosa e affascinante allo stesso tempo; il vento era una lieve brezza notturna, freddo ma rigenerante, accarezzava le sue guance arrossate dal fuoco attorno al quale si era riscaldata e aveva trovato ristoro.
Con grazia slacciò il sacchetto contenente le rune che portava sempre con lei, suo unico contatto diretto con gli Æsir, con il loro creatore e dominatore Odino, il quale per primo le aveva permeate di potere e sapienza: ne estrasse una, poi un’altra, poi un’altra ancora, questa volta non per volontà di altri, ma per la propria, per scoprire cosa il signore di Asgard aveva in serbo per lei, per il suo futuro.
Attraverso loro, Hrafnhildr vide sangue, lotte furiose, conquiste; vide gioia, glorificazione, ma anche amore e, soprattutto, vita.
Nuove vite, nuove generazioni che avrebbero preso il posto di quelle vecchie, ma soprattutto vide chiaramente una vita nata dal suo ventre. Un bambino.
Sussultò, terrorizzata da ciò che aveva visto e con un brusco gesto insabbiò i piccoli sassi colorati sui quali le sue antenate avevano inciso quei segni misteriosi e magici, cercando di dimenticare ciò che aveva visto e dichiarando a sé stessa che il responso chiesto ad Odino non era altro che una burla dello stesso signore degli dèi, il quale si divertiva a giocare con il destino dei mortali, specialmente quelli che lo servivano con devozione.
Per la prima volta dopo anni sentì realmente la mancanza di sua madre. Avrebbe voluto chiederle cosa davvero significavano quei messaggi, cosa avessero davvero in serbo gli Æsir e i Vanir per lei; avrebbe voluto tornare al villaggio di donne guerriere in cui la sua arte della spada era nata e dove il suo dono della preveggenza era stato affinato solo per chiedere consiglio alle anziane, a coloro che le hanno insegnato a non aver paura di ciò che le rune mostrano, che tutto accade per una ragione e che, in un modo o nell’altro, otterrà limpide risposte a suo tempo.

Hrafnhildr si prese il viso tra le mani, affondando le dita nei neri capelli, respirando a fondo. Chiuse gli occhi, cercando di scacciare le immagini che i corvi di Odino le avevano inviato, l’immagine delle coperte macchiate di sangue e di un bambino che veniva messo tra le sue braccia tremanti. Un bambino, un bambino sano, che la fissava con i suoi occhi quasi del tutto ciechi. Il suo bambino.

“State bene?” una voce nel silenzio, nel caos della sua mente.
Hrafnhildr si lasciò scappare un lieve grido, spalancò gli occhi e indietreggiò quando riuscì a mettere a fuoco l’imponente figura di Einarr, inviato là da Guthrum per assincerarsi delle sue condizioni, che la sovrastava. La veggente non rispose, richiuse gli occhi e prese a scuotere la testa come una folle, come uno dei tanti saggi che erano soliti perdere la ragione con il passare degli anni e dei vaticini fatti per loro stessi e per gli altri.
Einarr continuò ad osservarla senza sapere cosa fare, come alleviare il suo dolore o capirne la causa; non l’aveva mai vista in quello stato, così lontana dalla razionalità, lei che era sempre stata imperturbabile e distaccata, lontana nello spirito da tutti loro. Poi, come un bagliore, una runa spuntò dalla sabbia e tutto gli fu chiaro:  erano state le rune a farla cadere in quello stato delirante, lo stesso Odino a creare nella sua mente immagini troppo più grandi di lei.
“C’è così tanto sangue. – sussurrò dopo un tempo che sembrò infinito, con un soffio di voce simile ad un rantolo – Sangue nei campi, sangue tra i villaggi e sulle lenzuola. Morte, vita, morte e ancora vita e… il mio corpo trema mentre la vita viene estratta dal mio corpo.”
Lo jarl si inginocchiò accanto a lei, abbastanza vicino da farle percepire la sua vicinanza, non abbastanza per farla sentire oppressa. Le sue parole non avevano alcun senso per lui, non dopo tutte quelle che le hanno precedute, profezie di vittoria, gloria, immortalità.
“Avete detto che giorni gloriosi ci attendono davanti a noi eppure adesso parlate di morte, sangue, disperazione. – disse, non potendosi più trattenere – Ci avete mentito, Veggente?”
Hrafnhildr sorrise algida, guardandolo come solitamente si guardavano gli stolti: “Non capite, vero? Non è il futuro del nostro popolo che ho visto, ma il mio. Le profezie erano destinate a me, solo ed esclusivamente a me.”
“Odino si prende gioco di me, - proseguì – lo ha sempre fatto e continuerà sempre a farlo. Io sono il suo strumento, la mia vita non vale nulla ed è proprio per questo che mi tormenta con immagini colme di morte, dolore; mi inganna facendomi vedere una felicità che non sarà mai, giorni che non arriveranno mai, uomini che non mi ameranno mai e figli che non darò mai alla luce. Presto la mia missione sarà conclusa, la mia mente andrà in pezzi e io sarò solo un involucro vuoto senza alcun valore.”
“Perché lo permettete? – chiese Einarr, avvicinandosi di più a lei – Perché permettete ai capricciosi Æsir di farvi questo, di giocare con la vostra vita?”
“Non ho scelta. – il sorriso che si dipinse sul suo volto fu il sorriso più triste che Einarr avesse mai visto – Ho provato, tentato di combattere ciò che sono, ma è inutile: Odino, Freya, Thor, tutti loro mi parlano attraverso i sogni e i vaticini, che io lo voglia o no. Nulla possiamo noi contro di loro, contro la loro volontà e i loro capricci.”
“Siamo troppo egoisti e avidi per farlo. – sussurrò Einarr, distogliendo lo sguardo – È stato proprio il mio orgoglio e la mia ambizione a condurmi alla miseria.”
Sospirò, prendendo coraggio: “Astrid… — disse, pronunciando quel nome che, per anni, aveva bandito dalle sue labbra – È così che si chiamava. Astrid, la mia bella e giovane moglie che io stesso ho ucciso.”
 
  
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