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Autore: SherryVernet    27/03/2017    5 recensioni
È faticoso tornare ad essere vivi.
I conti in sospeso ci seguono anche nella tomba – e sono ad aspettarci se ne riemergiamo.
Nel mentre una nuova guerra si prepara.
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'La Rosa dei Venti'
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Nota dell'autrice:

 

È doveroso che inizi con le mie scuse più sincere ai lettori che avevano recensito o inserito questa storia fra le seguite o le preferite: stavo provando ad aggiornare il prologo e - dando prova di assoluta inettitudine - ho accidentalmente cancellato tutto. Sono sinceramente mortificata e mi scuso profondamente del disagio arrecato. Spero di potermi far perdonare.

 

I personaggi di Saint Seiya appartengono a Masami Kurumada e alle altre persone giuridiche competenti; i personaggi storici e mitologici sono di dominio pubblico; i personaggi originali appartengono a me. Questa storia non è scritta a scopo di lucro.  Ulteriori note al fondo.

 

 

 

 

 

La rosa dei venti

 

Prologo

Il nostro giardino

 

Il faut cultiver notre jardin

- Voltaire, Candide ou De l’Optimisme -

 

 

Santuario, 17 aprile 1987

 

Aphrodite amava l’ordine.

Amava l’ordine perché Ordine è Bellezza; e la Bellezza è l’ordine, sottile e misterioso, nascosto nella trama delle cose, l’ordine silenzioso che segna ascisse ed ordinate nell’amalgama indicibile del caos – e fa il Sublime.

Aphrodite dall’alto vedeva, contemplava. Dall’alto della sua Dodicesima Casa, dalla quiete del suo santuario di petali e rovi, dalle contraddizioni quasi sopite, quietate, che aveva sentito, sofferto, compiuto e talora anche amato; da lì, dall’alto, anche la vita gli sembrava bella – più bella di quanto avesse mai visto e capito prima.

Ma la pienezza languida e matura d'un pomeriggio calmo è sempre troppo breve: seguita il tramonto; e l'orizzonte placido e brillante segna il confine d'un presentimento. Non che Aphrodite credesse alle sensazioni: aveva abbastanza precedenti per veder le premesse e trarne le dovute conclusioni. Però questa volta era sorto, inaspettato, un giorno nuovo, un giorno diverso, un giorno ch'era stato una sorpresa: questo tramonto era d'un'altra sorta.

Dall'alto, Aphrodite vedeva; ma non si vede mai dove finisca il cielo: l'altitudine diventa una vertigine, lo sguardo coglie solo linee tremolanti – ed i dettagli, che celano gli dèi, non sono più che miraggi indistinti.

“Cosa rimugini?”

Il tepore secco e noto d’una mano amica, familiare, di una pelle la cui consistenza, la cui trama, avrebbe saputo ridire a memoria, gli si posò sull’incavo tra la spalla e il collo, là dove palpita una favella ancora di vita. Quella mano forte, che – discretamente – prendeva la sua quando questa tremava, era la mano cui rivolgeva la sua più sincera, intima gratitudine, l’unica mano che potesse toccarlo così – entrambi disarmati, pronti a ferirsi, a lasciarsi far male, trovandovi una forma di piacere, o di consolazione –, nonostante tutto, tutti gli sguardi e le parole dette male o per scherzo crudele, privato, tra loro, nonostante tutti gli errori, nonostante tutte le carezze scambiate, troppo tenere – spesso – per non essere brutali per il fondo del cuore – o forse proprio per questo. Era l’unica mano che avrebbe voluto l’accompagnasse, stringendo la sua, fino alla fine dei suoi giorni, ancora una volta – mano non di rose ma di sole e di ombre indicibili; mano tanto amica, tanto nota.

Perso nei suoi pensieri, perso nel pomeriggio, non l'aveva sentito arrivare; non l'aveva visto salire. Sapeva benissimo come avesse trascorso il suo giorno fra le macerie della Casa che gli appartenne, fermo al passaggio che dovette custodire, il suo museo, il suo cimitero; sapeva benissimo che voleva andare.

“Stavo riflettendo,” rispose, con un sorriso accennato, nella voce più che sulle labbra: voleva quel che voleva, ma s'era risolto a venire – forse per farsi convincere, forse per farsi tentare; forse soltanto per salutare. Convincerlo, Aphrodite poteva, e farlo ragionare; tentalo era quasi banale... ma era impensabile doverlo salutare.

“Fin qui c’ero arrivato pure da solo, sai?”, Cancer gli sedette accanto, sull'ultimo gradone, nell'angolo che volge alla roccia, dove la montagna si schiude appena con un cenno segreto, un occhiolino, e lascia intravedere uno scorcio di mare in lontananza. Vestiva un ghigno che imitava il solito, ma era più stanco, un po' più finto, troppo poco violento per rassicurarlo che tutto fosse come sempre, che nulla fosse cambiato; probabilmente Deathmask intendeva solamente rassicurare sé stesso – e i muscoli tirati della faccia, in una smorfia che tenta appena d'essere l'usuale, son meglio di niente. Eppure, stavolta non osava guardarlo: si fissava le mani, pigramente giunte fra le gambe aperte – in una posa studiatamente lassa, scomposta, un po' arrogante –, e le punte dei piedi, per evitare di scorgere le nuvole vaganti e l'azzurro più in basso, più profondo e assai più invitante, che lo chiamava dallo squarcio nel monte; o forse solo gli occhi intelligenti di Aphrodite, quasi di mercurio in quella luce dorata e calante. In un'altra vita, Saga gli aveva detto che all'imbrunire aveva gli occhi duri di un inquisitore.

 

Deathmask sapeva che allo sguardo d'Aphrodite è difficile sfuggire – e che, per capire lui, non aveva neppure bisogno di osservare. Così sapeva anche che Aphrodite non amava girare intorno alle questioni: elegante, gli avrebbe dato uno spazio, un'apertura per parlare, usandogli il tatto che ci vuole verso un parigrado e – occasionalmente – verso un vecchio amante; ma, al suo silenzio, non avrebbe indugiato a domandare, senza tentennare, senza dargli tregua, come si fa con gli amici di sempre.

Con Aphrodite, in fondo, fra indulgenza e tortura non c'era una netta distinzione: faceva sempre quel che credeva ci fosse da fare, non si curava di quanto facesse male – almeno non a sé stesso: per loro, serbava un poco di riguardo, quel po' di compassione che troppo di rado riusciva a mantenere –; metteva in conto tutte le conseguenze, sapeva ch'è inevitabile soffrire. Ma non era Shaka: non s'illuse mai di non sentire.

Forse era anche quella una forma d'amore; lui, dal canto suo, d'amore non se ne intendeva: facevano l'amore a modo loro, un amore che entrambi non erano avvezzi a dire – la tenerezza sovente un sottinteso. L'amore d'Aphrodite era come un pugnale che affonda nella piaga, con una mano ferma, per farla sanguinare, finché non sia purgato tutto il marcio; se necessario, l'avrebbe riempita anche di sale, per disinfettare... L'amore di Aphrodite era un amore facile da odiare.

Eppure, Deathmask non l'odiò mai: avrebbe voluto solamente poterlo ringraziare, avere le parole, saper come; essere in grado di dire che, per lui, la tenerezza era la gratitudine di non aver dovuto vederlo morire, di non aver dovuto ricomporlo in un abito formale, avvolgerlo in un sudario bianco più della sua pelle, piantarlo troppo in fondo nella terra, assieme alle sue rose. La tenerezza era l'immenso sollievo di non aver dovuto volergli fare compagnia fino alla fine, per poi lasciarlo andare, guardandolo cadere, senza riuscire a distogliere lo sguardo – no, non avrebbe potuto smetter di guardare, neanche nell'orrore: togliere gli occhi di dosso ad Aphrodite è quasi impossibile, comunque è un errore, sovente letale. Deathmask non aveva smesso di guardarlo neanche sprofondando insieme: fisso, solo lui, come se invece che all'Inferno si stessero tuffando nel piacere. Sarebbe stato intollerabile non poterlo seguire, dover rimanere; adesso gli pareva altrettanto intollerabile non poter andare - né avere il coraggio di chiedergli se lo volesse accompagnare.

Anche volendo, Deathmask non sapeva da dove cominciare.

 

Però oggi anche Aphrodite aveva bisogno d'interrogarsi interrogando lui, ad alta voce, per mettere ordine in mezzo ai propri pensieri, tirarseli vicini: talvolta, se si sta troppo in alto, si è troppo lontani per vedere; talvolta quel che si chiede non è una domanda, ma una conferma, o una rassicurazione.

Tutto era quieto, si muoveva appena: i suoi capelli lunghi, li scostava la brezza – mite, accennata – che soffia quasi pigra a metà aprile; il sole arrossato, declinando, glieli infiammava d'oro brunito, un riflesso più scuro che scivolava via di secondo in secondo. Voltandosi a guardarlo, Deathmask pensò che non ci fosse nulla di più bello al mondo: bello come un segreto condiviso; bello come le cose troppo esili per essere fragili, che restano sempre e sono spietate. Neanche lui era un uomo di pace, neanche lui lo sarebbe mai stato: se glielo avesse detto, avrebbe capito; se l'avesse invitato, forse l'avrebbe seguito.

 

"Questa pace sospesa non potrà durare", Aphrodite andò diritto al cuore della questione, senza preavviso, esattamente come era solito fare. Non era altro che una constatazione, una presa d'atto, una premessa su cui ragionare – ed un ricatto: non te ne potrai andare –; ma era anche un fatto bruto e vero: neppure Deathmask lo poteva negare. Aphrodite non era incline ad essere gentile, ad indorare la pillola, a consolare, a rassicurare; ma con lui pareva sempre funzionare – in fondo Aphrodite, da bravo giardiniere, estirpava i problemi alla radice.

"Il che ti rincuora", non era una domanda, ma un'osservazione: le mani d'Aphrodite erano sporche, erano tagliate; la sabbia e la terra s'erano infilate sotto le sue unghie appena troppo lunghe, sempre curate. Non era stato mai capace di tollerar l'inerzia, di stare inoperoso, o d'aspettare un ordine o una spiegazione senza preoccuparsi, senza ragionare: la sua insofferenza nell'attesa dei marmocchi, gli invasori, fu di quelle che per anni si sarebbero potuti rinfacciare; s'era anche offerto d'andare a trucidare Cepheus e i suoi innocenti, soltanto per avere qualcosa da fare. Deathmask non aveva provato neppure a commentare: sapeva che le rose e il sangue l'aiutavano a calmarsi ed a pensare – in questo, si riuscivano a capire.

"Cercavo di rincuorare te", gli fece notare. "Siamo tornati indietro. Sai meglio di me che non è stata Athena, che non ne ha il potere. Siamo tornati indietro... Può esserci soltanto una ragione".

"Un'altra guerra..."

"La guerra. La guerra che aveva da venire", Aphrodite lo corresse, con un mezzo sorriso, piuttosto divertito: si dilettava anche a correggere e giudicare, ma – per fortuna sua – solo raramente a predicare.

"Un'altra guerra...", insistette lui, per abitudine e l'usuale spirito di contraddizione. "Forse alla fine niente dovrà cambiare", mormorò quasi a sé stesso – forse con speranza, forse con terrore.

"È già cambiato tutto. Siamo cambiati noi", Aphrodite gli rispose con un'evidenza e con rassegnazione. Come sempre, aveva anche ragione; Deathmask aveva solo la propria stanchezza ed un po' di rancore.

"Cosa ti fa credere che io sia in grado di combatterla, questa tua nuova guerra? Cosa ti fa credere che ci sia posto per me, tra queste fila? Non sono un santo, non sono un eroe...". Soltanto allora si rese dunque conto che, ancora una volta, Aphrodite era riuscito a farlo confessare, a fargli dire tutto quel che voleva sapere – con garbo, con una rosa rossa che all'apparenza non faceva male, ma che ora gli lasciava uno strappo nel petto, tra lo stomaco e il cuore.

Ancora un'altra volta, aperta la ferita, a modo suo Aphrodite la volle ricucire: "L'Inferno, il Muro dei Pianto, e che hai fatto sempre quello che c'è da fare. Cancer ti ha punito, non ti ha abbandonato; neanche tu ci puoi abbandonare."

"Ho abbandonato Mei... Cosa ti fa credere che non possa disertare?"

Aphrodite, allora, parve riflettere per qualche secondo, prima di sorridere, dolcissimo e tagliente, come la sera d'aprile, da mozzare il fiato in quel sole morente: "Mei ... al Chrysos Synagein chiederemo l'autorizzazione formale per andare a riprenderlo e farlo investire: se questa guerra sta per incominciare, avremo bisogno di tutti i guerrieri che riusciremo ad arruolare."

"Non voglio mandarlo a morire".

Non era stato certo un abbandono, ma solo il desiderio di poterlo risparmiare, la sciocca conseguenza d'un'insensata affezione: non voleva ammetterlo, ma non lo poteva refutare; Aphrodite, insolitamente magnanimo, non glielo fece notare.

"Allora fa in modo di essere qui per assicurarti che non accada".

"Sono queste le tue buone ragioni?", avrebbe dovuto essere sospettoso, non incredulo.

"Oh, no! C'è anche che non hai nessun altro luogo in cui poter scappare: l'Inferno è in subbuglio; e la vita di provincia ti farebbe annoiare".

Quando Aphrodite s'ammantava di quell'aria saputa, superiore, Deathmask voleva solamente cancellargli quell'indifferenza un po' affettata dalla faccia, trascinarlo in basso insieme a tutti loro, farlo urlare; con gli anni escogitarono un sistema che garantiva a entrambi la giusta soddisfazione. Quell'aria saputa, ora sapeva che voleva dire; si devono scambiare le formule di rito, stereotipate ma non sempre vuote: "Potrei viaggiare, fare il gran signore... O dar retta a mio nonno e magari fare il console, o l'ambasciatore..."

La risata d'Aphrodite ebbe la consistenza della luce: ampia, spiegata, sembrava invadere la valle; la valle, gioiosa nella primavera, sembrava rispondere.

"Quanti anni sono che ormai ti conosco? Sei molte cose, amico mio, ma non sei un vagabondo, né un diplomatico: ti piace troppo l'ebbrezza della lotta, il senso di potere che spetta solamente al vincitore; sai vincere le guerre, ma saresti atroce ad evitarle", ridacchiò ancora, riprendendo fiato. "E poi tuo nonno sarebbe il primo a rimandarti al fronte."

Deathmask non si sarebbe mai spiegato come Aphrodite fosse riuscito ad abbindolare quel vecchiaccio arcigno, né come a sua volta ne fosse rimasto abbindolato.

"Voi due andate d'accordo perché siete stronzi uguale".

"Il frutto non cade mai lontano dall'albero", si limitò a sottolineare. "E poi tuo nonno è un fine giocatore: se t'interessassi un pochino agli scacchi, magari non avrei bisogno di cercare tanto spesso la sua compagnia, tra l'altro piacevole", concluse e si alzò lentamente, indicando con un cenno del capo il suo giardino privato, dove il veleno cede il passo solo ai fiori e alle spine – soltanto uno stolto si sarebbe illuso che non fosse quello il giardino più rischioso. "Vieni, ho risistemato il roseto".

Lo scintillio nei suoi occhi chiari – mentre gli tendeva una mano per aiutarlo ad alzarsi – era malizioso e invitante, ma nascondeva un fremito di dubbio: Deathmask lo conosceva e se ne accorse; s'avvide di quella sorta di timore, il tarlo del pensiero che nemmeno le cose fra loro fossero più come prima e non potessero più esserlo, che neppure Aphrodite lo potesse aiutare né trattenere. Ma la proposta gli si serrò intorno alla bocca dello stomaco come un pugno di ferro, con tutta l’eccitazione dell’attesa, della caccia o della danza: quello che Aphrodite gli stava offrendo era un rifugio cui ritornare, un buon motivo per restare – l'unico argomento stringente, ma che non voleva esporgli apertamente. Afferrò come stordito, inebriato, le dita protese, che si ritirarono subito, scivolarono via dalle sue; e, mentre Aphrodite si incamminava verso l'ingresso – un brivido nelle caviglie il solo sentore che temesse di non essere seguito –, lui si perse per un momento a contemplare la linea dei suoi fianchi sottili, così chiaramente maschili, e – con un piglio d'artista – non poté fare a meno di stupirsi di quanto fosse naturalmente lasciva quella bellezza, di come potesse stregare tutti i sensi senza nemmeno provarci, senza far niente. Lo raggiunse in un paio di falcate, gli afferrò un polso: doveva fermarlo, non poteva tacere.

"Ti avrei chiesto di partire con me", ammise, con lo stesso coraggio disperato che disperatamente aveva invocato nell'uccidere la prima volta, tanti anni prima, quando era un bambino.

Aphrodite parve spiazzato: lo fissava con gli occhi spalancati, nudi, stupiti; era uno sguardo grato – era lo sguardo di chi l'avrebbe portato nel suo orto chiuso, l'avrebbe fatto stendere sul terriccio morbido, su un manto di petali, su un letto di rovi, e ce l'avrebbe piantato, affondando le sue radici, annaffiandole, tagliando quel che avesse dovuto, solo per farlo restare.

"Grazie. Grazie anche di non averlo fatto", perché sapevano entrambi che cosa gli avrebbe risposto. Ma un'ammissione vale un'ammissione: "Qui c'è bisogno di noi, questo è il nostro posto. Ho bisogno di te: da così in alto, non sempre so vedere."

Deathmask capiva che cosa gli voleva dire, ma era passato il tempo per parlare: "Sarebbe comunque rimasto Shura: figurati se quello si muove", la prese a scherzare.

"Shura è tutta un'altra gatta da pelare". E già vedeva la mente d'Aphrodite mettersi a intrigare, a pianificare; ma anche lassù il tramonto s'era ormai consumato: domani sarebbe stato un altro giorno, e quasi tutto il resto poteva aspettare.

"Adesso andiamo: dobbiamo coltivare il nostro giardino."

 

*

 

Un luogo nascosto, Grecia; una notte di mezza estate agli albori del Tempo del Mito

 

 

"Su cosa intrattieni i tuoi pensieri, o nobile Athanasios?"

La notte di mezza estate, senza luna e senza stelle, era mite ed opprimente; un soffio di brezza appena smuoveva l'aria pesante, gravida d'umidità, che prometteva pioggia; ma il passo del nuovo venuto era leggero, come se appena sfiorasse la terra. Dall'altura su cui il nobile e prode Athanasios sedeva profondamente assorto, si avvertiva salmastro il sentore del mare, portato dal vento, e il profumo dolce e pungente dei fiori selvatici – crochi, oleandri, ginestre; mirti e carrubi, qualche giovane ulivo... – che avevano conquistato le rocce tutt'intorno, indomiti, orgogliosi e incuranti dell'ambiente ostile. Sì, quello era un buon posto per un baluardo, elevato e protetto, pensò il nuovo venuto dai passi leggeri – quello che aveva parlato –, accomodandosi anch'egli sulla nuda roccia accanto al nobile Athanasios vestito di oro. Entrambi volgevano al mare, uno scorcio di pece brillante incastrato tra il nero dei monti e il nero del cielo, che il nobile e saggio Athanasios non aveva più occhi per vedere. Era bello, Athanasios l'Ario, bello, forte e nel rigoglio degli anni, quando la giovinezza è virile e matura, non ancora avvizzita: aveva il profilo regale ed aguzzo del suo popolo di magi e di cavalieri; fra i fini capelli corvini, increspati dal sale e dal vento, non si celavano che pochi fili d'argento, quasi preziosi; e gli occhi dorati che aveva perduto, quegli occhi come l'orizzonte un momento prima dei bagliori dell'aurora, occhi da gatto, le donne avevano detto che rubassero l'anima – e si erano segnate contro la sciagura, senza tuttavia poter smetter di guardare. Non aveva bisogno dei suoi occhi di oro e di rame il nobile e virtuoso Athanasios, perché l'universo dentro di lui era immenso; né mai aveva guardato le donne e nessuno di rimando. Con quei suoi occhi aveva contato e dato un nome alle stelle, ne aveva studiato il moto lento e costante, nelle notti insonni e febbrili, con il suo amico accanto, sfidandosi a quanto lontano potessero arrivare a scovare il più remoto bagliore; con il cuore, di quelle stelle, entrambi avevano abbracciato il potere, e si erano riconosciuti e riscoperti come universi che si schiantano. Ed ora il suo amico era di nuovo lì, il suo cosmo così mutato eppure lo stesso... Quei capelli biondi – che mai Athanasios avrebbe rivisto, non in questa vita – non sarebbero sbiaditi coi segni del tempo; né quella pelle bianca, soffice e forte, da uomo di pace, sarebbe avvizzita; i suoi occhi blu come il cielo sopra le steppe in un mattino sereno non si sarebbero spenti nelle nebbie della vecchiaia o nel buio della morte. Athanasios non aveva bisogno di occhi per guardare le stelle: ne sentiva il moto e il potere, e non credeva ai presagi. Non c'erano stelle nel cielo quella notte, ma Athanasios le maledisse tutte.

"L'incantesimo è completo: non ci vedranno qui, né per questi monti, dal grande ingresso fino al mare, mio .... non so se chiamarti nobile o divino, amico mio", rispose, con un sorriso amaro. E l'altro gli prese una mano, sulla roccia e la ghiaia, e la strinse forte, continuando a guardare lontano, dove il cielo incontrava il mare e il nero era più scuro e profondo.

"Non te ne dolere, non tu che sei caro al mio cuore sopra ogni altro."

Athanasios strinse di rimando la sua mano fredda come il marmo, e con la voce rotta da un'angoscia non detta gli chiese, senza guardarlo: "Perché ne hai bevuto?"

Quell'altro alzò le spalle, lasciandosi cullare un momento dal vento salmastro e pesante che gli schiaffeggiava la faccia. "Cos'altro avrei potuto fare? Non sono mai stato un guerriero, non come voi altri; e quel mostro ti stava uccidendo... I tuoi begli occhi...".

Allora Athanasios si volse, gli carezzò il viso, muovendolo verso di sé, e ripercorse il contorno di una guancia, l'incavo del collo, il profilo del suo naso con la punta di un dito; dischiuse le palpebre su due sfere di oro, uniforme e lucente. "L'allievo del fabbro me ne ha fatti di nuovi, ma non ho bisogno di occhi per vedere," disse sorridendo. "Ma tu ti sei condannato forse ad un'eternità senza pace, e per cosa?"

"Non potevo lasciarti morire, non quando non siamo ancora sicuri che tu conosca la strada del ritorno. Dobbiamo porre rimedio a quel che abbiamo fatto: in fondo, è colpa nostra."

"Oh, Hermes, ma io invecchierò, e morirò, mille e mille volte ancora, e tu, costretto in una stasi senza tempo, non potrai far nulla, potrai solo stare a guardare ed aspettare. Questo mi spezza il cuore."

"Meglio che vederti morire forse una volta sola e non ritrovarti per sempre. E poi c'era la bambina, dovevo portar via la bambina e tu non eri in condizioni, dovevo portare al sicuro anche te...". Ripensava a quella figuretta esile, riversa al suolo, al sangue che imporporava il suo vestito bianco, alle piccole mani che non avevano più la forza di fare pressione sulla ferita, le dita quasi dischiuse nella spossatezza che precede la morte. Strinse la mano morbida e calda di Athanasios, la sua carne viva, un poco più forte. "Un' innocente..."

E Athanasios distolse il suo sguardo cieco, ed abbassò il capo, quasi con vergogna. "L'ho condannata, amor mio, ho condannato un'innocente. Ma il padre l'aveva trafitta per aver protetto me, passata da parte a parte come se non avesse importanza... E che importanza poteva avere ormai? Cosa sono, a confronto dell'immortalità ed un infinito potere, le tre vacche per cui, fra qualche settimana, l'avrebbe venduta in sposa ad un uomo con tre o quattro volte i suoi anni?". Tremava di rabbia Athanasios magnanimo e nobile, tremava per quell'ingiustizia; tremava perché a quella fanciulla del villaggio vicino – inviata a servire alla Casa dei Saggi prima che raggiungesse l'età da marito – lui stesso aveva insegnato a leggere e scrivere, a fare di conto, e i nomi che alle stelle andavano imponendo, e i segreti dell'universo che pian piano scoprivano. "Come potevo lasciarla morire per me? Ho versato il nettare dalla coppa sulla sua ferita, amico mio, prima di sigillare quel maledetto calice in un'altra dimensione cui neanche io potessi accedere. Non ho pensato al giogo che le stavo addossando, solo che non potevo lasciarla morire senza far niente... Ed ora ho dannato lei e l'anima mia". Athanasios allora avrebbe pianto, se ancora avesse potuto. "Non si è ancora svegliata... dorme un sonno innaturale, sulla cima del monte. Non so come il suo corpo reagirà, non so se crescerà, per morire e ritornare, ancora e ancora... O forse non c'è differenza, forse è come se ne avesse bevuto, e allora rimarrà così per sempre. Anche nell'incoscienza, il suo cosmo è immenso, e ne provo terrore". Nella sua voce c'era tutta la disperazione che aveva covato nei giorni trascorsi – o erano già settimane? che fossero mesi?–, quando il suo Hermes era in missione ed Athanasios, Athanasios il forte, Athanasios il lungimirante, Athanasios che non vacilla, aveva sorretto quello sparuto gruppetto di loro che era scampato alla lotta – guerrieri e sapienti ormai rotti – raccogliendone i pezzi, ed una bambina che ora era una dea e dormiva un sonno come di morte; e aveva costruito un rifugio, gettato le basi di un forte, mentre guariva dalle proprie ferite – almeno quelle del corpo. Aveva perduto il senso del tempo: i giorni e le notti ormai uguali, le stelle cantavano un muto lamento, il suo cuore a lutto. "Quanto sei stato via?"

"Quasi una luna". Rispose Hermes, dolce, o così dolce, così calmo e fidato. "Si sveglierà... Si sveglierà e rimedieremo a ciò che abbiamo creato". La sua stretta era di ferro, che non si rompe, e Athanasios per un momento credette alle sue parole.

"Abbiamo creato gli dèi, amico mio. Che cosa avremmo potuto riversare di più terribile sul mondo?"

"Le nostre intenzioni erano buone."

"O Hermes, quando inventeranno un inferno ci lastricheranno la strada con le nostre intenzioni! Sono come bambini crudeli, ma col potere dell'universo nelle loro mani, abbastanza per saltare al di là dell'ordine delle cose e le leggi della natura. Sono come bambini, e giocheranno alle loro guerre e tutti gli altri ne pagheranno il prezzo. Sono come bambini: scriveranno le proprie leggende ed esigeranno adorazione. Si spartiranno il mondo. Saranno adorati: per timore, reverenza, o fiducia malriposta, saranno adorati. Ed è colpa mia. Verranno per lei, verranno per noi, non oggi, non forse domani, ma verranno e verranno ancora, e che cosa potremo fare?"

"Athanasios, anima della mia anima, respiro del mio respiro, tu sei onorato come saggio e lungimirante; tu chiamasti le stelle prima che avessero un nome, ne studiasti gli influssi sottili, ma non sei un profeta: non credere di conoscere il futuro. Che vengano! Proteggeremo la fanciulla, proteggeremo noi stessi e questo luogo, proteggeremo tutti. Abbiamo creato un abominio, ripareremo alla nostra colpa. Le stelle e la terra mi siano testimoni, li squarcerò tutti con le mie stesse mani, drenerò fino all'ultima goccia del loro sangue corrotto, del mio stesso sangue, se questo solo servisse a quietare il tuo spirito. Il biasimo ricade almeno altrettanto su di me; non farti carico di fardelli che non ti spettano e non disperare: è una stoltezza che poco si addice alla tua saggezza e alla tua lungimiranza". Quelle di Hermes erano parole formali e parole d'amore, perché non era solo l'amico e l'amante a parlare, ma l'uomo giusto, Hermes il pratico, Hermes il laborioso, e Athanasios lo sapeva – ma non cambiava niente.

"Guardati intorno! Erano tanti i saggi e siamo rimasti in tredici! E quasi tutti si sono dannati!  Lì, quasi alla vetta, Alrischa ha piantato un giardino sul cadavere del suo bambino. Povero piccolo, il suo corpicino era così velenoso che è tutto un veleno lassù. E lei non ne può morire. Lo hanno trovato a giocare vicino al laboratorio, un gruppo di loro. Non sapevano della coppa che è sempre piena, non sapevano che non era lì, cercavano le giare che avevamo riempito: hanno testato su di lui ogni elemento ogni pozione. Non parlava ancora, nemmeno il suo nome, oh mio Hermes: 'Vernalis' è difficile da pronunciare. Camminava da appena una luna! Quando Alrischa è arrivata non piangeva più neppure: era livido e gonfio, e quelli continuavano a fargli bere a forza ogni ampolla, ma non poteva più inghiottire perché era già morto. Ridevano, dicevano che era una questione di tempo, che avrebbero trovato la bottiglia giusta. Continuo a vederla nella mente di Alrischa, quell'orribile scena. La sua anima continua ad urlare il suo dolore ed io non la posso fermare. Aveva una fiala con sé, povera donna: andava a testarla sui fiori e sul fuoco, non si era accorta di nulla, non aveva sentito il pericolo. E ne ha bevuto. Li ha uccisi tutti, tutti tranne uno che le è sfuggito, a mani nude e senza armatura: ha strappato loro gli arti uno alla volta, ha aperto le mandibole che avevano osato ridere, come prugne mature; ha spappolato loro i cuori di pietra ancora nei petti. Ma il suo spirito grida ancora vendetta, è una fiamma che non si placa, che vuole bruciare il mondo perché non può estinguere sé stessa. Laggiù, quasi a valle, Mephitis, che del piccolo era altrettanto madre che se fosse uscito dalle sue viscere, continua a cercarne l'essenza nel regno dei morti. Non lo troverà, e non avrà mai pace: anche lei ha bevuto - non ne so la ragione, forse per non lasciare Alrischa da sola. E lì, un poco più in basso, Castor piange il gemello ucciso - il primo a cadere: pugnalato alle spalle, diritto nel cuore. Pollux non aspettava l'attacco: quando Castor è andato a recuperare il suo corpo lo ha trovato lì, alla sua scrivania, riverso sulle sue carte come se il sonno l'avesse sorpreso, ma niente in lui aveva le sembianze del riposo. È stato uno di noi, Hermes, un traditore. Lo vedo ogni notte nei sogni di Castor: il corpo di Pollux è una bambola di cera rotta, che gocciola sangue come una clessidra. Ed anche Castor aveva bevuto, il suo tormento non si spegnerà nel silenzio, non troverà mai pace né il fratello nell'altro mondo: a sé stesso Castor è morto e lo spettro di Pollux vive ancora. Sargas trascinerà uno squarcio nel fianco fino alla fine dei tempi, per proteggere Bàn il Bibliotecario, l'amico suo prediletto, che distruggeva le note delle nostre ricerche, perché quelli non potessero averle. Ma quelli erano già giunti agli Archivi, quindici, venti, cinquanta, tutti armati di daghe e di lance bagnate d'ambrosia e coperte di incantesimi che neanche io conosco né posso spezzare - armi che tagliano l'oro delle nostre vestigia, armi che tagliano le carni immortali. Bàn, quando ha visto Sargas accasciarsi, ha trasformato la biblioteca in un inferno di ghiaccio, così freddo da annullare la materia: ogni libro, ogni appunto, tutto il sapere che avevamo raccolto è perduto; lo è un po' più anche il cuore di Bàn per ogni giorno che Sargas non si risveglia. Niente sembra guarire la sua ferita – non il sangue immortale, neppure la stessa ambrosia –; ma l'anima non può lasciare il suo corpo. Bàn veglia sul suo sonno senza sogni, rinchiuso in un silenzio di morte. Bàn veglierà il suo sonno sino alla fine dei tempi, finché le stelle saranno tutte spente, forse anche dopo, se gli immortali continuano ad esistere senza spazio né tempo. Nath il grande, Nath il buono, a sua volta ha bevuto per impedire all'allievo del Fabbro di farlo ed ora attende a lui lì a valle, mentre quello veglia smarrito l'armatura del suo maestro senza osare vestirla. Quanto smarrimento, quanto terrore, sento nel suo giovane cuore... Nashira dal braccio e dal cuore affilati, Nashira l'inamovibile, è in preda al dubbio, la sua risoluzione vacilla, ed io non posso guidarla, non posso guidare nessuno di loro! Kiffa il temperante, che è il più saggio ed il più anziano di noi, non ha bevuto: passa i suoi giorni seduto lassù, assorto in profondi pensieri. Ci aveva detto che sperimentare con forze che non conosciamo era avventato, ci aveva messi in guardia; e noi, stolti che siamo, gli rispondemmo che troppe cose non conosciamo ancora a questo mondo, e come potremmo apprenderle se non sperimentando? Eppure, non ha avuto una parola di biasimo o di rimprovero per me e per tutti noi: semplicemente riflette, è rinchiuso in una meditazione senza calma. Neanche Zosma e Crotus hanno bevuto, non credo che lo faranno da quel poco che siamo riusciti a mettere in salvo. Zosma ha voluto, ha dovuto combattere nonostante il suo stato; il prezzo da pagare è stato tremendo, ed io e l'allievo del fabbro abbiamo dovuto riscuotere il conto: perdeva sangue nero a tre giorni dalla battaglia, era in delirio, stava morendo... E noi abbiamo dovuto strapparle dal ventre quel cadavere appena formato che ancora si portava dentro, mentre lei ci implorava di non farlo, di lasciarlo lì, e Crotus – che era il padre – le teneva la mano, le bagnava la fronte, la teneva attaccata al mondo. Si erano scambiati l'un l'altra voti infrangibili – gli stessi voti che pronunciai per te, e tu per me, con lo stesso ardore – che non è ancora volto un ciclo delle stagioni. Ora Zosma si aggira irrequieta di giorno e di notte, sorveglia il perimetro, mantiene la guardia, feroce come la fiera delle sue stelle; e Crotus dagli occhi acuti la segue da lontano, discreto e in silenzio, senza poterla domare né consolarla. Non so come dirle che il suo ventre non darà più frutto, non so come farlo, mio Hermes! E tutti gli altri sono morti o dispersi, ma forse la loro è stata una sorte migliore: io sento tutto il dolore di quelli che restano, il loro smarrimento, la disperazione. Che consolazione posso offrire io? Come puoi dire che non devo portarne la colpa, per loro e per tutti gli altri che seguiranno? Mi guardo intorno, Hermes! E quello che vedo, quello che sento, non lascia spazio alla lungimiranza: di tutti i Saggi non restano che dodici guerrieri in pezzi, molti col cuore in frantumi ed un potere terrificante; una bambina che io ho condannato; e tu, anima dell'anima mia, tu che sei il sacrificio più brillante e più doloroso di tutti". Athanasios tremava di rabbia e di angoscia, la voce piena di pianto in ogni parola di quel suo rapporto, di quella sua confessione. Abbassò il capo sconfitto, con un profondo senso di vuoto e di rassegnazione. "Dove posso guidarli io, che li ho portati a questo punto?"

Hermes gli accarezzò i capelli, ci affondò una mano con indulgenza, gli massaggiò il cranio con dolcezza, come in tante notti passate e notti a venire, quando era troppo teso per dormire, troppo stanco per sostenere il peso dei sogni; poi lo tirò a sé, gentilmente, a fargli posare il capo sulla sua spalla, e quello si lasciò tirare con un sospiro come di sollievo. La punta dello spallaccio di Athanasios spingeva nel suo fianco, ma era un fastidio gradito, il segno della vicinanza e che erano ancora lì, ancora armati, che si sarebbero rialzati.

"Allora lascia che sia io a guidarti. Sarò la tua stella polare, l'astrolabio e la rosa dei venti; troveremo insieme la strada". Si chinò a baciargli la fronte, con tenerezza e con devozione. "Tu vedi una manciata di uomini rotti, io vedo un manipolo di possenti guerrieri, di grandi sapienti, sopravvissuti. Abbiamo visto la battaglia, conosciamo il nemico, abbiamo doti e risorse per fronteggiarlo e tutto il tempo del mondo - letteralmente. È doloroso, ma non è un male. Qui costruiremo un rifugio, erigeremo un Santuario; di qui proteggeremo la bambina, gli oppressi ed ogni vita preziosa. Faremo tutto il possibile per mantenere la pace. Istruiremo le generazioni a venire, perché veglino su questo luogo e sulla piccola Athena se ce ne sarà bisogno. E gli altri verranno - come potrebbero non venire? è un'esca troppo ghiotta! Saremo, saranno pronti ad accoglierli. Ma quando saremo forti e protetti, tu ed io e quelli di noi che restano - noi i colpevoli, noi i primi - partiremo a cercare una soluzione lontano da occhi indiscreti. Forgeremo nuove armi, inventeremo nuove trappole, decimeremo le fila nemiche, finché non troveremo la nostra redenzione ed aggiusteremo il mondo. Ti giuro che lo faremo, lo giuro su tutte le stelle, sugli occhi che ti hanno strappato, sull'amore infinito che porto nel cuore e l'universo che mi brucia nel petto".

Athanasios annuì, quasi rincuorato, e gli adagiò le labbra morbide sul collo in un bacio lievissimo. "Dimmi che porti buone notizie...". Era un mormorio ed una preghiera; e si trovò quasi a sorridere di sé stesso: non aveva mai pregato, perché aveva sempre saputo che non c'era niente cui pregare ed era ancora vero – niente al mondo era degno d'essere pregato, se non quell'uomo al suo fianco, che sempre era e sempre sarebbe stato il suo unico dio.

"Hanno il Fabbro". Rispose Hermes, essenziale. "Lo hanno costretto a bere e lo tengono in catene in uno stato di semi-incoscienza, ma la sua volontà non è piegata".

"Vogliono che fabbrichi per loro un esercito...Oh Hermes!"

"Lo libereremo, abbiamo tempo: Ephaistos è un giovane forte, temprato come i suoi metalli, il suo spirito è inamovibile. Lo riporteremo a casa, è la nostra priorità". Hermes era così sicuro delle proprie parole che Athanasios gli credette, ma ancora rimaneva l'inquietudine, l'orripilante sospetto: "Sapevano come trovarlo... come soggiogarlo...".

"Sono d'accordo con te: c'è un traditore. Non sono riuscito a scovarlo però: di tutti i dispersi, il Fabbro è l'unico che ho veduto".

"Se vogliono un esercito e il Fabbro non collabora cercheranno di conquistare il suo popolo! Hanno il segreto dell'alchimia e poteri immensi! Sono tutti in pericolo!"

"Ho già avvisato l'allievo: lui e Nath di Taurus sono partiti per Mu, con l'ordine di metterli in guardia, di supplicarli di andare in un posto sicuro, fra le tue montagne remote e nascoste alle mappe degli uomini, dove solo i rapaci possano osare, e di portare con sé i propri segreti". Hermes lasciò scivolare la mano sulla corazza di Athanasios e non vi sentì imperfezioni lasciate dalla battaglia: l'oro prezioso delle vestigia era caldo e sembrava cantare amorevole al tocco delle sue dita. "L'allievo del fabbro l'ha riparata. Ha fatto un buon lavoro".

"È sempre stato solerte ed è tanto saggio per i suoi anni. Ma gli manca il suo maestro".

"Glielo ridaremo, e ripareremo il resto. Per ora, quelli sono impegnati a litigarsi l'ambrosia rubata tra loro, a spartirsi territori e domini, a gozzovigliare. Sono selvaggi, con grandi poteri che ancora non conoscono bene né sanno dominare. Faranno le cose come sono abituati a farle, secondo il loro costume. La guerra tribale che già si prepara fra loro li terrà impegnati almeno per qualche tempo. Questa è la buona notizia. Saremo pronti".

Athanasios allora rise e nonostante tutto era divertito: "Devi lavorare alle tue buone notizie, Messaggero!"

Prima di chinarsi a baciarlo, col bacio che avrebbe dovuto dargli sin dal primo momento, Hermes gli sorrise di rimando: "Sei un uomo troppo esigente, o ingiusto Athanasios che gli stolti chiamano saggio! Mentì mai il povero e bistrattato Hermes al tuo cospetto? Mentirono mai le mie labbra alle tue o sulla tua pelle?"

"Oh Hermes scaltro e mendace, e dalle dita leggere che vagano leste," gli disse Athanasios, quando ebbe ripreso fiato, "quante volte mi richiamasti dai miei studi, dall'arena, dai laboratori, pretendendo questioni della massima urgenza, solo per il piacere della mia compagnia nelle tue stanze? E non promettesti forse che mai il mio letto avrebbe conosciuto il vuoto della tua assenza? Eppure, ecco ora ritorni dopo quasi una luna...".

Ed Hermes gli sorrise d'un sorriso adorante e divertito, passandogli le mani sulla gola, sulle ganasce, sul collo sottile, su tutta la pelle che potesse trovare sotto l'oro vibrante. Athanasios poteva sentirlo, quel sorriso, vederlo così chiaramente con occhi più acuti e profondi di quelli che aveva perduto; e gli rallegrava l'anima tutta, gli stringeva lo stomaco.

"Mio diletto Athanasios, ognuno di quei richiami fu dalla mia mente alla tua, dal mio cosmo al tuo, ma mai al tuo cospetto... E forse il dolore della tua lontananza e il desiderio d'averti fra le mie braccia son ragioni da poco?" Ancora un bacio leggero, all'angolo della sua bocca. "Oh, iniquo, crudele Athanasios, hai vegliato sotto le stelle, ti sei assopito appena sulla nuda roccia per quasi una luna. Come avrebbe potuto il fedele Hermes riscaldare il tuo letto?"

"Sei impossibile...", ribatté Athanasios, senza aggiungere nessuna parola ma solo un altro bacio profondo, guardandolo e guardandolo ancora, guardandolo tutto, con le proprie mani: i capelli ricciuti intrisi di vento, le guance rialzate, le palpebre chiuse su occhi d'un blu penetrante che mai avrebbe dimenticato, la forma della sua clavicola, il petto solido e sempre accogliente, la seta della sua tunica, l'incavo dolce della sua nuca, la curva della sua coscia...

Quando si staccarono un poco, sempre vicini, il più vicini che lì potessero stare, fronte contro fronte, erano entrambi affannati e accaldati come dopo una lotta.

"Conosco un angolo ameno dietro quell'altura, lungo il corso del torrente che mormora piano", sussurrò Hermes. "Vi crescono i crochi odorosi, belli come la linea dell'orizzonte all'alba o al tramonto; ginestre dorate dai fusti sottili e gelsomini selvatici, simili a quelli della tua terra, all'ombra del mirto, della salvia aromatica, di teneri ulivi... Lascia che ti conduca lì a deporre le armi, perché possa amarti su un letto di malva e papaveri e riposare fra le tue braccia, stanotte e ogni notte finché t'avrò costruito un tempio e una casa sotto la protezione delle tue stelle, oh Athanasios di Virgo."

Athanasios si alzò, gli tese una mano, lo sollevo e lo tirò a sé, non mollò la stretta. "Mostrami la strada".

Mentre scendevano dall'altura delle stelle e si incamminavano fianco a fianco lungo il pendio, lasciandosi alle spalle il mare con un passo appena affrettato che tradiva impazienza e batteva la roccia col ritmo di una promessa, l'aria era ancora pesante, ma il piede di Hermes era sempre leggero ed ora ancora più leggero era il suo cuore.

Sì, lì era un buon posto, sicuro e nascosto dal mondo, per stare arroccati e aspettare – e resistere anche agli dèi.

 

*

 

Oltre l'Inferno, lo spazio ed il tempo (17 aprile 1987)

 

Non aveva mentito: fu un bagliore accecante, la vista assoluta che sorpassa gli occhi ed i sensi e la mente.

Bruciare, insieme e tutt'uno, come era stato nel grembo materno, quel calore avvolgente, quell'essere indistinti che sempre aveva cercato di ritrovare, da che era al mondo, con immenso dolore. In tanta luce che neppure lui adesso era più un'ombra, l'anelito era saziato in un altro anelito, non c'era più pena o dolore.

Non aveva mentito: fu un'esperienza unica, che non lascia esperire nient'altro, che svuota di ogni sostanza ogni altra esperienza passata. Galassie che conflagrano, si riempiono e si svuotano, non sono più che un respiro pieno, così profondo che dà alla testa, dove non ci sia più aria o polmoni a respirare. Galassie che conflagrano, universi che si spengono ed esplodono... è tutto luce, luce la sua stella infausta, luce quella stella oscura, luce, luce e tepore, senza distinzione. Bruciare, bruciare infinitamente quando non c'è più nulla da consumare e tutto è completo.

Non aveva mentito, ma quello non era più un condividere, perché non c'era più divisione, non più una morsa di braccia e di gambe intrecciate, la schiena contro il suo petto: erano e non erano le sue braccia e le sue gambe, era e non era la sua schiena e il suo petto; e assieme era tutto un universo, un universo immenso, un universo solo, che bruciava così ardentemente, così dolcemente.

Bruciare, bruciare, bruciare insieme fino alla fine, fino oltre la fine, fino a dove la fine e l'inizio, il tu e l'io, non hanno più senso. E bruciare ancora, finché la sua solitudine non era più la sua - mai più, mai più solitudine! Il ricordo delle mani di Saga e di mille altre mani, di cento altre vite che aveva e non aveva vissuto, di amori profondi e sinceri andati alla polvere che aveva e non aveva sentito; la sua fedeltà e la sua ribellione; risvegliarsi ogni volta con la morte intorno, risvegliarsi senza Saga al suo fianco; cercare il sole, troppo sbiadito e troppo rovente per chi ne è tenuto lontano; essere un'ombra, essere un fantasma – non è poi così diverso –; la perdita e la privazione; le labbra di Saga, il tradimento e l'abbandono; la nebbia sulla campagna verde come uno smeraldo, sotto un cielo pallido che mai aveva visto e che era stato casa; il Santuario e l'Inferno; il sole sulle coste di Grecia; il fondo del mare profondo sopra la testa, un'altra prigione; promesse e promesse, mantenute ed infrante; il suo stesso viso che non era più il suo né quello di Saga, ma il viso visto e ammirato da un inconciliabile nemico; la giustizia, la tristezza, la rabbia; la misura, l'attesa, l'eccesso; fremiti uguali di desiderio per le cose che non possono essere mai... tutto era uno.

Non aveva mentito - come avrebbe potuto? -: non c'era più niente su cui potesse mentire, niente da nascondere, solo bruciare, bruciare, e bruciare ancora, insieme e tutt'uno. Mai era stato così sincero, più di sé stesso, così libero nel laccio mortale di gambe e di braccia che sono e non sono le sue, di stelle che non sono più. Era quello che aveva sempre voluto: essere intero di nuovo, essere uno, un po' come essere amato. Era quasi la pace. Avrebbe voluto piangere di tenerezza, di gratitudine, di una gioia inebriata. Bruciare, bruciare, così insieme e tutt'uno, così per sempre...

Fu un morire così dolce, cui dolce è abbandonarsi, lasciarsi andare, come alla risacca o all'abbraccio di un amante... fu un morire così dolce.

Poi tutto finì e fu un vero morire atroce e crudele, laddove la morte era stata tanto dolce, tanto amata. L'erba bagnata sotto la sua pelle nuda fu come uno schiaffo doloroso, un pugno allo stomaco. L'aria era umida e pungente: dopo la tenerezza di tutto quel bruciare, il freddo di quell'aria umida e pungente, il gelo di essere uno, di essere di nuovo solo, era peggio di mille ferite, peggio della Cuspide Scarlatta di Milo, peggio della linea diritta delle spalle di Saga che si allontanano senza voltarsi indietro per lasciarlo in una cella senza uscita ad annegare. Mai pena fu tanto grande che l'aver avuto quel che sempre aveva voluto, più vivido e così più assoluto del sogno sfocato d'uno stato di pienezza e di grazia prima dell'essere al mondo; di averlo creduto per sempre; di averlo perduto.

Dove era stata luce, così tanta luce, ora era buio: aveva gli occhi chiusi, aveva occhi che erano suoi e avrebbe voluto strapparseli – non osò aprirli, non subito, non ora, non così, no, no, no!

Cercò disperatamente, ciecamente, una mano, a tentoni fra l'erba bagnata, sulla terra umida. Altre dita, un poco ruvide, tiepide come della memoria di tutto quel bruciare, scivolarono fra le sue, spinte da un moto uguale e contrario. Entrambi strinsero forte, con un sospiro quasi di sollievo, per non lasciarsi andare.

Non era solo. Si fece coraggio. Aprì gli occhi.

La luce della prima mattina, troppo bianca, troppo pallida, era tagliente, faceva male. Insetti senza colore, che sembravano ma non erano api, ronzavano pigri su fiori senza colore, fiori che non conosceva, sotto un cielo come di latte - senza colore. Solo il verde del prato, di qualche arbusto, di qualche stelo che riusciva a vedere, era incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante; se avesse alzato lo sguardo avrebbe visto che il verde sui pochi alberi dai tronchi pallidi sparsi lì intorno era lo stesso: incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante, in quel mondo pallido e senza colore. Per un momento fu troppo, ne fu stordito. Poi mise a fuoco le mura sullo sfondo, d'una pietra spessa e grigiastra, corrosa dal tempo; lo stipite intarsiato d'un portale gotico; l'arco acuto d'una trifora troppo bassa per essere stata progettata con cura; la trama neutra e discreta del tweed su due gambe piantate di fronte a lui. Hortus clausus, pensò, in una terra straniera che conosceva da memorie non sue. Pensò anche che avrebbe dovuto provare terrore di quelle gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, del cosmo disumano ed immenso che ne proveniva; pensò che avrebbe dovuto essere in guardia, pronto alla lotta. Ma che poteva far lui, che era di nuovo uno soltanto, nudo e indifeso su quell'erba bagnata, nell'aria umida e troppo pungente, in quel giardino troppo verde e senza colore? Che cosa poteva lui, che solo voleva tornare a morire, così dolcemente, insieme e tutt'uno? Strinse più forte la mano dell'uomo che aveva accanto, strinse più forte l'eco di quel tepore, per non lasciarlo andare.

"Kanon di Gemini... il mio preferito, bentornato", disse una voce da sopra quelle gambe terrificanti, fasciate di tweed elegante e discreto. Kanon spalancò gli occhi, con lo stupore improvviso che non si può celare: era una voce che conosceva, da un tempo remoto e lontano, dai giorni dell'addestramento, dai suoi giorni di ombra in terra di Grecia. Non aveva parlato con molti in quegli anni lunghi, lunghi come sono gli anni per i bambini e i fanciulli, ancora più lunghi per lui cui era precluso il contatto con gli uomini: Saga e sé stesso; il loro maestro; più tardi, un bambino biondo e silenzioso, che gli portava sempre dolci strani, tondi ed esotici, e non apriva mai gli occhi; una volta soltanto, Aiolos; e poi quell'uomo. Alzò la testa. Non era invecchiato di un giorno. Quello gli sorrise bonario, poi si rivolse al suo compagno - anche lui nudo sull'erba - che gli stringeva forte la mano per non lasciarlo andare, e il sorriso si fece più compiaciuto.

"Rhadamanthys, vecchio mio", fece mellifluo, "tu sei uomo giusto e leale, e noi avevamo un accordo".

Rhadamanthys della Viverna, Stella celeste della ferocia, guardiano del Tempio di Saturno, Giudice Infernale e Primo Generale dell'esercito di Hades, grugnì con irritazione e rassegnazione, nudo sull'erba, e aprì i suoi occhi di fiera come se si fosse appena svegliato assai controvoglia. Kanon si sentì scuotere da un fremito inappropriato. L'uomo dalle gambe fasciate di tweed sorrise ancora di più: "La guerra fra il tuo signore ed Athena è finita, il fatto che stiamo parlando e il sole splenda ancora – per quanto possa splendere in questa terra stramaledetta – ti lascia ben intuire il risultato. Ma io sono ancora qui e tu sei di nuovo qui, e c'è una pila di esami da correggere".

Kanon sbatté le palpebre, guardando dall'uno all'altro, spaesato. Rhadamanthys grugnì di nuovo: "Non credo che fosse previsto che tu mi riportassi qui".

Quello rise di gusto: "Non era escluso. Avresti dovuto riflettere meglio sui termini e le condizioni, mio caro! Kanon, ovviamente la tua collaborazione sarebbe molto apprezzata".

Kanon, che continuava a essere all'oscuro di ogni informazione rilevante, ma che intuiva che non si stesse parlando solo di chissà quali esami, annuì cautamente, perché conosceva quell'uomo.

"Perfetto!", disse tutto contento, sfregandosi le mani – non era invecchiato di un giorno –, dunque si fece più serio: "Poi spero che vogliate ascoltare la mia proposta".

"Che ne è stato del mio signore?", chiese Rhadamanthys, con la voce quasi sottile, insicuro come mai Kanon lo aveva visto, se non in memorie di infanzia che non erano sue. Kanon strinse più forte quelle dita che tremavano appena, mosse le proprie leggermente, in una minuscola carezza – non lo considerò fuori luogo: erano stati uno, avevano condiviso la furia, la fedeltà, la perdita, morendo così dolcemente.

Rhadamanthys continuò: "Se non sono sciolto dai miei vincoli, sai bene dove ripongo la mia lealtà". E lo sapeva anche Kanon.

"Credo che tutto si risolverà per il meglio: ora abbiamo ampi margini per contrattare una soluzione soddisfacente per tutti", fu la risposta serafica dell'uomo dal cosmo immenso e le gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, che non era invecchiato di un giorno in più di vent'anni. "Per il momento, direi di dirigerci verso le nostre stanze: le vecchie cornacchie stanno per svegliarsi, sono quasi le sei, e verrebbe loro un colpo a trovarsi due bei giovanotti come mamma li ha fatti nel giardino dei fellow. Non che non sia capitato, per carità! Ma di solito si tratta di matricole irresponsabili dopo una notte di baldoria, ed io preferirei evitare di ritrovarmi coinvolto in uno scandalo col mio miglior dottorando".

"Sono il tuo unico dottorando", rispose Rhadamanthys, alzandosi e tirandosi dietro Kanon.

"Dettagli!", sventolò una mano per tutta risposta quell'altro. "Sono sinceramente mortificato per la mancanza di vestiti: le resurrezioni sono difficili di per sé, ed ho dovuto recuperare i vostri atomi tutti mischiati! Spero che non me ne vogliate. In ogni caso, mi auguro che tu abbia un paio di completi di scorta nel tuo ufficio: non credo che niente di mio possa entrare al nostro comune amico", ridacchiò, incamminandosi col suo passo tanto leggero, dopo aver squadrato dalla testa ai piedi il buon Kanon e lanciato un'occhiata eloquente al proprio allievo.

 

Rhadamanthys provò a respirare profondamente, strizzò gli occhi, si massaggiò il mal di testa incipiente in mezzo alla fronte, e per mantenere la calma iniziò a ripetersi che non si uccidono gli dèi – anche se probabilmente gli altri due sarebbero entrambi stati in sonoro disaccordo. Pensò che sarebbe stata una lunga giornata e tornò a rimpiangere quel morire tanto dolce – anche se, ora come ora, gli sarebbe andato altrettanto bene essere semplicemente morto. Conscio della propria nudità, si incamminò velocemente verso il portale gotico, dallo stipite intarsiato e l'arco acuto, attraverso quel giardino che mai gli era apparso di un verde così incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante, nella luce pallida e tagliente, sotto un cielo senza colore.

La mano di Kanon nella sua era ancora tiepida di tutto quel bruciare, insieme e tutt'uno; ed era rassicurante.

Camminando lesti, dietro a quei passi così tanto leggeri, si strinsero ancora un poco più forte, per non lasciarsi andare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'autrice:

La prima versione della prima parte di questo prologo datava 2009. Da allora, la storia che - molto molto lentamente - sto raccontando è cambiata, si è evoluta, si è espansa, ed io sono diventata più risoluta nella mia operazione di autoconvincimento. Dunque c'è una nuova versione aggiornata e corretta dell'incipit.

 

So che i miei tempi di aggiornamento con questa storia sono biblici, ma spero che riordinando le vecchie sudate carte riesca ad avere una buona base cui agganciare il resto. Per ora, impegni a sorpresa permettendo, confido di avere la seconda parte del primo capitolo pronta entro maggio.

 

   
 
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