Pioveva.
Il cielo sembrava essere la perfetta fotocopia di quello che aveva accolto
Emily il primo giorno al suo arrivo a Londra. Era come venir trasportati
indietro nel tempo: la pioggia copiosa, il frettoloso via e vai delle persone,
la stazione metropolitana di Baker Street, l’ombrello giallo sopra la testa.
Emily si sentiva quasi strana a camminare in quel déjà-vu, se non fosse stato
per il fatto che era ben consapevole che in realtà era tutto diverso rispetto a
quella prima volta.
Camminando
a passo sicuro, facendosi largo come era ormai diventata abitudine, la ragazza
risalì Baker Street in fretta, raggiungendo il civico n° 221B. Si fermò di
colpo, davanti all’ingresso, sentendosi emozionata. Non tornava in quella casa
da due settimane e le era mancata moltissimo. Aveva trascorso un piacevole
natale con la propria famiglia, capodanno con la sua ristretta cerchia di
amici, tuttavia non aveva smesso di pensare per un solo giorno a quello che
aveva lasciato a Londra, a quella casa.
Aprì
la porta d’ingresso raggiante ed entrò, chiudendo l’ombrello.
Mrs.
Hudson si affacciò e appena la vide la raggiunse per salutarla.
«Ben
tornata, cara» le disse.
Emily
l’abbracciò istintivamente. Non riusciva a capire bene nemmeno lei il perché di
tutta quella sua felicità, fatto sta che non riusciva a tenerla a freno.
«Come
sta Mrs. Hudson? È successo qualcosa durante la mia assenza?» le chiese.
La
donna si strinse nelle spalle, preparandosi a rispondere. Alla fine, però,
pensò fosse meglio invitare la ragazza in casa per un tè, come usava sempre
fare.
Davanti
a una tazza di Earl Grey fumante sia Emily che la padrona di casa si
raccontarono a vicenda quelle che erano le novità delle ultime due settimane.
In quel lasso di tempo non era successo molto a Baker Street e fu semplice per
la ragazza capire che, con tutta probabilità, ciò significava anche
ricongiungersi con uno Sherlock Holmes sull’orlo di una crisi.
Terminato
il tè e i convenevoli, Emily si avviò verso il primo piano dell’edificio,
quella che sentiva a tutti gli effetti come una casa. Si trascinò lungo le
scale il piccolo trolley in cui aveva stipato quanti più vestiti possibili e
raggiunta la porta che dava sul soggiorno, l’aprì sorridendo.
Dentro,
tuttavia, non trovò nessuno. Controllò l’orario; erano le dieci del mattino,
c’erano buone possibilità che Sherlock fosse in giro, eppure le sembrò strano
non trovarlo lì, magari a sedere sulla sua poltrona a pizzicare annoiato le
corde del violino, oppure a fissare intensamente un punto guardando, in realtà,
ben al di là di esso.
«Sherlock»
provò a chiamarlo.
Non
ricevette risposta e questo le bastò per convincersi del fatto che il detective
non fosse in casa. Istintivamente guardò la parete alla destra dell’ingresso,
trovandola spoglia. Ciò significava che Mrs. Hudson aveva ragione, ovvero che
nessun caso interessante era stato sottoposto al suo coinquilino. Si mosse nel
soggiorno osservando attentamente intorno a sé, alla ricerca di qualcosa di
diverso, inatteso. Sopra al camino tutta una serie di carte era, come da
abitudine, infilzata da un lungo coltello a serramanico, da cui alcuni fogli
pendevano oltre il bordo del ripiano. Fra quelle carte miste la ragazza
individuò la busta marrone che aveva dato a Sherlock il giorno prima della sua
partenza, quella che aveva trovato sotto la porta e che aveva ingenuamente
scambiato per la lettera di qualche ammiratrice. Era lievemente sorpresa di
vedere che il detective l’aveva tenuta, più che altro perché, nonostante quello
che avrebbe potuto racchiudere, poteva essere stato solo uno strano scherzo.
Si
avvicinò ulteriormente al camino e toccò il lembo della busta che sporgeva
oltre la mensola.
Carte
di cioccolatini e briciole di pane; quello era il contenuto della busta, un
contenuto che appena lei e Sherlock avevano avuto modo di vedere li aveva
immediatamente catapultati indietro, a un’avventura che Sherlock aveva vinto e
che Emily aveva vissuto perfettamente grazie alle parole di John Watson: Le cascate di Reichenbach.
Avrebbe
voluto rimanere con il detective per andare maggiormente a fondo sulla
situazione, dato che il modo in cui l'uomo si era irrigidito alla vista della
busta prima e del suo contenuto poi, le avevano fatto intendere che, forse, la
cosa non andava presa con eccessiva leggerezza. Tuttavia aveva un biglietto per
Newport il mattino successivo e per tale motivo era dovuta partire.
Ora
trovare quella stessa busta ancora presente nella casa, in mezzo all'insieme di
carte che componeva la serie di "lavori in sospeso" di Sherlock le
fece intendere che, con molta probabilità, lui stava continuando a pensare a
tutta quella situazione e che – e la cosa era bene non escludere assolutamente – c'erano buone
possibilità che lui avesse già formulato molteplici scenari, fra cui si poteva
celare anche quello esatto.
Tuttavia
non avrebbe ottenuto risposte da sola. Se voleva sperare di sapere cosa pensava
il suo coinquilino di quella storia doveva prima incontrarlo e di lui non c'era
traccia nella casa.
Andò
in camera sua per risistemare le proprie cose, optando anche per farsi una
doccia. Liberò il trolley dei vestiti, li mise al posto giusto, dopodiché
afferrò qualche abito e tornò di sotto. Mentre scendeva le scale sentì il
telefono trillare, la nota suoneria di un messaggio e lo andò a prendere nella
speranza che si trattasse di Sherlock. Non si erano sentiti molto in quel lasso
si tempo, per lo più perché lui rispondeva di rado ai suoi messaggi e, se lo
faceva, era vago, incomprensibile e sintetico. Aveva sentito molto di più John,
che spesso rispondeva proprio a nome dell'amico.
Appena
ebbe il telefono in mano Emily si accorse che il messaggio non era di Sherlock,
ma di Richard e si trovò istintivamente a sorridere.
Loro
due si erano scritti sempre più spesso a seguito del loro ultimo incontro in
caffetteria dove si erano conosciuti a tutti gli effetti. Da quel giorno
avevano cominciato a scambiarsi brevi messaggi, fino a sentirsi con frequenza
maggiore ogni giorno. Tutta quella situazione stava generando dentro Emily un
piacevolissimo stato e l'aveva convinta del fatto che il ragazzo fosse
seriamente interessato a lei; non solo, Richard le piaceva molto. In solo due
settimane si era ritrovata a pensarlo spesso e a scrivergli molte volte per
prima.
Sei rientrata a Londra?
Emily
rispose di sì, dopodiché domandò a Richard come stava per avere una valida
scusa e cominciare una nuova conversazione. A ogni modo non attese impaziente
la risposta, ma si diresse verso il bagno così da concedersi una doccia prima
del rientro di Sherlock, con cui aveva una voglia matta di trascorrere del
tempo.
Si
infilò sotto la doccia non appena il getto divenne caldo, lasciando l'acqua
libera di scorrere lungo il suo corpo.
Era
tornata a Baker Street. Non riusciva a credere che una semplice casa le potesse
mancare a tal punto, sebbene fosse chiaro che quello che le era mancato tanto
non fosse stata la casa, ma chi vi era dentro. Da quanto era scesa alla
stazione di Paddington, per poi andare a prendere la
metropolitana per arrivare lì, non aveva potuto fare a meno di sorridere al
pensiero di rivedere Sherlock, John e tutti gli altri. Non ne capiva
esattamente il motivo, ma tutto ciò che ruotava attorno a Baker Street la
faceva sentire speciale, come se a lei fosse dedicato un onore che nessun altro
aveva.
Mentre
si insaponava la porta del bagno si aprì all'improvviso. Sebbene fosse dietro
la tendina della doccia si coprì istintivamente le zone più intime, sorpresa.
«Ciao
Emi» fu la voce che riempì il piccolo bagno a seguito di quella invasione.
Fu
inevitabile, per la ragazza, sentirsi ancora più in imbarazzo. Sherlock era
atipico, lo sapeva, ma non si era mai spinto fino a quel punto.
«Sherlock,
maledizione!» esclamò esasperata. «Mi sto facendo la doccia, sei impazzito?»
Il
tono disinvolto con cui l'uomo le rispose ricordarono a Emily le cose più
esasperanti che le erano accadute dalla prima volta che aveva messo piede nella
casa.
«Suvvia,
credi che non abbia mai visto il corpo di una donna? E poi non sto nemmeno
guardando.»
La
ragazza tentò di sbirciare appena, cercando di interpretare la sagoma del
detective da oltre la tendina. In effetti le parve essere di spalle, fermo
davanti allo specchio.
Lui
non proferì altra parola.
«Senti,
questo è il tuo modo di darmi il bentornata?» chiese, decisamente poco convinta
della cosa.
«No»
replicò monosillabico lui. «Lestrade mi ha sottoposto qualcosa di interessante
e voglio che tu venga. Ci troviamo lì fra mezz'ora.»
Se
ne andò senza aspettare una risposta, richiudendosi la porta alle spalle.
Emily, ancora interdetta per l’improvvisata del detective non riuscì a fermarlo
in tempo per ricordargli che se voleva che lo raggiungesse da Lestrade doveva
anche dirle dove si trovava l’ispettore.
Scostò la tendina della doccia titubante, accertandosi prima di essere
effettivamente sola nella stanza.
Un
sorriso divertito le uscì spontaneo quando si accorse che Sherlock era stato un
passo avanti a lei ancora una volta. Sullo specchio, dove il vapore dell’acqua
calda si era depositato, con evidente sicurezza era scritto un indirizzo: il
luogo dell’appuntamento.
*
John
Watson era fermo immobile accanto all’amico. Osservava a tratti il profilo di
Sherlock, il cielo che si stava rischiarando lentamente, poi l’orario e di
nuovo Sherlock. Quest’ultimo lo aveva informato che sarebbero entrati nel
vecchio stabile solo dopo l’arrivo di Emily, che sarebbe giunta a breve. Dopo il ritorno in scena del detective sul
luogo del ritrovamento del cadavere avevano atteso una quindicina di minuti, in
silenzio.
«Sei
sicuro che Emily stia arrivando?» domandò di punto in bianco il medico.
«Naturalmente»
rispose asciutto l’altro, gli occhi fissi sull’ingresso al cortile della
struttura.
«Le
hai dato solo mezz’ora» gli fece notare.
Sherlock
non replicò subito. Continuò a guardare avanti finché, a un certo punto, guardò
l’orologio e sorrise, soddisfatto. Dal cancello la sagoma di Emily si
avvicinava via via, facendosi più grande e definita. I capelli rossi risaltavano
sul cielo ancora in gran parte grigio, l’ombrello giallo ben saldo nella mano
destra.
«I
mezzi pubblici londinesi sono molto puntuali, John. Oltretutto Emily è più
veloce di tante altre a prepararsi.»
Detto
ciò si avviò verso l’interno dell’edificio, lasciando John in attesa della
ragazza. Quando questa lo raggiunse sorrise in direzione del medico e lo
abbracciò come si abbraccia un vecchio amico.
«Sono
molto felice di rivederti» gli disse, trattenendosi dal rivelargli che le era
mancato.
John
rispose allo stesso modo, chiedendole come avesse trascorso le festività.
Con
quei brevi convenevoli – decisamente piacevoli per Emily in compagnia del
medico – entrarono dentro il vecchio capannone dove Lestrade e la scientifica
stavano lavorando.
«Sai
già di cosa si tratta?» domandò Emily, camminando al fianco di John.
Quest’ultimo
scosse la testa. «Solo Sherlock lo sa.»
Più
o meno al centro dell’ampia sala di quella vecchia fabbrica in disuso un novero
di uomini era intento a prendere misure, scattare foto e conversare. Grosse
lampade erano appoggiate al terreno, i fari fissi su un unico punto, al loro
incrocio esatto. Gli uomini della scientifica, con la loro caratteristica
divisa bianca, si muovevano sicuri intorno a un corpo disteso a terra, parendo
alieni approdati con un intento ben preciso. Leggermente distanti da quel
gruppo di persone c’erano due figure note, entrambe ferme in piedi, sicure, i
cappotti lunghi e scuri a dar loro un’aria austera.
Emily
sentì l’eccitazione crescerle dentro alla vista di quella scena, degli esperti,
dell’atmosfera, di Sherlock e Lestrade concentrati a parlare. Per molti poteva
essere strano provare simili emozioni in una circostanza del genere, ma per lei
non lo era affatto. Da quel punto di vista lei e Sherlock Holmes si
assomigliavano.
Lestrade
si accorse della ragazza e di John mentre i due si avvicinavano. Fece un cenno
in direzione del medico e salutò Emily da vero gentiluomo.
«Posso
chiederle di che si tratta, ispettore?» domandò lei al termine dei convenevoli
di rito.
Lestrade
sorrise, lanciò un’occhiata al detective e tornò a guardare la ragazza. «Un
morto affogato» disse con semplicità.
Emily
guardò istintivamente l’ambiente. Il capannone in cui si trovavano era nella
parte di Londra più distante dal Tamigi, perciò escluse subito la possibilità
che il fiume fosse in qualche modo implicato. La struttura era abbandonata da
tempo – come il suo essere fatiscente testimoniava bene – e le parve
improbabile che l’acqua fosse ancora collegata per consentire a qualcuno di
riempire una vasca e affogarci dentro una persona; oltretutto il punto in cui
si trovava il cadavere era decisamente isolato da qualsiasi cosa.
«Affogato?»
mormorò incerta.
Non
si accorse dello sguardo di Sherlock, né di quello di Lestrade, che, provando
simpatia per la ragazza, trovava sempre semplice coinvolgerla. Si permetteva di
farlo soprattutto perché Sherlock stesso gli aveva detto che poteva, sebbene
glielo avesse confessato per vie traverse e facendogli intuire che non voleva
fosse reso noto ad altri.
«Mi
permetto di correggerti Gerard» si intromise Sherlock.
«Greg.»
Il
detective non diede peso alla correzione di Emily; Lestrade invece parve
gradirla particolarmente.
«Non
c'è ancora l'effettiva certezza che la causa del decesso sia dovuta ad
annegamento. Lo si sospetta perché il corpo del malcapitato lo lascia credere.»
«Sì,
corretto» confermò l'ispettore, leggermente indispettito dal perfezionismo di
Sherlock. Sebbene ormai sentiva che il detective fosse suo amico gli capitava
ancora di venire esasperato dall'eccessiva conoscenza che spesso ostentava.
«Come
Sherlock ci tiene a precisare» riprese poi parola l'ispettore, rivolgendosi non
solo a Emily ma anche a John, «l'esatta causa del decesso non è stata ancora confermata,
sebbene la scientifica sia abbastanza unanime nel sostenere che, date le
condizioni del corpo, l'annegamento sia l’opzione più probabile.»
Sherlock
si esibì in un'espressione tronfia alle ultime parole di Lestrade.
John
guardò l'ambiente, il pavimento dell'ampia struttura rotto in più punti, in
corrispondenza dei quali erba e terra stavano tornando a spuntare.
«È
difficile credere che possa essere affogato in un posto simile» disse dopo aver
analizzato l'area a sufficienza.
«Non
rimane che scoprire se le cose sono andate effettivamente così» affermò poi
Sherlock. Non attese nessuna reazione da parte dei presenti; si incamminò in
direzione del cadavere, il colletto del cappotto nero sollevato e il passo di
chi sapeva esattamente cosa cercare.
*
Tutta
la possibile euforia di Sherlock Holmes si era esaurita intorno alle tre del
pomeriggio. Verso quell’ora il detective si era alzato dalla poltrona, aveva
attraversato l’ingresso ed era uscito dal 221B, lasciando Emily in casa da
sola.
Il
sospetto annegamento che Lestrade aveva sottoposto a Sherlock gli aveva dato,
subito, quella carica che contraddistingueva il detective quando era alle prese
con qualcosa di molto interessante e in grado di azionare quanti più ricettori
presenti nella sua mente. Tuttavia proprio per tale motivo era stato in grado
di analizzare la situazione e individuare le risposte invisibili ai molti in
breve tempo. Emily aveva cercato di studiarlo al meglio mentre lui riconosceva
dei leggeri segni sul collo – resi meno percepibili a causa del rigonfiamento
del corpo – che lo portarono a ipotizzare una morte da strangolamento per mezzo
di qualcosa di molto simile a una corda. Oppure mentre notava che da una delle
grandi porte della struttura, fino al cadavere, la terra e l’erba erano state
smosse da qualcosa, poiché gli steli verdi erano piegati, come soffiati con
violenza.
Sherlock
era arrivato alla conclusione che l’uomo era probabilmente stato ucciso
strangolato, che il corpo era stato lasciato per giorni all’aperto, forse nel
cassone di un camion – come aveva sospettato trovando piccole tracce di ruggine
in diversi punti – dove l’acqua aveva avuto modo di sommergerlo – può darsi
anche aggiunta dal colpevole – e che infine, sempre all’interno del cassone era
stato portato fino a quella fabbrica dismessa, dove il contenuto era poi stato
svuotato a terra senza ritegno. Il detective sosteneva che la cosa era in grado
di motivare tutto. La massa d’acqua presente sul camion aveva spostato la terra
e piegato l’erba, oltre ad aver trascinato il corpo del malcapitato nel punto
in cui era stato ritrovato. Non solo, aveva anche rinvenuto dei solchi da
pneumatico in alcuni punti dove l’asfalto aveva ceduto il passo alla terra a
ulteriore supporto della sua ricostruzione.
Davanti
all’incredulità generale aveva sostenuto talmente bene la sua teoria che
nessuno era stato in grado di ribattere in alcun modo e Lestrade aveva
convenuto con lui che, come al solito, la sua ipotesi poteva funzionare. Aveva
comunicato in centrale di iniziare a cercare un camion che potesse essere
passato in quella zona prima ancora di sapere se, effettivamente, ciò che
Sherlock aveva immaginato fosse confermabile dai risultati delle analisi.
Terminato
di esporre la propria teoria il detective aveva stretto a sé il cappotto e
aveva annunciato che sarebbe rientrato a casa, seguito a breve distanza da John
e Emily, che avevano prima salutato Lestrade e poi si erano incamminati. John
era andato alla clinica dove Mary si trovava al lavoro – passando prima a recuperare
la figlia dalla babysitter – mentre la ragazza era rincasata, trascorrendo solo
pochi minuti in compagnia di Sherlock prima che questo si avviasse fuori dal
221B senza dare informazioni aggiuntive riguardo al luogo in cui era diretto.
Dal
momento che Emily era ormai a conoscenza di quel genere di comportamenti non ne
era rimasta né sorpresa, né infastidita. Aveva capito ben prima del suo ritorno
a Newport per le vacanze che Sherlock stava soffrendo di una sorta di astinenza
da casi intriganti al punto da riversare spesso il suo bisogno di indagare su
di lei, analizzandola a fondo ogni volta che rientrava in casa. Proprio per
questo riuscì a immaginare che il detective – in un primo momento chiaramente
eccitato per il nuovo e, probabilmente avvincente, caso – era in realtà rimasto
deluso nello scoprire che quello che poteva apparire un intrigante mistero era
invece qualcosa che aveva trovato subito una spiegazione e in modo, per lui,
fin troppo semplice. Era già accaduto in più occasioni e ogni volta Sherlock si
era comportato all'incirca in quello stesso modo. Tuttavia per Emily era
comunque interessante vedere i suoi comportamenti in simili circostanze, perché
le avevano permesso di capire che uno come lui necessitava di stimoli continui,
stimoli, però, di un certo spessore.
Stava
appuntando distrattamente quei pensieri sul proprio portatile, chiedendosi
anche quale fosse il comportamento di Sherlock una volta raggiunto il limite di
sopportabilità per la mancanza di sproni, quando il suo cellulare trillò allegramente.
Lo afferrò sperando che si trattasse del coinquilino, ma si rese conto che era
un nuovo messaggio da parte di Richard. Troppo presa dall’indagine di Sherlock
si era dimenticata di rispondere al suo ultimo messaggio e lui le aveva appena
chiesto se fosse tutto a posto.
Si
misero a scriversi, conversando del più e del meno, finché a un tratto la porta
di casa si aprì. La ragazza tese l’orecchio per individuare chi potesse essere
entrato – anche considerando che erano le sei del pomeriggio e Sherlock mancava
da ore – e sentì la voce di Mary. Subito dopo i coniugi Watson entrarono nel
soggiorno, la piccola stretta fra le braccia del padre.
«Ciao»
li salutò Emily, abbandonando il portatile sul tavolino.
La
donna la salutò di rimando, mentre John, dopo essersi guardato intorno, chiese:
«Dov’è Sherlock?»
«È
uscito poco dopo le tre. Non ho idea di dove sia.»
Il
medico annuì distrattamente, sedendosi alla sua poltrona.
«Volete
qualcosa?» domandò Emily.
«Oh
no, grazie cara» rispose Mary.
I
tre rimasero in silenzio per diversi secondi, sovrappensiero.
«Sapete
cos’ha Sherlock?» chiese infine Emily.
John
la guardò. «In che senso?»
«Beh,
è da prima che io partissi che è più irascibile del solito.»
«Quello
è semplicemente dovuto al fatto che non ha fra le mani qualcosa di avvincente
da un po’. È normale» cercò di tranquillizzarla Mary.
«E
se ci fosse altro? Insomma, io sto ancora pensando a Walker e Horvat. E poi c’è
quella busta, quella che gli hanno recapitato prima di natale. È tutto così
strano» ammise dopo un momento di silenzio la ragazza.
«Quale
busta?» volle subito sapere John.
Emily
lo guardò, sorpresa. «Sherlock non te ne ha parlato?»
«Non
che mi risulti» rispose, mascherando a stento una nota infastidita.
La
ragazza si alzò dal divano, raggiungendo il camino con pochi passi. Lì afferrò
la busta marrone ancora infilzata sotto il coltello a serramanico e la portò al
medico, lascandogliela in mano e prendendo lei in braccio la bambina. Anche
Mary si avvicinò a John e guardò la busta con espressione dubbiosa. Lei, forse,
non sapeva cosa potesse rappresentare quel normalissimo oggetto, ma Emily
sapeva che la cosa non poteva valere per John. Quest’ultimo, infatti, rigirò
fra le mani la carta, guardandola attentamente, soffermando la sua attenzione
sul sigillo di ceralacca.
«Cosa
c’era dentro?» domandò.
«Carte
di cioccolatini e briciole di pane.»
John
si irrigidì. Tornò a guardare Emily che rispose al suo sguardo, facendosi
preoccupata.
«Potreste
spiegare anche a me perché questa cosa sembra allarmarvi tanto?» domandò infine
Mary, attirando l'attenzione dei due su di sé.
John
le raccontò tutto, Le cascate di Reichenbach.. Mary conosceva la storia, ma lei non
aveva collegato così chiaramente la busta da poco ricevuta da Sherlock con
quelle che Moriarty gli aveva fatto trovare durante quel caso.
I
tre passarono l'ora successiva a interrogarsi sulla situazione; a chiedersi se,
e quanto, bisognasse preoccuparsi e a motivare il perchè la nemesi di Sherlock
non potesse essere coinvolta – la sua morte era la giustificazione maggiore.
Tuttavia più ne parlavano fra di loro più Emily sentiva che c'era qualcosa di
sospetto, come se qualcuno di molto preparato e che sapeva esattamente come
muoversi, stesse realizzando una specie di grande minaccia ai danni di
Sherlock. Proprio per questo motivo il fatto che in quel periodo il detective
fosse tanto instabile, irascibile e rimanesse solo per così a lungo non la
faceva assolutamente stare tranquilla.
«Credete
che Sherlock sospetti qualcosa a riguardo?» chiese infine Emily,
sovrappensiero.
Mary
la guardò e le sorrise, dolcemente. «Penso proprio di sì, lo conosco. Se sotto
c'è qualcosa saprà scoprire cosa, a meno che non l’abbia già fatto.»
Emily
annuì leggermente, solo in parte rinfrancata dalle sue parole. Non riusciva più
a zittire una strana voce dentro di sé, qualcosa che continuava a ripeterle che
c'era molto di più di quanto apparisse in superficie e che, qualunque cosa fosse,
li aveva ormai condotti a sé.
«Piuttosto,»
prese poi parola Mary, rivolgendosi a Emily. Quest'ultima si ridestò dai suoi
pensieri e guardò la donna che ricominciò: «vuoi dirmi come si chiama?»
La
ragazza rimase fortemente sorpresa nel capire che Mary aveva intuito che c'era
un "qualcuno" in grado di distrarla anche in una simile circostanza.
Era sicura che la donna avesse intuito la cosa perché lei non era stata in
grado di resistere alla tentazione di rispondere immediatamente ai messaggi di Richard.
Non solo Mary era capace e intelligente, ma era anche una donna e una simile circostanza
non poteva certo esserle sfuggita.
«Come
si chiama chi?» si intromise John, perplesso.
Mary
lo guardò. «Lascia perdere» lo ignorò subito. «Allora, Emi?»
Per
la ragazza fu inevitabile sorridere davanti al volto desideroso di informazioni
della donna, così come le riuscì complicato trattenere quel sorriso ostinato
che le si riproponeva ogni qualvolta pensava o parlava di Richard. Non le era
mai capitato di invaghirsi tanto in fretta di un ragazzo, ma lui le sembrava
diverso da qualsiasi altro.
Tornò
a sistemare la busta marrone sul camino, trafiggendola nuovamente con il grosso
coltello a serramanico. Dopodiché tornò a sedersi e si decise a raccontare la
storia a Mary e John, accantonando per un momento la sua preoccupazione per
Sherlock.