Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: antigone7    28/03/2017    1 recensioni
Delia ha sedici anni, un carattere sfrontato e solare, una parlantina un po' eccessiva, un mucchio di nuovi amici e un solo acerrimo nemico: Matt Patterson è l'unica persona che fa uscire il suo istinto omicida. Crescendo, però, si accorgerà che l'odio è un sentimento troppo spesso sottovalutato e che, a volte, le cose non sono esattamente come potrebbero sembrare a prima vista.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Marie's and surroundings'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
11. Don't ask questions you don't want to know the answer to


Il giorno successivo a quello in cui avevo avuto la malsana idea di saltare la scuola per fare una gita con Patterson entrai a scuola con due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi: avevo dormito male e mi ero dovuta alzare molto presto per prendere l’autobus. Perciò quando Dave mi accolse, festante e incuriosito dalla mia sparizione del lunedì, io non avevo molta voglia di scherzare. Rimasi sul vago, come avevo fatto la sera prima con Audrey, gli dissi che avevo sentito il bisogno di stare per conto mio e che ero stata in un maneggio.
“Come ci sei andata, dato che il tuo motorino era qui fuori stamattina?”
Dave era dannatamente attento ai dettagli, lo sapevo che mentire a lui sarebbe stato più difficile. Che poi tecnicamente non stavo mentendo, stavo giusto omettendo dei particolari non molto rilevanti.
“In autobus,” borbottai senza troppa convinzione.
Il mio amico mi guardò sospettoso, ma decise di non infierire oltre. Sapeva che non gli mentivo spesso, ma sapeva anche che quando lo facevo era per un buon motivo e che, in quel caso, avevo bisogno di tempo per decidere di dire tutta la verità.
“Stai meglio oggi, Deels?”
Annuii, sollevata dal cambio d’argomento. Ed era vero: tolti i problemi che mi ero creata con Patterson il giorno precedente, per il resto non mi sentivo più appesantita come quando avevo scoperto la scritta sul mio armadietto. Il quale, lo vidi poco dopo, era stato coperto con un pezzo di cartone nell’attesa che venisse sostituito lo sportello.
Il passaggio successivo fu mettere in atto il piano di vendetta nei confronti di Thomas Petrovic. Era molto semplice: lui aveva messo in giro delle voci false e volgari su di me e io avrei messo in giro delle voci false e imbarazzanti su di lui. Era una cosa talmente stupida e infantile che quasi mi vergognavo, ma per com’ero fatta non potevo permettere che quell’idiota continuasse a fare il bello e il cattivo tempo a scuola.
Nel giro di una mattinata, grazie soprattutto all’aiuto di Audrey e alle conoscenze di Dave, mezza scuola sapeva che tra me e Petrovic non era successo niente sotto alle gradinate, ma solo perché lui aveva dei problemi meccanici lì sotto. In poche parole, che non riusciva ad avere un’erezione. Un’idea cretina, sì, ma ci facemmo tante di quelle risate a mettere in giro quella voce che valse la pena di farlo solo per il nostro divertimento.
Dopo pranzo, quando pensavo di potermi finalmente mettere l’anima in pace, venni fermata in corridoio da Nathan Wilde, l’amico e compagno di squadra di Petrovic con cui ero uscita un paio di volte l’anno precedente. In quel momento ero sola e non riuscii a evitarlo, per quanto ci provai.
“Gray,” mi chiamò Wilde mentre mi muovevo dalla mensa alla biblioteca, dove dovevo restituire un libro che avevo preso in prestito.
Lo guardai di striscio e, appena lo riconobbi, lo ignorai e accelerai il passo.
“Ehi, Delia, aspettami.”
Non mi fermai, ma lui riuscì ovviamente a raggiungermi lo stesso e a mettersi al mio fianco.
“Che vuoi, Wilde?” gli domandai poco gentile.
Forse non avevo motivi per avercela anche con lui, ma era pappa-e-ciccia con Petrovic e questo mi bastava a considerarlo, nella mia testa, colpevole quasi quanto questo. Inoltre le falsità messe in giro sul mio conto comprendevano anche Wilde, che era conteggiato tra le innumerevoli persone con cui, in teoria, ero andata a letto, eppure non era successo nulla di simile tra di noi in quel breve periodo in cui eravamo usciti.
Nathan continuò a seguirmi. “Volevo… vorrei parlarti di quello che è successo.”
“Detta così è un po’ vaga la questione, non credi?”
Lui mi toccò un braccio con delicatezza, nel tentativo di non farmi proseguire. “Delia, ti prego, ascolta.”
Sospirai, fermandomi appena fuori dalla porta della biblioteca, poiché sapevo che se fossimo entrati non avremmo più potuto dire una parola: il signor Bellamy, il bibliotecario, non transigeva al riguardo.
“Ti ha mandato Petrovic?” domandai a Nathan, che sembrava essere vagamente sulle spine.
Lui fece una faccia stupita, come se non si aspettasse quella domanda. “No, perché?”
“Non so, avete delle usanze particolari qui,” bofonchiai, ripensando alle due volte in cui ero stata minacciata da ragazze che difendevano l’amichetta del cuore.
Wilde scosse la testa. “Non avrebbe senso.”
“Dimmi che c’è, allora,” cercai di tagliare corto, senza adoperare un briciolo di cortesia in più rispetto a prima.
“Mi dispiace per… Beh, per quello che è successo,” mormorò lui, guardandosi la punta delle scarpe.
“Ti stai scusando per Petrovic?” chiesi di nuovo, dal momento che non riuscivo a capire il punto.
“Ancora? No, io e Petey siamo due entità separate, credimi.”
“Da come ve ne andate in giro sempre insieme non si direbbe,” commentai sprezzante.
Non era del tutto vero, ma non avevo intenzione di rendere a Wilde le cose più semplici: lui e Petrovic erano compagni di squadra e, sì, erano anche amici, ma non erano sempre assieme e mi sembrava che fuori da scuola frequentassero compagnie diverse.
“Tom è stato un coglione e so che le cattiverie che ha messo in giro su di te non sono vere. Ma non verrà mai a chiederti scusa.”
Alzai le sopracciglia, colpita. “Immagino di no.”
Nate aveva finalmente alzato la testa, cominciando a guardarmi. “Ma io sono qui per la parte che riguarda me. Non è giusto che girino quelle voci, perché… Insomma, non è successo niente di che tra di noi, l’anno scorso.”
“Ah, meno male che me lo dici tu. Stavo cominciando a pensare di avere l’Alzheimer,” borbottai, stavolta usando un tono più ironico e divertito che cattivo.
Wilde sorrise, prima di ricominciare con le spiegazioni. “Quando frequenti uno spogliatoio come il nostro, certe notizie girano. A volte sono vere, a volte sono pompate. Non ho messo in giro io le voci su di te e non le ho alimentate, ma non ho fatto niente per smentirle, e in questo ho sbagliato.”
Lo guardai seria. “Sì, hai sbagliato.”
“Mi dispiace,” continuò lui. “Farò quello che posso per aiutarti a far sparire quelle dicerie, io…”
Lo interruppi, vedendolo in difficoltà. “Nate, non fa niente. Hai fatto errori ben più gravi. Tipo essere amico di Petrovic.”
Lui sorrise di nuovo e si grattò la nuca. “Ci ho appena litigato, sai. Credo che abbia esagerato stavolta.”
Mio malgrado, fui colpita dal suo parlarmi in modo così sincero e diretto, così mi ritrovai senza parole per qualche secondo. Nate alzò le spalle e approfittò del mio mutismo per cominciare a congedarsi.
“Ecco, quello che dovevo dire te l’ho detto. Se posso fare qualcosa per…”
Non riuscì a terminare la frase che la porta davanti alla quale eravamo si aprì e ci trovammo davanti il volto serio del bibliotecario.
“Vi sembra forse il posto dove mettersi a chiacchierare del più e del meno?” domandò con voce bassa ma rabbiosa, indicando il cartello che, già fuori dalla porta, intimava a fare silenzio.
“Scusi, professore,” mi uscì detto prima di riuscire a trattenermi, e Nathan tossì per camuffare una mezza risata.
Bellamy mi squadrò severo, cercando di capire se lo stessi prendendo in giro. “Non sono un professore. E ora entrate in silenzio o spostatevi da qui.”
Feci un cenno con la mano a Wilde per dirgli che entravo in biblioteca, lui sembrava intenzionato ad aggiungere qualcosa al discorso, ma l’occhiataccia di Bellamy lo bloccò, quindi mi salutò con un sorriso e si allontanò.

Per le successive due settimane le voci su me e Petrovic continuarono a rincorrersi per i corridoi della scuola, finché non vennero sostituite da qualcosa di più succoso e più nuovo, nella fattispecie la liaison tra Melanie Frayer, un’ochetta del nostro anno, e un ragazzo ultratrentenne, il fratello della sua migliore amica. Avevo smesso di ascoltare i pettegolezzi a scuola da quando avevo capito che spesso non avevano alcun fondamento di verità, ma in quel caso ne approfittai per calcare la mano, un po’ scherzosamente un po’ no, con Jude. Quando Audrey tirò fuori l’argomento a tavola mi ritrovai a sorridere soddisfatta.
“Hai sentito, Judes?” trillai, guardando la mia amica, che sembrava non aver capito dove volessi andare a parare. “Non sono troppo piccola per Kerr, puoi ancora mettere una buona parola per me.”
Lei roteò gli occhi. “Oddio, Delia, non ricominciare.”
La cotta per suo fratello, anche se superficiale e poco seria, non mi era mai passata del tutto.
“Beh, se la Frayer se la fa col fratello trentaduenne della Jerkins, cosa vuoi che sia la differenza d’età tra me e Kerr? Ha solo… Quanti anni ha? Ventidue?”
“Ventitré,” specificò lei. “E non è quello il problema, mi rifiuto di vedervi insieme, è mio fratello! Non credo che la Jerkins sia contenta del casino che è scoppiato tra la sua migliore amica e suo fratello.”
Sospirai, affranta. “Il nostro è un amore impossibile, tu ci metterai sempre i bastoni tra le ruote.”
“Il vostro non è un amore. Kerr sa a malapena che esisti,” mi corresse Jude senza cattiveria. “E ti ho già detto che sta con una ragazza, adesso.”
“Sottigliezze,” sbuffai, sventolando una mano.
In quel momento arrivò Patterson e mi resi conto, con un piccolo sobbalzo del mio stomaco, che l’unico posto rimasto libero al nostro tavolo era di fronte a me. Anche lui se ne accorse, ma non sembrò preoccuparsene e appoggiò lì il proprio vassoio salutando tutti. Per fortuna avevo quasi finito, reggere tutto il pranzo costretta a guardare Patterson e magari a parlare con lui era impensabile. Finii in due bocconi la mia verdura, mi infilai la mela in borsa intenzionata a mangiarla dopo e mi alzai in tutta fretta, con la scusa di dover andare in bagno. Gli altri non dissero niente, ma vidi David radiografarmi con un lungo sguardo indagatore che non lasciava presagire nulla di buono.
Mentre mi allontanavo dalla mensa lanciai una maledizione a Patterson e alla giornata al maneggio che avevamo condiviso, compreso quel momento imbarazzante in cui avevo pensato che mi baciasse, che era il vero motivo per cui ultimamente mi ritrovavo a evitare la sua presenza con più tenacia del solito, a volte anche in modo inconscio. Quando mi ero trovata obbligata a parlare con lui, d’altro canto, le cose non erano andate meglio e tutti, amici e non, si erano accorti di quanto il mio odio nei suoi confronti fosse, se possibile, aumentato: gli rispondevo in maniera tagliente e quasi sempre monosillabica, sbuffavo alle sue battute, anche quelle che in un’altra situazione mi avrebbero fatto ridere, e trovavo qualsiasi suo atteggiamento insopportabile.
Sapevo che David se n’era accorto, tanto che una volta aveva anche tentato di chiedermi spiegazioni, ma io avevo liquidato il tutto rispondendo che avevo sempre odiato Patterson e dicendo che le sue erano solo paranoie. Proprio a causa di Dave e del suo occhio lungo, comunque, avevo deciso di provare a essere meno esplicita nelle mie manifestazioni d’odio e mi ero ritrovata a cercare di evitare Matt il più possibile: perciò si spiegavano le varie fughe che intraprendevo nel momento in cui mi trovavo nelle sue vicinanze, compresa quella appena avvenuta.
Alla fine andai davvero in bagno e poi mi ritrovai da sola senza sapere cosa fare. Decisi quindi di andare in giardino: era appena iniziato ottobre e fuori c’era il sole, a quell’ora potevo permettermi un po’ di relax all’esterno. Mi tolsi il giubbino in jeans e lo appoggiai per terra per sedermici sopra, estrassi dalla tracolla un libro e la mela che cominciai a sgranocchiare mentre sfogliavo senza troppa attenzione le pagine.
“Ehi.”
Era ovvio che non potevo pretendere di stare in pace per sempre, ma speravo di avere almeno cinque minuti prima di venire raggiunta da uno dei miei amici. Alzai gli occhi sulla persona in piedi di fronte a me e, a causa del sole che batteva proprio alle sue spalle, ci misi qualche secondo a riconoscerne la figura: Nathan Wilde.
Lo salutai con un sorriso e lui prese posto sull’erba accanto a me, incoraggiato dall’aria rilassata che avevo assunto quando avevo capito che si trattava di lui.
“Come va?” mi chiese mentre io appoggiavo il libro e incrociavo le gambe voltandomi per guardarlo.
“Tutto okay,” risposi, senza perdermi in dettagli. “Tu? Hai fatto pace con il tuo amichetto?”
Lui scosse la testa, fingendo di non cogliere la mia frecciatina su Petrovic. “Ci limitiamo a dei rapporti piuttosto freddini ultimamente.”
Lo sapevo, l’avevo già notato: vedere Nathan Wilde e Tom Petrovic che si ignoravano in maniera palese non era una cosa che capitava spesso, tanto che a scuola le ipotesi al riguardo si sprecavano. C’era chi diceva che avessero litigato perché erano innamorati della stessa ragazza e chi giurava che fosse un problema riguardante il football, ma forse io ero uno delle pochissime persone che sapevano come fossero andate davvero le cose.
“Mi spiace che abbiate litigato a causa mia,” gli dissi quindi, spinta da un improvviso senso di colpa che, in realtà, non aveva motivo di esistere.
Nate sorrise. “Non è colpa tua, è stato lui ad aver sbagliato per primo. E comunque prima o poi avremmo rotto comunque, il suo atteggiamento stava iniziando a darmi seriamente sui nervi.”
“Che atteggiamento?” chiesi, anche se non mi risultava difficile capire che cosa intendesse.
“Il suo modo di fare con le ragazze, con gli altri della squadra, in generale con le persone. Petey è convinto che tutto gli sia dovuto e di poter fare sempre quello che gli pare, senza curarsi di niente e nessuno. Ha già litigato con diversi nostri amici per questo, anche se la maggior parte della squadra lo vede come un semidio e non gli si rivolterebbe mai contro.”
Udito ciò, incuriosita, non riuscii a trattenermi dal fargli un’ulteriore domanda. “Se la pensavi così su di lui, perché eri ancora suo amico?”
Nathan alzò le spalle. “Tom non è male come compagnia. È viziato ed egocentrico, è vero, ma è spiritoso e in squadra riesce sempre a tenere alto il morale. Non era il mio migliore amico, ma mi sono sempre divertito in sua compagnia. L’ho visto fare diverse scorrettezze ad altre persone, ma non pensavo potesse essere così meschino anche nei miei confronti.”
A quel punto ero davvero confusa. “In che senso?”
Lui aggrottò le sopracciglia, tornando a guardarmi come se fino a quel momento fosse stato quasi sovrappensiero. “In che senso cosa?”
“Hai detto che è stato meschino nei tuoi confronti, ma mi pare che la scorrettezza l’abbia fatta più che altro a me,” spiegai indicandomi con un pollice. “Non per essere megalomane,” specificai poi con un sorriso.
“Sì, certo che la scorrettezza l’ha fatta a te ma… Intendevo prima che… Mi sono trovato anch’io lì mentre… Beh, insomma, hai capito, no?”
“In realtà no.”
Nathan sembrava vagamente nel panico. “Non… non è che avessi previsto di dirtelo, ma… Dio, che idiota che sono,” sbuffò, passandosi una mano tra i capelli scuri.
“Posso sapere pure io di cosa stai parlando o devo continuare a rimanere ignara?”
Lui mi fissò indeciso, prima di distogliere lo sguardo, in evidente imbarazzo. “Ho litigato con Petey per come si era comportato con te, ma ero già offeso con lui da prima.” Fece una pausa. “Da quando ti ha chiesto di uscire. Con me lì presente.”
Aprii la bocca e la richiusi a vuoto prima di decidermi a parlare. “Perché?”
Nate mi fissò come se fossi tonta. “Perché io e te eravamo usciti e… era rimasto qualcosa in sospeso.”
Non sapevo come rispondere. Non avevo mai pensato che tra noi fosse rimasto qualcosa in sospeso, eravamo usciti giusto un paio di volte l’anno precedente, in un periodo in cui mi ero trovata a frequentare diversi ragazzi, anche se mai in contemporanea. Dopo averlo baciato mi ero resa conto che non era scattato niente tra di noi, almeno così credevo, e avevamo smesso di vederci. Ero stata piuttosto scostante coi ragazzi in quel periodo, anche più di quanto lo fossi di solito, ma non mi pareva di aver ferito nessuno. Forse mi sbagliavo.
Wilde notò il mio mutismo e intervenne per togliermi dall’impiccio. “Non capivo cosa non fosse andato, io mi ero trovato bene con te. Avrei voluto chiederti un altro appuntamento, magari organizzare qualcosa di più carino, ma poco dopo uscivi con Todd e ho lasciato perdere.”
“Mi dispiace, io…”
Lui mi bloccò subito. “Non ti preoccupare. Quello che intendevo dire è che Petey sapeva tutto e non si è comunque trattenuto dal provarci con te. Non era niente di che, ma ci sono rimasto un po’ così.”
Di nuovo mi ritrovai senza parole e di nuovo fu Nate a parlare per primo.
“Se non dici niente mi preoccupi,” borbottò, e percepii una nota di inquietudine nella sua voce.
“Scusa, è che… io queste cose non le noto mai. Sono stata una cretina.”
Lui mi sorrise, rassicurante. “Non ti devi scusare, tu non hai fatto niente di male.”
Presi aria a pieni polmoni, accorgendomi di avere il battito leggermente accelerato, per la sorpresa e per l’agitazione. “Mi dispiace comunque se ho fatto qualcosa che ti ha ferito.”
Il sorriso di Wilde si fece amaro, mi parve, e poco dopo lui era in piedi pronto ad andarsene. “Non volevo dirti queste cose. Lasciamo perdere, va bene? Fa’ come se non ti avessi raccontato nulla, preferivo quando mi prendevi in giro.”
“Nathan, non…”
“Ci si vede in giro,” mormorò appena prima di voltarsi per dirigersi verso la scuola.
Sentii un misto di tenerezza e urgenza premermi alla bocca dello stomaco e, spinta da non so quale istinto primordiale, mi alzai per raggiungere Nate, che si dirigeva a passi svelti verso l’ingresso della scuola.
“Ehi, fermati!” esclamai, notando che non riuscivo a raggiungerlo così facilmente.
Certo, è un giocatore di football e tu sei una nanetta, Dee, cosa ti aspettavi? disse la mia voce interiore con una sfumatura fastidiosamente sarcastica.
“Nate!” lo chiamai di nuovo, e stavolta si voltò.
Per lo stupore mi fermai sul posto pure io, ancora distante qualche passo da lui, e mi ammutolii.
“Senti, non importa. Stavolta sono io che ho parlato troppo, okay?”
“Cosa vorresti insinuare?” replicai, e nel dirlo mi scappò un sorriso che, poco dopo, contagiò anche le labbra di lui.
Alzò le mani, come per giustificarsi. “Assolutamente niente.”
“Come no. Farò finta di non aver sentito,” affermai allora.
Dalla sua espressione e dal sorriso che continuava a dipingergli il volto, capii che aveva compreso cosa intendevo, così mi buttai.
“Ti va se usciamo uno dei prossimi giorni?” chiesi tutto d’un fiato.
Lo colsi di sorpresa. “Non devi, io… Non credevo ti sentissi in dovere di…”
“Non è che devo, mi va. Non ci vedo niente di male.”
Nate si morse l’interno della guancia, indeciso. “Penso che si possa fare.”
“Okay,” feci io.
“Okay,” ripeté stupidamente lui.
Ci fermammo, restando in silenzio per qualche secondo. Alla fine, almeno quella volta, fui io a rompere la situazione di stallo.
“Vado a recuperare la mia roba,” dissi, indicando la borsa ancora appoggiata in mezzo al cortile.
Lui annuì. “Io devo ancora pranzare, dovrei andare in mensa. Tu hai già…?”
“Sì.”
“Certo, allora…”
“Ci mettiamo d’accordo nei prossimi giorni, va bene? Magari per il weekend.”
Nate annuì di nuovo, sorrise e si congedò con un cenno della mano prima di voltarsi ed entrare nell’edificio. Rimasi ferma ancora qualche secondo, poi tornai a leggere il libro che avevo abbandonato per fare quella strana chiacchierata con Wilde.
Trovavo assurdo ciò che era appena successo e, come al solito, ci rimuginai parecchio su, ma una cosa molto più assurda mi accadde poco dopo. Quando mancavano una ventina di minuti all’inizio delle lezioni, decisi di alzarmi e raggiungere l’aula di Letteratura per vedere se qualcuno dei miei amici era già lì; una volta in corridoio vidi, in lontananza, la figura di Matt Patterson che camminava nella mia direzione. Senza pensarci due volte mi infilai nella prima porta che trovai alla mia sinistra, quella dell’aula “delle punizioni”, dove non c’era quasi mai nessuno. Ero sicura che Patterson non mi avesse visto e che avesse tirato dritto per la sua strada, perciò ebbi un sussulto ancora più grosso nel momento in cui, pochi secondi dopo, la porta si aprì ed entrò proprio lui. Dallo spavento mi cadde per terra la borsa che stavo appoggiando su di un banco in quel preciso istante.
“Nervosetta?” mi domandò infatti Matt con un tono irriverente nella voce.
Raccolsi la borsa e tentai di fuggire. “No, ma devo aver sbagliato aula, mi sa. Avrei il corso supplementare di Letteratura adesso, credo che dovrei andare.”
Patterson fece un passo di lato per posizionarsi esattamente tra me e la porta, lanciandomi al contempo un’occhiata eloquente. “Manca almeno un quarto d’ora all’inizio della lezione.”
“Volevo prendere posto,” biascicai tentando un’ultima scusa.
“È un corso facoltativo, non credo ci sia il pienone.”
“Ma Audrey mi ha chiesto se potevo…”
Lui mi interruppe con secchezza. “Gray, è ridicolo. Quanto vuoi andare avanti?”
Non mi aspettavo che andasse dritto al punto, non era da lui, ma indietreggiare in quel momento avrebbe significato dargliela vinta e non ero pronta a farlo.
Tentennai solo per un secondo. “A fare cosa?” domandai infine, con la mia solita faccia tosta.
Matt non si lasciò ingannare. “Non è mia abitudine chiedere spiegazioni e normalmente non ti avrei teso un’imboscata in un’aula vuota,” ammise, senza distogliere neanche per un attimo gli occhi dai miei.
“Allora lasciami in pace,” borbottai, la voce già meno sicura di prima.
Lui mi ignorò. “Ma mi stai trattando di merda da quando…” Si interruppe, forse indeciso su come continuare la frase senza farla diventare compromettente. “Da quando siamo stati al maneggio,” decise infine. “E voglio sapere se è per qualcosa che ho fatto.”
O per qualcosa che non hai fatto, lo corresse in automatico il mio cervello.
Mi maledissi mentalmente, ma mi impedii con veemenza di pensare al vero significato che avevano quelle parole. Invece, cercai di mettere su un’espressione neutra per rispondere a Patterson, che continuava a guardarmi in attesa.
“Non è per qualcosa che hai fatto, mi stavi sulle palle già da prima,” dissi, con troppa acredine per risultare del tutto credibile.
“Mi sembrava avessimo fatto pace da tempo.”
Sbuffai. “Un po’ meno di così, principino.”
Lui sorrise saputo e mi si avvicinò di un paio di passi, come per mettermi alla prova. “Quindi non è successo niente di strano tra di noi?”
“Quando?”
“Al maneggio.”
“No, niente.”
“Bene.”
“Perché lo chiedi?” domandai fingendo noncuranza, mentre il cuore mi martellava insistentemente in gola.
Fece spallucce e si avvicinò di un altro passo, costringendomi ad alzare ancora il viso per continuare a guardarlo negli occhi.
“Così, per essere sicuro,” rispose con il mio stesso finto disinteresse.
Era diventata una gara a chi avrebbe ceduto prima e sapevo di non avere dei nervi perfettamente saldi come quelli di lui. Così, dal nulla, sparai la prima cosa che mi passò per la testa, o almeno la cosa che pensavo potesse allontanarlo da me in quel momento e togliergli quell’atteggiamento sicuro e spavaldo che mi innervosiva da morire.
“Sto uscendo con Nate. Nathan Wilde.”
Matt mi guardò inarcando le sopracciglia, sorpreso, ma non si spostò di un millimetro. “Okay.”
“Da oggi. Cioè, ci esco stasera per la prima volta. Anche se tecnicamente non è la prima volta, ci ero già uscita l’anno scorso, in realtà,” specificai, inventandomi un paio di dettagli solo per risultare più credibile.
“Non ti ho chiesto niente, Gray.”
Si era allontanato di un paio di passi ed il suo tono era diventato improvvisamente freddo: ero riuscita nel mio intento, anche se evitai di analizzare il modo in cui l’avevo fatto, sennò avrei dovuto pormi troppe domande scomode.
Mi sistemai la tracolla sulla spalla e mi schiarii la voce prima di parlare di nuovo. “Posso andare ora?”
Matt si spostò di lato senza dire nulla e io lo superai, per niente alleggerita, dirigendomi vero la porta dell’aula. Una volta fuori tirai un sospiro di sollievo e continuai a camminare finché, in corridoio, non notai Nathan che parlava con un suo amico. Poiché non volevo ancora fermarmi, ma avevo anche bisogno di scambiare due parole con lui, lo presi per una manica della felpa e lo costrinsi a seguirmi in modo piuttosto rude.
“Ciao Robbie, te lo rubo un attimo,” mi premurai di avvisare l’amico, che ghignò sotto i baffi e fece un cenno di saluto con la mano.
“Mi accompagni in aula?” chiesi a Nate, lasciando andare il suo braccio; continuai senza aspettare che mi rispondesse. “Ti va bene se ci vediamo stasera? Sono libera.”
“Non avevi detto di aspettare il weekend?” domandò lui confuso.
“Sì, ma ho cambiato idea.”
Nel giro di cinque minuti, aggiunsi mentalmente, pensando che mi avrebbe preso, a ragione, per pazza.
Nathan sembrava confuso, ma non mi contraddisse. “Va bene,” decise infine, ancora poco convinto.
Eravamo giunti davanti alla porta dell’aula dove avrei dovuto seguire la mia lezione di Letteratura, perciò mi fermai e lui fece lo stesso, piazzandosi di fronte a me.
“Ti ricordi dove abito?” mi informai, nel tentativo di riguadagnare una parvenza di sanità mentale ai suoi occhi.
Nate annuì, poi mi sorrise e piegò leggermente la testa di lato, come se stesse pensando a qualcosa. “Andiamo al cinema, ti va?”
Sorrisi di rimando anch’io, finalmente rilassata dalla sua espressione tranquillizzante. “Basta che non mi porti a vedere uno di quei film romanticoni e strappalacrime solo per fare colpo su di me, non funzionerebbe.”
Lui ridacchiò, infine si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia per salutarmi. “Come vuoi,” mormorò prima di allontanarsi. “Passo a prenderti alle sette e mezza. A stasera.”
Lo guardai allontanarsi e sospirai, infilandomi nell’aula ancora semi vuota per paura di fare altri brutti incontri in corridoio.

Quella sera, mentre mi preparavo per uscire con Nathan, ero più agitata del previsto. Forse era dovuto al fatto che il mio ultimo vero appuntamento era stato quello disastroso con Petrovic, o forse era perché, anche se ci ero già uscita, Wilde mi piaceva davvero. Sembrava cresciuto dall’anno precedente: fisicamente, certo, era più alto e più carino, aveva di sicuro fatto palestra in quei mesi, anche se continuava a sembrarmi troppo smilzo per giocare a football. Ma, soprattutto, lo trovavo cresciuto in quanto a maturità, ed era quello ciò che mi interessava davvero: già il fatto di aver capito che Petey fosse un mentecatto superficiale e borioso era una cosa che di per sé gli faceva onore. E poi quando mi aveva confessato – circa – di avere una mezza cotta per me era stato estremamente dolce e mi aveva sciolto qualcosa dentro che non sentivo da molto tempo, per la precisione da quando avevo iniziato a lasciarmi andare con Steve Teller.
Indossai una gonna in jeans e un maglioncino color lampone, mi truccai e valutai di mettere le zeppe per diminuire il divario di altezza che c’era tra me e Nate, ma alla fine optai per le sneakers nere: meglio evitare troppi colori o accessori bizzarri, il ragazzo già credeva che fossi mezza matta, e aveva le sue ragioni. Mi guardai allo specchio per cinque minuti buoni prima di muovermi, pensando che era dal prom che non cambiavo colore di capelli, che quindi erano ancora neri e lunghi fin sotto le spalle, e che era giunto il momento di farlo. Quasi mi innervosii per non essere andata dalla parrucchiera la settimana prima, perché in realtà era da qualche tempo che mi sentivo sulle spine, quasi agitata, e di solito trasformavo la mia irrequietezza in un taglio e un colore nuovi.
Scossi la testa e mi smossi i capelli con le mani per movimentare le onde che avevo creato con la piastra, poi presi la borsa, mi infilai la giacca in pelle e uscii di casa per aspettare Nate seduta sui gradini del portico.
“Pulcina, tutto bene?”
Mi girai e vidi la testa di mio padre spuntare dalla porta di casa, sul volto un’espressione leggermente preoccupata.
“Sì, papà, perché?”
Avevo avvisato mia madre del fatto che sarei uscita, dando a lei il compito di istruire papà. Per quanto si fosse pian piano abituato e avesse dovuto capire che ormai ero cresciuta e che, sì, frequentavo dei ragazzi, mio padre rimaneva sempre abbastanza protettivo nei miei confronti.
“Che fai qui fuori a quest’ora?” chiese infatti, facendosi più sospettoso.
“Ho un appuntamento, ho già detto tutto a mamma.”
“Beh, cos’è questa storia? Perché io non so niente? Adesso non mi racconti più le cose? È un ragazzo nuovo o lo conosciamo già?”
Sospirai, per niente stupita, e mi alzai per spingere mio padre in casa e cercare di chiudergli la porta in faccia.
“Ci vediamo dopo, papi. Non faccio tardi. Ciao.”
Lui cercò di protestare, ma venne richiamato all’ordine da mia madre che arrivò dal salotto in quel momento e lo trascinò con sé in cucina. Tornai sui miei passi, scesi i gradini della veranda e mi misi ad aspettare in piedi sotto le scale, immaginando che Nate sarebbe arrivato da un momento all’altro.
Avevo ragione: dopo un paio di minuti vidi un’auto blu in fondo alla strada che rallentava, indecisa su dove fermarsi. Alzai un braccio per farmi notare e la macchina mi giunse di fronte, accostando sul ciglio della strada. Salii prima che Nate potesse uscire, convinta che mio padre ci stesse osservando dalla finestra per carpire qualche informazione sul mio appuntamento.
“Meno male che ti ricordavi dove abitavo,” esordii, lanciando un sorriso a Nate, che rispose con una piccola smorfia.
“Mi pareva di ricordarmelo,” borbottò, e sembrava essere in imbarazzo, cosa che me lo fece piacere ancora un po’ di più.
“Non dovevamo andare al cinema?” gli domandai quindi, notando che non stava prendendo la strada per il centro, bensì quella per uscire da Winthrop.
“Sì, ma al Venice davano solo PS. I love you. A occhio, a giudicare dal titolo, sembrava una melensaggine romantica. Per trovare un multisala dovremmo andare fino a Boston, ma temo che faremmo troppo tardi, quindi andiamo a Beachmont.”
“A fare cosa?”
“Al cinema, no?”
Mi resi conto che si era dovuto impegnare davvero per organizzare quella piccola gita fuori porta, solo per non risultare banale nella scelta del film.
“Non serviva andare fino a Beachmont, mi accontentavo di qualsiasi cosa,” pigolai, sentendomi quasi in colpa.
“Tranquilla, lo faccio anche perché mi interessa il film che andremo a vedere.”
“Qual è?”
“Lo scoprirai,” rispose, criptico.
“Basta che non sia Transformers,” dissi, ricordando di aver visto il trailer in televisione negli ultimi giorni.
Nate mise su una faccia allarmata. “Mi hai beccato.”
“Oddio, davvero? No, perché l’ho detto così per dire, non è che… Cioè, alla fine a me piace andare al cinema, guarderei qualsiasi cosa, poi Transformers avrà dei bellissimi effetti speciali, vederlo al cinema dev’essere bello, ci sono un milione di altri film che invece…” balbettai in preda al panico, prima di accorgermi che Nathan al mio fianco stava ridacchiando di gusto. “Mi stavi prendendo in giro?”
“Solo un poco.”
“Sei un maledetto,” bofonchiai, incrociando le braccia al petto.
“Mi farò perdonare. Zodiac. A Beachmont fanno Zodiac.”
“Mmmh,” mugolai cogitabonda, prima di saltare sul sedile emozionata, capendo di che film stesse parlando. “Oh! È quello con quel figo fotonico di Jake Gyllenhaal?”
“Esatto.”
“Mio dio, io lo amo alla follia! In Brokeback Mountain, poi, con Heath Ledger… Quei due sono uno più meraviglioso dell’altro. Ma poi ho visto quasi tutti i suoi film, me ne mancheranno uno o due che non sono riuscita a trovare in videoteca e…”
“Sapevo che era un errore.”
“Cosa?” domandai, interrotta nel mio delirio da innamoramento platonico.
“Portarti a vedere un film con Gullenhal.”
“Gyllenhaal.”
Nate scosse la testa, ridacchiando. “Sei l’unica al mondo che sa pronunciarlo.”
“Diventerà mio marito, è ovvio che so pronunciarlo.”
Continuammo a scherzare e prenderci in giro a vicenda per tutto il resto del viaggio fino al cinema, dove Nathan insistette per pagarmi biglietto e popcorn. Fu una serata talmente piacevole che mi dimenticai di essere già uscita in passato con lui, tanto sembrava una persona diversa. Dopo il film facemmo una passeggiata sul lungomare di Beachmont e prendemmo un gelato, sempre continuando a chiacchierare con leggerezza di qualsiasi cosa.
Nate non era il tipico belloccio, ma mi resi conto che comunque stava cominciando a piacermi, anche fisicamente. Era alto, con occhi e capelli scuri, aveva un fisico asciutto che a prima vista non sembrava troppo atletico, il suo viso era un po’ affilato e, quando lo prendevo in giro, faceva un sorriso timido e distoglieva lo sguardo in un modo che trovavo adorabile. Intuii di piacergli a mia volta dal modo in cui mi guardava, dal fatto che durante il film ogni tanto si girava per sbirciare il mio viso, o anche le mie gambe, per la verità. Capii di piacergli davvero quando vidi che non aveva quasi paura di avvicinarsi troppo a me, come se temesse di essere respinto.
Arrivammo a casa mia che ancora non aveva avuto il coraggio di provare un approccio diretto, anche se ci eravamo già baciati l’anno precedente. Perciò, quando accostò la macchina al marciapiedi e alzò su di me uno sguardo esitante, decisi di farmi avanti io, prima di perdere tutta l’audacia che sentivo in quel momento. Mi avvicinai lentamente a lui e lasciai che le mie labbra toccassero le sue, per poi approfondire il bacio e sporgermi di più verso di lui, per quanto l’abitacolo dell’auto me lo permettesse. Il cuore mi martellava forte in gola quando mi allontanai di poco e gli sorrisi, notando la stessa espressione stupefatta e felice sul volto di Nate, che si riabbassò per darmi un altro veloce bacio sulle labbra prima di scostarsi del tutto.
“È meglio se vai,” disse quindi, senza smettere di sorridere.
Rimasi stupita dalle sue parole, mi pareva stesse andando tutto più che bene, e boccheggiai appena senza sapere come replicare, un po’ ferita. Nathan capì che avevo frainteso e mi indicò la casa alle mie spalle con il mento, spiegandosi meglio.
“Si è appena accesa una luce sul portico.”
Risi. “Ah, cavolo, sarà papà. Sì, vuol dire che devo andare.”
Lui tornò verso di me e mi lasciò un ultimo bacio sulla guancia. “A domani.”
“Grazie per la bella serata.” Erano parole che mi uscivano quasi in automatico, ma quella volta le intendevo davvero. “Buonanotte.”
“Notte Delia.”

La mattina seguente entrai a scuola con il sorriso ancora stampato sulle labbra, sorriso che però si gelò dopo appena pochi passi in corridoio, quando mi si parò davanti agli occhi una scena inaspettata e che trovai, in tutta sincerità, anche un po’ deprimente. Passando davanti all’armadietto di Matt, infatti, non potei fare a meno di voltare gli occhi nella direzione in cui immaginavo ci sarebbe stato lui, indecisa se avrei voluto vederlo o meno. Lui, in barba alla mia indecisione, era ovviamente lì, ma non era solo.
Appoggiata a un armadietto lì di fianco, Hillary Kane sbatteva le lunghe ciglia e rideva compiaciuta a una battuta che probabilmente lui aveva appena fatto, ma stavolta Patterson non sembrava infastidito dalla sua presenza, né aveva un’aria indifferente come da sua abitudine. Al contrario, se ne stava appiccicato a lei, tanto vicino che all’inizio faticai a credere che fosse davvero lui, che di solito stava per conto proprio. Ma non c’erano dubbi, era Matt Patterson quello che ora flirtava così apertamente con la Kane, che si lasciava spostare da lei un ciuffo di capelli dalla fronte, che le si avvicinava per dirle qualcosa all’orecchio, che le sorrideva con quell’angolo della bocca piegato all’insù, divertito e un po’ malizioso.
Poi Matt voltò appena la testa e per un secondo i suoi occhi incrociarono i miei. Mi vide, non si scompose, tornò a girarsi verso la Kane – ma non la odiava? – e si abbassò per lasciarle un bacio sulla guancia prima di sistemarsi lo zaino sulla spalla e incamminarsi dandomi la schiena. Solo a quel punto mi accorsi di essermi fermata in mezzo al corridoio e, ripensandoci, mi resi conto che Patterson non mi aveva nemmeno rivolto un saluto, cosa che un anno prima sarebbe stata normale, ma che non era più accaduta negli ultimi mesi.
Era normale che avessi percepito quella specie di stretta allo stomaco nel vedere la scena? E che ci rimanessi male perché Matt non mi aveva salutato? Il mio inconscio decise che era meglio non farsi certe domande, decise che la stretta allo stomaco non era altro che nausea, decise che non me ne importava nulla.
Anche ora che sono passati anni da quel giorno, faccio ancora fatica ad accettare la verità. So che la mia reazione dell’epoca diceva più cose di quelle che ero (e sono) disposta ad ammettere, ma ho passato tanti di quegli anni nella convinzione più totale di aver sempre odiato Patterson con tutto il cuore, che rendermi conto ora di una cosa di tale portata non è facile.
Avevo una cotta per Matt.
È difficile persino da pensare, figurarsi da mettere nero su bianco. A diciassette anni avevo una cotta per Matt, sfociata probabilmente dal fatto che in quel periodo ci eravamo avvicinati parecchio. Era di sicuro una cosa immatura e irrazionale e di poca importanza, tanto che è svanita subito. Non ho più nessun tipo di cotta, di sbandata o di debolezza per lui da diversi anni, ne sono convinta. Lo so. Sto solo cercando di dimostrarlo.












Boom! Lo so, non è una gran rivelazione, noi lo sapevamo già da un po', ma per la povera Delia è uno choc, cercate di capire. ^^ Come al solito vorrei evitare di perdermi in chiacchiere, ma siccome (anche) stavolta il risultato finale del capitolo non mi piace per niente, vorrei dare due spiegazioni.
Mi dispiace che dobbiate sorbirvi dei pezzi, come questo, che sono di passaggio, ma, come credo di aver già specificato in precedenza, non so scrivere in altro modo se non così. Ho bisogno di dare spiegazioni, lavorare sulla coerenza dei comportamenti, e in particolare in una storia come CA, che si svolge in un periodo di anni, in cui c'è una crescita dei personaggi e alcuni inevitabili salti temporali, non riesco a fare a meno di scrivere anche queste parti. Se il capitolo vi ha fatto schifo, oltre che pregarvi di farmelo sapere (recensioni, please, mi servono davvero tento tanto!), forse vi può consolare il fatto che nel prossimo si andrà un po' più svelti.
Raccontare questi momenti mi serviva appunto ad arrivare al finale, dove la Delia del presente (a cui sono successe nel frattempo delle cose che vedremo anche più avanti) capisce che la Delia del passato aveva (già) una cotta per quel piccolo scemo di Matt. Il perché credo sia chiaro, come credo sia chiaro il fatto che Delia, all'epoca, ha "ripiegato" su Nate pur di evitare di affrontare la cosa (cliché, lo so, avevo detto che la storia ne sarebbe stata piena). Nate, nonostante tutto, avrà comunque un ruolo importante nella sua vita e nella sua crescita personale, ma mi fermo qui con gli spoiler.
A proposito del dialogo in giardino con Nate, invece, volevo scusarmi se suona forzato e un po' troppo "telefonato", ma per una volta avevo bisogno di far dare delle spiegazioni ai personaggi senza troppi giri di parole, senza che ogni atteggiamento risultasse criptico. C'è già Matt che mi dà del filo da torcere in quel senso, maledetto lui. Voi che ne pensate? Avete trovato alcuni dialoghi troppo inverosimili? Quello con Matt? Con Nate?

Ultime precisazioni sul capitolo prima di salutarci.
- I film nominati durante il capitolo sono usciti tutti nel 2007. Finora non ho dato una collocazione temporale precisa alla narrazione, ma può benissimo essere, per ora, quel periodo. In realtà mi piaceva l'idea di inserire Zodiac perché è un film che ho nominato anche in Of all the people in the world, la storia da cui prende il via questa, tutto qui. Ah, essendo il 2007, Heath Ledger, pace all'anima sua, non era ancora morto, quindi  non ne ho fatto menzione.
- Anche Melanie Frayer, la ragazza di cui parlano nella scena in mensa, era già nominata in Of all, per la precisione nelle primissime righe, e la nomina proprio Dee, sconvolta del fatto che (nel futuro rispetto a questa storia) esca con George Peterson, la sua cotta del liceo.
- Hillary Kane, invece, è la ragazza che aveva già chiesto a Matt di andare al ballo con lei l'anno precedente. Faccio passare un sacco di tempo tra un capitolo e l'altro, quindi trovo ovvio che qualcuno possa non ricordare queste cose!
- Il titolo del capitolo l'ho copiato da una frase di Men in Black, mi pare. In realtà cercavo qualcosa che avesse quel significato, ho trovato quella citazione e, anche se un po' lunga, mi pareva adatta. Letteralmente: Non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta. Delia docet.

Credo di aver finalmente detto tutto! Grazie mille dell'attenzione e dell'amore con cui seguite la storia, soprattutto a Evelyn 98 che ha recensito lo scorso capitolo e i precedenti: <3
Aspetto con ansia i vostri commenti. Un bacione grande!
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: antigone7