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Autore: nitin    28/03/2017    1 recensioni
Questa Klance si articola in sms, di tanto in tanto interrotti da qualche spiegazione giusto per far capire che, in realtà, c’è un filo logico dietro a questa trashata.
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Cosa diamine era successo, la sera prima…?
31/03
11:04
“Appena puoi, dimmi se ti senti meglio.”
11:04
“Bellissima dichiarazione, comunque. Dovresti fare il poeta.”
11:04
“Adesso vado a dormire. Vedi di non chiedermi di sposarti in questo lasso di tempo.”
Genere: Angst, Comico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lo so, ci ho messo secoli, e indovinate? Non è ancora l’ultimo capitolo!
Mi stava venendo troppo lungo, e per la seconda parte ci impiegherò ancora più tempo, visto che fino a venerdì dovrò studiare.
Ma prometto che, entro settimana prossima, pubblicherò la seconda parte di questo capitolo, ovvero la parte finale.
Non odiatemi, vi prego.
 
Ecco le canzoni trash di questo capitolo:
Alvaro Soler – El Mismo Sol: https://www.youtube.com/watch?v=aNHwNreDp3A
Rihanna – Where Have You Been: https://www.youtube.com/watch?v=HBxt_v0WF6Y
 
CAPITOLO 15 (pt.1)
 
28/09, Varadero, Cuba, ore 10:35
 
Come era stato durante tutta la settimana precedente, così fu anche quel giorno. Pioveva, a Varadero, e pioveva anche parecchio. Pioveva così forte che non si sentivano neppure i rumori delle macchine che passavano in strada, le voci delle persone che parlavano tra di loro coperte da grandi ombrelli colorati, ogni rimbombo veniva confuso con un tuono, e ogni tuono veniva confuso con un suono qualsiasi.
A dire il vero, pochi erano i coraggiosi che si avventuravano sotto ad una pioggia così fitta. Fortunatamente, se non altro, non c’era vento. Ma l’aria era calda, umida, e la pioggia non rinfrescava poi molto.
Cadeva pesantemente sull’asfalto delle strade, con ticchettii veloci e fitti, come se stesse ballando sul pavimento. Era fastidiosa, nelle orecchie delle persone.
Soprattutto di quelle che non dormivano da notti intere.
Era fastidiosa per chi, dall’interno di un piccolo supermercato, cercava di riordinare gli scaffali dei biscotti con scrupolosa meticolosità, distraendosi con le note di “El Mismo Sol” di Alvaro Soler, che stava passando alla radio.
Era fastidiosa per Lance, che non riusciva a smettere di pensare a cosa sarebbe accaduto due giorni dopo.
L’ultimo giorno di settembre. Il giorno in cui sarebbe partito per Seul, senza dire nulla a nessuno. Il giorno prima del proprio incontro con Keith.
 
“Aquì todos estamos, bajo el mismo sol.”
 
Quella canzone era allegra, ne passavano i remix nei pub e nelle discoteche di Cuba, ma Lance sentiva solo le parole che voleva sentire.
Lui e Keith non erano sotto lo stesso sole. Erano lontani migliaia di chilometri, erano distanti quattordici ore di fuso orario… Ma, almeno, erano sotto lo stesso cielo. Respiravano la stessa aria. Vivevano sullo stesso mondo, e questo nessuno avrebbe potuto portarlo via da loro.
Per quanto lontani fossero, entrambi respiravano negli stessi istanti, i cuori di entrambi battevano allo stesso tempo, e Lance ne aveva la piena consapevolezza. E, presto, non avrebbe più pensato a nulla del genere. Non avrebbe più avuto in mente certe idee, perché Keith sarebbe stato lì con sé.
 
Lance aveva paura. Aveva paura da morire. Si era organizzato, questo era vero, aveva nascosto i biglietti dell’aereo sotto al materasso del letto, aveva disegnato e studiato mappe su mappe, orari su orari, aveva persino imparato qualche parola in coreano, così, giusto per essere sicuro.
Ma era terrorizzato. Non avrebbe saputo cosa fare, una volta tornato a Cuba. La madre… Lei sarebbe divenuta matta. Il padre, lui probabilmente si sarebbe arrabbiato così tanto da cacciarlo di casa. Perché nella famiglia McClain non c’erano mai stati segreti, non c’erano mai stati problemi, e presto ne sarebbe arrivato uno bello grosso.
Se non altro, Lance aveva Dom dalla propria parte. Lui lo avrebbe protetto, lo avrebbe coperto e difeso, e così avrebbe fatto Lucil, perché lei era intelligente, nonostante la sua età. Avrebbe capito, lei.
Forse, col tempo, anche i genitori avrebbero capito.
Ma Lance aveva paura lo stesso. Avrebbe compiuto quell’impresa da solo, nonostante Shiro, a Seul, avesse già organizzato e sistemato parecchi dettagli del piano. Lance sarebbe salito su un aereo da solo – Dom lo avrebbe portato all’aeroporto – e avrebbe fatto scalo a San Francisco. Dall’altra parte dell’America. In un aeroporto enorme. Avrebbe avuto due ore di tempo per trovare il gate dell’aereo che lo avrebbe portato in Corea, questo era vero, ma… Aveva il terrore di perdersi. Aveva il terrore che il proprio aereo facesse ritardo. Aveva il terrore di dover chiamare la madre e di doverle dire “Mamma, sono a San Francisco, vieni a prendermi?”, aveva il terrore di troppe cose. E per questo motivo era da almeno una settimana che non riusciva a chiudere occhio, la notte, e che ora, sotto ai suoi occhi azzurri, due enormi chiazze scure si estendevano fino agli zigomi.
Era stanco, sì… Ma non vedeva l’ora. Era troppo euforico per essere stanco.
 
“Saca lo malo, malo; no digas “paro, paro”; vale la pena, mi amor.”
 
Lance canticchiava tra sé mentre spostava i pacchi di biscotti dalle scatole agli scaffali, mettendoli in ordine per bene, cercando di concentrarsi sul lavoro che stava svolgendo per non pensare ad altro.
« Lance, ven aquì un momento, por favor. » la voce profonda del padre lo distolse dal proprio compito, e il castano gli si avvicinò lentamente, con le labbra lievemente arricciate tipiche di quando ascoltava una canzone che gli piaceva, come se stesse ballando internamente.
« Dime, papi. »
« Ti senti bene? Sembri stanco morto. » gli chiese il padre in un sussurro, con un’espressione preoccupata che non donava molto al suo viso severo. Ma Lance sapeva bene che, sotto sotto, era un uomo estremamente dolce.
« Estoy bien, papi. Sono solo un po’ stanco, sai che soffro il caldo, quindi di notte non dormo bene. » la voce di Lance era ferma e tranquilla. Ultimamente, era diventato estremamente bravo, a mentire.
“Mentire”, ora, non stava esattamente mentendo. Il caldo lo uccideva. Ma non era principalmente quello il motivo della propria insonnia.
« Menos mal. Oggi esci un po’ prima, okay? »
« Està bien, gracias, papi. » soffiò il ragazzo, tornando al proprio compito. Era un bene, che il padre gli avesse intimato quelle parole. Lance aveva seriamente bisogno di iniziare a farsi un minimo di valigia.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 09:24
 
A Seul, invece, il sole splendeva alto nel cielo limpido, illuminando indistintamente qualsiasi oggetto, qualsiasi persona incontrassero i propri raggi. Neppure una nuvola impediva il suo passaggio, e l’aria, all’esterno, era resa piacevolmente fresca da una brezza leggera.
Nella camera dell’orfanotrofio in cui aveva sempre vissuto, Keith era seduto a gambe incrociate sul letto, con le mani posate sulle ginocchia e il collo lievemente piegato, con un’espressione attenta sul viso, con i capelli legati nel solito codino.
Quei maledetti capelli. Shiro gli aveva sempre detto di lasciarseli tagliare, ma lui ormai si era abituato a tenerli lunghi, e gli piacevano. Solo, spesso doveva legarseli in un muccetto dietro la testa, perché erano fastidiosi.
Prima, a dire il vero, non li legava quasi mai. Li legava solo ogni tanto, quando studiava, ma non aveva mai realizzato quanto fastidioso fosse averli davanti agli occhi mentre parlava con qualcuno. Questo, ovviamente, perché prima non era solito parlare con… Beh, con nessuno.
Ma, da qualche settimana, Keith aveva iniziato a cambiare. A dire il vero, tutto era iniziato quel pomeriggio in cui Shiro lo aveva trovato a ballare sulle note di Nicki Minaj, con le braccia scoperte e un’espressione spensierata sul viso.
Quel giorno, si era sentito bene da morire. Quel giorno, aveva deciso di volersi sentire sempre così.
Era vero, era tutto merito di Lance. Suo, delle sue canzoni tanto stupide quanto allegre, della sua voglia di vivere e di combattere nonostante tutto, del sorriso che aveva visto solo un paio di volte in foto. Ed era anche merito dell’amore che Keith provava per lui, e per tutte le sue piccole cose.
Era solo grazie a lui se anche Keith aveva deciso di iniziare a sorridere un po’ alla vita, di smettere di vedere solo i lati negativi delle situazioni, di cominciare a ballare sulle note delle canzoni di Shakira e di Lady Gaga, invece che piangere sulle parole di quelle dei Three Days Grace. Per quanto amasse i Three Days Grace, ovviamente.
Keith voleva che Lance lo vedesse sorridere, perché se lo meritava. Se lo meritava perché lo stava venendo a salvare, e meritava di trovare un Keith felice, un Keith che avrebbe potuto dargli ogni cosa di cui avesse bisogno. Perché era questo che Keith voleva essere per lui: non un peso, ma una fonte di felicità, e nient’altro.
Era così maledettamente stufo di stare sempre male. E, forse, aveva trovato una cura.
 
« Allora, Keith… Come ti senti? » sussurrò Shiro, in piedi e sorridente di fronte al moro, ancora seduto sul letto.
« Oh, bene! Benissimo, a dire il vero. Solo, ho paura che non mi basti una valigia… Non sapevo di avere così tanti vestiti. Indosso sempre le stesse cose, che me ne faccio di tutti questi vestiti? » sorrise Keith, e così sorrise anche Shiro.
« Te ne procurerò un’altra, allora. Comunque… Manca poco più di una settimana, uh? » esclamò il maggiore, incrociandosi le braccia al petto. Riuscire a mantenere il segreto di Lance era stato più difficile di quanto pensasse. Dover tacere il fatto che Lance sarebbe arrivato solo un paio di giorni dopo, e non una settimana… Gli faceva stringere lo stomaco. Moriva dalla voglia di dirglielo.
« Lo so! Ti rendi conto? Non pensavo che sarebbe successo davvero… Invece viene davvero a prendermi… Shiro, sono così fortunato! »
 
Shiro, invece, si sentiva in colpa. E pure tanto.
Aveva davvero dubitato di Lance. A dire la verità, ne dubitava ancora. Aveva paura che Lance non sarebbe mai venuto a prendere Keith, che lo avrebbe deluso, e se lo avesse deluso Keith sarebbe rimasto a terra, e non sarebbe mai più riuscito a rialzarsi.
Aveva dubitato di Lance, della sua capacità di prendersi cura del proprio fratellino, di renderlo felice una volta per tutte, e per sempre.
Aveva dubitato anche di Keith, del suo amore per quel ragazzo di Cuba, del fatto che si fosse potuto affezionare così tanto a qualcuno che non aveva neppure mai visto.
Shiro si sentiva in colpa per aver dubitato di tutto ciò… Ma non solo.
Un ragazzo a migliaia di chilometri da lì era riuscito a far stare bene Keith, mentre lui, che gli era sempre stato accanto, non c’era riuscito. Lo aveva salvato più volte, lo aveva tirato in piedi, ma Keith era sempre ricaduto.
Lance, invece, con un paio di messaggi, qualche foto e qualche telefonata, era riuscito a renderlo una persona diversa, una persona migliore, un ragazzo sereno, normale, gli aveva ridato la speranza di vivere una vita più bella.
E Shiro non c’era riuscito.
Si morse il labbro inferiore, secco e screpolato a causa di tutte le dentate che ci tirava.
« Shiro… Ti senti bene? » gli chiese Keith, facendogli stringere un poco il cuore nel petto. Perché sì, Keith stava male, ma Shiro era paranoico come poche persone al mondo. Bastava una parola fuori posto, un’idea male espressa, e lui iniziava a rimuginarci sopra, a creare castelli dal nulla, a ritorcersi contro la sua stessa mente.
« Sì… Sto bene. Sono davvero felice per te, Keith. » ma Shiro non avrebbe mai espresso nessuno di quei pensieri. Non avrebbe mai anteposto se stesso al ragazzo che adorava come un fratello, non lo avrebbe mai fatto sentire in colpa.
Doveva solo convincersi che era merito proprio se Keith era ancora vivo, e grazie ai fatti, non grazie a parole scritte su uno schermo.
Ora, però, anche Lance avrebbe avuto dalla sua parte i fatti. E Shiro avrebbe dovuto farsi da parte, e lasciar andare il ragazzo che aveva cresciuto, poiché ora questo era pronto a spiccare il volo.
 
Keith si alzò dal letto, prendendo le mani del maggiore tra le proprie.
« Grazie, Shiro. Grazie per tutto ciò che hai sempre fatto per me. Ti devo tutto. » sussurrò, e i pensieri nella mente di Shiro si frantumarono come un vetro preso a pugni. Tutte le volte che Shiro aveva fermato Keith dal farsi del male, tutte le volte che lo aveva abbracciato per farlo stare meglio, tutte le volte che lo aveva consolato quando una famiglia adottava qualcun altro al posto suo: tutto ciò si realizzò nel sorriso di Keith, che scaldò corpo e anima al maggiore.
Shiro lo abbracciò senza ripensamenti, e Keith, pur non essendo un amante degli abbracci, lo lasciò fare. Shiro era sempre stato quanto di più vicino alla parola “famiglia” Keith avesse mai avuto. Ma anche le famiglie, ad un certo punto, andavano lasciate.
« Voglio che tu sia felice, Keith. Felice come non sei mai stato, felice come meriti di essere. Sono sicuro che Lance sarà capace di renderti tale. »
Keith sorrise tra le braccia dell’unico fratello che avesse mai avuto. Sorrise apertamente, perché sapeva che stesse dicendo la verità.
 
 
28/09, Varadero, Cuba, ore 14:03
 
La pioggia cessò nel momento stesso in cui Lance mise piede fuori dal supermercato del padre. Ne fu estremamente contento, perché aveva dimenticato di portarsi dietro l’ombrello. E inoltre, ora che il vento si era abbassato, sarebbe stato molto più facile evitare le pozzanghere con quel catorcio di bicicletta che lo aspettava fuori dal negozio. Perché, ovviamente, la macchina l’aveva presa Dom, quindi il castano aveva dovuto farsi la strada in bici, e pure veloce, altrimenti si sarebbe preso tutta l’acqua che sarebbe venuta giù.
Lance voleva tornare a casa. Stare intorno alla propria famiglia era diventato impossibile, non riusciva a smettere di sorridere, di incantarsi, di rimuginare a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Era diventato pesante, perché doveva sempre inventare scuse del tipo “Sono stanco”, “Ho dormito male”, “Sono felice perché i cactus stanno fiorendo”, e così via. Anche se i cactus erano davvero fioriti, ma quella era un’altra storia. Una storia lunga e piena di sentimenti tra Lance e i suoi mini-cactus.
In ogni caso, era necessario che tornasse a casa. Doveva finire la valigia e riposare, perché il giorno successivo sarebbe partito presto. Dom l’avrebbe portato all’aeroporto, era vero, ma avrebbero dovuto essere lì un’ora prima del proprio volo per il check-in. Quindi doveva contare due ore e mezza di viaggio fino a L’Avana, un’ora di attesa, e solo dopo sarebbe partito. E, visto che l’aereo partiva alle dieci, sarebbero dovuti partire per le sette, forse sei e mezza.
 
In realtà, sarebbero partiti alle quattro del mattino. Lance aveva il terrore di perdere l’aereo, Dom non conosceva bene la strada, ma soprattutto… Non dovevano farsi scoprire dai genitori. Dom avrebbe lasciato la macchina già pronta nel vialetto, in modo che nessuno potesse sentire il motore avviarsi. Aveva detto ai genitori che avrebbe passato la notte da una ragazza – cosa che faceva spesso, perché bello com’era aveva più ragazze che capelli in testa – e avrebbe aspettato Lance fuori di casa, pronto a caricarlo in macchina e a partire.
E a Lance andava più che bene. In ogni caso, non avrebbe certamente dormito. Era troppo euforico, troppo preoccupato, troppo emozionato.
… Mancava meno di un giorno alla propria partenza. E, tempo di arrivare, contando il fuso orario, sarebbe stato già il primo di ottobre, a Seul.
E Keith sarebbe uscito. E, magari, gli sarebbe corso incontro con quelle labbra così morbide tutte sorridenti, con le braccia aperte pronte a stringersi attorno al proprio corpo, con il viso tutto arrossato e i capelli mossi dal vento, nei quali fiori di ciliegio si sarebbero posati come farfalline…
Lance stava sognando ad occhi aperti, tanto da cadere con la bicicletta.
Insomma che, quando arrivò a casa, aveva le spalle stanche, il viso rosso e la gamba destra piena di sangue e sassolini.
 
« Lance! Sei caduto? » Lucil esclamò, seduta sulle scalette davanti a casa, mentre lo indicava tutta divertita dall’espressione imbarazzata del fratello maggiore.
Insomma, capitava a tutti di cadere in preda ad un sogno ad occhi aperti!
« Uh, sì… C’era una buca nella strada. » mentì con facilità, zoppicando fin dentro casa per sciacquarsi la gamba dai graffi, dai sassolini e dal sangue.
Fantastico, ora Keith lo avrebbe visto con una bella fascia sul ginocchio! Ci mancava solo questa. Anche se, a pensarci bene, nessuno dei due avrebbe pensato poi molto alla fattezze fisiche dell’altro, in quel momento.
Lance si avvolse la gamba con una garza bianca, dopo aver disinfettato la ferita. Non era un ragazzo con una soglia del dolore elevata, anzi, ne provava tantissimo anche solo quando prendeva una botta delicata, o quando la sorellina gli tirava, per scherzo, degli schiaffetti sulla schiena. Ma in quel momento, estatico com’era, avrebbero potuto tagliargli un braccio, e lui non se ne sarebbe comunque accorto.
 
Inoltre, non aveva tempo di lamentarsi: doveva farsi la borsa, prepararsi per quella notte, sistemare ogni cosa... Realizzare che per almeno un paio di notti non avrebbe dormito in letto, bensì sul sedile di un aereo.
Non voleva davvero sapere in che condizioni sarebbe arrivato in Corea. Probabilmente avrebbe avuto giusto il tempo di abbracciare Keith prima di addormentarsi a peso morto su di lui. Oh, non gli importava! Era emozionato da morire! Emozionato all'idea di scappare di casa, di lasciare Cuba per la prima volta, di andare in un altro stato, in un altro continente, da solo, solo per andare a prendere il ragazzo che amava.
Era felice da morire, mentre infilava in una grossa borsa nera da viaggio qualche maglia a caso, qualche pantalone, qualche calzino spaiato, senza preoccuparsi di piegare nulla. Vi infilò dentro anche le cuffie (rubate a Dom), senza le quali non sarebbe andato proprio da nessuna parte, il grosso quaderno a fiorellini rosa (rubato a Lucil) con tutti gli appunti che aveva accumulato su Keith, il vocabolario inglese-coreano, le fotografie del moro, che aveva stampato a casa di Hunk, le mappe di Seul e le indicazioni che gli aveva dato Shiro, ogni cosa che potesse servirgli anche solo minimamente.
Ma le cose non ci stavano, in borsa, quindi Lance decise di piegare i vestiti e di sistemare tutto un po' meglio. Ecco, Lance non sapeva piegarli, i vestiti. E, sì, andò a cercare su internet "Come piegare una maglietta", lo fece davvero, e guardò persino alcuni tutorial.
Insomma che, dopo aver finalmente sistemato i vestiti e le altre cianfrusaglie, si rese conto di non aver scelto come vestirsi quella sera stessa, per andare all'areoporto.
Com'era il clima in Corea del Sud? Faceva caldo? O avrebbe dovuto cambiarsi in un bagno? Magari, durante lo scalo a San Francisco, si sarebbe cambiato nei bagni dell'aeroporto...
Decise di partire vestito leggero. Poi, nel caso, si sarebbe vestito. Mise già sul letto un paio di pantaloncini neri lunghi fino alle ginocchia, una t-shirt a righe orizzontali azzurre e blu, una felpa rosso scuro che si sarebbe legato in vita, e l'unico paio di scarpe che avesse: un paio di Converse basse e grigie, che Converse non erano, perché erano tarocche come poche cose al mondo, e mancava poco che si suicidassero lacerandosi da sole. Ma Lance teneva a quelle scarpe, erano state il primo capo d'abbigliamento che avesse mai rubato da un negozio, insomma, ci si era affezionato! E, benché queste fossero rotte, lui teneva a loro, quindi le puliva in ogni momento possibile... Con lo sgrassatore per i piatti, perché Lance mica lo sapeva che quella roba non si sarebbe dovuta usare su un paio di scarpette di tela.
Ma erano le uniche che aveva, quindi avrebbe indossato quelle a prescindere.
 
Le ore passarono, e Lance non faceva che fissare la grande borsa nera, aggiungervi cose, toglierne altre, fare inventari su inventari per vedere se si stesse dimenticando qualcosa. I biglietti dell'aereo nella bustina di plastica sul cuscino, i contanti nel portafogli degli Avengers, così come i documenti e tutto il resto, il passaporto pronto. Perché aveva il passaporto, poi? Forse se l'era fatto anni prima, quando aveva deciso di andare in vacanza in Inghilterra con Dom, ma non avevano avuto i soldi e tutto era saltato. L'importante era averlo.
Aveva tutto, ed era pronto a partire. Ciò che aveva più di ogni altra cosa era l'ansia. L'ansia di perdersi, di perdere l'aereo, di confondere i voli e ritrovarsi in Portogallo, in Italia, o magari in Sud Africa, invece che in Sud Corea.
Doveva assolutamente mantenere la calma. La calma portava concentrazione, così era solito ripetersi. Ed era sicuro che, se si fosse concentrato, sarebbe arrivato a Seul con tutta la calma del mondo.
Era sera, ormai, e l'orologio segnava le 19:34. Magari... Magari avrebbe potuto scrivere a Keith.
 
19:34
"Buonasera, Rayo de Sol! Come ti senti? Sei emozionato per domani??"
19:40
"Oh, ciao Lance. Ho passato la giornata a fare i bagagli. Sono contento da morire. Shiro ha detto che il suo appartamento è pronto per ospitarmi, così starò da lui per questa settimana. Lui sembra essere più emozionato di me."
 
Era un altro, il motivo per cui Shiro era emozionato... Ma Lance non poteva di certo dirglielo e farsi saltare la copertura!
 
19:42
"Immagino, immagino!! Io sono ancora in alto mare con i bagagli, ma ti prometto che entro questa settimana sarò pronto!"
19:43
"Ci credi? Ci vediamo tra così pochi giorni..."
19:45
"Io ancora non ci credo."
19:45
"Davvero vieni a prendermi? Davvero mi porti a Cuba? Ho ragione ad avere paura?"
19:47
Immagine inviata.
19:47
"Questi sono i biglietti, ti bastano come garanzia?"
 
Lance aveva fatto attenzione a coprire la data, naturalmente.
Non aveva mica intenzione di farsi saltare la copertura! Era un ragazzo attento ai dettagli, lui! … E, comunque, il proprio telefono non aveva una buona risoluzione.
 
19:48
"Mi viene da piangere."
19:50
"Non piangere! È un lungo viaggio da qui in Corea, sono io quello che dovrebbe preoccuparsi!!"
19:54
"Lance... Ti confesso che ho paura. Intendo, se le cose non funzionassero? Se la tua famiglia mi odiasse? Se tu mi odiassi? Ho così tanta paura..."
19:58
"Mi amor, non devi avere paura. Andrà tutto benissimo! Mio fratello ci sostiene in pieno, anche i miei amici ci sostengono, vedrai che i miei genitori se ne faranno una ragione, okay?"
20:00
"Mi fido di te."
20:02
"Fai bene!! Sono una persona più che responsabile"
20:03
"Come no. Ti ricordo che stavi per infilare un gatto in una lavatrice, una volta."
20:04
"È stato un incidente, e comunque mi sono fermato in tempo!!"
20:05
"In ogni caso, devo preparare la cena! Ti scrivo dopo?"
20:07
"A dopo, mio Lance."
 
Lance amava cucinare le chicharritas come accompagnamento ai piatti di carne. Si parlava semplicemente di banane verdi fritte in olio di semi, insomma, erano praticamente le patatine fritte di Cuba.
Lance prendeva le banane, le tagliuzzava in perfette rondelle di due millimetri di spessore, e si divertiva a vederle friggere, a sentirle sfrigolare con quel buon profumo, un misto tra dolce e salato.
Amava cucinarle, ma amava ancora di più il viso della sorellina quando le cucinava, poiché si illuminava alla sola idea di mangiare quel piatto.
« ¡Sòlo un momento! Hai apparecchiato la tavola? »
Sorrise Lance, diretto alla ragazzina che saltellava di qua e di là per la cucina, mentre la madre sfilava le fette di carne di maiale dalla padella per metterle nei piatti, condite con sale e accompagnate da qualche verdurina.
« ¡Sì, hermanito! Veloce, veloce, ho fame! »
La vocina di Lucil risuonava per la casa, mentre Adrian, tenuto dal padre Charles tra le braccia, batteva allegro le manine. Lance prese la terrina in cui aveva rovesciato tutte le chicharritas, portandola in tavola insieme ai piatti di carne.
Quella cena gli sarebbe dovuta bastare per almeno due giorni... Perché dubitava che avrebbe mangiato altro, oltre magari a qualche caramella comprata in aeroporto.
« ¿Dònde està Dom? » chiese Charles, mentre Lance e Athalie si sedevano ai loro posti, attorno al tavolo di legno.
« ¡Creo que Dom es con una chica! El dijo que dormirìa fuera... » sussurrò la madre, senza nascondere la malizia nella voce, e facendo così scrollare sconsolata la testa del marito. I McClain amavano spettegolare sui loro figli e fratelli. E a Lance la cosa tornava decisamente utile, perché i genitori dovevano essere convinti del fatto che Dom avrebbe dormito fuori… Quando, in realtà, lo avrebbe aspettato in macchina. “Povero Dom”, pensò Lance, prima di scrollare le spalle tra sé e sé. D’altronde, era stato il fratello maggiore a proporre quel piano, no?
 
Lance passò il resto della serata davanti alla tv con Adrian tra le braccia, sopportandosi tutti i cartoni animati possibili e immaginabili. “Fantastico”, pensò, “mi farò tutto il viaggio in aereo con l’opening di Teen Titans in testa”. Anche se, e non poteva mentire, ma non l’avrebbe mai ammesso, Lance amava i Teen Titans.
Aveva deciso di non scrivere a Keith. La madre aveva notato tutto il tempo che il castano passava al telefono, e ora che ne conosceva il motivo era meglio se lei avesse pensato che tutto era finito. Ma non era finito… Era appena iniziato. E Lance non aveva idea di come avrebbe mai potuto farsi perdonare una cosa del genere.
Verso le 22, si chiuse in camera. Diede la buonanotte ai genitori, un bacio sulla guancia della madre e una scompigliata ai capelli del padre, poi a Lucil, pinzandole delicatamente lo zigomo, e infine al piccolo Adrian, sfregando il naso sulla sua testolina ornata da pochi soffici capelli biondi.
Quindi, chiuse a chiave la porta della propria stanza, accese la lucina sul comodino… E chiuse la valigia, ora sicuro che dentro vi fosse tutto.
Si cambiò, indossò i vestiti che aveva scelto per partire, le scarpe, preparò il borsone e lo zainetto in cui avrebbe messo le cose essenziali, strinse tra le dita i biglietti dell’aereo, spense la luce… E prese il cellulare.
Era questione di poco più di ventiquattro ore, e poi avrebbe visto Keith. Ormai ne era sicuro: quello era un punto di non ritorno.
 
22:36
“Keith, mi amor! Perdonami, mi sono messo a guardare i cartoni con mio fratello…”
22:49
“Ma è una cosa dolcissima. Anche se non penso che tu abbia dovuto ‘sopportare’ poi molto, huh?”
22:50
“Stai dicendo forse che amo Teen Titans? Perché è così!!”
22:50
“Oh, lo so.”
22:51
“Come stai, Rayo de Sol?”
22:53
“Euforico. Insomma, tra poco più di ventiquattro ore uscirò da qui. Ci credi?”
22:53
“Ci credo eccome!!”
22:54
“Mi sembrava che il tempo non passasse mai. Se non ci fossi stato tu, non so come avrei fatto.”
22:54
“Dai, dai! Queste cose me le dirai dal vivo, uh? Ora pensa ad uscire da lì!!”
22:55
“Hai ragione. Te lo dirò dal vivo. Lance, te lo dirò dal vivo.”
22:56
“Sì, amore mio, me lo dirai dal vivo…”
22:56
“Ti dispiace se piango e ti scrivo tra dieci minuti?”
22:58
“Non pensarci neanche!”
23:04
“Troppo tardi.”
23:05
“Ti sei davvero messo a piangere?!”
23:06
“In realtà stavo mettendo a posto i libri… Piangendo.”
23:07
“Oh, ma dai!!”
23:08
“Cosa vuoi. Sono felice.”
23:09
“Anche io sono felice…”
23:10
“Lance, ho notato… La tua grammatica è migliorata moltissimo. Anche la tua punteggiatura. Sono estremamente fiero di te.”
23:11
“E questo cosa c’entra??!!”
23:11
“Ho parlato troppo presto.”
23:12
“Gne, gne, gne!”
23:13
“Comunque, domattina devo essere al lavoro alle sei quindi non penso che riuscirò a scriverti, è la giornata dei rifornimenti e dovrò mettere tutto a posto!!”
23:12
“Non preoccuparti, non è un problema. Anzi, vai a dormire adesso. Non voglio che tu sia stanco, domani.”
23:13
“Va bene, amore, allora vado!!”
23:14
“Fckop”
23:14
“Stai… Bene?”
23:15
“Sì. Mi si fotte il cervello quando mi chiami così.”
23:16
“Pensa a quando ti ci chiamerò dal vivo!!”
23:18
“… Buonanotte, Lance. Dormi bene.”
23:19
“Buonanotte a te, dolcezza!”
 
Per Lance, tuttavia, quella non fu affatto una ‘buona notte’.
Passò il resto della sera al buio, rannicchiato nel letto, con i biglietti aerei stretti al petto e il cuore che gli rombava contro la cassa toracica.
Passò un’ora. Ne passarono due, poi tre. Ora mancavano venti minuti, e solo allora Dom avrebbe acceso i fanali della macchina, facendogli cenno di uscire dalla finestra della camera.
Lance era pronto a tutto. Sarebbe uscito da lì, avrebbe messo i piedi sul tettuccio del garage, poi si sarebbe lasciato cadere a terra, e quindi sarebbe corso verso la macchina, stando attento a non fare rumore con le borse.
Ci aveva provato almeno dieci volte, e nove volte era andata bene. La decima si era preso una storta, ma nulla di grave: Lance era agile, molto agile.
E così fece, mettendo in atto il proprio piano. Non fece un rumore, aprì la finestra e la richiuse da fuori, si resse con le braccia lasciandosi cadere sul tetto del garage, e quindi, un po’ come un gatto, si tenne alle tegole di questo, scivolando fino a toccare i ciottoli del cortile con le converse stracciate.
Appena i propri piedi toccarono terra, corse verso la macchina del fratello, con i biglietti in mano (aveva paura di dimenticarli), la borsa su una spalla e lo zaino sull’altra; entrò in macchina e chiuse la portiera, e Dom, senza pronunciare parola, mise in moto… Lasciandosi prima la casa, poi Varadero, alle spalle.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 12:04
 
Keith stava davvero piangendo, mentre metteva a posto i libri. Insomma, come avrebbe potuto non piangere? Lui meritava di piangere, sapeva di essere forse una delle persone che più al mondo meritassero di piangere.
Piangeva perché era sconvolto, impaurito, felice, tranquillo, e non era abituato a sentirsi così. Piangeva perché quell’inferno era finito, e ora avrebbe davvero potuto scoprire come fosse fatto il mondo. Piangeva perché Lance stava per attraversare mezzo globo terrestre per venirlo a prendere, perché Keith aveva il terrore di iniziare quel viaggio da solo e lui non voleva farlo sentire preoccupato.
Piangeva perché, dopo diciotto anni di vita, si sentiva finalmente libero. Si sentiva pieno di speranza, pieno di vita, consapevole che sarebbe riuscito a sfuggire a quella malattia che gli affliggeva la mente, che lo bloccava a tal punto da farlo tremare anche quando non pensava a nulla.
Piangeva perché stava superando la depressione, perché era felice di non essere morto, perché era grato a Shiro per averlo salvato tutte quelle volte, perché sapeva che, presto, ogni traccia di tristezza sarebbe svanita, e si sarebbe dimenticato di qualsiasi cosa brutta, di ogni anno passato in quell’orfanotrofio.
 
E ora, mentre sistemava i propri libri in un borsone nero, si asciugava le lacrime con il dorso della mano a ritmo di “Where Have You Been” di Rihanna, sempre colpa di Lance e delle sue stupide canzoni pop.
 
“I’ve been everywhere, man, looking for you, babe.”
 
Keith cantava sottovoce, muovendo spensieratamente il capo al ritmo del beat di quella canzone. Come avrebbe potuto negarlo? La amava.
Amava quella canzone. Amava la propria cazzo di vita. Amava Lance, amava la propria amicizia con Shiro, amava la Corea e amava Cuba. Amava Shakira, Rihanna, Lady Gaga e persino i One Direction, ogni tanto.
Con una tragedia di Shakespeare tra le mani usata come microfono, si mise a muovere i fianchi e a cantare.
 
“You can have me all you want, any way, any day, to show me where you are tonight. Where have you been all my life?”
 
Solo un giorno. Solo un giorno al proprio diciottesimo compleanno, e poi sarebbe uscito da lì. E Shiro si sarebbe preso cura di sé durante quella settimana, proprio come aveva sempre fatto.
Keith era pieno di serenità. Si sentiva come drogato, ecco, sebbene non sapesse che effetto avesse la droga sulla mente umana. Si sentiva privo di pensieri, leggero, come se avesse potuto spiccare il volo da un momento all’altro.
Si lasciò cadere sul letto.
Aveva paura di pensare a cosa sarebbe successo se avesse iniziato a rimuginare sul viaggio di Lance. Verrà? Non verrà? Mi amerà? Questo si stava trattenendo dal chiedersi. Per una volta in vita propria, avrebbe riposto la propria fiducia in qualcuno. Sapeva che, se Lance non fosse venuto a prenderlo, avrebbe seriamente rischiato di non rialzarsi più, perché ora che era lucido riusciva a ragionare. Quindi, una buona volta, decise di vedere il lato positivo della vicenda.
Sperava solo che quel lato positivo durasse abbastanza a lungo. Giusto una settimana. Per una settimana, doveva evitare categoricamente ogni pensiero negativo, ogni “rimuginazione fobico-ossessiva”, come diceva lo psichiatra.
Quello stupido psichiatra. Quello stupido dottore. Quel vecchio idiota con i baffetti bianchi e gli occhiali troppo grandi per i suoi occhi troppo piccoli.
Anche se, in quel momento, Keith amava anche lui.
   
 
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