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Autore: Kary91    29/03/2017    4 recensioni
[Long Fiction | Jace!centric | Jace & Alec (bromance) | What-if? di "Città delle Anime Perdute"]
Ci troviamo verso la fine di Città di Anime Perdute e qualcosa di sostanziale cambia, durante la battaglia fra Shadowhunters e Ottenebrati: Alec viene ucciso da Sebastian, sotto lo sguardo impassibile di un Jace schiavo della volontà di quest'ultimo.
Sei mesi dopo, Jace è finalmente libero dal condizionamento di Sebastian, ma non è più se stesso. Devastato dai sensi di colpa e dal dolore per la perdita del suo parabatai , è ossessionato dall’idea di riportare in vita Alec.
Troverà un modo: una strada che nessuno ha mai nemmeno pensato di intraprendere e che probabilmente gli costerà la vita. Un viaggio che rischia di scardinare l’equilibrio dei Regni Celesti – dove vivono gli angeli e le anime di chi non c'è più.
Ma quando Jace Herondale vuole qualcosa nemmeno Raziel in persona può impedirgli di ottenerla. Soprattutto se quel qualcosa è la vita di suo fratello.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood, James Carstairs, Kieran, Magnus Bane
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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5 | The Darkness Before Dawn;

«Fortunati coloro che conoscono il nome del proprio cuore. Sono coloro il cui cuore non si perde mai veramente. Possono sempre richiamarlo e farlo tornare a casa.»

Mark Blackthorn Le Cronache dell’Accademia. Cassandra Clare

 

 

La brughiera che avevano incominciato ad attraversare quel mattino era piatta e desolata, affatto adatta a nascondersi.

Per questo Jace non si stupì, quando due paia di mani lo sollevarono con violenza, rivelando la sua presenza dietro l’unico ammasso roccioso nel raggio di un chilometro.

Un sorriso obliquo gli accarezzò le labbra; non oppose resistenza, mentre i due membri della Caccia lo trascinavano verso la grotta in cui riposava il resto dell’esercito. Gli era stato alle calcagna per due giorni senza che nessuno se ne fosse accorto: niente male.

Uno dei due cavalieri – una fata dalle braccia massicce e lunghi capelli viola – gli tirò indietro la testa per osservarlo.

Nephilim” osservò con disgusto, mentre i suoi occhi passavano in rassegna le rune lungo il suo corpo.

Il sorriso di Jace si allargò.

“Fata” lo schernì, imitando il suo tono nauseato.

Il cavaliere sollevò una mano artigliata. Il compagno gli trattenne il braccio.

 “Non lasciarti provocare, Saiin” gli intimò, spingendo Jace in avanti. “Sai che a Gwyn non piace quando giochiamo con gli intrusi prima che li abbia visti.”

Saiin assentì con un grugnito. Si consolò mollando una ginocchiata al ragazzo, per farlo procedere.

Giunti nella grotta i due cacciatori gettarono Jace a terra, ai piedi di quello che doveva essere il loro capo.

Un miscuglio di voci rozze e profonde si sollevò, mentre gli sguardi dei presenti si concentravano su di lui.

Jace si alzò in piedi con calma, senza tradire il nervosismo che gli pulsava nel petto.

Il suo sguardo incrociò quello del colosso di fronte a lui, che lo fissava con sguardo rapace: aveva gli occhi di due colori diversi – uno nero e l’altro di un azzurro pallido – le orecchie a punta tipiche della sua specie e un elmo decorato con corna di cervo. Una lunga spada di metallo, annerita e contorta, era appesa alla sua cintura.

 

Jace lo riconobbe subito: prima di partire aveva letto parecchi libri sulla Caccia e in ognuno di essi si parlava di Gwyn ap Nudd, il suo condottiero.

 

“Chi sei, Shadowhunter?” domandò il cacciatore, una mano sull’elsa della spada: la sua voce ricordava il frusciare degli alberi al vento. Non aveva parlato con il disgusto di Saiin, né la sua espressione aveva lasciato trapelare alcun tipo di emozione.

“Mi chiamo Jace Herondale” rispose il ragazzo, senza distogliere il contatto visivo. “Sì, sono un Nephilim, ma non vi stavo seguendo per conto del Conclave. Sono qui di mia iniziativa.”

 

Qualcuno alla sua sinistra incominciò a lamentarsi in una lingua sconosciuta – il suono ricordava lo schioccare di rami morti.

“Scuoiamolo vivo” sbottò in inglese un altro cacciatore, facendosi strada fra i compagni per raggiungere la prima fila. “Strappiamogli quella corazza di disegnini.”

Gwyn alzò una mano per zittirli.

“Spiegati” ordinò poi, rivolto a Jace.

Il ragazzo allargò le braccia, come a voler dimostrare di non essere armato.

“Voglio unirmi alla Caccia Selvaggia” rivelò, guardando Gwyn dritto negli occhi. “Voglio diventare un Segugio di Gabriel.”

Un boato di proteste si sollevò fra i presenti: qualcuno sputò verso Jace, altri sembravano sul punto di aggredirlo.

Ancora una volta, Gwyn li fece tacere con un cenno della mano.

“I Nephilim non sono i benvenuti, fra noi” replicò con freddezza, tornando a sfiorare l’elsa. “Specialmente dopo la Pace Fredda. ”

“La Pace Fredda vincola i rapporti con le Corti Terrene” l’informò Jace con un sorriso obliquo. “Voi le disdegnate e non avete preso parte agli Accordi: ergo, nulla ci vieta di diventare migliori amici.”

Gwyn lo freddò con lo sguardo – nero e azzurro a graffiargli il volto.

“Ci hai seguito per giorni” osservò, esaminandolo: sembrava alla ricerca di qualcosa. Un’arma nascosta, forse? “Se avessi davvero avuto intenzione di unirti alla Caccia ti saresti mostrato subito.”

“Volevo essere sicuro che mi avreste accettato” spiegò Jace. “So che reclutate i mortali solo una notte all’anno: temevo di essermela persa.”

“Non possiamo fidarci di un Nephilim” intervenne Saiin, spingendo un compagno da parte per avanzare: stava facendo dondolare il machete in maniera preoccupante. “Specialmente questo qui: l’ho riconosciuto, è amichetto stretto dell’Inquisitore.”

“Quello a cui sono morti tutti i figli maschi?” ribatté un altro, sorridendo maligno.

Jace lo squadrò con disgusto; le parole del Nascosto lo graffiarono più di quanto avrebbero potuto fare i suoi artigli.

“Non tutti” ribatté glaciale, la tensione trasformata in un nugolo di scintille sottopelle. “Ci sono ancora io. E il prossimo che oserà pronunciare anche solo una parola sui Lightwood rimpiangerà di non essere protetto dalla Pace Fredda.”

Il ragazzo non ottenne risposta, perché nessuno dei presenti lo stava più ascoltando: le sue minacce avevano eliminato anche i rimasugli di autocontrollo rimasti in Saiin, che si era lanciato contro di lui, brandendo il machete.

Un paio di cacciatori lo imitarono, accerchiandolo. Jace non poté fare altro che schivarli, frugandosi nei pantaloni alla ricerca dello stilo.

La rabbia gli arrovellò gli organi interni, e poi la pelle, diventando incandescente.

Una fata dai capelli color corteccia affondò con la spada, mentre due compagni lo trattenevano per le braccia.

Un grido di dolore penetrò l’aria: nugoli di scintille schizzarono verso l’alto e le fiamme disegnarono un cerchio protettivo intorno a Jace, aderendo alla sua pelle.

La spada che l’aveva colpito cadde a terra, completamente annerita. Il suo proprietario si stava reggendo la mano ustionata con quella sana, una smorfia di dolore a deformargli il viso.

Finalmente, i membri della Caccia si costrinsero ad arretrare.

Jace studiò i loro volti con aria imperscrutabile, leggendoci dentro – per la prima volta – un principio di paura, oltre alla diffidenza. Avvertì qualche sussurro indistinto – la parola mostro, rimbalzata qua e là – ma il primo a parlare ad alta voce fu un ragazzo che fino a quel momento era rimasto in disparte.

Stava vicino a Gwyn – che era ancora immobile, quasi incuriosito dalla maniera in cui gli eventi erano precipitati – e sembrava piuttosto giovane. Era di bell’aspetto – zigomi alti, lineamenti principeschi, un corpo snello e aggraziato. Aveva i capelli scuri, con uno strano riflesso blu, e l’eterocromia tipica dei membri della Caccia: un occhio nero e l’altro grigio scuro.

“Non è un semplice Nephilim” osservò, studiandolo attento: non sembrava spaventato quanto gli altri. Il suo sguardo era per lo più incuriosito. “Quello è il fuoco degli Angeli: gli scorre dentro come sangue.”

Si voltò verso Gwyn ap Nudd, che aveva ancora la mano avvolta intorno all’elsa della spada.

Il condottiero si avvicinò a Jace, ignorando la reazione apprensiva degli altri cacciatori.

“Perché sei qui, mezz’angelo?” chiese, la voce distante e controllata. “Perché vuoi unirti alla Caccia?”

Jace strinse i pugni fino ad affondare le unghie nella carne.

“Sei mesi fa ho perso il mio parabatai in battaglia” rivelò, tornando a ricambiare il suo sguardo. “Affidarmi alle leggi del Conclave e rischiare la vita nel nome di Raziel non m’interessa più, non senza di lui. Intendo servire una causa che meglio si adatti al mio spirito” mentì, sforzandosi di modellare al meglio le sue parole: le fate andavano matte per i discorsi poetici. “Nei giorni scorsi ho cavalcato con voi, vi ho seguiti e ho imparato a nutrirmi di libertà, a vivere del vento, e del mare, e delle montagne. È a questo che ambisco” concluse, allargando le braccia. “Non potrei chiedere di meglio.”

Gwyn lo fissò ancora per qualche istante, prima di annuire brevemente.

Quel piccolo gesto, in apparenza da niente, seminò lo sconcerto nei volti dei presenti. Tuttavia, nessuno fiatò.

“Molto bene” acconsentì infine Gwyn, levando la spada. I presenti arretrarono. “Se è questa la tua scelta, inginocchiati.”

Jace eseguì, la tensione che gli martellava nel petto. Sapeva di trovarsi a un punto di non ritorno: se avesse accettato di unirsi a loro, sarebbe appartenuto per sempre alla Caccia.

Non c’erano vie d’uscita, ma Jace non si sforzò di trovarne: la decisione era presa.

“Ricorda, ragazzo” lo ammonì improvvisamente Gwyn con sguardo severo. “Ti sto accettando solo perché la tua natura potrebbe rivelarsi utile: non sono in molti a potersi vantare di avere dentro il fuoco degli angeli.”

Jace rimase in silenzio, mentre il cacciatore si incideva il palmo della mano. Gwyn piegò il polso per far colare il sangue e il ragazzo si sporse in avanti per berlo, raccogliendolo sulla lingua: sapeva di foglie e metallo.

Jace Herondale” annunciò a quel punto il Cacciatore, rifoderando la spada. Un bruciore improvviso impregnò l’occhio destro di Jace, facendolo lacrimare: stava cambiando colore, come a simboleggiare una frattura nella sua anima[1]. Parte di sé aveva smesso di appartenergli. “Adesso fai parte della Caccia. Alzati e unisciti a noi.”

 

*

I giorni si rincorrevano inarrestabili, a volte in fretta, altri con la lentezza dei fiocchi di neve.

 

Jace non aveva idea di quante notti avesse trascorso a cavalcare: forse dei mesi, forse appena un paio di giorni. Il tempo scorreva in maniera diversa quando si stava con la Caccia.

 

La sua unica certezza era che quelle cavalcate lo stavano cambiando: i suoi sensi si erano acuiti e il suo fisico si stava abituando a resistere alla fame e alla stanchezza, per via di tutte le nottate trascorse a digiuno, senza mai riposare. Jace non aveva uno specchio in cui guardarsi, ma era certo che anche il suo aspetto fosse diverso. I mutamenti principali che sentiva, tuttavia, non erano fisici. Incominciava ad esserci qualcosa di selvaggio nel modo in cui si comportava, si muoveva, rifletteva. Perfino il suo modo di parlare stava incominciando a ricordare i toni fiabeschi delle fate.

Si era adattato alla Caccia al punto tale da ospitarne una parte dentro di sé.

 

Il pensiero di Clary e quello della sua famiglia diventavano ogni giorno più offuscati: la sua vita di prima era sul fondale di un fiume e lui continuava a immergervi la mano per afferrarla, ma l’acqua era troppa e qualche volta gli sfuggiva.

 

Tuttavia, non aveva dimenticato: ogni mattina, quando riposava da solo sulla terra fredda, stringeva il suo anello fino a far impallidire le nocche e ripeteva fra sé i nomi delle persone che aveva amato.

 

“Mi chiamo Jace Herondale ricordava in un sussurro, rannicchiandosi per proteggersi dall’aria gelida. “Ero uno Shadowhunter… Sono ancora uno Shadowhunter. Il mio cuore appartiene a Clary Fairchild. E ai Lightwood, la mia famiglia adottiva: Robert, Maryse, Isabelle, Max… E Alec.”

 

Ogni notte, le sue labbra tornavano a chiudersi al suono delle stesse parole.

 

“Salverò il mio parabatai: mi riprenderò mio fratello.”

 

 

Per giorni Jace continuò a cavalcare in solitudine, in groppa a un destriero dal manto dorato. Fra gli altri cacciatori non era il benvenuto: era stato chiaro fin da subito e il disprezzo dei suoi compagni non scemò con il trascorrere dei giorni.

 

Per assurdo, tuttavia, il loro condottiero sembrava intrigato da lui. Era stato Gwyn a offrirgli la cavalla dorata e a insegnargli i rudimenti della Caccia: l’aveva addestrato a usare le stelle come una bussola e a individuare i segnali di una battaglia sul punto di scoppiare. Gli aveva perfino dato un’ arma: Jace non aveva più uno stilo – gliel’avevano spezzato subito dopo il rituale – ma Gwyn gli aveva donato uno dei suoi archi. A Jace non dispiaceva usarlo: era il promemoria costante della sua missione. Gli ricordava il motivo per cui cavalcava con la Caccia, la persona per cui ne aveva preso parte.

 

Oltre a Gwyn ap Nudd c’era un'altra fata che non sembrava disgustata da lui quanto gli altri: era il ragazzo dai capelli blu.

Jace aveva sentito dire che era un principe della Corte Unseelie; si chiamava Kieran ed era stato consegnato alla Caccia poco prima che arrivasse lui.

Anche il principe, come Jace, se ne stava spesso per conto suo. Cavalcava in silenzio, montando un destriero nero e scheletrico con una regalità e un’eleganza che nessuno dei membri più anziani era in grado di eguagliare. Parlava poco e il suo sguardo era sempre fisso di fronte a sé, ma qualche volta Jace l’aveva sorpreso a fissarlo. Sembrava tenerlo d’occhio, specialmente nei momenti in cui gli altri si divertivano a tormentarlo. Un paio di volte, vedendolo in difficoltà durante le battute di caccia, si era offerto di aiutarlo, ma Jace aveva sempre rifiutato.

Fino a quel momento avevano avuto un solo scambio di battute abbastanza lungo da poter essere considerato tale. Non doveva essere trascorso molto tempo dal rituale del sangue e Jace stava cercando il suo riflesso in una pozzanghera, con scarso successo.

Kieran gli si era avvicinato con passo silenzioso, spuntando alle sue spalle.

“È azzurro” l’aveva informato, mentre Jace si voltava di scatto, colto di sorpresa. “Il tuo occhio destro” aveva precisato Kieran, indicando l’occhio che gli bruciava. “È una bella tonalità.”

Jace l’aveva fissato con fare cauto, prima di tendere una mano.

“Potresti prestarmi la spada?” aveva chiesto, notando l’impugnatura d’avorio intarsiato che pendeva dalla sua cintola. “Vorrei guardarmi.”

Il riflesso della lama avrebbe funzionato meglio della fanghiglia.

Le labbra del giovane si erano incurvate appena verso l’alto.

“Non abbiamo specchi, noi della Caccia” aveva risposto, mostrandogli la spada. “Le nostre lame non riflettono immagini, ma se guardi attentamente nei miei occhi non avrai bisogno di farlo. Le iridi, a volte, sono uno specchio migliore dell’acqua.”

Jace l’aveva scrutato con diffidenza per qualche istante, ma alla fine si era lasciato convincere.

Gli occhi di Kieran erano grandi e ben distanziati, fissi come quelli di un rapace notturno. L’iride destra era talmente scura che si confondeva con la pupilla, ma l’argento di quella sinistra era chiaro a sufficienza da permettere a Jace di poterci scorgere dentro qualcosa.

Era un’immagine appena accennata, una bozza a colori del ritratto che Clary gli aveva regalato una volta. Aveva colto qualche ciocca di capelli spettinata e un paio di sopracciglia aggrottate per la concentrazione sopra un paio d’occhi bicolore.

Quello sinistro era dorato come sempre, ma il destro spiccava per l’azzurro intenso dell’iride.

Jace aveva sorriso, sfiorandosi la parte alta dello zigomo: non era un azzurro qualsiasi, quello. Non per lui.

“Lo vedi?”

Kieran l’aveva studiato con fare attento, specchiandosi a sua volta negli occhi di Jace.

Il ragazzo aveva annuito. Ricordava cosa gli aveva detto Gwyn subito dopo il rituale: nel momento in cui aveva bevuto il suo sangue, parte della sua anima era diventata leale alla Caccia e l’eterocromia era il simbolo di quella frattura.

Per lui, tuttavia, quell’occhio azzurro rappresentava la sua fedeltà ad Alec: presto o tardi, se lo sentiva, l’avrebbe condotto da lui.

 

*

 

Quella sera il brusio concitato delle fate era più insistente del solito.

Jace si rannicchiò su un fianco e cercò di riposare, ignorando l’aria pungente e i fiocchi di neve che si insinuavano dentro i vestiti.

Tentò di bloccare fuori anche le voci dei compagni, ma c’era qualcosa nel loro atteggiamento – nel modo in cui lo fissavano – che lo rendeva circospetto.

Sapeva di cosa stessero parlando: quel pomeriggio si era sparsa la notizia che il Conclave avesse fatto giustiziare un gruppo di fate. Le cause erano incerte, ma molti credevano che i Nephilim avessero piegato gli eventi a loro favore per giustificare quel bagno di sangue. Meditavano vendetta e Jace, ai loro occhi, era il mezzo migliore che avevano per farsi giustizia.

Per questo il ragazzo non si sorprese quando un gruppo di cacciatori lo attorniò, bloccandogli ogni via di uscita. Scattò a sedere, allungando le mani nella penombra per prendere l’arco.

 “Capisco che non siate abituati a tutta questa bellezza…” commentò, sorridendo affabile. “… Ma ho solo due occhi: non riesco a ricambiare lo sguardo di tutti.”

Uno scricchiolio sinistro echeggiò alle sue spalle: Saiin aveva trovato l’arco – o, meglio, l’avevano trovato i suoi stivali.

Jace era disarmato.

Cercò di alzarsi, ma i calci dei compagni glielo impedirono.

“Inginocchiati” ordinò una delle fate, pungolandolo con il coltello.

Jace cercò di scansarsi, ma altri due lo sollevarono per le braccia.

“Ho detto inginocchiati!” tuonò ancora la prima fata, colpendolo in fronte con l’impugnatura del coltello. Jace si divincolò dalla presa dei compagni e cercò di sferrargli un calcio; il fuoco celeste scalpitava, scaldandogli la pelle. Cercò di sfruttarlo, si concentrò per farlo emergere, ma le fate erano troppe e il suo corpo doveva occuparsi di attutire colpi e di scansarne altri.

Adesso…” riprese la fata a capo del gruppo, appoggiandogli la lama sotto il mento. “… Voglio che tu dica di non essere uno Shadowhunter. Voglio sentirtelo urlare e voglio avvertire il tuo disprezzo ad ogni sillaba.”

Jace non riuscì a reprimere un ghigno.

“Ma io sono uno Shadowhunter” replicò.

Uno del gruppo – un elfo – piegò il polso con un movimento agile. L’attimo dopo, aveva calato la frusta su Jace, colpendolo alla schiena.

Il ragazzo si piegò in avanti, boccheggiando per il dolore e la sorpresa.

“Dillo, mezz’angelo” lo imbeccò ancora la prima fata, premendogli il coltello contro la pelle. “Io non sono uno Shadowhunter.”

“No.”

Jace rise, il respiro frammentato per via del calore e della foga con cui stava cercando di liberarsi.

Continuò a opporsi anche quando i due che lo tenevano gli strapparono la maglietta, arrotolandola per usarla come frusta. I colpi gli aprirono la pelle come vetro, ma l’atrocità di quel dolore piovve sulla rabbia, facendo germogliare il fuoco.

Le fiamme celesti irradiarono la pelle di Jace e lambirono le mani delle due fate che lo stavano trattenendo.

Incendi di urla vennero appiccati in vari punti del capannello di aggressori, mentre il fuoco si propagava, ustionando chiunque si avvicinasse.

Alcune fate, oltraggiate dal quell’impedimento, incominciarono a servirsi delle pietre.

Le scagliarono contro Jace fino a quando non lo videro accasciarsi – la schiena un mosaico di sangue e cenere. A quel punto gli sputarono addosso, ridendo dei suoi maldestri tentativi di rialzarsi in piedi.

Distrutto, lo abbandonarono sotto un albero in mezzo a un campo innevato, dove il suo sangue tinse di rosso i fiocchi bianchi.[2]

 

Finalmente il gruppo di fate si ritirò per riposare, i volti affilati adornati da un sorriso maligno.

Isolato dai compagni, solo e senza nemmeno una coperta, Jace si raggomitolò sul terreno gelido, dolore e umiliazione a pulsargli contro la pelle lacerata.

Si sentiva vuoto; un guscio rovinato, in balia del freddo che gli premeva contro.

La sicurezza cieca che gli aveva lottato dentro per mesi, guidandolo lungo il percorso accidentato che si era scelto, si stava affievolendo.

Cercò di riaccenderla, di riscuotersi facendo perno sui ricordi, ma stavano incominciando a sbiadire. Il suo passato da Shadowhunter era frammentato, a volte confuso, e i nomi delle persone che aveva amato si sovrapponevano gli uni agli altri senza criterio.

Ne pescò uno a fatica, strappandolo via dagli altri. Se lo appoggiò sulle labbra e lo sussurrò nella neve, deciso a non dimenticarlo.

Alec…

I fiocchi di neve ripresero a scendere, dondolandogli attorno come ricordi. Erano vicini, ma quando finalmente lo sfioravano, adagiandosi contro la sua pelle, si scioglievano. Il pensiero di Clary e quello della sua famiglia si affievolirono, allontanandosi dalla sua presa.

“Lo faccio per Alec.”

Le sue ultime parole suonarono più decise, anche se appena mormorate.

Chiuse gli occhi, stravolto dal dolore e dalla stanchezza; cercò con la mano il punto della clavicola in cui s’intravedeva la runa parabatai e lo coprì con le dita, come a volerlo riparare dal freddo.

Per Alec questo ed altro.

 

*

 

La luce della luna rischiarava l’interno della serra, evidenziando le sagome dei due fratelli sdraiati sul pavimento.

Alec fece scorrere il dito lungo le vignette del manga che stavano sfogliando, mentre Max sbirciava da sopra la sua spalla.

Pensa che io, che sono senza corpo, non posso nemmeno provare la sensazione dell'acqua che colpisce la mia pelle” lesse, indicando un bambino dalle sembianze di robot. Passò alla vignetta successiva, dove a parlare era il fratello maggiore del ragazzino. “Questo mi rattrista molto. È dura” recitò.

Sorrise a Max, che si sporse per proseguire con la lettura.

Fratellone, io di una cosa sono sicuro” pronunciò il bambino, prestando la voce al piccolo robot. “Voglio tornare come prima! Anche se questo significasse andare nella direzione opposta allo scorrere del mondo.”[3]

Il sorriso di Alec si spense appena, mentre ascoltava il fratello leggere.

Gli era mancata la sua voce. Gli erano mancati l’entusiasmo e la curiosità che catturavano così spesso i suoi occhi, la semplicità con cui riusciva a farlo ridere.

La compagnia di Max lo stava aiutando ad abbandonare l’attaccamento per le emozioni umane. Ormai sentiva sempre meno: il dolore era una puntura leggera e la paura un respiro di troppo. Aveva dimenticato la vergogna e il senso d’inadeguatezza, ma ricordava l’amore. Riusciva a percepirlo solo a volte, ma gli era rimasto e lo custodiva con cura.

Spesso, lui e Max giocavano a descrivere i volti dei loro familiari: li aiutava a trattenerne il ricordo, a rimandare il giorno in cui avrebbero smesso di sentire la loro mancanza.

Ogni tanto, c’erano anche dei momenti di buio improvviso. Istanti di consapevolezza che duravano pochi secondi, ma che facevano ugualmente male.

In quei brevi attimi, Alec ricordava che Max aveva solo nove anni e che non ne avrebbe mai compiuti dieci. Realizzava che era morto – che lo erano entrambi – e che non c’era modo di assicurare a Izzy e ai loro genitori che stessero bene, che fossero insieme.

Nel corso dell’ultimo periodo, Alec aveva vissuto quei momenti di consapevolezza più spesso del solito.

Era come se la sua coscienza stesse cercando di suggerirgli qualcosa, come se qualcuno lo stesse tirando verso il suo passato, i suoi ricordi, la sua vita di un tempo.

“Alec?”

Max gli picchiettò sulla spalla, fissandolo incuriosito.

Alec sbatté le palpebre un paio di volte.

“Cosa?”

Max si strinse nelle spalle.

“Sembravi incantato” spiegò, voltando pagina al fumetto.

Alec scosse la testa. D’istinto, si coprì l’avambraccio destro con una mano: aveva ripreso a fargli male.

“C’è qualcosa che non va” ammise, facendo scorrere il pollice lungo il punto che un tempo ospitava la runa parabatai. “Non so in che modo, né perché, ma sento che c’è qualcosa di diverso.”

Max gli rivolse un’occhiata confusa attraverso le lenti tonde degli occhiali.

“Magari stai cambiando Dimensione Celeste” ipotizzò, tirandosi a sedere. “Forse stai entrando nella mia.”

“A me sembra più il contrario” rivelò Alec, facendo più pressione con la mano. “È come se avessi una corda intorno al braccio e qualcuno stesse tirando l’altro capo: qualcuno di vivo.”

Jace?” azzardò Max, una punta di speranza a ravvivargli lo sguardo.

In quel momento accadde qualcosa: la pelle dell’avambraccio di Alex prese a formicolare, come toccata da uno stilo invisibile.

Alec.

Il suo nome gli risuonò nelle orecchie: fu un mormorio sottile, simile al vento che s’intrufolava fra le foglie.

La corda invisibile diede un altro strattone, ma questa volta fece meno male: sembrava si stesse allentando, come se chiunque fosse legato all’altro capo si stesse avvicinando.

Alec!

Il ragazzo scattò in piedi, manovrato da un’energia improvvisa. Per un attimo si sentì come se avesse di nuovo un cuore: lo sentiva battere rapido, a grancassa, sollevato e irrequieto al tempo stesso.

Jace!” chiamò, stringendosi il braccio al petto. “Jace!”

“Riesci a sentirlo?” l’interrogò Max, balzando a sua volta in piedi.

Alec annuì.

“Ho sentito la sua voce” rivelò, passandosi una mano fra i capelli. “Nella mia testa, ma era come se fosse… Si sta avvicinando, credo.”

Tornò a toccarsi l’avambraccio: la pelle formicolava ancora.

Max lo sfiorò con l’indice, lo sguardo tutto a un tratto preoccupato.

“Non è morto, vero?” sussurrò, cercando conforto negli occhi del fratello.

Alec scosse la testa.

“È vivo – vicino a questa dimensione, ma vivo. Però non sta bene” ammise, mordendosi un labbro; la corda invisibile gli aveva rovesciato addosso del dolore nuovo, che non gli apparteneva. Concentrandosi, riusciva a percepire lo sconforto e l’umiliazione di Jace, la sua stanchezza. Perfino il freddo che gli vorticava intorno.

Inspirò con forza, la mano a proteggere il fantasma di quella runa che lo teneva ancorato a lui.

“Sono qui” mormorò nella speranza che Jace riuscisse a sentirlo. “Non ti lascio.”

Chiuse gli occhi, ogni brandello di concentrazione impegnato a mantenere quel contatto. Le dita di Max gli sfiorarono l’avambraccio, mentre la sua voce sottile affiancava quella di Alec.

“Resisti, Jace!” mormorò il bambino, serrando le palpebre.

Jace” lo chiamò ancora Alec, sollevando la testa: il cielo era limpido e trapuntato di stelle e là da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio e a qualche spiraglio di luce, c’era suo fratello.

Continuò a chiamarlo, il suo nome ridotto a un mormorio fiducioso intrappolato nella sua testa. Non disse altro: sapeva che quello sarebbe bastato.

Jace!

*

 

 

C’era un momento, poco prima dell’arrivo dell’alba, in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani smettevano di funzionare e l’oscurità si anneriva fino a inghiottire ogni cosa: le stelle, la luna, le ombre proiettate sul terreno.

 

Faceva così buio che era difficile anche solo realizzare di esserci, di esistere ancora: il nero graffiava via i contorni fino a quando non arrivava l’alba a ridisegnarli e, solo allora, chi era sveglio poteva tirare un sospiro di sollievo.

 

Quando Jace aprì gli occhi, tremante e indolenzito per via del freddo, si trovava proprio in quel momento della notte.

 

Era troppo buio perché potesse mettere a fuoco qualcosa, ma non gli importava: non era stata la notte a svegliarlo, ma una voce.

 

Si alzò a sedere a fatica, il cuore che gli recalcitrava nel petto come una preda che tenta di sfuggire al cacciatore.

 

Jace.

 

Il suo nome gli risuonò dentro ancora una volta, rischiando di confondersi con il turbinio del vento.

 

“Alec!”

 

La sua mano corse istintivamente verso la clavicola, a tastare l’unico punto in cui la sua pelle era rimasta calda; la presenza di Alec gli vibrò dentro come una nota del suo pianoforte, propagandosi fino a fargli da scudo contro il freddo.

 

Era la prima volta, da quando era morto, che lo sentiva così vicino; la prima volta che sentiva la sua voce.

 

Sono qui. Non ti lascio.

 

Qualcosa dentro di lui sembrò contrarsi, come se qualcuno lo stesse tirando: non era una brutta sensazione. Era come se, dopo aver precipitato nel vuoto per mesi, avesse finalmente trovato un appiglio.

 

“Sei vicino…” mormorò fra sé, guardandosi intorno. I contorni incominciavano ad apparire più precisi. Si accorse di avere qualcuno seduto a pochi passi di distanza da lui, qualcuno che lo fissava, ma era troppo stanco per indagare.

 

L’unica cosa davvero importante era la voce di suo fratello.

 

“Sto arrivando, Alec” mormorò, tornando a raggomitolarsi sulla terra fredda. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra screpolate, resistendo ai denti che battevano. “Ci sono quasi.”

 

Sono qui, Jace. Jace!

*

 

C’era un momento, poco prima dell’alba, in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani smettevano di funzionare e l’oscurità s’anneriva fino a inghiottire ogni cosa.

 

Faceva così buio che era difficile anche solo realizzare di esserci, di esistere ancora.

 

Quando Jace guardò in alto, alla ricerca di stelle che non c’erano, quel momento era ormai superato: la notte aveva incominciato a schiarirsi, diluita dai primi raggi di sole.

 

Ai suoi occhi, tuttavia, il buio se n’era già andato da un pezzo: l’aveva scacciato il bagliore che si era intrufolato dentro di lui al suo risveglio, scuotendolo fino al midollo. Quella stessa luce che gli aveva scrollato l’incertezza di dosso, rimettendolo in piedi e indirizzandolo sul suo cammino.

 

E quella luce era suo fratello.

 

 

 

 

Even when it's dark before the dawn

I will feel your grace and carry on

And with every breath of me

You'll be the only light I see

Every Breath. Boyce Avenue

 

Note finali.

Buongiorno! Dopo un mese e mezzo circa di assenza, mi sono decisa ad aggiornare questa storia; vedermi accumulare settimane e settimane di ritardo mi irritava, ma sto passando un periodo di grande blocco e sconforto con la scrittura e lo stimolo a pubblicare è svanito assieme all’ispirazione. Spero che con l’arrivo della pausa universitaria riesca a mostrarmi un po’ più costante.

Questo capitolo è forse quello a cui tengo di più, come credo di aver accennato alla fine dello scorso. Ci sono tantissimi riferimenti a Lady Midnight, avendo parlato di Caccia Selvaggia e chi l’ha letto avrà sicuramente notato qualcosa che si ripete, ma in maniera diversa. In questo universo alternativo, infatti, Mark Blackthorn non è mai diventato un cacciatore. Sebastian è morto prima, in confronto a ciò che accade nei libri, e per questo non ha mai attaccato l’Istituto di New York e Mark non è mai stato reclamato dalle fate. Jace va un po’ a sostituire il ruolo che ha avuto lui fra i cacciatori, anche se vedremo che la sua permanenza con le fate sarà più breve. Nel prossimo capitolo, tra l’altro, lo vedremo conversare un po’ più a lungo con Kieran - un personaggio, tra l’altro, che mi affascina moltissimo. Sono un po’ esaltata all’idea di un Jace membro della Caccia – ammetto che fantasticavo su una cosa simile da quando ho notato l’eterocromia di Dom Sherwood.

In questo capitolo fa una breve comparsa anche Max – che è riuscito a procurarsi dei manga anche in paradiso - e che rivedremo brevemente anche nel prossimo. In quel passaggio scopriamo anche che Jace è in qualche modo sempre più vicino a raggiungere Alec.

Spero di riuscire ad aggiornare in tempi un po’ meno biblici, la prossima volta.

Grazie, come sempre, a mafiaromano, e alla sua gentilezza nel lasciarmi sempre un commento! Visti i brutti rapporti che sto vivendo con la scrittura in questo periodo ti assicuro che significa molto per me!

 

A presto.

 



[1] Citazione tratta da Lady Midnight.

[2] Citazione tratta da Lady Midnight: l’episodio fra Jace e le fate va tecnicamente a sostituire quello che è accaduto a Mark Blackthorn, che in questa versione dei fatti non ha mai fatto parte della Caccia.

[3] I passaggi in corsivo sono tratti dal manga “Full Metal Alchemist”.

   
 
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