Capitolo 9
Esistevano momenti nella vita molto difficili
da spiegare o anche solamente da realizzare e la morte era forse e soprattutto
ciò che faceva da padrona in questo contesto. JJ non si era mai considerata una
persona credente e tanto meno abbastanza sensibile da potersi soffermare ad
analizzare i propri sentimenti in virtù di un aspetto della vita così
importante, ma da quando aveva riaperto gli occhi non riusciva a capire come si
sarebbe dovuto sentire.
Era a disagio, sapeva che ognuno affrontava il lutto a proprio modo chi con
urla e scalpiti, chi con pianti ininterrotti, chi con un’ira accecante o altri
ancora affidandosi al proprio Dio. Ma lui cosa aveva? Era lì immobile nel letto
dell’infermeria della Checkmate, con la flebo
attaccata ad osservare il soffitto.
Ci aveva provato a piangere, si era sforzato di riuscirci eppure nemmeno
una goccia di quel prezioso nettare salato aveva lasciato i suoi occhi.
Razionalmente non riusciva a fare a meno di sapere che non esisteva nessun “e se”, quel qualcosa che sembrava
sempre consolare le persone. Quel credere che se le cose fossero andate diversamente o si fosse agito in modo
diverso niente sarebbe andato così. Ma perché pensarlo? Ciò che rimaneva
concretamente era solo l’andare avanti, anche e soprattutto dopo eventi così
definitivi e anche se questo poteva devastarlo sapeva che non esisteva modo per
tornare indietro, per cambiare le cose… perché lui non credeva, come suo padre,
nel giocare con il tempo o altre cazzate del genere…
Quando Connor entrò titubante nella stanza fu in
quello stato di totale estraniazione che trovò l’amico sentendosi terribilmente
a disagio.
Cosa dirgli? Non era mai stato bravo con le parole e ancor meno a consolare
le persone, ancor più se quelle erano le stesse a cui fino il giorno prima
aveva gettato addosso tutta la sua frustrazione. Con che faccia adesso si
presentava da lui? Infatti stava già facendo per andarsene, ma era troppo tardi
perché JJ si era accorto di lui.
«Connor…» lo chiamò con voce ferma e roca questo,
invitandolo a sedersi sulla sedia accanto al letto.
«Come sta Donald? E gli altri?»
Queen scosse il capo, ancora in canotta nera dopo che si era dovuto
togliere la parte sopra della propria uniforme per essere curato. Come faceva a
pensare agli altri in quel momento?
«Ammaccati… ma tutti interi…» e quanto gli faceva male doverlo dire non
poteva nemmeno spiegarlo.
Dunque preferì sedersi e non aggiungere altro, come avrebbe potuto? Con che
coraggio poi… proprio con lui…
«Cosa dovrei fare adesso?» chiese JJ improvvisamente tornando a fissare il
soffitto bianco e concentrandosi particolarmente su una crepa scrutandone ogni
sua caratteristica, la sua parte robotica glielo permetteva: la densità, la
profondità, quanto strutturalmente potesse essere minacciosa e tante altre
cose…
«Cosa intendi?»
«Sono morti i miei genitori e io… non so come devo comportarmi?»
Intanto la mente di JJ macinava calcoli complessi, nello stesso momento in
cui Connor si grattava il capo incapace di rispondere
a una domanda tanto semplice, ma in realtà assai insidiosa.
«Soffrire immagino… desiderare vendetta… prendertela con il responsabile…»
«Come hai fatto tu?»
«Non… non volevo dire questo…»
L’ultima cosa che desiderava era davvero buttare sale sulla ferita, anzi
se possibile Connor si sentiva ancor peggio di come
in quei mesi –seppur non aveva avuto coraggio di dirlo- si era sentito.
Un mostro che aveva tratto vantaggio dal dover far sentir male altri per
lenire il proprio di dolore. E farlo con la sua stessa famiglia era stato
imperdonabile…
«Hai ragione. La Checkmate ha sottovalutato una
minaccia, come oggi… i tuoi genitori e i miei ne sono stati la dimostrazione…»
«Non razionalizzare JJ! Non lo fare!»
Connor stava urlando, non voleva farlo, ma non voleva nemmeno
che il suo migliore amico considerasse morti così traumatiche semplicemente
delle “perdite calcolate”.
«Forse non sono capace di fare altro!» adesso era il giovane Diggle ad urlare, quando voltando il capo per la prima
volta affrontava lo sguardo di quello che aveva sempre considerato un fratello.
«Forse ormai sono solo una maledetta macchina incapace di provare una
qualsivoglia emozione… forse dovevo solo morire quando era giunto il mio
momento…»
«O forse dovevi sopravvivere per trasformarti nella guida di noi tutti!»
Connor non accettava le sue parole, tanto che per questo
era scattato in piedi per potersi sedere al suo fianco sul suo letto e prendere
la sua mano stringendola nella sua. In quella morsa di mani forti simbolo di
una fratellanza che mai avrebbe dovuto vacillare.
«Una guida che sapeva che William, il tuo fratellastro, stava tramando di
tradire la Checkmate e non ha saputo fermarlo prima
che…»
«Uccidesse i miei? Sì… ma proprio questo ti rende umano non te ne rendi
conto? Un cyborg non avrebbe mai sbagliato…»
«Un cyborg avrebbe salvato sia i tuoi genitori che i miei… Siete sempre
stati tutti molto bravi a convincermi che quello che ero diventato, dopo
l’incidente, mi avesse cambiato in meglio… ma…»
«Ma cosa? Credi che non sarebbe successo nulla di tutto questo se tu
fossi morti?»
«Forse…»
Connor si trovò a sospirare pesantemente, avrebbe tanto
voluto tirar fuori una frase ad effetto o la frase perfetta quella che sarebbe
riuscita a risolvere tutto, ma non ce l’aveva… quello che aveva però era un
ricordo…
«Sai cosa tuo padre ha detto una volta al mio?»
Entrambi si guardarono e in quel momento quell’immagine si sovrappose a
quella di un Diggle e un Queen di un altro tempo che
seduti sulle scale del covo del Team Arrow parlavano dopo la sconvolgente
scoperta che il Procuratore Chase era Prometheus.
«Che noi siamo i tuoi compagni di squadra. Siamo la tua forza. Quindi JJ
appoggiati a noi… appoggiati a me esattamente come tu hai fatto anche quando io
ti respingevo…»
«Forse essere umano è un lusso che non posso permettermi…»
«Forse non puoi fare a meno di esserlo perché per quanto tu dica, c’è un
cuore che batte sotto tutto questo metallo…» e fu in quel momento che la prima
e timida lacrima fece capolino dallo sguardo scuro di JJ per scivolare poi
lungo la sua guancia e fargli scoprire che il dolore c’era e che per quanto
fosse insopportabile Connor aveva ragione, era umano
e doveva onorare quello perché era tutto ciò per cui i suoi genitori avevano
lottato… per loro avrebbe combattuto… per quell’umanità che mai si erano arresi
di voler mantenere viva nel loro unico e adorato figlio.
La notte era scesa silenziosa sugli eroi rimasti negli Stati Uniti,
ognuno raccolto in un angolo di intimità ad affrontare il lutto appena subito,
la sconfitta appena affrontata e la sfida che li aspettava all'indomani. Ma
nessuno desiderava in quella notte pensarci, tutti avevano bisogno a loro modo
di ritrovare il proprio equilibrio e la propria stabilità e tanto Connor era rimasto accanto a JJ, nello stesso modo si erano
stretti maggiormente l'una all'altro Amaya e Nate che si trovavano dall'altra
parte del pianeta, in Africa. Lì era tarda mattinata, mancavano poco meno di
due ore a mezzogiorno e il Gran Consiglio si era chiuso in seduta. Il Re Grood aveva permesso alla donna di esprimersi di fronte
alle quattro personalità più importanti dello Zambesi quelle che
rappresentavano le quattro tribù grazie alle quali era rinato. Ognuna rappresentava
un culto diverso che circolarmente, alla fine di ogni reggenza (alla morte del Re), si passavano
scettro e responsabilità in una sorta di monarchia condivisa.
C'era Re Grodd del Culto del Gorilla Ghekre, rappresentate della tribù Jabari.
C'era Lionheart del Culto del Leone Sekhmet, rappresentante di una piccola tribù nata dopo che
l'inglese Kelsey Sorr Leigh
giunta in esplorazione in quelle terre aveva trovato la perduta Spada del Mito
che le aveva dato la magia necessaria per far rinascere quel popolo ormai
perduto che la vedeva dunque come la propria guida.
C'era Killer Croc del Culto del Coccodrillo Sobek, rappresentante di una tribù per lo più quasi
scomparsa. Waylon Jones parte della stessa per lunghi
anni aveva usato la sua metà coccodrillo per i fini più vili, per poi redimersi
e tornare tra le sue genti divenendone il leader.
Infine c'era Pantera Bianca del Culto della Pantera Bast,
rappresentante della tribù Bashenga, gli originali
fondatori dello Zambesi e cui sotto le sue spoglie si nascondeva Mari Jiwe McCabe fiera Vixen.
Erano stati loro a chiedere ad Amaya e Nate di poter deliberare di fronte
alla loro richiesta di dismettere la loro neutralità e aiutarli nella guerra
che sarebbe giunta, la stessa che portando alla fine del tempo e della realtà
avrebbe portato fino anche a tutto ciò che insieme avevamo costruito, in primis
il percorso di crescita e redenzione che Grodd aveva
fatto.
Le due Leggende così ignare della presenza tra questi della nipote di
Amaya si erano ritirati nella tenda che a loro era stata riservata e nella
quale dopo aver appreso gli aggiornamenti da Sara vi erano rimasti inermi di
fronte a tanta morte e distruzione.
La donna aveva indossato con estremo piacere nuovamente le vesti del suo
popolo e camminando a piedi scalzi sulla sua terra arrivò alle spalle di Nate cingendogli
la vita da dietro e facendo aderire il suo petto alla sua grande e possente
schiena, senza preavvisarlo in alcun modo. Lui che era fuori dall'ingresso
dalla tenda e stava osservando con interesse quel popolo e quella città così
distante da lui per coltura e tradizione, ma che in qualche modo sentiva stranamente
vicino.
Amaya aderì la fronte contro il tessuto della sua maglia, indossava una
semplice veste color sabbia dai ricami dorati. Le gambe nude e scure, si
mostravano nello spacco inferiore, così come un accenno di seno nello scollo
superiore. In vita era stretta da una fascia simile ad una cintura, anch'essa
finemente decorata. Tuttavia niente la faceva sentire più a casa dell'essere
stretta a lui, che aveva portato le sue mani su quelle di lei.
Nate pensava egoisticamente che avrebbe potuto farci l'abitudine a quel
luogo e a quel modo di vivere, a maggior ragione se sarebbe stato al lato di
Amaya. Tuttavia, nonostante quell’apparente pace, nessuno dei due riusciva a
fare a meno di pensare a tutte le preoccupazioni che gravavano sulle loro
spalle. Così tante cose in ballo e così poco tempo per comprenderle e decidere
lucidamente come affrontarle. Così tante eventualità da tenere in conto e così
poca forza per sviscerarle tutte fino in fondo, specie in quel momento, per
Nate, col corpo di Amaya che si stringeva al suo.
Fu solo allora che l’uomo si voltò verso di lei e si rese conto di come
era vestita e di come era splendidamente bella.
Amaya si trovò ad arrossire sentendo il suo sguardo su di lei, mentre
veniva accarezzata da un senso di sicurezza dovuto dal suo modo di starle
accanto, di darle la possibilità di respirare a fondo il suo odore. Ne era
dipendente a tal punto che necessitava della sua dose giornaliera. Fu allora
che per un attimo decise di mettere da parte tutti i cattivi pensieri mentre
prendendolo per mano lo invitò all'interno della tenda, nell'intimità della
solitudine che li abbracciava.
I suoi occhi scuri cercavano quelli profondi di lui, pendeva dalle sue
labbra, anche se tutto poteva far pensare che fosse lei ad avere in pugno la
situazione: in verità era Nate ad avere in pugno Amaya, anima e corpo. Non
c'erano problemi in quella tenda, in quel momento. Non c'era il tempo. Non
c'erano gli alleati, i nemici, gli usurpatori. Non c'erano le miriadi di
decisioni da prendere. Non c'erano neppure i loro destini. C'erano solo loro
due...
Nate la stava fissando immobile nella sua posizione. Dapprima ritrovando
il suo sguardo, poi abbandonandolo per seguire l'incavo del suo collo e
soffermarsi sulle curve del suo corpo, sempre convenientemente coperto e sempre
accuratamente scoperto, un costante richiamo, sempre capace di condurlo verso
luoghi esotici ed intriganti, lontani dalle preoccupazioni e dai doveri,
lontani da qualsiasi altra cosa non fosse il desiderio di stringerla tra le
braccia e deliziare i suoi sensi col suo sapore, col suo calore, col suo
profumo.
Si avvicinò infine ad Amaya e togliendosi la maglia che indossava risalì
con gli occhi lungo la gamba lasciata esposta per poi assottigliare lo sguardo,
prima di annullare ogni distanza e stringerla con il suo vigore, frutto della
brama che scatenava quella donna in lui. Vigore che concesse poco al tessuto
delicato della sua veste. Fu lì che il primo strappo del tessuto risuonò
nell'aria, quando, nel trasporto generato dal successivo incontro delle loro
labbra, le mani di Nate si strinsero sulla sua vita e la sollevarono, perché
allacciasse le sue gambe intorno a lui e si facesse finalmente ricondurre
indietro, verso il talamo che aspettava solo di accoglierli.
Amaya lo percepiva il cuore di Nate pulsare all'unisono con il suo ed era
sicura di non aver mai udito suono tanto bello, fu allora che lo attirò
maggiormente a sé in modo da portare la gamba scoperta a circondare la sua, in
una stretta che comportasse che il suo corpo fosse aderente completamente a
quello di lui. Una mano intanto gli cinse il collo e si sollevò fino alla nuca,
infiltrandosi tra i capelli scuri. Le piaceva il modo in cui riusciva ad
eccitarla, senza però scadere nel volgare, piuttosto mantenendo quel suo stile
sempre romantico. Amaya non fece in tempo a dar fiato ai suoi pensieri che venne
travolta dalla sua stessa bramosia, quella di cui ne era schiava e padrona al
tempo stesso. Strinse tra le dita i suoi capelli e lo costrinse con la forza a
restare con il suo capo contro quello di lei. Le lenzuola finemente decorate li
accolsero, mentre i loro corpi madidi di sudore e scossi da brividi di passione
vibravano sulla stessa frequenza.
Dopo che Laurel aveva fatto la cosa giusta e al
suo ritorno aveva visto con piacere che già stava facendo effetto sui suoi
genitori, che non stavano subendo più shock traumatici dovuti alla sostituzione
dei loro ricordi, aveva chiesto a Donald di lasciarla alla Waverider.
Quella notte non era certa che sarebbe riuscita a rimanere sola e tanto meno a
prendere sonno e così quando si era diretta da Sara chiedendole se sarebbe
potuta rimanere lì quella l’accolse con piacere. E in quel momento stesa
accanto a lei sul suo letto, la sentiva accarezzarle i capelli come aveva
sempre fatto da che era bambina o per Sara come aveva sempre fatto con la
sorella nelle lunghe notti della loro adolescenza.
Laurel dava le spalle alla madre e su un fianco guardava
il nulla di fronte a lei godendo di quel momento che non credeva avrebbe mai potuto
rivivere e di cui stava registrando nella propria memoria ogni secondo per
riviverlo quando lei se ne sarebbe andata di nuovo.
Sara le accarezzava i lunghi capelli osservandola in un modo in cui non
era certa di essere mai riuscita a fare con nessuno, era forse quello che
chiamavano maternità? Quel tenere a qualcuno più della propria esistenza?
Arrivare al punto di essere disposti a qualsiasi cosa per quella persona
perfino tradire i propri valori? Sentire felicità semplicemente per guardarla o
vederla sorridere? Percepire che la vita non avrebbe avuto più alcun senso se
quella persona non vi fosse stata?
Non lo sapeva, ma mai si era sentita così impotente ed inerme solo per un
piccolo canarino che in quel momento rannicchiato tra le sue braccia chiedeva
solo di essere protetto.
Non lasciò il suo fianco, nemmeno per un secondo, decisa a rimanere con
lei fin quando non si sarebbe addormentata serena e così fece, ignara che Rip dal ponte di comando stava osservando la scena mentre
un sorriso melanconico si disegnava sul suo volto.
Fu dunque di fronte alla consapevolezza che l'alcool non facesse per lui
che Rip preferì annegare tutti i suoi pensieri in una
buona dose di allenamento piuttosto che in quella di una bottiglia, sbattendo i
pugni contro quel povero sacco da box che aveva trovato sulla Waverider dopo che Sara, molto probabilmente, aveva
trasformato una delle troppe stanzi presenti sulla nave in una palestra.
Aveva scoperto con sua grande sorpresa che quello sfogo che spesso vedeva
nei suoi compagni e non capiva, poteva essere invece molto salutare per gettar
fuori tutto quello che dentro diveniva insostenibile tenere. Nella sua mente le
immagini del suo passato con Miranda e Jonas si sostituivano a quelle di un
futuro non ancora realizzato con Sara e Laurel e
seppur i due contesti erano diversi, la sensazione di aver fallito in entrambi
i casi era ben presente quanto quella che non aveva e non avrebbe potuto fare
nulla per impedire che quelle vite gli scorressero tra le dita come granelli di
sabbia.
Quando con l'ultimo pugno si piegò in due, le mani sulle ginocchia, la
canotta grigia bagnata di sudore e i capelli attaccati sulla fronte, ebbe la
consapevolezza che non aveva più forza. Esattamente quello che cercava, essere
tanto stanco da cadere svenuto dal sonno impedendosi così di pensare...
Quello che non aveva messo in conto era, una volta giunto negli
spogliatoi annessi alla palestra, fu di trovarvi Sara appena uscita dalla
doccia e con indosso solo l'accappatoio.
L'istinto lo portò a voltarsi, mentre quella ridacchiava divertita da una
galanteria che lo rendeva fuori dal tempo.
«Oh scusa, credevo... di essere solo, sai è notte fonda ormai...»
«Non riuscivo a dormire e ho avuto la tua stessa idea!» ironizzò lei
trovando in effetti strano vederlo proprio lì.
«Non eri con Laurel?» chiese poi Rip voltandosi appena e vedendola ferma di fronte
all'armadietto aperto, mentre distrattamente si guardava allo specchio senza
guardarsi per davvero.
«Sì, non voleva passare la notte da sola e non mi sembrava carino
cacciarla... tuttavia quando si è addormentata, io... avevo bisogno di liberare
la mente...» e dunque era andata a tirare qualche pugno, quello che non si
aspettava è che lo facesse anche lui.
«Vi ho viste... dal ponte... sono stato un po' lì ad osservare il flusso
temporale, ma poi quando ho capito che il sonno non sarebbe arrivato...»
«Ti sei ammazzato di allenamento... un classico...» ironizzò Sara
strofinandosi i capelli bagnati con un asciugamano da un lato dal collo.
Rip la stava osservando e si chiedeva come diamine era
possibile che il modo di vedere una persona cambiasse così, di punto in bianco.
La cosa lo confondeva un po’, sinceramente. Forse era perché non aveva mai
visto quel lato di Sara così dolce, così comprensivo e forse anche così
umano...
Notò che adesso che aveva i capelli biondi bagnati sulle spalle, in
qualche modo i suoi occhi sembravano ancora più verdi, fu semplice notarlo
mentre si avvicinava a lei, quasi bloccandola tra lui e il muro. Senza nemmeno
ricordarsi come ci era arrivato lì, ad un passo da lei, tanto da poter sentire
chiaramente l'odore dolce dello shampoo venire dai suoi capelli. Un attimo di
esitazione, probabilmente percepibile solo a lui, lo fece vacillare per qualche
secondo, ma poi portò velocemente una mano al suo collo lievemente umido e gli
sarebbe bastato soltanto un movimento del polso per attirare il suo volto in
avanti. Era fin troppo pericoloso lasciarsi con una scelta del genere,
letteralmente, tra le mani.. non pensava proprio di essere il tipo di uomo in
grado di resistere a tentazioni del genere.
Per Sara fu estremamente bello e piacevole sentirsi nuovamente nella
posizione di dover solo essere "vittima" delle circostanze e del suo
cuore che batteva impazzito. La respirazione irregolare e un calore che la
faceva andare a fuoco come credeva non sarebbe mai più successo...
Il contatto della sua mano sulla sua pelle umida poi fu il vero colpo di
grazia che sconvolse i suoi sensi e mandò il suo cervello in tilt. Gli piaceva
vederlo così intraprendente e deciso nei suoi confronti.
La faceva sentire compiaciuta il modo in cui poi Rip
le poggiò una mano sul fianco e con l'altra le prese il mento solo per costringerla
al suo sguardo, lo stesso che la faceva fremere di piacere e paura.
Fu allora che Sara fissò la sua bocca, la stessa che si avvicinò
pericolosamente per poi deviare con astuzia verso il suo mento e il suo collo
fino a farle chiudere gli occhi e farle perdere completamente il controllo.
Rigida come un fuso, ma in realtà fusa come metallo ardente. Sara aprì la
bocca, ma non vi uscì parola e quando lo fece nuovamente ormai quella di Rip aveva già catturato la sua, mentre respirava sulla sua
pelle e con le dita cercava il cordino che teneva insieme l'accappatoio, che
almeno per lui stava cominciando ad essere di troppo.
Nonostante la passione di quel momento Sara riuscì a trovare la
delicatezza di accarezzare con la sola punta delle dita il volto di Rip.
«Se tu vorrai... Io posso provare a curare le tue ferite, posso esserci
per darti conforto e per prendermi cura di te...»
Stargli vicina le provocava una scarica d'adrenalina molto difficile da
spiegare, ma che la faceva sentire bene, ma lo stesso valeva per lui che
allontanandosi appena per guardarla in volto rimase colpito dalle sue parole.
«E se me lo permetterai, io ci voglio essere nello stesso modo per te...»
Un sorriso spontaneo li raggiunse, mentre ormai si erano spinti
nuovamente verso le docce, con Sara che cercava l'urgenza del contatto con la
sua pelle, mentre togliendogli di dossi i suoi di abiti si ritrovarono nudi e
accarezzati dalle gocce calde dell'acqua che prese a scorrere su di loro.
Fu allora che la mano di lei scivolò sul suo dorso nudo e si posò sul suo
cuore, per poi chiudere gli occhi e rimanere ad ascoltarne il battito.
Per Jax era stato molto strano scoprire,
parlando con Jason, che la sua storia non era stata molto diversa dalla sua...
anche lui cresciuto con un solo genitori e aver imparato dallo stesso tutti i
valori che la vita custodiva. Ma se per Jax era stata
una scelta obbligata dovuta dalla morte di suo padre, non avrebbe creduto che
per Jason sarebbe stata dovuta per via di una madre che lo aveva abbandonato.
Ma dalla sua voce non emergeva rabbia o rancore, solo una grande gratitudine
per un padre che lo aveva reso l'uomo che era... Era chiaro che nonostante
fosse ancora giovane e lo aveva perso era fiero di portare il suo nome, di
portare avanti la sua eredità e in qualche modo di averlo legato a Lily e alla
sua famiglia che adesso era anche la sua.
Lui era l'esempio che quando la vita andava incontro alle persone
emergendo dal buio, non esisteva coraggio più grande di affrontarla. Ma a chi
chiedere aiuto per farlo? Sarà una persona di cui ci si può fidare? Sarà una persona
saggia? E il suo amore aiuterà ad essere indirizzati verso la luce? Erano
queste le domande che si poneva Jax in quella notte
uggiosa e tediosa, caratterizzata da un forte senso di tristezza e amarezza.
Jason aveva chiesto aiuto a Lily e non aveva sbagliato, lei lo aveva accolto
nella sua famiglia come un figlio e con la saggezza che solo uno Stein aveva lo
aveva indirizzato verso la grandezza dell'anima... Era forse una speranza vana,
ma era quella a cui Jax aveva deciso di aggrapparsi.
Ma mentre Jax stava avendo una conversazione
con un figlio poco più che coetaneo che lo stava riempiendo di illusioni,
dall'altra parte il Professor Stein e il Signor Rory
si trovavano sorprendentemente allo stesso tavolo nella sala comune seduti uno
di fronte all'altro: uno con una tazza di tè e l'altro con una bottiglia di
birra, assorti nel loro silenzio pieno di parole.
Forse a differenza dei loro compagni erano quelli che avevano vacillato
maggiormente di fronte a quel futuro, ma allo stesso tempo si erano sentiti rinvigoriti
da una nuova linfa vitale dovuta dal vedere che quello che erano non aveva
portato a una lunga strada nel buio, ma forse nemmeno alle più nobili delle
scelte, ma sicuramente li aveva messi alla prova facendo scoprire loro un nuovo
amico l'uno per l'altro... Per Mick era bello riscoprire che Snart, il suo partner e quello che erano stati era
persistito nonostante i cambiamenti e il tempo e seppur la loro amicizia non si
traduceva più nel fare colpi insieme o vivere insieme... la stessa esisteva
ancora e se possibile ancora più forte e stabile. Per Martin era invece prendere
consapevolezza che la sua vita da Leggenda non era stata vana, non quando sua
figlia era riuscita a divenire lei stessa un'eroina, ma soprattutto era
riuscita a dare amore a chi non lo aveva mai avuto trasformando quella persona
in un eroe...
I due, le persone più distanti che esistessero nell'universo, si
guardarono e dopo aver far tintinnato tazza e bottiglia, buttarono entrambi giù
un sorso del liquido che stavano bevendo.
Era inesorabile, la vita veniva incontro alle persone emergendo dal buio
e quando lo faceva scatenava tutte quelle domande che pesano nella coscienza di
chiunque: c'era qualcuno su cui si poteva contare? Qualcuno che avrebbe
vegliato su noi quando saremmo crollati? E in quell'istante sarebbe stato
capace di darci la forza per affrontare le nostre paure da soli?
Ray si sentiva un po' in imbarazzo per pensare quelle
cose, ancor più quando dei ragazzini molto più giovani di lui gli avevano dimostrato
che non solo era possibile, ma che ci erano riusciti.
«Pensavo che ti andasse...» una voce gli arrivò alle spalle nella stiva e
avvicinandosi gli posò una tazza tra le mani sedendosi accanto a lui.
«La tua famosa cioccolata?»
«Come fai a saperlo?»
«E' possibile che mi abbiano parlato delle proprietà curative della
cioccolata di Mia Queen...»
La ragazza ridacchiò dando una spinta giocosa alla Leggenda accanto a
lei. Spalla contro spalla. Era una notte strana, nessuno riusciva a prendere
sonno, ma era normale. Era inevitabile dopo tremende perdite e all'alba della
battaglia finale.
«Credo che mi mancherete quando andrete via sai?» disse lei trovandosi a
sorridere a Palmer con sincerità.
«Noi? Io esisto...» notò Ray con estrema
ingenuità, costatando che in effetti quella cioccolata era squisita.
«Sì, ma è diverso... e non perché siete la versione più giovane di
persone a noi care... ma perché ho paura che con la vostra partenza se ne andrà
tutto ciò che avete portato...»
«E cosa abbiamo portato Mia?»
«Allegria dove prima c'erano solo urla, sorrisi dove prima c'erano
lacrime e normalità dove prima c'era solo caos...»
Non c'era forzatura nelle sue parole, ma tanta spontaneità dovuta da un
sincero desiderio di condividere una piccola, ma grande verità. Non che tutto
fosse migliorato da quando erano arrivati: Laurel
rimaneva malata, ma aveva ritrovato una migliore amica che credeva persa; i
suoi genitori non erano ritornati in vita, ma Connor
e JJ avevano ritrovato la loro fratellanza; la guerra non era ancora vinta, ma
adesso avevano la possibilità di credere che ce l'avrebbero potuta fare.
Mia si trovò a stringere il braccio di Ray e
chiudendo gli occhi si accoccolò con la propria testa contro la spalla di lui
che rimase un po' interdetto, ma non dispiaciuto della cosa. Anzi.
«Sai cosa ci avete dato voi invece?»
«Nh. Cosa?» chiese la giovane senza aprire gli
occhi né spostandosi dalla posizione che aveva assunto.
«Una promessa in cui credere...» rispose Ray
guardando di fronte a sé, sorridendo e bevendo un altro sorso di quella
incantevole cioccolata calda.
Flash. Doveva smettere di capitargli. Ormai erano diventati un vero e
proprio incubo per Snart, di una persona che aveva
fatto della sua esistenza uccidere e derubare senza rimorsi e che adesso era
tormentato da quei flash, da quei ricordi... Aveva rivisto i volti di tutte le
persone che in lui avevano creduto, contro ogni ragionevole dubbio e poi per
questo ne avevano pagato le conseguenze. Gli errori che a Mick aveva fatto
compiere attraverso un suo doppelganger del passato,
il sacrificio di Barry, quello ancora più grande di Wally e Jesse... Stein, Jax, e tanti tanti altri fino ai
più recenti Diggle e Lyla.
Quando si svegliò era madido di sudore, impensierito dalla propria salute
mentale e da quel senso di colpa che come un sintomo estraneo non sapeva
gestire, ma poi gli bastava richiudere un attimo gli occhi e rivivere ogni
sensazione provata quella notte con Lily. C'era la dolcezza dei baci, l'avidità
delle carezze, la forza con cui i loro corpi si erano scontrati, ancora e
ancora, una volta dopo l'altra per tutte le sere precedenti oltre che a quella
appena trascorsa, come se volessero ricordargli quanto non si meritasse quella
felicità.
Snart percepiva ansia alla bocca dello stomaco, ma si
diceva fosse comprensibile considerando che il solo pensiero che lei potesse
essere la prossima vittima lo uccideva. Quando, tuttavia, si voltò con il capo
per cercare la sua presenza accanto a lui nel letto scoprì con orrore lo stesso
totalmente vuoto fatta eccezione per lui. Si alzò di scatto e guardandosi
intorno per un attimo sì sentì sull'orlo di una crisi di nervi.
«Lily?» chiamò, urlò a voce alta, perché si sentisse in tutta casa
«Lily!»
«Shhh Leonard o sveglierai tutti!» lo riprese
lei comparendo sulla soglia della porta della camera da letto, nello stesso
momento in cui lui stava facendo per sorpassarla. Snart
tirò un sospiro di sollievo nel vederla riapparire, con indosso una maglietta
che neppure ricordava più di avere, ma a cui era stato molto affezionato, visto
e considerando lo stato misero in cui era ridotta. Ma le donava, decisamente.
Nello stringerla a sé sì sentì immensamente idiota per gli stupidi timori
di cui era stato preda poco prima. E la baciò, improvvisamente, in un gesto che
veniva del tutto naturale, come se l'avesse fatto sempre, giorno dopo giorno,
anno dopo anno, e forse era così, forse nei suoi sogni più reconditi, quelli
impossibili da ricordare, l'aveva sempre baciata così anche prima di
conoscerla.
Ma Lily lo conosceva e sapeva che tutta quel calore era solo frutto di un
tormento che sembrava solo essere aumentato dopo la morte dei Diggle o forse dopo che la Checkmate
era stata costretta a decidere subito un nuovo Re Nero e Regina Bianca facendo
cadere la scelta su loro.
«Smettila… te ne supplico…» disse solamente lei guardandolo in viso, ma
non staccandosi da lui. Sempre piacevolmente comoda contro il suo corpo e tra
le sue braccia.
«Come? Dimmi come posso smettere? Sai prima era più facile, non ero
costretto a fare i conti con questo… Il dolore era semplicemente una grande
parte della mia vita, tanto che sapevo che non se ne sarebbe mai andato, non
quando non ricordi un momento nella tua vita in cui non ci è stato…» e con
quello Snart poteva conviverci, sapeva gestirlo.
«Ma poi arrivo in questo tempo e inizio a sentire qualcos’altro. Qualcosa
che sembra sbagliato perché non mi è familiare…»
«E scopri cosa vuol dire essere felice…» concluse infine la moglie, con
quella tenerezza mai scontata e mai banale che arrivava sempre a prenderlo lì
dove lui aveva paura di giungere.
«Ed è peggio Lily… perché inizi ad avere troppe cose da poter perdere…»
gli fece notare lui. Mascella contratta, mento alto e sguardo algido di chi non
è disposto a spezzarsi.
«Quanti dovranno ancora pagare lo scotto della mia presenza? Della mia
capacità di congelare tutto ciò che tocco fino a distruggerlo? Mi ero
ripromesso che non sarebbe più successo il giorno che ti ho sposato, ma non so
se ne sarò in grado… Non quando non riesco nemmeno più a guardare negli occhi Jai e Iris…»
«Leonard io… io te l’ho sempre detto e lo sai… o gli dici la verità
oppure no, ma perdoni te stesso…»
«E come Lily mh?» chiese lui infastidito,
prendendo le sue mani e scostandole dal suo viso facendo un passo indietro.
«Dicendo loro che sono la causa per cui sono orfani?»
Un “crac” più forte di un cuore che si rompe echeggiò nell’aria per colpa
di un piede messo in fallo dal giovane Allen che una volta sveglio per le voci
troppo alte dei suoi genitori, preoccupato, era corso a vedere che andasse
tutto bene. Troppe brutte notizie in un giorno solo, ma non avrebbe mai
immaginato che quella sarebbe stata solo l’ennesima… la più grave di tutti.
«Mi avete mentito?» chiese lui con gli occhi sgranati e un pigiama che
gli andava un po’ troppo grande. Jai era sempre stato
spigoloso, non era mai riuscito a relazionarsi con nessuno preferendo di gran
lunga la solitudine e il piacere che gli dava costruire modellini di aereo o di
navi con una precisione maniacale. Un po’ come Leonard aveva fatto tutta la sua
vita con le rapine, usandole come un modo per alienarsi dalla sua vita misera.
Proprio questo li aveva uniti così tanto, proprio quel ghiaccio freddo e
impenetrabile aveva permesso ad entrambi di divenire un unico fiocco di neve,
tanto semplice all’apparenza, ma tanto complesso in realtà.
«MI AVETE MENTITO!» urlò nuovamente prima che in un flash scomparve e con
lui anche Iris, non ci vollero molti secondi affinché una telefonata di Dawn li mettesse al corrente che i cugini erano piombati a
casa loro.
«Lo odio! Lo odio! LO ODIO!» Jai non ripeteva
altro da che era piombato in casa dei cugini, svegliando la sorella e con lei
scomparendo.
«Shhh! Abbassa la voce… non vorrai che Iris ti
senta! L’hai spaventata a morte lo sai?» lo riprese Donald, mentre in salotto
con il cugino cercava di ragionarci, mentre la sorella aveva portato in cucina
la cugina più piccola ancora assonnata e confusa.
«Non ho voglia di abbassare la voce! Non quando ho saputo che l’uomo che
si vantava di essere mio padre è solo uno sporco bugiardo e con lui Lily… LI
ODIO Donnie! Li odio! Se non fosse per Snart i miei genitori sarebbero vivi… voi mi avete sempre
detto che sono morti perché hanno giocato con il tempo, come a volermi
insegnare che noi velocisti non dobbiamo fare tali errori, ma loro non ci hanno
giocato… loro hanno fatto un sacrificio. Per cosa poi mh?
Per un criminale!»
Jai non avrebbe potuto non sputare tutto quel veleno in
quel momento, dopotutto in un certo senso aveva ragione e se Snart fosse stato lì gli avrebbe detto che era tutto vero. Forse
per questo Donald non se la sentì di affrontare una questione del genere, tanto
meno in una notte come quella.
«Domani è una giornata cruciale, è meglio se andiamo a letto…»
Jai non vi trovò nulla in contrario, non per i suoi
cugini, non voleva che non fossero riposati abbastanza per quello che sarebbe
venuto, ma non avrebbe fatto alcun passo indietro. Non ci sarebbe tornato in
quella casa, non quando quella vera lo erano quelle mura.
Quando Dawn tornò in salotto con Iris in
braccio tutti trovarono opportuno andare al piano di sopra e per quella notte
archiviare quella questione. Tuttavia quando questi fecero per lasciare i due
cuginetti nella camera da letto appartenuta a loro nonno Joe,
la piccola Iris li fermò.
«No dormite qui con noi… vi prego…» dall’alto della sua innocenza, da chi
era stata strappata dal suo letto senza un perché e che si rendeva solo conto
di essere spaventata, non c’era alcun desiderio di rimanere sola.
Donald dunque si stese dietro di lei e lo stesso fece Dawn
dietro Jai, trovandosi tutti e quattro stretti in
quel grande letto matrimoniale.
«Donnie racconti la favola del dinosauro?»
chiese improvvisamente la piccola portando così i due gemelli a guardarsi.
«Sì per favore… zia Iris la raccontava spesso e anche la mamma… e adesso
come adesso avrei tanta voglia di sentirla…»
Jai non aveva mai superato la mancanza dei suoi
genitori, aveva saputo colmarla, ma adesso che si sentiva orfano una seconda
volta… la necessitava. Lui che si faceva sempre il grande, ricordando come
certe sciocchezze non gli piacessero.
Dawn non se lo fece ripetere e dopo essersi accoccolata
meglio, iniziò ad osservare il soffitto e rimembrare quando da bambina mille
volte l'aveva ascoltata.
«Un piccolo dinosauro, una maiasaura, viveva con
sua madre e un bel giorno le disse: "Vorrei
essere unica come gli altri dinosauri. Fossi un T-Rex sbranerei con i miei
denti affilati"
"Ma se fossi un T-Rex" disse la madre "Con le zampe
corte come potresti abbracciarmi?"»
Donald che aveva gli occhi chiusi e stava accarezzando i capelli della
piccola Iris sorrise e non riuscì a trattenersi dal continuare.
«"Vorrei essere un
apatosauro" disse il piccolo dinosauro "Con il mio lungo collo vedrei oltre le cime degli alberi".
"Ma se fossi un apatosuaro" disse la madre "Come potresti
udire il mio ti voglio bene da lassù? Quello che ti rende unica piccola maiasaura" disse la madre "Non sono i tuoi denti affilati, il collo lungo o il becco
appuntito. A renderti speciale tra tutte le specie di dinosauri di questo mondo
selvaggio è che hai una madre che è ideale per te e che..."»
«”…ti vorrà sempre bene”»
esclamarono i quattro Allen all’unisono abbandonandosi nelle braccia di Morfeo
nello stesso istante in cui un zampillo di vita tornò a far breccia nel cuore
di Barry Allen.
Ed eccomi finalmente qui con il nuovo capitolo! Ci
ho messo un po’, ma è stato inevitabile: è più lungo degli altri e precede una
giornata importante, ma al tempo stesso serve a tutti i nostri protagonisti per
decomprimere il proprio cervello e il proprio cuore da tutti i loro pensieri.
Mi è piaciuto scriverlo, davvero tanto. Non so se a voi piacerà nello stesso
modo leggerlo, ma davvero ragazzi ci ho messe tutte le mie lacrime in questo
capitolo… non me ne sono trattenuta nemmeno una e con le stesse ho scritto ogni
punto di vista dei nostri beniamini…