Nota
dell'autrice:
Capitolo
ripostato con
qualche cambiamento minore, ma senza modifiche sostanziali
rispetto alla
precedente versione. Che dire? Mi impegno per dare di che
mangiare ai filologi
delle generazioni future.
Rinnovo
le mie scuse per la
cancellazione accidentale della storia; e mi scuso anche per il
ritardo con cui
mi rimetto in pari: i miei file sono più disordinati di quanto
sia disposta ad
ammettere...
Prometto
di fare del mio
meglio per postare la seconda parte di "Ad occhi aperti" quanto
prima!
Parte I: Nostoi
La
notte lunga si
spegne
negli
occhi dei gatti
e
canta il gallo
l'approdo
alle
rive del giorno.
È
faticoso tornare
ad
essere vivi.
-
Giulio Stolfi,
"Alba" –
Capitolo I.1
Ad occhi aperti I
Petite
âme, âme
tendre et flottante, compagne de mon corps qui fut ton hôte, tu
vas descendre
dans ces lieux pâles, durs et nus, où tu devras renoncer aux jeux d’autrefois. Un
instant encore.
Regardons ensamble les rives familières, les objets que sans
doute nous ne
reverrons plus… Tâchons d’entrer
dans la
mort les yeux ouverts.
-
Marguerite
Yourcenar, Mémoires d'Hadrien-
Santuario,
notte fra
il 17 e il 18 aprile 1987
Il
primo ricordo che aveva
del suo essere al mondo era di luce, di una luce accecante, e la
certezza che
non ci fosse persona al mondo più preziosa di lui.
Il
volto di suo padre non
aveva mai sfiorato la sua memoria, come se non fosse mai
esistito, neppure in
quell’angolo ombroso e insondabile, dove talvolta, ancora poco
più che bambino,
aveva frugato, senza particolare convincimento né speranza di
trovare qualcosa.
Di sua madre non aveva neppure un sogno; a volte indugiava ad
immaginare come
sarebbe potuta essere: si figurava una voce, soffusa e gentile,
lontana, e
forse la sensazione di lunghi capelli di seta bionda sotto dita
che non sanno
ancora stringere bene, che non sanno afferrare, perché non hanno
ancora
imparato che cosa voglia dire la perdita o l’abbandono.
L'immagine di sua madre
aveva gli occhi – persi a guardare un confine lontano – di Saga
non ancora
uomo, le mani un poco rugose del vecchio Shion, il sorriso di
Aiolos fanciullo,
l'universo caldo e avvolgente di qualcuno che non ricordava. Sua
madre non era
che una fantasia indistinta ed algida, messa assieme male,
perché Shaka non
aveva idea di come una madre dovesse essere – perché Shaka, gli
avevano detto,
era nato da un fiore.
E
quello che gli restava,
dell’inizio della sua vita, del prima di tutto, era un mare di
luce, soltanto
un abisso di luce purissima che non si osa guardare e cancella
le cose, e fa
chiudere gli occhi, perché fa troppo male, col suo cuore di
tenebra scura e
brillante che mangia l’anima.
Luce
e dolore – questa la
primitiva materia, la forma originaria che l’esistere gli aveva
impresso nella
carne.
Tutte
le altre reminiscenze
della sua infanzia – i volti tracciati appena e sbiaditi dal
tempo, il
mormorare di una fontana e un giardino pervaso da mille profumi,
il penetrante
sentore del loto, quello quasi fragile del gelsomino, le parole
pacate e dal
tono profondo d’un giovane uomo che gli insegnava a chiamare le
stelle, l’ombra
imponente dell'antica dimora (o era già il monastero, sempre il
monastero?) che
era stata casa, il ronzio di un colibrì e di troppe zanzare, il
sapore
amarognolo d’una tazza di tè vellutato da una goccia di latte… e
poi
l’immensità dell’aperta pianura e delle montagne, le acque del
Gange, il
fruscio dei campi di canapa, l’eterno silenzio – erano come
offuscate da quel
suo primo ricordo di luce, dal male che brucia il cervello, e il
senso
metallico del sangue sulle labbra e sulle palpebre: perché
questo associava
immediatamente all’essere vivo, questo gli ricordava, con la
presenza serena
che aveva portato annidata nell’anima, che sarebbe dovuto
morire, un giorno.
Una
luce accecante, il
profumo del loto e del gelsomino, il sapore e il tepore del
sangue, ed un
immenso dolore – questa la prima impressione dell'essere al
mondo.
Ne
aveva parlato soltanto a
Mu, una volta, anni prima, in Jamir, quando erano quasi
adolescenti e si
facevano visita occasionalmente, di tanto in tanto, nei giorni
in cui la
solitudine dell’esilio diventava troppo opprimente,
schiacciante, per entrambi:
Mu, allora, lo chiamava, lo invocava con la mente, e l’eco della
sua mancanza
arrivava fino a Shaka, cullata dal vento che scivolava verso la
grande piana
fra i valichi delle montagne, oltre le quali lo aspettava il suo
amico; Mu lo
chiamava col bagliore gentile del suo cosmo e Shaka accorreva,
come una nuvola
– niente di più che un fruscio di vesti indicava il suo arrivo e
la sua attesa.
Shaka accorreva perché dentro di sé sentiva vibrare la stessa
armonia, lo
stesso cielo: e all’improvviso l’assenza era insostenibile,
inammissibile,
anche per la sua anima che in molti dicevano grande.
Quella
volta, Mu lo aveva
guardato lungamente, d’uno sguardo aperto e innocente che non
cessa di essere
indagatore; e Shaka, pur con gli occhi chiusi, aveva sentito
quello sguardo
familiare scrutarlo, valutarlo – o forse valutare soltanto che
cosa fosse il
caso di dire perché fosse vero e lui potesse capire.
Gli
aveva preso la mano tra
le proprie, Mu, e se l’era portata al petto, dolcemente,
lasciando adagiare la
punta delle sue dita sul proprio cuore.
“Ricordo
il vuoto”, aveva
detto, “il vuoto qui.”
E
Shaka in quel momento l’aveva
sentito anche lui, il vuoto nel cuore, e aveva capito che cosa
fosse quel
primitivo senso di privazione, che cosa volesse dire
'desiderare' – e che non
c'era persona al mondo più preziosa di Mu.
Erano
passati molti anni, ma
quella conoscenza – la seconda grande lezione del suo essere al
mondo: la prima
fu il senso della vita e della morte, il profumo del loto e del
gelsomino, il
sapore del sangue – gli era rimasta conficcata come un pugnale
fra un polmone e
lo sterno; e non poteva non associarla al profumo di Mu – di
cannella e ancora,
sempre, di gelsomino, e sostanze segrete, di nevi, di stelle e
di alchimia –, o
al tepore della sua carne, in quel giorno lontano, attraverso i
vestiti
pesanti. Non aveva avuto il coraggio di riceverla ad occhi
aperti: Mu sarebbe
stato come la luce del sole e lui non avrebbe visto più niente,
perché il
sangue già gli tremava al ritmo di quell’altro cuore,
sconvolgeva la quiete
ordinata e studiata del suo spirito giovane che a questo nuovo
dolore non
sapeva dare un nome appropriato.
“Il
vuoto nel cuore...",
ripeté solo a sé stesso, adesso.
La
notte era dolce, il cielo
indulgente sulle rovine del tempio di Virgo; la brezza leggera
dell'aprile
greco, mite e secca, gli sfiorava la pelle come una carezza
d’amante che non aveva
mai osato immaginare. Le mani di Mu e il vuoto nel cuore… questo
quel pensiero
gli richiamava alla mente.
Ma
un altro vuoto, un vuoto
diverso, un vuoto infinito più grande della sua comprensione,
più grande della
sua anima – che in molti dicevano grande –, lo aveva svegliato
quella notte: lo
aveva chiamato nel suo sonno senza sogni, incubi di tenebra
sterminata senza
più luce, gelsomini né sangue; lo aveva cercato per ghermirlo; e
lui ne aveva
provato orrore. Era un vuoto contrario al vuoto del cuore: il
vuoto del cuore è
un richiamo gentile, chiede di esser colmato, di esser lenito;
il vuoto che lo
aveva scovato quella notte, nel suo sonno senza sogni, era un
vuoto che tutto
distrugge, che tutto divora, terrificante – e stava venendo per
lui.
Si
era svegliato di
soprassalto, ansimando e sudato, come se avesse corso mille
miglia e mille
altre ancora, come se avesse provato a scappare oltre i confini
del mondo senza
riuscirci, senza riuscire a muoversi – come se avesse provato a
dimenticare che
siamo tutti stretti nella mano del Buddha sempre aperta. Si era
svegliato senza
luce, in un letto non suo, nella notte stagnante, e ancora una
volta aveva
dubitato della propria Illuminazione.
Poi
si era detto che non era
come quando Saga, giovane e splendente come un dio tutto d'oro,
era venuto in
India per condurlo la prima volta al Santuario – ma anche altri
erano venuti, e
c'era stata battaglia, e il sangue scarlatto di Saga di Gemini,
e il sangue
scuro di quelle creature di tenebra che divorano l'anima, e i
suoi occhi
aperti; e poi un brivido di ammirazione e terrore di fronte al
suo spaventoso
potere, quando tutto era finito. Si era detto che non era come
quella volta un
paio di anni dopo, quando – ancora bambino – si era allontanato
poco oltre i
confini del Santuario, seguendo un'ombra familiare in un
pomeriggio tiepido, e
di nuovo aveva sentito un vuoto orrendo chiamarlo, calare su di
lui per
divorarlo, e quegli altri erano venuti ancora e nuovamente c'era
stata
battaglia – quella battaglia che gli era valsa a pieno titolo
l'investitura.
Non aveva mai detto a nessuno – non a Mu, non a Saga, né ad
Aiolia – che quel
giorno non aveva combattuto per proteggere solo sé stesso,
perché l'aveva
promesso; non aveva mai detto che non aveva combattuto da solo,
perché l'aveva
giurato; né aveva detto che aveva sentito il nemico venire
soltanto per lui,
perché per la prima volta, in quel pensiero, aveva avuto paura.
Una promessa
per una promessa: entrambi avevano taciuto.
Ora
non era più un bambino.
No, si era detto nella notte stagnante, non era stato che un
brutto sogno, un
residuo della morte, dell'ultimo annullamento che non è più
liberazione.
Aveva
accettato la morte,
l'aveva abbracciata pienamente, come mai si era concesso di fare
con niente e
con nessun altro; aveva saldato i suoi conti e i suoi debiti con
questa vita –
nella lotta, nel sacrificio, in un unico bacio sulle labbra di
Mu prima che
tutto iniziasse, prima che tutto finisse.
E
tutto era finito, con tanta
luce, il sapore del sangue, e un mare di fiori mandati a portare
un messaggio
importante – il più bello però lo aveva inviato a lui, per
indicargli la
strada.
La
morte dovrebbe essere
definitiva: non la fine, ma un passaggio da cui non si ritorna.
Non lo era
stata; e lui era tornato, così com'era – Shaka di Virgo e non
qualcun altro –,
e aveva scoperto con stupore ed orrore di avere rimpianti. Pensò
che Milo aveva
sempre avuto ragione e il dolore ha davvero un colore, ma non
era il rosso
scarlatto della Cuspide dello Scorpione: era il verde ardente
degli occhi di Mu
– e lui, cieco, non lo aveva visto, non lo aveva capito fino a
quell'ultimo,
quell'unico bacio sulle labbra di Mu, ad occhi aperti.
Non
erano stati amanti, non
nel senso ordinario, e avrebbero dovuto esserlo.
Sarebbe
dovuto restare,
restare lì con Mu, concedergli e concedersi ancora un po' di
tempo – un minuto,
un secondo, un'eternità, che conta? –, ancora la spiegazione che
gli era dovuta
ma che lui non sapeva e non poteva dargli, in quel tramonto
rosso e amaro come
tutto il sangue che sarebbe stato versato. Sarebbe dovuto
restare: avrebbe
dovuto contemplare la sua carne e la propria, il sapore della
sua pelle, il
profumo dei suoi capelli (gelsomino e cannella, nevi e sostanze
segrete, stelle
e alchimia), il dolore e il piacere della vita che si apprestava
a lasciare;
avrebbe dovuto guardarlo fino a saziarsi, come un pellegrino che
parte per
l'esilio più lungo; avrebbe dovuto abbracciare Mu con tutto il
suo essere,
concedersi pienamente a Mu prima che alla morte. Avrebbe dovuto
dirgli che solo
per lui cantava il vuoto nel proprio cuore; ma non sapeva come,
non aveva le
parole.
Allora
Shaka gli aveva preso
una mano fra le proprie e se l'era portata al petto, come lui
tanti anni prima,
ma ad occhi aperti; e aveva fatto brillare il proprio cosmo
soltanto per Mu, lo
aveva cercato, lo aveva avvolto, aveva accarezzato tutto il suo
universo, e Mu
lo aveva incontrato. Così avevano fatto da ragazzini, nella
gioia di ritrovarsi
ogni volta, quando non sapevano ancora quanta intimità stessero
condividendo;
così avevano fatto, sempre più spesso, dopo la Battaglia delle
Dodici Case,
nella gioia di non essersi persi, di riconoscersi sempre; ma
questa volta Mu
era stato come il sole, e Shaka non aveva più niente da vedere.
Tutto l'essere
di Shaka aveva pregato Mu di capire, di perdonare, di vivere,
vivere, vivere –
e di riamarlo come lui lo amava. Shaka, allora, aveva richiuso
gli occhi; e Mu
aveva capito, come sempre capiva, perché conosceva il suo
spirito, e si era
lasciato strappare una promessa di non intervenire – la più
difficile da
mantenere, ma Mu di Aries era sempre stato un uomo di parola. Mu
aveva giurato
a Shaka di custodire il suo cuore; e Shaka di Virgo era andato a
morire in
pace, facendosi guida e giustiziere, facendo il proprio dovere.
Sarebbe dovuto
restare – un minuto, un secondo, quell'ora ancora che non
avevano.
Ora
Shaka dischiuse gli occhi
lentamente al bagliore fioco, argentato, delle stelle e della
luna calante; e
vide, con la devastazione del palazzo della Vergine Celeste, la
desolazione
infinita della propria anima, che in molti dicevano grande, ma
che lui sentiva
ancora bambina, come il giorno doloroso in cui era nato. Nessuno
lo aveva
capito, allora, che era un bambino; nessuno glielo avrebbe
perdonato.
“È
faticoso tornare ad essere
vivi”, soprattutto se si è vissuti in vista della propria morte,
progettandola,
come un’opera d’arte o un monumento, una composizione di fiori.
È faticoso
guardare la vita a occhi aperti, ma questo tremolare notturno di
astri
impalliditi nella calura non gli faceva poi così male; e la
roccia spezzata
sembrava fasciata d’incanto, come una ferita…
“Ed
è ancora più faticoso se
ci si priva del sonno”. Una voce gentile alle sue spalle, e una
stretta
cameratesca.
Si
voltò di scatto, ma senza
essere sorpreso di trovarsi di fronte Aiolia, con il suo sorriso
gentile di
pacata, inamovibile fermezza d’azioni e d’intenti.
“Ho
sentito il tuo animo
turbato”, disse, a motivare la sua presenza, ma senza
giustificarsi affatto.
“C’è
molto lavoro da fare
perché le cose tornino a posto”, rispose Shaka, adagiando le
dita esangui sul
polso dell’amico, polso baciato dal sole, con un sospiro –
tacito invito a
lasciare la presa.
“Parli
della sesta Casa o del
suo custode, Shaka?”, Aiolia aveva sussurrato appena, ma le sue
parole
risuonarono nella mente di Virgo come colpi a un tamburo di
guerra, che
scuotono i muri e le ossa.
“Lasciami,
per piacere”, respirò
profondamente, provando a tornare calmo o a ritrovare almeno un
po’ di
compostezza.
Quegli
fece per ritirarsi,
come se avesse toccato un metallo bollente, ma la stretta di
Shaka sulla sua
mano si serrò un momento più forte, a trattenerlo, a spiegarsi
in un gesto:
“Non hai fatto nulla di male, amico mio. Sono solo ancora un po’
stanco”,
disse, lentamente e pacatamente, forse parlando a sé stesso, ma
sinceramente,
con un sospiro. Non sapeva Shaka dire di più; non sapeva mettere
meglio in
parole il proprio animo perché Aiolia, diretto, onesto e buono,
potesse
leggervi a chiare lettere; non sapeva, perché quel tumulto
interiore era
qualcosa che aveva sempre creduto di non dover provare, di
esserne incapace, e
parlarne non era nella sua natura – sorrise appena al pensiero
che, forse,
aveva congelato il proprio cuore come Camus della Neve e dei
Ghiacci mai aveva
saputo fare.
La
carezza di Aiolia sulla
sua guancia era un po’ ruvida ma con la delicatezza di chi teme
di ledere una
cosa bella e preziosa con dita atte alla forza, al lavoro… alla
guerra; era una
carezza da fratello maggiore, piena di tenerezza, perché –
Aiolia lo rammentava
ancora – quando, bambino, non ritrovava la pace dopo un brutto
sogno che non
voleva però raccontare, Aiolos lo accarezzava così, e lui poteva
tornare a
dormire, e non aveva paura.
“Sei
un essere umano anche
tu… è inutile tormentarsi ora che te ne sei reso conto”.
Shaka
sorrise: “Sono
cresciuto credendo diversamente”. E a quelle parole, sotto il
peso della
consapevolezza della loro verità, sentì qualcosa spezzarglisi
dentro e un
dolore di vetri rotti schiantarglisi nelle vene; non riuscì a
trattenere una
smorfia di disgusto e di orrore – forse per i propri errori,
forse anche per sé
stesso.
“Cosa
c’è, Shaka? Ti senti
male? Vuoi che ti accompagni da Mu?", chiese Aiolia con simulata
leggerezza, per distrarlo da quel turbamento che non sembrava
del corpo.
“Checché Athena ne dica, non c’è ferita che Mu non sappia curare
perfettamente…”. Poi uno sguardo di comprensione – allorché
Shaka indietreggiava
discretamente per voltarsi di nuovo a contemplare il luogo che
un tempo aveva
protetto – : “…né di un’armatura, né del corpo… né del cuore".
Nonostante
dovessero costargli tanto quelle parole – i suoi legami con Mu
erano da anni
impostati su una rispettosa e reciproca non sopportazione, un
costante
fraintendersi, e qualche occasionale minaccia di morte qua e là,
sempre sincera
–, Aiolia aveva sempre dato a Cesare quel che è di Cesare;
Aiolia aveva sempre
saputo che Mu manteneva Shaka ancorato alla terra – anche quando
Shaka era
troppo cieco per vederlo.
“Non
quelle che infligge lui
stesso”, sospirò Shaka per tutta risposta, ma si rese conto di
essere stato
ingiusto; tentò di essere più equanime e risoluto: "Mu non è
ancora
tornato. Ma non è colpa sua: il mio sonno è stato inquieto, ed
io sono stolto a
leggere infausti presagi in quello che è assai probabilmente
solo il frutto del
mio cosmo ancora esausto. Ho lasciato vagare la mente, quando
dovrei
concentrarmi e meditare".
Aiolia
si perse un momento a
studiare quella schiena rilassata per la stanchezza, qualche
filo di capelli
dorati, sfuggito al fascio che l’amico aveva raccolto su un lato
del collo,
vagava sperduto, come un gioco dimenticato di bimbo, nel mare
color del vino
della sua veste.
“Non
gli hai parlato?”
“E
tu hai parlato con
Shura?”, rimbrottò Shaka, caustico. Aiolia rimase pietrificato
come una statua
di sale.
“Aiolia,
non avrei dovuto.
Io…”
“Non
ti preoccupare, sei
molto turbato”, deglutì, come a ricacciare cupi pensieri nel
fondo delle
viscere. “Non è dei miei problemi che sono venuto a discutere,”
né ti voglio
imporre anche questo peso – ma non lo disse. “Allora?”
“Non
per molto…”. Un attimo
di silenzio, il frusciare del vento tiepido gli riempiva le
orecchie e i
polmoni: "È dovuto partire per Tokio, non c'è stato tempo".
Aiolia
sapeva quanto Kiki –
incaricato di accompagnare Mu ancora debole dalla resurrezione –
avesse
indugiato prima di raggiungere il suo maestro, nonostante la
gioia strabordante
di averlo di nuovo lì, vivo, per dargli tempo prezioso; e
sollevò un
sopracciglio, divertito ma non senza quel po' di malizia che mai
si risparmia
ad un amico.
Shaka,
che non aveva bisogno
di aprire gli occhi o voltarsi per sapere esattamente che
espressione avesse
stampata in faccia, non poté evitargli un commento
inequivocabile sulla sua
intelligenza – un po' imbarazzato, ma senza rancore. Non poté
evitarsi di
ripensare a quella mattina: la luce accecante dell'alba greca,
troppo pungente
dopo il vuoto ed il nero del niente, anche attraverso le
palpebre chiuse, per
aprire gli occhi; l'incredulità, lo smarrimento di essere lì,
sull'altura
desolata bagnata dal sole nascente, di pallido platino e
diamante brillante,
non ancora d'oro; la carezza della brezza d'aprile, carica
dell'umidità e del
profumo salmastro del mare vicino, e d'un sentore spettrale di
rose e di
melograno, sulla nuda roccia e sulla polvere, sulla pelle nuda,
come una
frustata, pesante come un pugno nei polmoni, difficile da
prender dentro e
mandar fuori – dentro, fuori ... dentro, fuori... Respirare era
stata una
sorpresa sconvolgente, un boccheggiare senza fiato, come il
soffocare di chi
annega – in tutta quella luce di platino e diamante, in
quell'aria salmastra di
mare ed aspra di rose e di melograno, in tutta quella vita che
non sarebbe
dovuta essere.
Shaka
non era mai stato così
consapevole del proprio corpo – d'avere un corpo, d'essere corpo
(lui, anima
bambina che in molti dicevano grande), d'essere vivo.
I
passi trafelati, i respiri
affannati di Shaina, di Marin, d'una terza fanciulla velata di
bianco ma a
volto scoperto, e dello sparuto manipolo rimasto a guardia del
Santuario, si
erano arrestati davanti a loro come se fossero andati a sbatter
contro un muro
in una strada senza uscita. Nessuno aveva detto niente: i vivi
troppo
stupefatti per trovare le parole, i redivivi – gli occhi bassi –
ancora persi
in contemplazione di sé stessi, nel sole e nel vento,
nell'essere lì.
Poi
Kiki, fedele all'impeto
delle proprie stelle (come Mu non era che raramente), era corso
avanti, ridendo
e piangendo assieme, ad abbracciare il suo maestro, a nascondere
le lacrime e
la faccia, a soffocare riso e singhiozzi contro il suo ventre.
Mu gli aveva
sorriso piano, come in un risveglio lento; gli aveva accarezzato
i capelli – la
mano quasi ferma a trattenerlo lì, come ad assicurarsi che non
fosse un
miraggio –; gli aveva mormorato qualcosa che Shaka non aveva
udito, ma che
certo doveva essere affettuoso e rassicurante per entrambi.
Le
risa e i singhiozzi, il
mormorio di Mu – sempre l'ariete dorato che sfonda il confine
fra i mondi –
cullato dal silenzio del vento, avevano infranto l'immobilità
della morte,
avevano sollevato il sortilegio della vita che non crede a sé
stessa.
Aldebaran, buono e saldo, sempre segretamente più saggio di
quanto non fossero
gli altri, più bravo ad accettare le cose per quelle che sono
senza lasciarsi
scuotere, aveva regalato una risata bonaria e tonante a tutti
loro e a sé stesso,
e una pacca amichevole alla schiena di Mu. Era stato abbastanza
per strapparli
tutti al loro stupore. Dohko di Libra, forte dei suoi
diciott'anni e di
duecento di solitudine, era andato al cospetto di Shion, ogni
suo passo un
peana. Camus di Aquarius era rimasto in silenzio, come di
ghiaccio, lo sguardo
basso, perché non voleva, non poteva vedere la rabbia e il
rancore negli occhi
di Milo, lo scotto del tradimento, dell'abbandono; ma Milo di
Scorpio, come
sempre, lo aveva raggiunto, gli occhi pieni di reverenza e
d'amore, e la
carezza che gli aveva adagiato su una guancia, sulla curva del
collo, e
lasciato correre via lungo una spalla, era dolce come una
promessa e
un'assoluzione – e Camus, come sempre, si era adagiato nel
calore di quella
mano nota e così tanto rimpianta. Aiolia aveva avuto un unico,
interminabile,
sguardo per Shura, ineffabile di devozione, rabbia e dolore: era
uno sguardo
che non si può incontrare; e Shura, immobile e pallido, teso
come una corda di
violino che sta per spezzarsi, lo aveva fuggito – né aveva
ardito incrociare lo
sguardo di nessun altro. Aphrodite, altero e bellissimo, ancora
una volta
l'ultimo baluardo, aveva frapposto la propria incommensurabile
bellezza di
fronte a Shura e Deathmask, come uno scudo o una sfida a chi
volesse osar
giudicarli o lanciare la prima pietra. Poi Aiolos aveva chiamato
Aiolia –
Aiolos non più adolescente, rinato uomo, alto e possente, con un
sorriso dolce
senza l'ombra degli anni perduti – e per Aiolia non era più
esistito
nient'altro. Saga di Gemini era sembrato sul punto di strapparsi
ancora una
volta il cuore dal petto; poi il panico e la disperazione lo
avevano
sopraffatto, come un uragano, ineluttabili come la marea: Kanon!
Kanon non era
lì, Kanon era assente! Saga lo aveva cercato con tutto il
fievole cosmo che gli
era rimasto, freneticamente, ciecamente, un urlo dell'anima e un
folle
richiamo; era crollato in ginocchio; infine lo aveva trovato –
Kanon!-, un
remoto bagliore, così lontano, a nord-ovest, da dove soffia il
maestrale; e
aveva ripreso a respirare. Anche Shaka, nel suo stordimento,
prigioniero e
cosciente del proprio corpo, lo aveva sentito, Kanon lontano,
come in un sogno;
così come aveva sentito soffusa, a oriente, la luce di Athena.
Anche gli altri
si erano quietati, si erano ricordati del mondo al di là di loro
stessi, della
dea oltre i confini del Santuario, della battaglia vinta –
perché quell'alba
pallida di platino e diamante era l'alba di un nuovo giorno che
sarebbe potuto
non essere, che non sarebbe stato se avessero perso.
Shion,
Grande Sacerdote per
investitura e per abitudine, aveva impartito i suoi ordini: a Mu
– l'allievo
fidato, il discepolo tanto amato, il figlio che non aveva avuto
– di recarsi da
Athena con Kiki, non appena si
fosse ristorato abbastanza, di accertarsi della situazione e
prestare il suo
aiuto se necessario, di rientrare a fare rapporto al Chrysos
Synagein indetto
per il suo ritorno; a Marin e alla fanciulla velata di venire al
Tredicesimo
Tempio per le debite presentazioni, scusandosi senza vergogna
dell'accoglienza
poco adeguata, più tardi quella mattina.
"Verso
il
tramonto", aveva suggerito Dohko con un gran sorriso compiaciuto
e bonario
– e con la furba soddisfazione di un gatto che alla fine ha
scovato la tana del
topo.
"Nel
pomeriggio,"
aveva concluso Shion, indulgente, conciliante e sfacciato, con
tenerezza. Poi
si era rivolto a Saga di Gemini, ancora per terra in ginocchio,
ancora
prostrato e svuotato, perché tutti i suoi peccati erano radiosi
e impressi a
fuoco lì di fronte a lui, perché Kanon era un miraggio debole e
lontano. Non
c'era stato rimprovero nella voce dell'antico Ariete, non c'era
stata condanna,
nessun rancore, solo una pragmatica dolcezza, nell'ordinargli di
andare a
vederlo il mattino seguente per aggiornarlo sugli ultimi tredici
anni
d'amministrazione del Santuario, sulle finanze, le missioni e
gli intrighi, sui
conti rimasti in sospeso, perché poi potessero iniziare a
ricostruire; gli
altri dorati li avrebbero raggiunti dopo mezzogiorno.
Saga
aveva annuito, solenne
però assente a sé stesso – ma avrebbe voluto avere ancora
abbastanza anima da
essere in grado di piangere, avrebbe voluto che quella salda
dolcezza lo
facesse tremare, avrebbe voluto che Kanon ci fosse e che Aiolos
non lo
guardasse.
"Nel
frattempo,
prendetevi cura di voi stessi e gli uni degli altri", aveva
infine
ordinato Shion, mentre una mano leggera di Dohko sull'incavo
della sua schiena
lo guidava gentile verso le sue stanze – perché non avevano di
nuovo ancora
vent'anni e dopo più di due secoli non c'era più tempo che si
potesse
aspettare. "Ritornate ad abbracciare la vita. Per il resto c'è
tempo
domani".
Shaka,
ancora perso nel sole
nascente e nel vento leggero, nell'eco assordante del proprio
respiro, come in
un limbo, aveva pensato che, in fondo, era stato quello che
avevano sempre
provato a fare, in quegli interminabili tredici anni e negli
ultimi mesi di
lutto e stupore: prendersi cura gli uni degli altri, tenere
assieme alla meno
peggio i loro cocci di uomini rotti, di bimbi sperduti, e un po'
di speranza, e
l'illusione che valesse bene a qualcosa. Ciascuno aveva fatto
del proprio
meglio, ciascuno secondo quello che aveva ritenuto necessario e
giusto, con
sangue e con sacrificio: i successi, fragili e segreti,
consumati nell'intimità
dei loro templi, nell'ombra d'una pace impermanente; e i
fallimenti... i
fallimenti erano stati deliranti e disastrosi, distruttivi senza
discrezione –
ma il più delle volte Shaka non aveva saputo distinguerli, e
ancora si chiedeva
quali fossero state le vittorie, quali le sconfitte, quale il
prezzo troppo
alto da pagare.
La
stretta d'acciaio della
mano di Mu sul suo polso lo aveva strappato alla sua rêverie;
gli occhi di Mu,
piantati nei suoi come due pugnali, erano ardenti e lo avevano
fatto tremare in
quel luogo segreto fra lo stomaco e il cuore: Mu era furioso.
Non gli aveva
detto niente – non ce n'era stato bisogno –, non aveva detto
niente a nessuno –
ma forse lo aveva fatto mentre Shaka era intento a smarrirsi
lungo il filo dei
propri pensieri –; semplicemente lo aveva condotto giù per la
scalinata, senza
correre, ma con decisione e con una fermezza che non ammette
repliche: se Shaka
si fosse opposto, probabilmente lo avrebbe trascinato comunque,
come il
destino; ma se Shaka aveva imparato qualcosa negli anni, sin da
quando era
bambino, era che non avrebbe mai saputo opporsi a Mu.
La
Casa del Montone Bianco
aveva subito danni – qualche colonna crollata, il frontone
diroccato, polvere e
detriti sulle scale e nell'ingresso sotto i piedi nudi al loro
passaggio –, ma
era ancora lì, solida, eburnea e brillante nella pallida aurora,
come la linea
ferma delle spalle di Mu. La Casa della Vergine celeste non
esisteva più.
Erano
entrati, Mu un passo
avanti, sempre tenendolo per il polso, ma il suo tocco era un
poco più lieve,
un po' più gentile, mentre lo portava alle sue stanze private
quasi intatte:
non era più un ordine, ma una richiesta – non tremare, concedimi
almeno questo,
me lo devi, ed io ne ho bisogno.
La
sala da bagno – spaziosa,
spoglia – era grigia e perlacea come sempre; le finestre, troppo
alte, troppo
piccole, per offrire più che una luce soffusa e una penombra
dolce; l'aria era
densa e fresca come pietra.
Mu
lo aveva lasciato per
riempire la grande vasca, poi: "Entra", gli aveva detto, e lo
aveva
seguito. Entrambi in piedi, senza smettere di guardarsi, nella
penombra fresca
e nel gorgogliare dell'acqua che scorre, Mu aveva lavato Shaka:
ogni tocco
leggero delle sue mani – sulle spalle, sul collo, sul suo petto,
lungo le
braccia e le gambe, su tutto il suo corpo – gli accarezzava via
la morte di
dosso, era un rituale e un battesimo. Ad ogni tocco sul corpo di
Shaka, Mu
stava lavando via un po' della sua stessa rabbia; quando, alla
fine, gli aveva
accarezzato il terzo occhio con un pollice, tenendogli il viso
fra le palme
bagnate, con delicatezza infinita, entrambi avevano sospirato –
entrambi si
erano quasi sciolti in lacrime. Allora Shaka aveva fatto lo
stesso a sua volta
– e nel lavare Mu gli era parso di purificare sé stesso, di
tornare alla vita
come mai era stato vivo prima.
Poi
Mu si era asciugato,
aveva asciugato Shaka, aveva indossato i suoi abiti usuali e lo
aveva vestito
con una tunica color del vino; aveva infine appoggiato la fronte
alla sua.
"So
che hai fatto quello
che ritenevi necessario, lo capisco; so che era il tuo dovere",
aveva
confessato, con una carezza sulla guancia di Shaka, "e so anche
che lo
rifaresti; non posso biasimarti per questo. Ma, Shaka...". Non
aveva avuto
modo di finire: forse gli erano mancate le parole, forse in
verità non c'era
niente da dire; ma il cosmo di Kiki brillava impaziente oltre il
pronao del
tempio di Aries ed era ormai tempo di andare.
"Parleremo
al mio
ritorno", aveva concluso e Shaka aveva annuito. "La mia casa è
la tua
casa, se non ti pesa restare qui in mia assenza", e si era
accomiatato con
un bacio minuscolo all'angolo della sua bocca che aveva il
sapore di una
promessa di risoluzione. Shaka lo aveva guardato allontanarsi,
prima di
richiudere gli occhi.
Ma
come poteva dire tutto
questo ad Aiolia? Come poteva spiegargli l'orrore di trovarsi
vivo e dei mostri
notturni della sua infanzia che ancora lo visitavano negli
incubi? Come
descrivere il dolore di quell'alba di platino e diamante e il
sollievo della
penombra, delle mani e del corpo di Mu? Come poteva, quando
neppure lui sapeva
che cosa volesse dire?
"Mu
era arrabbiato con
me", ed era vero.
Aiolia
gli venne accanto,
chinandosi a raccogliere in un pugno una manciata di polvere che
era stata
roccia immutabile, intangibile al tempo: “Hai idea del perché?"
Shaka
non gli rispose, gli
occhi chiusi e il capo chino, una posa di rassegnazione di
fronte a sé stesso,
che Aiolia non avrebbe mai immaginato su di lui, né avrebbe mai
voluto vedere.
“Shaka...
Se stamattina Mu
non ti avesse portato via di gran carriera – per farti non
voglio sapere cosa
volesse farti –, un pugno sul muso non te lo avrebbe risparmiato
neanche
Athena”. Il tono di Aiolia era quasi scherzoso, ma Shaka sapeva
benissimo che
era serissimo – e che lo avrebbe fatto davvero.
"Perché?"
Allora
Aiolia aveva risposto
onestamente, cercando di mantenere tutta la calma di cui fosse
capace, perché
Shaka sinceramente faticava a capire e lui doveva spiegargli, ma
la voce
tremava: "Perché sei andato a morire – o qualunque cosa tu abbia
fatto –,
deliberatamente, senza dirci niente. Non ci hai degnato di uno
straccio di
spiegazione. Lo sai che Mu mi ha impedito di entrare nel tuo
stupido giardino?
Che sorvegliava la porta piangendo? Che ogni minuto di
quell'agonia sapeva
perfettamente che cosa avevi intenzione di fare e si sentiva
morire anche lui?
Che mi sentivo morire anche io? Avrai avuto le tue buone ragioni
– anche i muri
hanno orecchie, le spie di Hades, quello che ti pare, non mi
interessa –,
perché tu hai sempre le tue buone ragioni anche quando sono
completamente
stupide! E sicuramente Mu lo aveva capito benissimo o almeno lo
immaginava, ma
ciò non toglie il fatto che sia dovuto star lì a lasciarti
morire, a sentirti
desiderare di morire. Io avevo il cuore spezzato; come immagini
che stesse il
suo, di cuore?"
E
Shaka aveva finalmente
capito, come in una sconvolgente illuminazione; e tremava. "Che
cosa posso
dirgli ora?"
"Chiedigli
scusa, Shaka.
Anche se lo rifaresti, chiedigli scusa".
*
Santuario,
notte fra
il 24 e il 25 ottobre 1986
Milo
sedeva – giaceva –
prostrato accanto alla grande porta chiusa, la schiena
abbandonata contro lo
stipite, senza avere il coraggio, o la forza, di entrare: così
vegliava, lui
stesso corpo senz’anima, o una bambola rotta. Quella che Aiolia
– di fronte a lui,
accasciato su una colonna, quando non sarebbero bastati i
pilastri del mondo a
sostenerlo – vegliava non era una veglia funebre, non solo, ma
il disperato
stupore dei sopravvissuti ad un’insospettata congiura, dei
traditi che non si
salvano mai, e piangeva rabbiosamente anche lui il suo pezzo
strappato di cuore
– che non credeva d’avere, non prima che fosse tardi, e tutto
rovinato e
perduto.
Marin
li sorvegliava in
disparte, tagliata dall’ombra, in silenzio: era l’unica che
aspettasse ancora
qualcosa, perché per gli altri due il tempo si era fermato in
una goccia densa
di dolore scurissimo, pesante più del sangue, e aveva perso di
senso misurarlo
in un prima e in un poi, in oggi e domani, perché lo ieri non
esisteva più e si
era portato via tutto; né si poteva sperare scorresse, passasse.
C’era solo la
notte, la notte infinita del riposo dei morti, e il vuoto
devastante della
perdita.
Nessuno
dei guerrieri dorati
sopravvissuti aveva seguito Athena e i suoi piccoli Cavalieri di
Bronzo feriti:
la morte e il dolore erano cose cui erano stati abituati a
badare da soli, fra
di loro, a questo erano stati addestrati; e le ferite del cuore
dovevano essere
riaccostate dolorosamente lembo per lembo, in solitudine, prima
che la Dea
potesse suturarle col suo cosmo divino – prima che loro stessi
potessero
pienamente accettarne la ragione.
Ma
non era il momento della
ragione quello, non per Milo: appena l'aereo della Fondazione fu
alto sulle
loro teste – a sgravarli per un attimo del loro dovere di santi
ed eroi, lasciandoli
soltanto uomini, nello spazio dei loro lutti –, si era girato,
come se
null’altro contasse – perché più nulla contava –, col passo
lento e scosso, ma
inarrestabile, delle prefiche della sua terra, che aveva visto
bambino; e
nessuno, nemmeno Mu, aveva provato a fermarlo, o ad
accompagnarlo, o a dirgli
qualcosa – perché non c’era parola che si potesse dire, né di
conforto, né di
rassegnazione. No, non era quello il momento della ragione; ma
il silenzio che
urlava nell’anima dello Scorpione riportava alla schiacciante
realtà tutti
loro, perché erano i reduci e gli abbandonati.
Era
sceso, muto e
implacabile, fino all’Undicesimo Tempio; il battere ritmico e
angosciante dei
suoi calzari sugli scalini di pietra era l’unica cosa che gli
scandisse nel
petto il pulsare del cuore, e se si fosse fermato si sarebbe
arrestato anche
lui – il suo piccolo cuore di insetto schiacciato e privato del
sole.
Era
crollato in ginocchio di
fronte al suo Camus, crollato rovinosamente come un monumento
cui
all’improvviso vengano meno le fondamenta, come il ragazzo che
era, senza più
aria, o speranza, senza più niente, perché il suo Camus era lì,
ancora di
ghiaccio, ma questa volta non avrebbe scostato né ricambiato le
sue carezze,
non gli avrebbe regalato il sorriso più piccolo, non lo avrebbe
più
rimproverato con la più dolce, impercettibile tenerezza.
Aveva
pianto, Milo, per
un'eternità, senza più tempo, in ginocchio, disperatamente e
senza ritegno;
aveva singhiozzato finché solo il bruciore di fuoco nella sua
gola, in fondo ai
polmoni, gli ricordava che lui era vivo – ma questo era un
dolore
insopportabile.
Aveva
sollevato Aquarius come
una sposa dormiente, anche se non aveva niente del sonno; lo
aveva portato fra
le braccia con la stessa avvolgente e amorevole cura che gli
aveva usato quando
era in vita, fino a una manciata di ore prima, quando aveva
giurato e rigiurato
che niente, niente avrebbe mai toccato il suo Camus – una
manciata di ore prima
lo aveva mandato lui, il suo assassino al suo Camus. Avrebbe
dovuto saperlo che
Camus aveva il cuore troppo caldo e troppo in pezzi per
congelare quel bambino
ancora una volta; avrebbe dovuto saperlo che si sarebbe lasciato
morire per
insegnare la sua stupida lezione – perché Camus amava troppo,
aveva sempre
amato troppo, e la sua morte ed il dolore di Milo, che lo
riamava e che lui si
lasciava dietro, era la sua stupida, insensata lezione. Avrebbe
dovuto saperlo
e tenerlo fra le sue braccia quando era tornato dalla Casa di
Libra, finché non
avesse più tremato, finché non avesse avuto più freddo, finché
la battaglia non
fosse finita, senza lezioni. Avrebbe dovuto saperlo....
Milo
aveva trascinato anche
il proprio cadavere, fino alle stanze del Sacerdote; e il corpo
che aveva
affidato con reticenza e un’ultima carezza sulla fronte gelida,
come di marmo,
alle mani tremanti di Shaka, perché facesse quel che andava
fatto, pesava anche
di tutta la sua anima che non poteva più stargli nel petto, che
s’era involata
da lui.
“Camus…”
Ora,
dentro, tremavano ancora
le mani di Shaka, tremavano come mai avevano tremato, le sue
mani ferme; e Mu
non sapeva come quietarlo, quel profondo terrificante tremore
dell’antro dove
mente e cuore non si distinguono più.
Subito
dopo aver adagiato
Camus erano andati a deporre le armature, come trasognati;
avevano indossato
tuniche bianche, sacerdotali, lavato via polvere e sudore dalle
proprie membra
e tracce di sangue che non volevano vedere, che non era loro.
Milo
era rimasto accanto alla
porta, attendendo il loro ritorno, come a guardia dell’inferno;
e ancora era
là, senza neppure più la forza di piangere: aveva l’elmo in
grembo, lo
stringeva assentemente, così perso da non sentire il dolore
della pelle
lacerata dalla cuspide dello Scorpione, perché gli si erano
spezzate tutte le
corde del cuore – e avrebbe voluto non sentire più niente.
Aiolia aveva
aggiunto la propria solitudine alla sua; non era stato lui ad
andare a prendere
Shura.
Non
è vero, non è logico, non
è possibile, era il mantra di Virgo; non è vero, non è logico,
non è possibile,
si ripeteva, tracciando, con le mani intrise d’acqua e d’essenze
che avevano
l’odore del pianto, i tratti del viso di Saga, a cancellare
qualche schizzo di
rosso e tracce di terra – i segni della lotta si erano distesi
da soli, e
sembrava in pace, in una pace che non è sonno, né è riposo, ma
l’attesa delle
cose distrutte che non si ricompongono più.
Ed erano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, quali
statue di cera fatte
a pezzi; e Shaka non aveva il coraggio di aprire gli occhi
mentre ricostruiva
la compostezza di corpi vuoti – così, tremando, raccoglieva
anche i pezzi della
propria umanità.
Mu
lo osservava preoccupato,
mentre continuava ad occuparsi di Camus: nella morte sembrava
meno preciso – i
capelli di fiamma bagnati di ghiaccio sciolto, le sopracciglia
senza una piega
accigliata, pensosa e lontana, le dita distese, non più strette
ad afferrare il
controllo perfetto che scivola via, impercettibilmente, ogni
momento; e sulle
labbra neppure più lo sforzo di celare i suoi più segreti
sorrisi. Con quanti
rimpianti fosse partito quell’uomo, Mu non se lo chiedeva,
perché non spettava
a lui; e l’angoscia dei vivi lo arenava alle cose di questo
mondo, rendendo il
dolore una sorta di torpore, di stordimento, che avrebbe fatto
male dopo,
quando tutto sarebbe stato sepolto e avrebbero avuto lunghi
giorni per pensare
ed attendere ordini e domandarsi ancora e ancora “come”, e
“perché”.
Aphrodite
sembrava fragile –
la pelle ancora più diafana adesso che nessun calore l’animava,
la bocca di un
pallore quasi infantile –, rimaneva di una bellezza altera e
perfetta, ora più
immobile ed immutabile, che non si corrompe; profumava ancora di
rose, di una
fragranza dolceamara che sapeva di attese, di amori non senza
pericoli, di
ricordi d’infanzia e di lui. Deathmask gli era stato deposto
accanto, con
delicatezza infinita, perché non c’è crimine o morte che sciolga
il nodo
d’impegno e d’affetto dei compagni d’armi, quel nodo serrato sul
cuore, per cui
ogni tradimento fa male come il filo d’un pugnale, ma che
inietta nel sangue il
filtro sottile di una comprensione profonda più delle viscere, e
il rancore
stesso è quello che si porta a un fratello.
Aldebaran
aveva raccolto
Shura; fra le sue grandi braccia, sembrava ancora più snello e
sottile: era
tanto alto, ma il suo corpo così fermo e flessuoso, disegnato
per i balli
frementi della sua terra, ora pareva non avere più ossa, neanche
un piccolo
sostegno che il rigore della morte potesse tendere ancora.
Quando il Toro era
passato col suo fardello, Aiolia aveva girato la testa – ma non
era solo per
rabbia che non voleva, non poteva vedere.
“Shaka…”,
aveva mormorato Mu,
quando tutti gli altri erano stati preparati per gli ultimi riti
e gli estremi
onori, e Virgo sistemava ancora le pieghe della veste e i
capelli di Saga, gli
occhi chiusi e le mani tremanti, perso nei suoi pensieri, o in
ricordi remoti
che anche Mu divideva, ricordi di anni e di tutti loro –
comunque altrove.
Shaka
aveva annuito come
assente e, con un’ultima carezza al volto morto d’una memoria
distante, aveva
seguito Mu via dalla grande sala, per lasciare che Shaina e
Marin compissero le
celebrazioni che spettano solo alle donne, preghiere alla notte
e alla terra
perché il loro grembo fosse benigno e accogliente, invocazioni
di vita e sangue
senza sole, e canti più acuti del vento – cose che neppure lui
conosceva, né
avrebbe mai pronunciato.
Aiolia
era fuggito a covare
nell’ombra il rancore che gli straziava e riapriva le ferite del
cuore; Milo
non si era mosso di lì, perché sarebbe sceso anche lui nella
tomba con Camus.
Aveva levato gli occhi, come se avesse voluto chiedere loro
“come sta?”; li
aveva riabbassati con la dignità sofferente del guerriero
sconfitto e il pudore
del bambino colto in fallo o che, semplicemente, ha pianto
troppo. Fu come un
congedo e non aggiunse nulla, perché quella guardia notturna era
per lui, su di
lui tutto il peso della tenebra e del sopraggiungere –
impossibile e
inammissibile, perché come può esserci sole se non c’è lui? –
della straziante
luce del giorno.
Dall’altra
parte della porta,
giungeva, come irreale, penetrante un odore di incenso e di
fiori bruciati, e
sommessi lamenti come cantilene singhiozzate; a Shaka dava la
nausea.
“Scendiamo
insieme fino al
tuo tempio, se non ti disturba la mia compagnia”, gli aveva
proposto Mu, con
l’usuale cortesia e lo sguardo gentile – quello sguardo che,
quando se lo
sentiva addosso, gli riscaldava l’anima e stringeva lo stomaco,
gli faceva
venire voglia di sorridere senza motivo. Questa volta fu come un
balsamo per lo
straniamento delle ultime ore, l’ultima cosa che avesse senso in
un mare di
assurdità e di certezze rovinate al prezzo di troppo sangue e
troppo passato
perduto – e lui, in preda all’orrore, dubitava e aveva la
sensazione
paralizzante di aver sbagliato tutto, tutto quello che si
potesse sbagliare.
“Non
potrebbe che farmi
piacere”, rispose. “La tua compagnia mi è indispensabile”,
aggiunse in un
sussurro debole.
Mu
gli sfiorò un braccio,
consolatorio e incoraggiante – perché solo lui leggeva e
conosceva ogni
turbamento dell’animo suo, nonostante fosse passato tanto tempo
–, rassicurante
come sanno essere solo i saggi
che non smarriscono il mondo umano, dolce come una madre e un
fratello, o come
un amante.
“Andiamo,
è bene dormire
almeno qualche ora: domani sarà una lunga giornata per tutti”.
Scesero
spalla contro spalla,
e quel poco calore della semplice presenza poteva quasi bastare
a mitigare il
gelo di un cielo troppo buio; il silenzio era rotto solo dai
loro passi e dal
sentore lontano di foglie cadute: quella notte, tutte le stelle
erano mute,
niente segnava la direzione.
“Come
si può dormire, davanti
al sonno dei morti?”, mormorò Shaka, di fronte all’ingresso
della sesta Casa,
con nuda sincerità e nudo turbamento, perché parlare con Mu era
qualcosa di più
intimo che parlare a sé stesso. Gli rispose un lieve bagliore di
cosmo, un noto
richiamo dell’anima, che non aveva dimenticato. Si volse verso
l’amico, stupito
e con gli occhi spalancati: vide un sorriso triste.
“Perché
non mi inviti a
prendere una tazza di tè? Questa notte non è per vegliare in
solitudine”.