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Autore: SherryVernet    30/03/2017    2 recensioni
È faticoso tornare ad essere vivi.
I conti in sospeso ci seguono anche nella tomba – e sono ad aspettarci se ne riemergiamo.
Nel mentre una nuova guerra si prepara.
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Rosa dei Venti'
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Nota dell'autrice:

Capitolo ripostato con qualche cambiamento minore, ma senza modifiche sostanziali rispetto alla precedente versione. Che dire? Mi impegno per dare di che mangiare ai filologi delle generazioni future.

Rinnovo le mie scuse per la cancellazione accidentale della storia; e mi scuso anche per il ritardo con cui mi rimetto in pari: i miei file sono più disordinati di quanto sia disposta ad ammettere...

Prometto di fare del mio meglio per postare la seconda parte di "Ad occhi aperti" quanto prima!

 

 

 

Parte I: Nostoi

 

 

La notte lunga si spegne

negli occhi dei gatti

e canta il gallo l'approdo

alle rive del giorno.

È faticoso tornare

ad essere vivi.

- Giulio Stolfi, "Alba" –

 

 

Capitolo I.1

 

Ad occhi aperti I

 

Petite âme, âme tendre et flottante, compagne de mon corps qui fut ton hôte, tu vas descendre dans ces lieux pâles, durs et nus, où tu devras renoncer aux  jeux d’autrefois. Un instant encore. Regardons ensamble les rives familières, les objets que sans doute nous ne reverrons plus… Tâchons d’entrer  dans la mort les yeux ouverts.

- Marguerite Yourcenar, Mémoires d'Hadrien-

 

 

 

 

Santuario, notte fra il 17 e il 18 aprile 1987

 

Il primo ricordo che aveva del suo essere al mondo era di luce, di una luce accecante, e la certezza che non ci fosse persona al mondo più preziosa di lui.

 

Il volto di suo padre non aveva mai sfiorato la sua memoria, come se non fosse mai esistito, neppure in quell’angolo ombroso e insondabile, dove talvolta, ancora poco più che bambino, aveva frugato, senza particolare convincimento né speranza di trovare qualcosa. Di sua madre non aveva neppure un sogno; a volte indugiava ad immaginare come sarebbe potuta essere: si figurava una voce, soffusa e gentile, lontana, e forse la sensazione di lunghi capelli di seta bionda sotto dita che non sanno ancora stringere bene, che non sanno afferrare, perché non hanno ancora imparato che cosa voglia dire la perdita o l’abbandono. L'immagine di sua madre aveva gli occhi – persi a guardare un confine lontano – di Saga non ancora uomo, le mani un poco rugose del vecchio Shion, il sorriso di Aiolos fanciullo, l'universo caldo e avvolgente di qualcuno che non ricordava. Sua madre non era che una fantasia indistinta ed algida, messa assieme male, perché Shaka non aveva idea di come una madre dovesse essere – perché Shaka, gli avevano detto, era nato da un fiore.

 

E quello che gli restava, dell’inizio della sua vita, del prima di tutto, era un mare di luce, soltanto un abisso di luce purissima che non si osa guardare e cancella le cose, e fa chiudere gli occhi, perché fa troppo male, col suo cuore di tenebra scura e brillante che mangia l’anima.

 

Luce e dolore – questa la primitiva materia, la forma originaria che l’esistere gli aveva impresso nella carne.

 

Tutte le altre reminiscenze della sua infanzia – i volti tracciati appena e sbiaditi dal tempo, il mormorare di una fontana e un giardino pervaso da mille profumi, il penetrante sentore del loto, quello quasi fragile del gelsomino, le parole pacate e dal tono profondo d’un giovane uomo che gli insegnava a chiamare le stelle, l’ombra imponente dell'antica dimora (o era già il monastero, sempre il monastero?) che era stata casa, il ronzio di un colibrì e di troppe zanzare, il sapore amarognolo d’una tazza di tè vellutato da una goccia di latte… e poi l’immensità dell’aperta pianura e delle montagne, le acque del Gange, il fruscio dei campi di canapa, l’eterno silenzio – erano come offuscate da quel suo primo ricordo di luce, dal male che brucia il cervello, e il senso metallico del sangue sulle labbra e sulle palpebre: perché questo associava immediatamente all’essere vivo, questo gli ricordava, con la presenza serena che aveva portato annidata nell’anima, che sarebbe dovuto morire, un giorno.

Una luce accecante, il profumo del loto e del gelsomino, il sapore e il tepore del sangue, ed un immenso dolore – questa la prima impressione dell'essere al mondo.

 

Ne aveva parlato soltanto a Mu, una volta, anni prima, in Jamir, quando erano quasi adolescenti e si facevano visita occasionalmente, di tanto in tanto, nei giorni in cui la solitudine dell’esilio diventava troppo opprimente, schiacciante, per entrambi: Mu, allora, lo chiamava, lo invocava con la mente, e l’eco della sua mancanza arrivava fino a Shaka, cullata dal vento che scivolava verso la grande piana fra i valichi delle montagne, oltre le quali lo aspettava il suo amico; Mu lo chiamava col bagliore gentile del suo cosmo e Shaka accorreva, come una nuvola – niente di più che un fruscio di vesti indicava il suo arrivo e la sua attesa. Shaka accorreva perché dentro di sé sentiva vibrare la stessa armonia, lo stesso cielo: e all’improvviso l’assenza era insostenibile, inammissibile, anche per la sua anima che in molti dicevano grande.

Quella volta, Mu lo aveva guardato lungamente, d’uno sguardo aperto e innocente che non cessa di essere indagatore; e Shaka, pur con gli occhi chiusi, aveva sentito quello sguardo familiare scrutarlo, valutarlo – o forse valutare soltanto che cosa fosse il caso di dire perché fosse vero e lui potesse capire.

Gli aveva preso la mano tra le proprie, Mu, e se l’era portata al petto, dolcemente, lasciando adagiare la punta delle sue dita sul proprio cuore.

“Ricordo il vuoto”, aveva detto, “il vuoto qui.”

E Shaka in quel momento l’aveva sentito anche lui, il vuoto nel cuore, e aveva capito che cosa fosse quel primitivo senso di privazione, che cosa volesse dire 'desiderare' – e che non c'era persona al mondo più preziosa di Mu.

 

Erano passati molti anni, ma quella conoscenza – la seconda grande lezione del suo essere al mondo: la prima fu il senso della vita e della morte, il profumo del loto e del gelsomino, il sapore del sangue – gli era rimasta conficcata come un pugnale fra un polmone e lo sterno; e non poteva non associarla al profumo di Mu – di cannella e ancora, sempre, di gelsomino, e sostanze segrete, di nevi, di stelle e di alchimia –, o al tepore della sua carne, in quel giorno lontano, attraverso i vestiti pesanti. Non aveva avuto il coraggio di riceverla ad occhi aperti: Mu sarebbe stato come la luce del sole e lui non avrebbe visto più niente, perché il sangue già gli tremava al ritmo di quell’altro cuore, sconvolgeva la quiete ordinata e studiata del suo spirito giovane che a questo nuovo dolore non sapeva dare un nome appropriato.

 

“Il vuoto nel cuore...", ripeté solo a sé stesso, adesso.

La notte era dolce, il cielo indulgente sulle rovine del tempio di Virgo; la brezza leggera dell'aprile greco, mite e secca, gli sfiorava la pelle come una carezza d’amante che non aveva mai osato immaginare. Le mani di Mu e il vuoto nel cuore… questo quel pensiero gli richiamava alla mente.

Ma un altro vuoto, un vuoto diverso, un vuoto infinito più grande della sua comprensione, più grande della sua anima – che in molti dicevano grande –, lo aveva svegliato quella notte: lo aveva chiamato nel suo sonno senza sogni, incubi di tenebra sterminata senza più luce, gelsomini né sangue; lo aveva cercato per ghermirlo; e lui ne aveva provato orrore. Era un vuoto contrario al vuoto del cuore: il vuoto del cuore è un richiamo gentile, chiede di esser colmato, di esser lenito; il vuoto che lo aveva scovato quella notte, nel suo sonno senza sogni, era un vuoto che tutto distrugge, che tutto divora, terrificante – e stava venendo per lui.

Si era svegliato di soprassalto, ansimando e sudato, come se avesse corso mille miglia e mille altre ancora, come se avesse provato a scappare oltre i confini del mondo senza riuscirci, senza riuscire a muoversi – come se avesse provato a dimenticare che siamo tutti stretti nella mano del Buddha sempre aperta. Si era svegliato senza luce, in un letto non suo, nella notte stagnante, e ancora una volta aveva dubitato della propria Illuminazione.

Poi si era detto che non era come quando Saga, giovane e splendente come un dio tutto d'oro, era venuto in India per condurlo la prima volta al Santuario – ma anche altri erano venuti, e c'era stata battaglia, e il sangue scarlatto di Saga di Gemini, e il sangue scuro di quelle creature di tenebra che divorano l'anima, e i suoi occhi aperti; e poi un brivido di ammirazione e terrore di fronte al suo spaventoso potere, quando tutto era finito. Si era detto che non era come quella volta un paio di anni dopo, quando – ancora bambino – si era allontanato poco oltre i confini del Santuario, seguendo un'ombra familiare in un pomeriggio tiepido, e di nuovo aveva sentito un vuoto orrendo chiamarlo, calare su di lui per divorarlo, e quegli altri erano venuti ancora e nuovamente c'era stata battaglia – quella battaglia che gli era valsa a pieno titolo l'investitura. Non aveva mai detto a nessuno – non a Mu, non a Saga, né ad Aiolia – che quel giorno non aveva combattuto per proteggere solo sé stesso, perché l'aveva promesso; non aveva mai detto che non aveva combattuto da solo, perché l'aveva giurato; né aveva detto che aveva sentito il nemico venire soltanto per lui, perché per la prima volta, in quel pensiero, aveva avuto paura. Una promessa per una promessa: entrambi avevano taciuto.

Ora non era più un bambino. No, si era detto nella notte stagnante, non era stato che un brutto sogno, un residuo della morte, dell'ultimo annullamento che non è più liberazione.

Aveva accettato la morte, l'aveva abbracciata pienamente, come mai si era concesso di fare con niente e con nessun altro; aveva saldato i suoi conti e i suoi debiti con questa vita – nella lotta, nel sacrificio, in un unico bacio sulle labbra di Mu prima che tutto iniziasse, prima che tutto finisse.

E tutto era finito, con tanta luce, il sapore del sangue, e un mare di fiori mandati a portare un messaggio importante – il più bello però lo aveva inviato a lui, per indicargli la strada.

La morte dovrebbe essere definitiva: non la fine, ma un passaggio da cui non si ritorna. Non lo era stata; e lui era tornato, così com'era – Shaka di Virgo e non qualcun altro –, e aveva scoperto con stupore ed orrore di avere rimpianti. Pensò che Milo aveva sempre avuto ragione e il dolore ha davvero un colore, ma non era il rosso scarlatto della Cuspide dello Scorpione: era il verde ardente degli occhi di Mu – e lui, cieco, non lo aveva visto, non lo aveva capito fino a quell'ultimo, quell'unico bacio sulle labbra di Mu, ad occhi aperti.

Non erano stati amanti, non nel senso ordinario, e avrebbero dovuto esserlo.

Sarebbe dovuto restare, restare lì con Mu, concedergli e concedersi ancora un po' di tempo – un minuto, un secondo, un'eternità, che conta? –, ancora la spiegazione che gli era dovuta ma che lui non sapeva e non poteva dargli, in quel tramonto rosso e amaro come tutto il sangue che sarebbe stato versato. Sarebbe dovuto restare: avrebbe dovuto contemplare la sua carne e la propria, il sapore della sua pelle, il profumo dei suoi capelli (gelsomino e cannella, nevi e sostanze segrete, stelle e alchimia), il dolore e il piacere della vita che si apprestava a lasciare; avrebbe dovuto guardarlo fino a saziarsi, come un pellegrino che parte per l'esilio più lungo; avrebbe dovuto abbracciare Mu con tutto il suo essere, concedersi pienamente a Mu prima che alla morte. Avrebbe dovuto dirgli che solo per lui cantava il vuoto nel proprio cuore; ma non sapeva come, non aveva le parole.

Allora Shaka gli aveva preso una mano fra le proprie e se l'era portata al petto, come lui tanti anni prima, ma ad occhi aperti; e aveva fatto brillare il proprio cosmo soltanto per Mu, lo aveva cercato, lo aveva avvolto, aveva accarezzato tutto il suo universo, e Mu lo aveva incontrato. Così avevano fatto da ragazzini, nella gioia di ritrovarsi ogni volta, quando non sapevano ancora quanta intimità stessero condividendo; così avevano fatto, sempre più spesso, dopo la Battaglia delle Dodici Case, nella gioia di non essersi persi, di riconoscersi sempre; ma questa volta Mu era stato come il sole, e Shaka non aveva più niente da vedere. Tutto l'essere di Shaka aveva pregato Mu di capire, di perdonare, di vivere, vivere, vivere – e di riamarlo come lui lo amava. Shaka, allora, aveva richiuso gli occhi; e Mu aveva capito, come sempre capiva, perché conosceva il suo spirito, e si era lasciato strappare una promessa di non intervenire – la più difficile da mantenere, ma Mu di Aries era sempre stato un uomo di parola. Mu aveva giurato a Shaka di custodire il suo cuore; e Shaka di Virgo era andato a morire in pace, facendosi guida e giustiziere, facendo il proprio dovere. Sarebbe dovuto restare – un minuto, un secondo, quell'ora ancora che non avevano.

 

Ora Shaka dischiuse gli occhi lentamente al bagliore fioco, argentato, delle stelle e della luna calante; e vide, con la devastazione del palazzo della Vergine Celeste, la desolazione infinita della propria anima, che in molti dicevano grande, ma che lui sentiva ancora bambina, come il giorno doloroso in cui era nato. Nessuno lo aveva capito, allora, che era un bambino; nessuno glielo avrebbe perdonato.

“È faticoso tornare ad essere vivi”, soprattutto se si è vissuti in vista della propria morte, progettandola, come un’opera d’arte o un monumento, una composizione di fiori. È faticoso guardare la vita a occhi aperti, ma questo tremolare notturno di astri impalliditi nella calura non gli faceva poi così male; e la roccia spezzata sembrava fasciata d’incanto, come una ferita…

“Ed è ancora più faticoso se ci si priva del sonno”. Una voce gentile alle sue spalle, e una stretta cameratesca.

Si voltò di scatto, ma senza essere sorpreso di trovarsi di fronte Aiolia, con il suo sorriso gentile di pacata, inamovibile fermezza d’azioni e d’intenti.

“Ho sentito il tuo animo turbato”, disse, a motivare la sua presenza, ma senza giustificarsi affatto.

“C’è molto lavoro da fare perché le cose tornino a posto”, rispose Shaka, adagiando le dita esangui sul polso dell’amico, polso baciato dal sole, con un sospiro – tacito invito a lasciare la presa.

“Parli della sesta Casa o del suo custode, Shaka?”, Aiolia aveva sussurrato appena, ma le sue parole risuonarono nella mente di Virgo come colpi a un tamburo di guerra, che scuotono i muri e le ossa.

“Lasciami, per piacere”, respirò profondamente, provando a tornare calmo o a ritrovare almeno un po’ di compostezza.

Quegli fece per ritirarsi, come se avesse toccato un metallo bollente, ma la stretta di Shaka sulla sua mano si serrò un momento più forte, a trattenerlo, a spiegarsi in un gesto: “Non hai fatto nulla di male, amico mio. Sono solo ancora un po’ stanco”, disse, lentamente e pacatamente, forse parlando a sé stesso, ma sinceramente, con un sospiro. Non sapeva Shaka dire di più; non sapeva mettere meglio in parole il proprio animo perché Aiolia, diretto, onesto e buono, potesse leggervi a chiare lettere; non sapeva, perché quel tumulto interiore era qualcosa che aveva sempre creduto di non dover provare, di esserne incapace, e parlarne non era nella sua natura – sorrise appena al pensiero che, forse, aveva congelato il proprio cuore come Camus della Neve e dei Ghiacci mai aveva saputo fare.

La carezza di Aiolia sulla sua guancia era un po’ ruvida ma con la delicatezza di chi teme di ledere una cosa bella e preziosa con dita atte alla forza, al lavoro… alla guerra; era una carezza da fratello maggiore, piena di tenerezza, perché – Aiolia lo rammentava ancora – quando, bambino, non ritrovava la pace dopo un brutto sogno che non voleva però raccontare, Aiolos lo accarezzava così, e lui poteva tornare a dormire, e non aveva paura.

“Sei un essere umano anche tu… è inutile tormentarsi ora che te ne sei reso conto”.

Shaka sorrise: “Sono cresciuto credendo diversamente”. E a quelle parole, sotto il peso della consapevolezza della loro verità, sentì qualcosa spezzarglisi dentro e un dolore di vetri rotti schiantarglisi nelle vene; non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto e di orrore – forse per i propri errori, forse anche per sé stesso.

“Cosa c’è, Shaka? Ti senti male? Vuoi che ti accompagni da Mu?", chiese Aiolia con simulata leggerezza, per distrarlo da quel turbamento che non sembrava del corpo. “Checché Athena ne dica, non c’è ferita che Mu non sappia curare perfettamente…”. Poi uno sguardo di comprensione – allorché Shaka indietreggiava discretamente per voltarsi di nuovo a contemplare il luogo che un tempo aveva protetto – : “…né di un’armatura, né del corpo… né del cuore". Nonostante dovessero costargli tanto quelle parole – i suoi legami con Mu erano da anni impostati su una rispettosa e reciproca non sopportazione, un costante fraintendersi, e qualche occasionale minaccia di morte qua e là, sempre sincera –, Aiolia aveva sempre dato a Cesare quel che è di Cesare; Aiolia aveva sempre saputo che Mu manteneva Shaka ancorato alla terra – anche quando Shaka era troppo cieco per vederlo.

“Non quelle che infligge lui stesso”, sospirò Shaka per tutta risposta, ma si rese conto di essere stato ingiusto; tentò di essere più equanime e risoluto: "Mu non è ancora tornato. Ma non è colpa sua: il mio sonno è stato inquieto, ed io sono stolto a leggere infausti presagi in quello che è assai probabilmente solo il frutto del mio cosmo ancora esausto. Ho lasciato vagare la mente, quando dovrei concentrarmi e meditare".

Aiolia si perse un momento a studiare quella schiena rilassata per la stanchezza, qualche filo di capelli dorati, sfuggito al fascio che l’amico aveva raccolto su un lato del collo, vagava sperduto, come un gioco dimenticato di bimbo, nel mare color del vino della sua veste.

“Non gli hai parlato?”

“E tu hai parlato con Shura?”, rimbrottò Shaka, caustico. Aiolia rimase pietrificato come una statua di sale.

“Aiolia, non avrei dovuto. Io…”

“Non ti preoccupare, sei molto turbato”, deglutì, come a ricacciare cupi pensieri nel fondo delle viscere. “Non è dei miei problemi che sono venuto a discutere,” né ti voglio imporre anche questo peso – ma non lo disse. “Allora?”

“Non per molto…”. Un attimo di silenzio, il frusciare del vento tiepido gli riempiva le orecchie e i polmoni: "È dovuto partire per Tokio, non c'è stato tempo".

Aiolia sapeva quanto Kiki – incaricato di accompagnare Mu ancora debole dalla resurrezione – avesse indugiato prima di raggiungere il suo maestro, nonostante la gioia strabordante di averlo di nuovo lì, vivo, per dargli tempo prezioso; e sollevò un sopracciglio, divertito ma non senza quel po' di malizia che mai si risparmia ad un amico.

 

Shaka, che non aveva bisogno di aprire gli occhi o voltarsi per sapere esattamente che espressione avesse stampata in faccia, non poté evitargli un commento inequivocabile sulla sua intelligenza – un po' imbarazzato, ma senza rancore. Non poté evitarsi di ripensare a quella mattina: la luce accecante dell'alba greca, troppo pungente dopo il vuoto ed il nero del niente, anche attraverso le palpebre chiuse, per aprire gli occhi; l'incredulità, lo smarrimento di essere lì, sull'altura desolata bagnata dal sole nascente, di pallido platino e diamante brillante, non ancora d'oro; la carezza della brezza d'aprile, carica dell'umidità e del profumo salmastro del mare vicino, e d'un sentore spettrale di rose e di melograno, sulla nuda roccia e sulla polvere, sulla pelle nuda, come una frustata, pesante come un pugno nei polmoni, difficile da prender dentro e mandar fuori – dentro, fuori ... dentro, fuori... Respirare era stata una sorpresa sconvolgente, un boccheggiare senza fiato, come il soffocare di chi annega – in tutta quella luce di platino e diamante, in quell'aria salmastra di mare ed aspra di rose e di melograno, in tutta quella vita che non sarebbe dovuta essere.

Shaka non era mai stato così consapevole del proprio corpo – d'avere un corpo, d'essere corpo (lui, anima bambina che in molti dicevano grande), d'essere vivo.

I passi trafelati, i respiri affannati di Shaina, di Marin, d'una terza fanciulla velata di bianco ma a volto scoperto, e dello sparuto manipolo rimasto a guardia del Santuario, si erano arrestati davanti a loro come se fossero andati a sbatter contro un muro in una strada senza uscita. Nessuno aveva detto niente: i vivi troppo stupefatti per trovare le parole, i redivivi – gli occhi bassi – ancora persi in contemplazione di sé stessi, nel sole e nel vento, nell'essere lì.

Poi Kiki, fedele all'impeto delle proprie stelle (come Mu non era che raramente), era corso avanti, ridendo e piangendo assieme, ad abbracciare il suo maestro, a nascondere le lacrime e la faccia, a soffocare riso e singhiozzi contro il suo ventre. Mu gli aveva sorriso piano, come in un risveglio lento; gli aveva accarezzato i capelli – la mano quasi ferma a trattenerlo lì, come ad assicurarsi che non fosse un miraggio –; gli aveva mormorato qualcosa che Shaka non aveva udito, ma che certo doveva essere affettuoso e rassicurante per entrambi.

Le risa e i singhiozzi, il mormorio di Mu – sempre l'ariete dorato che sfonda il confine fra i mondi – cullato dal silenzio del vento, avevano infranto l'immobilità della morte, avevano sollevato il sortilegio della vita che non crede a sé stessa. Aldebaran, buono e saldo, sempre segretamente più saggio di quanto non fossero gli altri, più bravo ad accettare le cose per quelle che sono senza lasciarsi scuotere, aveva regalato una risata bonaria e tonante a tutti loro e a sé stesso, e una pacca amichevole alla schiena di Mu. Era stato abbastanza per strapparli tutti al loro stupore. Dohko di Libra, forte dei suoi diciott'anni e di duecento di solitudine, era andato al cospetto di Shion, ogni suo passo un peana. Camus di Aquarius era rimasto in silenzio, come di ghiaccio, lo sguardo basso, perché non voleva, non poteva vedere la rabbia e il rancore negli occhi di Milo, lo scotto del tradimento, dell'abbandono; ma Milo di Scorpio, come sempre, lo aveva raggiunto, gli occhi pieni di reverenza e d'amore, e la carezza che gli aveva adagiato su una guancia, sulla curva del collo, e lasciato correre via lungo una spalla, era dolce come una promessa e un'assoluzione – e Camus, come sempre, si era adagiato nel calore di quella mano nota e così tanto rimpianta. Aiolia aveva avuto un unico, interminabile, sguardo per Shura, ineffabile di devozione, rabbia e dolore: era uno sguardo che non si può incontrare; e Shura, immobile e pallido, teso come una corda di violino che sta per spezzarsi, lo aveva fuggito – né aveva ardito incrociare lo sguardo di nessun altro. Aphrodite, altero e bellissimo, ancora una volta l'ultimo baluardo, aveva frapposto la propria incommensurabile bellezza di fronte a Shura e Deathmask, come uno scudo o una sfida a chi volesse osar giudicarli o lanciare la prima pietra. Poi Aiolos aveva chiamato Aiolia – Aiolos non più adolescente, rinato uomo, alto e possente, con un sorriso dolce senza l'ombra degli anni perduti – e per Aiolia non era più esistito nient'altro. Saga di Gemini era sembrato sul punto di strapparsi ancora una volta il cuore dal petto; poi il panico e la disperazione lo avevano sopraffatto, come un uragano, ineluttabili come la marea: Kanon! Kanon non era lì, Kanon era assente! Saga lo aveva cercato con tutto il fievole cosmo che gli era rimasto, freneticamente, ciecamente, un urlo dell'anima e un folle richiamo; era crollato in ginocchio; infine lo aveva trovato – Kanon!-, un remoto bagliore, così lontano, a nord-ovest, da dove soffia il maestrale; e aveva ripreso a respirare. Anche Shaka, nel suo stordimento, prigioniero e cosciente del proprio corpo, lo aveva sentito, Kanon lontano, come in un sogno; così come aveva sentito soffusa, a oriente, la luce di Athena. Anche gli altri si erano quietati, si erano ricordati del mondo al di là di loro stessi, della dea oltre i confini del Santuario, della battaglia vinta – perché quell'alba pallida di platino e diamante era l'alba di un nuovo giorno che sarebbe potuto non essere, che non sarebbe stato se avessero perso.

Shion, Grande Sacerdote per investitura e per abitudine, aveva impartito i suoi ordini: a Mu – l'allievo fidato, il discepolo tanto amato, il figlio che non aveva avuto –  di recarsi da Athena con Kiki, non appena si fosse ristorato abbastanza, di accertarsi della situazione e prestare il suo aiuto se necessario, di rientrare a fare rapporto al Chrysos Synagein indetto per il suo ritorno; a Marin e alla fanciulla velata di venire al Tredicesimo Tempio per le debite presentazioni, scusandosi senza vergogna dell'accoglienza poco adeguata, più tardi quella mattina.

"Verso il tramonto", aveva suggerito Dohko con un gran sorriso compiaciuto e bonario – e con la furba soddisfazione di un gatto che alla fine ha scovato la tana del topo.

"Nel pomeriggio," aveva concluso Shion, indulgente, conciliante e sfacciato, con tenerezza. Poi si era rivolto a Saga di Gemini, ancora per terra in ginocchio, ancora prostrato e svuotato, perché tutti i suoi peccati erano radiosi e impressi a fuoco lì di fronte a lui, perché Kanon era un miraggio debole e lontano. Non c'era stato rimprovero nella voce dell'antico Ariete, non c'era stata condanna, nessun rancore, solo una pragmatica dolcezza, nell'ordinargli di andare a vederlo il mattino seguente per aggiornarlo sugli ultimi tredici anni d'amministrazione del Santuario, sulle finanze, le missioni e gli intrighi, sui conti rimasti in sospeso, perché poi potessero iniziare a ricostruire; gli altri dorati li avrebbero raggiunti dopo mezzogiorno.

Saga aveva annuito, solenne però assente a sé stesso – ma avrebbe voluto avere ancora abbastanza anima da essere in grado di piangere, avrebbe voluto che quella salda dolcezza lo facesse tremare, avrebbe voluto che Kanon ci fosse e che Aiolos non lo guardasse.

"Nel frattempo, prendetevi cura di voi stessi e gli uni degli altri", aveva infine ordinato Shion, mentre una mano leggera di Dohko sull'incavo della sua schiena lo guidava gentile verso le sue stanze – perché non avevano di nuovo ancora vent'anni e dopo più di due secoli non c'era più tempo che si potesse aspettare. "Ritornate ad abbracciare la vita. Per il resto c'è tempo domani".

Shaka, ancora perso nel sole nascente e nel vento leggero, nell'eco assordante del proprio respiro, come in un limbo, aveva pensato che, in fondo, era stato quello che avevano sempre provato a fare, in quegli interminabili tredici anni e negli ultimi mesi di lutto e stupore: prendersi cura gli uni degli altri, tenere assieme alla meno peggio i loro cocci di uomini rotti, di bimbi sperduti, e un po' di speranza, e l'illusione che valesse bene a qualcosa. Ciascuno aveva fatto del proprio meglio, ciascuno secondo quello che aveva ritenuto necessario e giusto, con sangue e con sacrificio: i successi, fragili e segreti, consumati nell'intimità dei loro templi, nell'ombra d'una pace impermanente; e i fallimenti... i fallimenti erano stati deliranti e disastrosi, distruttivi senza discrezione – ma il più delle volte Shaka non aveva saputo distinguerli, e ancora si chiedeva quali fossero state le vittorie, quali le sconfitte, quale il prezzo troppo alto da pagare.

La stretta d'acciaio della mano di Mu sul suo polso lo aveva strappato alla sua rêverie; gli occhi di Mu, piantati nei suoi come due pugnali, erano ardenti e lo avevano fatto tremare in quel luogo segreto fra lo stomaco e il cuore: Mu era furioso. Non gli aveva detto niente – non ce n'era stato bisogno –, non aveva detto niente a nessuno – ma forse lo aveva fatto mentre Shaka era intento a smarrirsi lungo il filo dei propri pensieri –; semplicemente lo aveva condotto giù per la scalinata, senza correre, ma con decisione e con una fermezza che non ammette repliche: se Shaka si fosse opposto, probabilmente lo avrebbe trascinato comunque, come il destino; ma se Shaka aveva imparato qualcosa negli anni, sin da quando era bambino, era che non avrebbe mai saputo opporsi a Mu.

La Casa del Montone Bianco aveva subito danni – qualche colonna crollata, il frontone diroccato, polvere e detriti sulle scale e nell'ingresso sotto i piedi nudi al loro passaggio –, ma era ancora lì, solida, eburnea e brillante nella pallida aurora, come la linea ferma delle spalle di Mu. La Casa della Vergine celeste non esisteva più.

Erano entrati, Mu un passo avanti, sempre tenendolo per il polso, ma il suo tocco era un poco più lieve, un po' più gentile, mentre lo portava alle sue stanze private quasi intatte: non era più un ordine, ma una richiesta – non tremare, concedimi almeno questo, me lo devi, ed io ne ho bisogno.

La sala da bagno – spaziosa, spoglia – era grigia e perlacea come sempre; le finestre, troppo alte, troppo piccole, per offrire più che una luce soffusa e una penombra dolce; l'aria era densa e fresca come pietra.

Mu lo aveva lasciato per riempire la grande vasca, poi: "Entra", gli aveva detto, e lo aveva seguito. Entrambi in piedi, senza smettere di guardarsi, nella penombra fresca e nel gorgogliare dell'acqua che scorre, Mu aveva lavato Shaka: ogni tocco leggero delle sue mani – sulle spalle, sul collo, sul suo petto, lungo le braccia e le gambe, su tutto il suo corpo – gli accarezzava via la morte di dosso, era un rituale e un battesimo. Ad ogni tocco sul corpo di Shaka, Mu stava lavando via un po' della sua stessa rabbia; quando, alla fine, gli aveva accarezzato il terzo occhio con un pollice, tenendogli il viso fra le palme bagnate, con delicatezza infinita, entrambi avevano sospirato – entrambi si erano quasi sciolti in lacrime. Allora Shaka aveva fatto lo stesso a sua volta – e nel lavare Mu gli era parso di purificare sé stesso, di tornare alla vita come mai era stato vivo prima.

Poi Mu si era asciugato, aveva asciugato Shaka, aveva indossato i suoi abiti usuali e lo aveva vestito con una tunica color del vino; aveva infine appoggiato la fronte alla sua.

"So che hai fatto quello che ritenevi necessario, lo capisco; so che era il tuo dovere", aveva confessato, con una carezza sulla guancia di Shaka, "e so anche che lo rifaresti; non posso biasimarti per questo. Ma, Shaka...". Non aveva avuto modo di finire: forse gli erano mancate le parole, forse in verità non c'era niente da dire; ma il cosmo di Kiki brillava impaziente oltre il pronao del tempio di Aries ed era ormai tempo di andare.

"Parleremo al mio ritorno", aveva concluso e Shaka aveva annuito. "La mia casa è la tua casa, se non ti pesa restare qui in mia assenza", e si era accomiatato con un bacio minuscolo all'angolo della sua bocca che aveva il sapore di una promessa di risoluzione. Shaka lo aveva guardato allontanarsi, prima di richiudere gli occhi.

 

Ma come poteva dire tutto questo ad Aiolia? Come poteva spiegargli l'orrore di trovarsi vivo e dei mostri notturni della sua infanzia che ancora lo visitavano negli incubi? Come descrivere il dolore di quell'alba di platino e diamante e il sollievo della penombra, delle mani e del corpo di Mu? Come poteva, quando neppure lui sapeva che cosa volesse dire?

"Mu era arrabbiato con me", ed era vero.

Aiolia gli venne accanto, chinandosi a raccogliere in un pugno una manciata di polvere che era stata roccia immutabile, intangibile al tempo: “Hai idea del perché?"

Shaka non gli rispose, gli occhi chiusi e il capo chino, una posa di rassegnazione di fronte a sé stesso, che Aiolia non avrebbe mai immaginato su di lui, né avrebbe mai voluto vedere.

“Shaka... Se stamattina Mu non ti avesse portato via di gran carriera – per farti non voglio sapere cosa volesse farti –, un pugno sul muso non te lo avrebbe risparmiato neanche Athena”. Il tono di Aiolia era quasi scherzoso, ma Shaka sapeva benissimo che era serissimo – e che lo avrebbe fatto davvero.

"Perché?"

Allora Aiolia aveva risposto onestamente, cercando di mantenere tutta la calma di cui fosse capace, perché Shaka sinceramente faticava a capire e lui doveva spiegargli, ma la voce tremava: "Perché sei andato a morire – o qualunque cosa tu abbia fatto –, deliberatamente, senza dirci niente. Non ci hai degnato di uno straccio di spiegazione. Lo sai che Mu mi ha impedito di entrare nel tuo stupido giardino? Che sorvegliava la porta piangendo? Che ogni minuto di quell'agonia sapeva perfettamente che cosa avevi intenzione di fare e si sentiva morire anche lui? Che mi sentivo morire anche io? Avrai avuto le tue buone ragioni – anche i muri hanno orecchie, le spie di Hades, quello che ti pare, non mi interessa –, perché tu hai sempre le tue buone ragioni anche quando sono completamente stupide! E sicuramente Mu lo aveva capito benissimo o almeno lo immaginava, ma ciò non toglie il fatto che sia dovuto star lì a lasciarti morire, a sentirti desiderare di morire. Io avevo il cuore spezzato; come immagini che stesse il suo, di cuore?"

E Shaka aveva finalmente capito, come in una sconvolgente illuminazione; e tremava. "Che cosa posso dirgli ora?"

"Chiedigli scusa, Shaka. Anche se lo rifaresti, chiedigli scusa".

 

 

*

 

 

Santuario, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986

 

 

Milo sedeva – giaceva – prostrato accanto alla grande porta chiusa, la schiena abbandonata contro lo stipite, senza avere il coraggio, o la forza, di entrare: così vegliava, lui stesso corpo senz’anima, o una bambola rotta. Quella che Aiolia – di fronte a lui, accasciato su una colonna, quando non sarebbero bastati i pilastri del mondo a sostenerlo – vegliava non era una veglia funebre, non solo, ma il disperato stupore dei sopravvissuti ad un’insospettata congiura, dei traditi che non si salvano mai, e piangeva rabbiosamente anche lui il suo pezzo strappato di cuore – che non credeva d’avere, non prima che fosse tardi, e tutto rovinato e perduto.

Marin li sorvegliava in disparte, tagliata dall’ombra, in silenzio: era l’unica che aspettasse ancora qualcosa, perché per gli altri due il tempo si era fermato in una goccia densa di dolore scurissimo, pesante più del sangue, e aveva perso di senso misurarlo in un prima e in un poi, in oggi e domani, perché lo ieri non esisteva più e si era portato via tutto; né si poteva sperare scorresse, passasse. C’era solo la notte, la notte infinita del riposo dei morti, e il vuoto devastante della perdita.

 

Nessuno dei guerrieri dorati sopravvissuti aveva seguito Athena e i suoi piccoli Cavalieri di Bronzo feriti: la morte e il dolore erano cose cui erano stati abituati a badare da soli, fra di loro, a questo erano stati addestrati; e le ferite del cuore dovevano essere riaccostate dolorosamente lembo per lembo, in solitudine, prima che la Dea potesse suturarle col suo cosmo divino – prima che loro stessi potessero pienamente accettarne la ragione.

Ma non era il momento della ragione quello, non per Milo: appena l'aereo della Fondazione fu alto sulle loro teste – a sgravarli per un attimo del loro dovere di santi ed eroi, lasciandoli soltanto uomini, nello spazio dei loro lutti –, si era girato, come se null’altro contasse – perché più nulla contava –, col passo lento e scosso, ma inarrestabile, delle prefiche della sua terra, che aveva visto bambino; e nessuno, nemmeno Mu, aveva provato a fermarlo, o ad accompagnarlo, o a dirgli qualcosa – perché non c’era parola che si potesse dire, né di conforto, né di rassegnazione. No, non era quello il momento della ragione; ma il silenzio che urlava nell’anima dello Scorpione riportava alla schiacciante realtà tutti loro, perché erano i reduci e gli abbandonati.

Era sceso, muto e implacabile, fino all’Undicesimo Tempio; il battere ritmico e angosciante dei suoi calzari sugli scalini di pietra era l’unica cosa che gli scandisse nel petto il pulsare del cuore, e se si fosse fermato si sarebbe arrestato anche lui – il suo piccolo cuore di insetto schiacciato e privato del sole.

Era crollato in ginocchio di fronte al suo Camus, crollato rovinosamente come un monumento cui all’improvviso vengano meno le fondamenta, come il ragazzo che era, senza più aria, o speranza, senza più niente, perché il suo Camus era lì, ancora di ghiaccio, ma questa volta non avrebbe scostato né ricambiato le sue carezze, non gli avrebbe regalato il sorriso più piccolo, non lo avrebbe più rimproverato con la più dolce, impercettibile tenerezza.

Aveva pianto, Milo, per un'eternità, senza più tempo, in ginocchio, disperatamente e senza ritegno; aveva singhiozzato finché solo il bruciore di fuoco nella sua gola, in fondo ai polmoni, gli ricordava che lui era vivo – ma questo era un dolore insopportabile.

Aveva sollevato Aquarius come una sposa dormiente, anche se non aveva niente del sonno; lo aveva portato fra le braccia con la stessa avvolgente e amorevole cura che gli aveva usato quando era in vita, fino a una manciata di ore prima, quando aveva giurato e rigiurato che niente, niente avrebbe mai toccato il suo Camus – una manciata di ore prima lo aveva mandato lui, il suo assassino al suo Camus. Avrebbe dovuto saperlo che Camus aveva il cuore troppo caldo e troppo in pezzi per congelare quel bambino ancora una volta; avrebbe dovuto saperlo che si sarebbe lasciato morire per insegnare la sua stupida lezione – perché Camus amava troppo, aveva sempre amato troppo, e la sua morte ed il dolore di Milo, che lo riamava e che lui si lasciava dietro, era la sua stupida, insensata lezione. Avrebbe dovuto saperlo e tenerlo fra le sue braccia quando era tornato dalla Casa di Libra, finché non avesse più tremato, finché non avesse avuto più freddo, finché la battaglia non fosse finita, senza lezioni. Avrebbe dovuto saperlo....

Milo aveva trascinato anche il proprio cadavere, fino alle stanze del Sacerdote; e il corpo che aveva affidato con reticenza e un’ultima carezza sulla fronte gelida, come di marmo, alle mani tremanti di Shaka, perché facesse quel che andava fatto, pesava anche di tutta la sua anima che non poteva più stargli nel petto, che s’era involata da lui.

“Camus…”

 

Ora, dentro, tremavano ancora le mani di Shaka, tremavano come mai avevano tremato, le sue mani ferme; e Mu non sapeva come quietarlo, quel profondo terrificante tremore dell’antro dove mente e cuore non si distinguono più.

Subito dopo aver adagiato Camus erano andati a deporre le armature, come trasognati; avevano indossato tuniche bianche, sacerdotali, lavato via polvere e sudore dalle proprie membra e tracce di sangue che non volevano vedere, che non era loro.

Milo era rimasto accanto alla porta, attendendo il loro ritorno, come a guardia dell’inferno; e ancora era là, senza neppure più la forza di piangere: aveva l’elmo in grembo, lo stringeva assentemente, così perso da non sentire il dolore della pelle lacerata dalla cuspide dello Scorpione, perché gli si erano spezzate tutte le corde del cuore – e avrebbe voluto non sentire più niente. Aiolia aveva aggiunto la propria solitudine alla sua; non era stato lui ad andare a prendere Shura.

 

Non è vero, non è logico, non è possibile, era il mantra di Virgo; non è vero, non è logico, non è possibile, si ripeteva, tracciando, con le mani intrise d’acqua e d’essenze che avevano l’odore del pianto, i tratti del viso di Saga, a cancellare qualche schizzo di rosso e tracce di terra – i segni della lotta si erano distesi da soli, e sembrava in pace, in una pace che non è sonno, né è riposo, ma l’attesa delle cose distrutte che non si ricompongono più.  Ed erano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, quali statue di cera fatte a pezzi; e Shaka non aveva il coraggio di aprire gli occhi mentre ricostruiva la compostezza di corpi vuoti – così, tremando, raccoglieva anche i pezzi della propria umanità.

Mu lo osservava preoccupato, mentre continuava ad occuparsi di Camus: nella morte sembrava meno preciso – i capelli di fiamma bagnati di ghiaccio sciolto, le sopracciglia senza una piega accigliata, pensosa e lontana, le dita distese, non più strette ad afferrare il controllo perfetto che scivola via, impercettibilmente, ogni momento; e sulle labbra neppure più lo sforzo di celare i suoi più segreti sorrisi. Con quanti rimpianti fosse partito quell’uomo, Mu non se lo chiedeva, perché non spettava a lui; e l’angoscia dei vivi lo arenava alle cose di questo mondo, rendendo il dolore una sorta di torpore, di stordimento, che avrebbe fatto male dopo, quando tutto sarebbe stato sepolto e avrebbero avuto lunghi giorni per pensare ed attendere ordini e domandarsi ancora e ancora “come”, e “perché”.

Aphrodite sembrava fragile – la pelle ancora più diafana adesso che nessun calore l’animava, la bocca di un pallore quasi infantile –, rimaneva di una bellezza altera e perfetta, ora più immobile ed immutabile, che non si corrompe; profumava ancora di rose, di una fragranza dolceamara che sapeva di attese, di amori non senza pericoli, di ricordi d’infanzia e di lui. Deathmask gli era stato deposto accanto, con delicatezza infinita, perché non c’è crimine o morte che sciolga il nodo d’impegno e d’affetto dei compagni d’armi, quel nodo serrato sul cuore, per cui ogni tradimento fa male come il filo d’un pugnale, ma che inietta nel sangue il filtro sottile di una comprensione profonda più delle viscere, e il rancore stesso è quello che si porta a un fratello.

Aldebaran aveva raccolto Shura; fra le sue grandi braccia, sembrava ancora più snello e sottile: era tanto alto, ma il suo corpo così fermo e flessuoso, disegnato per i balli frementi della sua terra, ora pareva non avere più ossa, neanche un piccolo sostegno che il rigore della morte potesse tendere ancora. Quando il Toro era passato col suo fardello, Aiolia aveva girato la testa – ma non era solo per rabbia che non voleva, non poteva vedere.

 

“Shaka…”, aveva mormorato Mu, quando tutti gli altri erano stati preparati per gli ultimi riti e gli estremi onori, e Virgo sistemava ancora le pieghe della veste e i capelli di Saga, gli occhi chiusi e le mani tremanti, perso nei suoi pensieri, o in ricordi remoti che anche Mu divideva, ricordi di anni e di tutti loro – comunque altrove.

Shaka aveva annuito come assente e, con un’ultima carezza al volto morto d’una memoria distante, aveva seguito Mu via dalla grande sala, per lasciare che Shaina e Marin compissero le celebrazioni che spettano solo alle donne, preghiere alla notte e alla terra perché il loro grembo fosse benigno e accogliente, invocazioni di vita e sangue senza sole, e canti più acuti del vento – cose che neppure lui conosceva, né avrebbe mai pronunciato.

Aiolia era fuggito a covare nell’ombra il rancore che gli straziava e riapriva le ferite del cuore; Milo non si era mosso di lì, perché sarebbe sceso anche lui nella tomba con Camus. Aveva levato gli occhi, come se avesse voluto chiedere loro “come sta?”; li aveva riabbassati con la dignità sofferente del guerriero sconfitto e il pudore del bambino colto in fallo o che, semplicemente, ha pianto troppo. Fu come un congedo e non aggiunse nulla, perché quella guardia notturna era per lui, su di lui tutto il peso della tenebra e del sopraggiungere – impossibile e inammissibile, perché come può esserci sole se non c’è lui? – della straziante luce del giorno.

Dall’altra parte della porta, giungeva, come irreale, penetrante un odore di incenso e di fiori bruciati, e sommessi lamenti come cantilene singhiozzate; a Shaka dava la nausea.

“Scendiamo insieme fino al tuo tempio, se non ti disturba la mia compagnia”, gli aveva proposto Mu, con l’usuale cortesia e lo sguardo gentile – quello sguardo che, quando se lo sentiva addosso, gli riscaldava l’anima e stringeva lo stomaco, gli faceva venire voglia di sorridere senza motivo. Questa volta fu come un balsamo per lo straniamento delle ultime ore, l’ultima cosa che avesse senso in un mare di assurdità e di certezze rovinate al prezzo di troppo sangue e troppo passato perduto – e lui, in preda all’orrore, dubitava e aveva la sensazione paralizzante di aver sbagliato tutto, tutto quello che si potesse sbagliare.

“Non potrebbe che farmi piacere”, rispose. “La tua compagnia mi è indispensabile”, aggiunse in un sussurro debole.

Mu gli sfiorò un braccio, consolatorio e incoraggiante – perché solo lui leggeva e conosceva ogni turbamento dell’animo suo, nonostante fosse passato tanto tempo –,   rassicurante come sanno essere solo i saggi che non smarriscono il mondo umano, dolce come una madre e un fratello, o come un amante.

“Andiamo, è bene dormire almeno qualche ora: domani sarà una lunga giornata per tutti”.

Scesero spalla contro spalla, e quel poco calore della semplice presenza poteva quasi bastare a mitigare il gelo di un cielo troppo buio; il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal sentore lontano di foglie cadute: quella notte, tutte le stelle erano mute, niente segnava la direzione.

“Come si può dormire, davanti al sonno dei morti?”, mormorò Shaka, di fronte all’ingresso della sesta Casa, con nuda sincerità e nudo turbamento, perché parlare con Mu era qualcosa di più intimo che parlare a sé stesso. Gli rispose un lieve bagliore di cosmo, un noto richiamo dell’anima, che non aveva dimenticato. Si volse verso l’amico, stupito e con gli occhi spalancati: vide un sorriso triste.

“Perché non mi inviti a prendere una tazza di tè? Questa notte non è per vegliare in solitudine”.

 

   
 
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