Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
Segui la storia  |       
Autore: Rossini    31/03/2017    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 3
IL FUOCO RISORGE
 
 
 
                «Su, svegliati Brendan» gli disse fratello Trenton, quello che una volta era stato il suo vicino di casa Trenton Hammerhead su a Banefort, all’ultimo picco del Golfo dell’Uomo di Ferro, esattamente di fronte alla città di Pyke, una volta capitale di una famiglia arricchita di corsari riuscita perfino ad avere un ruolo piuttosto rilevante nelle antiche storie del Westeros, quando i regni erano sette e i re forse pure di più. Era parte del continente Banefort, eppure aveva molte più cose in comune con quegli scogli dannati che aveva come dirimpettai che non con il resto delle regge nobili e assolate che aveva alle spalle. Banefort era sul mare, però era fredda. Il cielo era quasi sempre grigio e in tempesta. E il mare… il mare sempre gonfio, adirato e pericoloso come un ubriaco solitario dopo una notte di bagordi alla locanda. A tutto quello, Brendan semplicemente non sentiva di appartenere. Fin da quand’era nato si era sentito diverso da tutto quello che lo circondava, e d’altronde anche tutto quello che lo circondava era così marcatamente diverso da lui. Così bruno e grigio l’ambiente della scogliera, così candido e solare lui. Sempre così felice e spensierato in un luogo dove non rideva quasi mai nessuno. Brendan sognava di scappare da quei dannati scogli il prima possibile e alla fine aveva trovato il modo per riuscirci.
                Nascere ignorante in una famiglia di pescatori ignoranti, certo non gli aveva agevolato il compito. essendo lui un ragazzotto bassino e non particolarmente atletico, anzi proprio minuto. Di capelli era arancione come una carota, mentre gli occhi li aveva di un celeste d’un chiarore impressionante. Normalmente si sarebbe detto che occhi chiari significano un bel paio d’occhi, ma per Brendan non era così, e lui ne era il caso lampante. Troppo chiare quelle palle che aveva sul cranio, talmente tanto da farlo sembrare talvolta più uno spettro che un ragazzo. E a questo si aggiungeva il fatto che anche la sua carnagione ne aveva più del pelo candido di una pecora che non della rosea pelle umana. Certi uomini del sud e dell’est, la pelle l’avevano perfino del colore dell’ebano, ma lui no. Lui, in tutto il suo aspetto, di evidente aveva solo i capelli rossi. Per un certo periodo degli anni della sua infanzia, aveva cercato di vestirsi in maniera quanto più sgargiante possibile pur di cercare di dare una personalità al suo aspetto. Ma non c’erano molti abiti da uomo sgargianti per i poveracci di Banefort. Dopodiché, era sopraggiunta la vita monastica, e in quel caso l’unica cosa che al giovane Brendan – entrato a monastero il giorno del suo decimo compleanno – fu concesso di indossare, fu un laido saio di seconda o terza mano che gli veniva largo alle braccia e lungo ai piedi.
                Eppure la vita monastica il giovane Brendan l’aveva accolta come una festa. L’aveva proprio cercata. Non sapeva che fare della sua vita, visto che si rifiutava di andare oltre con la pesca e il mare, e la notizia del vicino giovane Trenton – ma almeno di dieci anni più grande di Brendan, forse anche qualcosa di più – che aveva lasciato gli Hammerhead per diventare un septon, gli aveva illuminato la strada. Anche gli Hammerhead erano pescatori (la metà degli abitanti di Banefort lo era) ma per qualche motivo in quella famiglia circolavano sempre maggiori danari rispetto che in quella di Brendan. Hammerhead padre aveva quattro imbarcazioni, di cui una bella grossa, e aveva uomini che lavoravano per lui. Portava a casa ogni volta un quantitativo di pesce superiore di almeno dieci volte rispetto a quello del padre di Brendan. E forse era anche per questo che gli Hammerhead si erano potuti permettere di avere la bellezza di sette figli, di cui Trenton era l’ultimo. E Trenton, differentemente da Brendan, non aveva dovuto elemosinare alla porta del monastero di campagna lì accanto per intraprendere la strada della fede. Si era permesso un viaggio fino a Roccia del Re, dove era divenuto, a quanto si diceva per le strade di Banefort, un importante fiduciario dell’Alto Septon, il più puro degli uomini.
                Brendan non aveva avuto molte alternative che bussare a Shawney, il luogo di preghiera nelle campagne fra Banefort e Lannisport, e lì era stato accolto. Ma la vita al monastero di Shawney era solo parzialmente migliore rispetto a quella nel mare del golfo. Certo, c’era di buono che lì leggere e scrivere, cosa che Brendan adorava pur se proveniva dalla famiglia da cui proveniva, non era considerata una stranezza, anzi era la norma. Solo che gli argomenti dei quali si leggeva e scriveva… erano piuttosto monotematici. La storia della religione dei Sette Dèi era antica e piena di sfumature, ma a Shawney se ne tramandava una sola versione. Molto presto, per Brendan neanche il piccolo monastero fu più abbastanza. Fu un azzardo quello su cui decise di scommettere per dare un ulteriore slancio alla propria esistenza…
                La sua famiglia non aveva alcun rapporto con gli Hammerhead. Erano vicini di casa praticamente da sempre, ma a stento si salutavano. Che Brendan ricordasse, o che gli fosse mai stato detto, di effettivi screzi tra suo padre e il capofamiglia degli Hammerhead, questo non si poteva dire che ce ne fossero mai stati. Tuttavia, tutti quegli anni ad abitare così vicino e a fare praticamente lo stesso mestiere senza mai scambiare altre parole fuorché di tanto in tanto un buongiorno o una buonasera, non erano certo indice di un’inclinazione a un qualche genere di simpatia. Anzi, Brendan pensava che suo padre intimamente odiasse gli Hammerhead, anche se non glielo aveva mai detto né aveva fatto in modo di far sfociare quell’odio in qualcosa di peggio. Dal canto loro, i figli – visto che già i genitori non è che si calcolassero granché – più o meno mantennero questa tradizione, anche se man mano che ci si avvicinò alle generazioni più giovani i buongiorno e i buonasera tesero ad essere accompagnati ad un sorriso. Peraltro, come già detto, Brendan sorrideva sempre e a chiunque. Brendan aveva avuto due fratelli: uno più grande di lui e l’altro più piccolo. Il primo era morto, e il secondo era nato con lo stesso strano male che aveva colpito il più grande e che presto o tardi si sarebbe portato via anche lui. Paradossalmente era Brendan l’unico di quella cucciolata ad esser venuto su sano e in salute. Gracile e basso, ma molto più in salute dei suoi fratelli: su questo non c’erano dubbi.
                Ora, visti i rapporti che le famiglie avevano, certo Brendan non si sarebbe detto che avrebbe fatto un affare a puntare tutto su Trenton Hammerhead, rampollo della famiglia di pescatori rivale. Eppure Brendan, in realtà molto più ardito di quanto a guardarlo si sarebbe detto, una volta giuntagli la nuova che Trenton sarebbe risalito a Banefort per un certo periodo di tempo, decise di lasciare il monastero per andare a trovare il vecchio vicino di casa e domandargli di portarlo con lui, una volta che sarebbe ripartito per la Capitale. Lasciare il monastero era impegnativo: non era una piazza, dalla quale entrare e uscire quando e come meglio si credesse. Se Brendan lasciava Shawney, non poteva mica pretendere di tornare a bussarci di nuovo. O meglio: poteva anche farlo, ma non lo avrebbero più accolto come loro confratello. Eppure Brendan lasciò Shawney lo stesso.
                A quel punto, quello che aveva davanti a sé gli era ignoto. Si salutavano da una vita con Trenton Hammerhead, e si sorridevano. Gli pareva perfino un tipo simpatico, ma non aveva mai udito la sua voce. Dunque poteva succedere la qualsiasi. Poteva succedere che sorridendogli Trenton gli avesse detto che non gliene fregava un bel niente di Brendan e del fatto che aveva lasciato Shawney per inseguire la chimera di divenire un septon della Capitale. Poteva succedere che Trenton, una volta aperta la bocca, parlasse con un timbro di voce comico da eunuco, che a udirlo Brendan fosse scoppiato in una grassa risata e che Trenton a quel punto, offeso, rispondesse a quella risata dicendo che a Roccia del Re non avevano bisogno di buffoni. Infine poteva anche succedere che semplicemente Trenton gli avesse teso la mano e che Brendan gliela stringesse, cominciando in questo modo una nuova amicizia. Inutile dire che era su quest’ultima eventualità che il giovane minuto Brendan puntava ormai ogni cosa.
                Per un po’ prima, Brendan si ritrovò a sospettare non poco che la sua scelta fosse stata sbagliata. Al suo arrivo a Banefort non trovò nessun Trenton Hammerhead ad aspettarlo, e così fu per oltre una settimana. Settimana nella quale sua madre lo riabbracciò, trattandolo come il suo cucciolo – l’unico con una potenziale aspettativa di vita di qualche genere – finalmente tornato alla tana, suo padre lo guardò di traverso, infastidito del fatto che fosse tornato di nuovo dopo aver sdegnato il mestiere che era stato di suo padre e del padre di suo padre, e infine lui stesso aveva passato le ore e i giorni in preda a una sconfinata malinconia e disillusione. Ma al decimo giorno Trenton giunse a Banefort.
                Brendan chiese un incontro col suo vicino di casa e, visto che non c’erano ragioni perché non accadesse, lo ottenne. Il ragazzotto minuto e rosso di capelli cercò di essere diplomatico come meglio poté, conversando del più e del meno. Ma sapeva che Trenton sapeva che anche lui era stato a monastero, a Shawney, e che probabilmente di quello prima o poi si sarebbe finito per parlare. Dapprima forse Trenton si sarebbe aspettato un discorso appena un po’ più “teologico”. Forse pensava che il monaco Brendan avesse delle questioni di tipo spirituale da sottoporgli, e si vedeva che era tutto bramoso di rispondere a quel genere di quesiti. Quesiti che però alla fine non arrivarono, o non quanto e come lui se li aspettasse. Brendan gli chiese di portarlo con lui a Roccia del Re e lui… fu sorpreso, all’inizio forse persino confuso. Ma alla fine non trovò valide ragioni per non accettare, sorrise al vicino di casa come sempre aveva fatto in tutti quegli anni, e gli disse che lo avrebbe portato con sé. Non si sarebbe occupato lui della sua formazione, non aveva né la voglia né la preparazione, ma conosceva i luoghi dove andare e le persone con cui parlare: era piuttosto sicuro che non avrebbe disilluso il volenteroso giovanotto. Così partirono, con un cavallo solo, quello di Trenton, il quale non era certo uno stallone da guerra, tuttavia si rivelò abbastanza giovane e forte da condurli – con qualche pausa – sani e salvi a Roccia del Re.
                Infine, giunsero alla Capitale. Nel corso del viaggio Hammerhead aveva detto a Brendan che avrebbe sottoposto il suo caso al suo diretto superiore, ma che era molto meglio se Brendan fosse stato presente, presentabile e preparato. Dunque, fu con una certa ansia da prestazione che il giovane monaco si addormentò quella sera, pregando i Sette Dèi di fare in modo che tutto andasse bene. L’indomani mattina, il fratello Trenton lo risvegliò poco dopo l’alba e gli disse di fare le sue preghiere e poi prepararsi: il momento dell’incontro di una vita era alfine arrivato.
 
 
 
                Alla fine tutto era stato predisposto. Uryon Worchester stava mantenendo la sua promessa: aveva detto a Daniel di Cowain che avrebbe fatto il possibile per rendere migliore la sua condizione di prigioniero e, una volta giunto a Biancavilla del Nord, si era messo subito a lavoro per risolvere quel problema. Era un uomo saggio, Uryon: questo lo sapeva mezzo continente occidentale. E un uomo saggio sa che, se non ci sono ragioni esplicite, è sempre molto più vantaggioso trattare i propri prigionieri dignitosamente. Questo almeno risultava anche al principe (o forse ormai non più principe) Daniel, il quale non era proprio all’asciutto di scienza politica, materia per la quale non aveva mai provato simpatia, ma che pure gli era stata insegnata da ragazzo, ai tempi della sua primissima adolescenza presso Roccia del Re.
                Probabilmente molta meno gente del continente occidentale sarebbe stata d’accordo nel definire “uomo” Lord Uryon. Era passato più di un mese ormai da quando il gigante deforme era entrato nella tenda presso la quale era stato portato Daniel, una volta fatto prigioniero nel bel mezzo della battaglia di Alberocasa. In quelle settimane, il nuovo signore assoluto del nord si era presentato più volte al cospetto del giovane Lannister, spesso solo per parlare di cose apparentemente senza una vera importanza. Di tanto in tanto rinnovava a Daniel la sua promessa, ma chiaramente il punto per il giovane Piromante non furono gli argomenti di quelle conversazioni. Fu la sorpresa di osservare una creatura simile, e di osservarla riuscire ad argomentare in maniera tanto forbita ed espressiva. Con un lieve difetto di pronuncia dovuto alla deformità della sua bocca, ma per il resto si era trattato di alcuni dei monologhi più interessanti che Daniel avesse mai ascoltato in vita sua. Eppure era ancora indeciso se classificare la natura di quell’essere precisamente nella categoria degli uomini oppure no. Per certi versi, senza dubbio Uryion manifestava umanità: non solo per la sua immensa cultura, le doti affabulatorie, lo scilinguagnolo. C’era qualcosa in lui che a Daniel ricordava certi stati d’animo che, se non esclusivamente umani, certo non potevano connaturare creature demoniache come i giganti, che avevano abitato l’Oltrebarriera e che erano stati disumani quanto crudeli, o così almeno avevano sostenuto la gran parte dei testi che il Piromante aveva avuto modo di consultare in giovinezza. Quale bambino ricco del Westeros non conosceva creature come i draghi o i giganti, i metalupi o gli estranei? Niente di tutto ciò era Uryon. I suoi occhi erano tristi. La sua bocca, bestiale e piena di denti aguzzi, spesso in preda a un tremolio indeciso che quasi ogni volta poi finiva per trasmutarsi in parole: parole ricercate, parole importanti… ma nonostante tutto questo, quello che Daniel poteva osservare nel suo momentaneo carceriere, era una forma di silente, assolutamente ben celata, eppure così vessata fragilità. Era come se dietro a tutta quella immensa massa deforme di carne maldistribuita, schiacciato tra un grosso osso piatto e un pezzo di adipe senza apparente sostegno, si trovasse un gattino orfano e denutrito.
                Grossomodo era questo che Daniel di Cowain pensava di Lord Uryion Worchester, il nuovo sedicente “re del nord”. Un odioso carceriere esperto di giochi politici e assolutamente freddo nel calcolo di tutte le manovre utili per farlo salire sempre più in alto nella ripida scala del potere; l’uomo che persino aveva ucciso suo padre: ma tutto ciò era una maschera, un costume da avanspettacolo. La sua sete di riconoscimento in verità era dovuta all’enorme desiderio di riscatto che una vita di vessazioni doveva avergli procurato. Daniel non lo conosceva, ma avrebbe giurato che fosse questa la condizione di Uryion. E questo non lo rendeva affatto un nemico meno pericoloso: maggiori sono gli orrori subiti, maggiori sono quelli che una vittima è disposta a compiere pur di ottenere rivalsa. O di provarci almeno.
                Ora erano a Biancavilla da forse più di una settimana. E Uryon, il malvagio Uryon, l’abietto Uryon, il calcolatore Uryon, il senza scrupoli Uryion, il diabolico Uryon, stava procedendo alla liberazione del suo prigioniero. Naturalmente Daniel era stato con quel grosso pezzo di Pietra di Luna appoggiato addosso sostanzialmente sempre. E questo era il minimo: Lord Uryon era cresciuto in quella che forse era la biblioteca più grande mai vista, era perciò un uomo abbastanza saggio da immaginare che se solo si fossero azzardati a togliere il magico oggetto di dosso al principe anche per un istante, Daniel non ci avrebbe messo molto a fare di tutto quello che lo circondava cenere e fumo. E lo avrebbe fatto senz’ombra di dubbio: chi non l’avrebbe fatto trovandosi in una condizione simile?
                Era stata predisposta una specie di ampia lettiga di un legno umido, non molto facile a prender fuoco. Si era atteso che fuori nevicasse, e fu fuori dal castello che la procedura venne incominciata. Qualcuno riferì a Daniel, che non poteva muoversi né parlare, che Uryion Worchester avrebbe assistito al procedimento da lontano, in alto in una delle sue torri, osservando tutto con speciali apparecchiature create dai suoi savi maestri. Ma Daniel quel giorno Uryon non l’aveva visto: e il Lord di Biancavilla non era tipo che non saltava all’occhio.
                Dopodiché, un mastro artigiano con un piccolo scalpello e un martelletto cominciò a lavorare sulla Pietra di Luna, scalfendola. I problemi che ne scaturirono a questo punto per Daniel furono di due tipi: sarebbe stato difficile distinguerli specificamente in uno “più fisico” e l’altro meno, visto che ambedue dipendevano dal potere che esercitava la pietra su di lui, non solo in quanto uomo comune, ma proprio in quanto Piromante. La Pietra rimaneva attratta dalla sua carne, e vi restava appiccicata per la sua stessa natura, ovvero proprio perché in Daniel scorreva ormai il fuoco della Piromanzia. Forse non ardente come quello del migliore dei Piromanti, né altrettanto dirompente, ma c’era ed era quello l’elemento del suo corpo che portava alla reazione della pietra. Dunque da una parte, il torace di Daniel subiva il rinculo dovuto ai colpi di martello e scalpello che il maestro al servizio di Worchester stava così incurantemente assestando sull’oggetto sferico. Dall’altra, era come se una parte di energia contenuta dentro la pietra reagisse sull’energia contenuta dentro Daniel, e questo faceva perfino di gran lunga più male rispetto ai colpi sulla pelle. Era lancinante: probabilmente né lo scalpellino, né i maestri che avevano studiato i tomi presso la biblioteca di Amergoth e neanche Lord Uryon in persona avevano una vaga idea della sofferenza interiore che in quel momento stavano impartendo al giovane apprendista di fuoco, ecco perché procedevano praticamente senza remora alcuna. E d’altro canto, Daniel non era nelle condizioni di gridare, perché le sue corde vocali, come d’altro canto una buona parte del resto del suo corpo, non funzionavano, e dunque gli astanti erano perfino giustificati, visto che non avevano ragioni per smettere il lavoro comandatogli dal loro padrone.
                Daniel fece di tutto per non concentrare più la propria attenzione su quello che il suo fisico in quel momento stava provando. Fu difficile, ma cercò di trasportare la sua mente verso altri orizzonti. Purtroppo i primi che gli vennero alla mente non furono neanche lontanamente piacevoli come lui li ricercava. Per qualche ragione, i suoi pensieri vagarono nel suo passato più recente: dapprima, l’improvvisa cattura ad Alberocasa e la sconfitta degli Applegate. Il Lord di quella famiglia quasi impazzito, e quello della famiglia Willoughby che nel bel mezzo della battaglia gli piazzava la Pietra di Luna nel petto. Infine Worchester, che entrava nella sua tenda di prigioniero e gli diceva che era il nuovo signore quasi assoluto del nord, e che al sud suo fratello Axelion era morto.
                Axelion, sempre così buono con lui, e Marcus. Daniel e Marcus erano cresciuti praticamente insieme, si toglievano davvero pochi mesi, ma Axelion invece, quando Daniel e Marcus erano poppanti ciuccia-latte, era già un bimbetto di otto o anche nove anni. Era cresciuto da solo, certo sicuramente con qualche amico forse sincero o con qualcuno invece appositamente mandato dalla corte per divenirgli amico, ma… senza fratelli. Forse per questo il rapporto che Daniel aveva avuto con il primogenito era da sempre stato così differente rispetto a quello che aveva avuto con Marcus. Probabilmente Daniel avrebbe risposto che gli aveva voluto bene alla stessa esatta maniera, ma con Marcus volersi bene aveva spesso significato punzecchiarsi, provocarsi e talvolta litigare anche seriamente. Con Axelion tutto ciò non c’era praticamente mai stato, era sempre troppo affabile, troppo buono, troppo concentrato su quelle cose “da grandi” di cui gli toccava occuparsi e che non sarebbero mai toccate ai suo fratelli più piccoli.
                Marcus, Daniel lo aveva lasciato con una bella litigata. Forse non la peggiore che avessero avuto, ma quasi. Eppure non aveva molti dubbi sul fatto che suo fratello gli volesse quel medesimo immenso bene che lui dal canto suo voleva a Marcus. Se si concentrava attentamente, la gran parte dei ricordi della sua infanzia, Daniel non li aveva condivisi né con Axelion (troppo grande) né con le ragazze (troppo piccole). Li aveva vissuti con quel fanfarone, dal carattere così diametralmente opposto al suo, che Marcus altro non era.
                Con Hana e Mirietta, la prima di circa quattro anni più piccola di Daniel e la seconda di circa quattro anni più piccola della prima, Daniel aveva il tipico rapporto che un fratello grande ha con le sorelle più piccole. Certo, Mirietta aveva un carattere apparentemente molto più tosto di Hana, ma era la piccola di famiglia e nessuno mai avrebbe potuto fare in modo che questo dato di fatto cambiasse. Daniel era protettivo con entrambe, anche se con Hana questo significava consigliarla ed ascoltarla in merito alle sue preoccupazioni relative alla corte, al lavoro, alla politica. Con Mirietta invece significava di tanto in tanto riprenderla, e stare sempre attenti da una parte che non si cacciasse nei guai, dall’altra che non si sentisse troppo soffocata da un controllo di cui Daniel non si sarebbe mai voluto prendere la responsabilità: che Mirietta odiasse qualcun altro per essere troppo asfissiante nei suoi confronti, non lui. Lui c’era, ma le era amico, mica tutore.
                L’idea che tutto quello non ci fosse più ormai da tempo, e che forse non ci sarebbe neanche mai più stato, gettava Daniel in uno sconforto quasi assoluto, uno sconforto che in negativo superava perfino il dolore interno che la Pietra di Luna gli stava causando. Avrebbe rivisto più i suoi fratelli e sorelle? Axelion no di sicuro. Gli altri forse, ma non sarebbero stati gli stessi e dunque non sarebbe stata più la stessa cosa. Una nuova cosa avrebbe detto il maestro Nidhogg con il suo profondo amore per la vita, una nuova cosa tutta da scoprire.
                Axelion lasciava un figlio piccolo che Daniel non aveva neanche mai visto. E lo aveva lasciato per sempre. Sir Cordell, il vecchio cavaliere ardimentoso, lo aveva lasciato pure. E così aveva fatto Nidhogg, la creatura più saggia e interessante che Daniel aveva avuto la fortuna di conoscere, e che buona parte dell’umanità non avrebbe mai visto e non avrebbe mai saputo che fosse esistita, e che cosa aveva fatto per loro. Daniel voleva pensare a qualcosa di positivo, ma con tutti i cadaveri di persone (e creature varie) a lui care che di recente aveva visto e di cui di recente aveva sentito… ecco, non era un’impresa molto facile. Sentì delle lacrime scorrergli dagli occhi alle guance, ma non seppe dirsi se quella sensazione fosse vera o se se la stesse solo immaginando. A un certo punto, per qualche ragione, le immagini che aveva dentro la testa si mischiarono tutte assieme fino a confondersi in un magma di ghiaccio e neve di un acceso colore azzurro. Magma che a poco a poco acquistò sempre più materia e prese forma, dividendosi in due pietre preziose, due iridi incandescenti da quanto freddo condensavano nei loro nuclei. Due occhi: quelli di Anylice, la ragazza di ghiaccio che per breve tempo Daniel aveva conosciuto e di cui solo ora si stava accorgendo essersi infatuato. Quei soli occhi di ghiaccio erano stati in grado di distogliere la sua attenzione non solo da Biancavilla del Nord e dallo scalpellino che in quel momento gli stava squarciando il petto, ma anche da tutto il male, gli orrori e le tristezze del mondo. Quel paio di occhi disumani furono già di per sé bastevoli per compiere tutto questo.
                All’improvviso, lontano ma vicino, Daniel udì un suono. Era distante, ma non era fuori da sé. Era dentro, nella sua pancia, nelle sue viscere, nella sua gola… si ritrovò ad avere di nuovo cognizione di sé, del suo respiro, del suo corpo, dei suoi movimenti: delle palpebre che battevano quasi incessantemente. E si ritrovò ad essere un piccolo uomo legato a una lettiga di legno umido, in preda ad atroci urla e copiose gelide lacrime.
 
 
 
                Lord Gino della Casa Barron, primo di quella famiglia a sedere sul trono di Altogiardino, aveva incominciato la sua attività di Lord, la quale era al contempo noiosa e impegnativa. Noiosa perché, per quanto Gino cercasse di renderla quanto più “movimentata” possibile (ogni qual volta che c’era un problema, il protettore dell’altopiano tendeva a recarvisi di presenza indipendentemente da dove si trovasse), in realtà gran parte del lavoro era da farsi seduto su una sedia attorno a un tavolo, non al galoppo di un cavallo, con una spada alla cintola e il sole sulla faccia. Impegnativa perché in effetti ogni giorno c’era qualcosa di nuovo di cui occuparsi: disordini di ogni genere caratterizzavano la vita di una regione apparentemente pacifica come quella dell’Altopiano. Chiunque, in qualsiasi angolo periferico si trovasse, invocava il suo aiuto per qualcosa, anche per cose su cui chiaramente Gino aveva ben poco da fare.
                Naturalmente cercò di personalizzare la carica quanto più potesse. Era nella sua natura un po’ di attività fisica, e dunque riusciva spesso – anche se non quanto desiderasse – a ritagliarsi del tempo per un addestramento alla spada o per una caccia al cervo o al cinghiale, tra i boschi. Capitava anche che i servi di Lord Braff, i guerrieri-ombra mai veramente dipartitisi dalla sua guardia, continuassero ad addestrarlo nella loro speciale arte, ma da tempo ormai il giovane Lord Barron aveva concluso che quello che gli stavano insegnando era solo una parte di un tutto molto più ampio di cui era e sarebbe stato per sempre autorizzato a conoscere solo una parte.
                Eppure la presenza degli uomini di Braff era forse l’unica cosa che continuava a farlo sentire al sicuro. Senza dubbio, da quando stava ad Altogiardino, c’erano guardie con la rosa dorata appuntata un po’ dovunque, appositamente pagate per controllarlo, dunque adibite alla sua sicurezza in maniera anche più esplicita dei guerrieri-ombra. Ma la rosa dorata non era il simbolo di Gino, era il simbolo dei Tyrell. Il simbolo di Gino era la rossa volpe dei Barron, la quale ancora stentava a vedersi negli stendardi e nei sigilli del capoluogo dell’altipiano.
                Shanty dal canto suo continuava a trotterellargli intorno come se quella fosse più casa sua che di Gino: ed effettivamente, essendo cugina di Lorthan e Shane Tyrell, conosceva il castello decisamente meglio. La cosa non impensieriva il giovane Lord: aveva udito anche lui storie in merito a regine che, una volta infilatesi nei letti dei loro re, avessero cospirato contro di loro fino persino a ucciderli. Ma chiaramente non era questa la tattica adoperata per il momento da Shanty e da coloro che le stavano dietro. La ragazzina intendeva diventare davvero la sua compagna, e davvero volentieri si sarebbe donata in toto al suo signore, e a quanto pareva ai Lord suoi genitori e fratelli la cosa andava benissimo. Era a questo punto che sopraggiungeva per Gino il vero problema: Shanty non lo attraeva più di un qualsiasi pezzo di arredamento dei suoi appartamenti. Gino sapeva che, come uomo, era piuttosto rara questa sua caratteristica: chiunque al suo posto si sarebbe fatto piacere la sua promessa, anche se fosse stata mille volte più brutta di Shanty, la quale brutta non era. Ma l’idea di doversi legare a una tale bambina, peraltro così palesemente idiota, non riusciva ad aizzare neanche lontanamente l’uomo appassionato e cavernicolo che giaceva dentro di lui. Avrebbe preferito farsi qualsiasi cortigiana di bassa lega purché fosse in grado di intavolare con lui una mezza discussione, piuttosto che quella dannata ragazzina che gli avevano abbarbicato addosso. Forse c’era perfino di più: c’era l’idea che Gino quella cosa dovesse farla per dovere, che più di ogni altro aspetto rendeva così visceralmente impossibile per lui anche alzare una mano verso la giovanissima Tyrell. Era già accaduto un paio di volte che ella si fosse presentata ignuda nelle sue camere mettendo in bella mostra tutto quello che avesse da offrirgli. Una di queste volte, Gino aveva avuto perfino la forza di non concentrare la propria attenzione sull’espressione vacua della ragazza quanto piuttosto sui suoi graziosi seni sodi e sul suo ampio e ben calibrato ventre. Ma era bastato che Shanty aprisse la sua miseranda bocca nell’istante in cui Gino ebbe messo le proprie mani sul di lei prosperoso davanzale, per fargli d’improvviso cadere molle verso il basso tutto quello che aveva dal collo in giù, braccia e gambe compresi. Non la voleva: non la voleva punto e basta. E poi pensava a Daessenya…
                Sir Jon Barthalo, nuovo signore di Lungotavolo e in teoria capo della sua guardia, era agli occhi di Gino infido ancor più che Shanty Tyrell e tutta la sua famiglia. Più Gino lo osservava e più si accorgeva che Jon non agiva nei suoi confronti come legato da un vero vincolo di lealtà. Più che altro, cercava di mostrarsi quanto più indipendente possibile ed eseguiva gli ordini di Gino solo quando questi erano espliciti. Per il resto, il giovane Barron vedeva tutti i giorni il brutto ceffo del suo vecchio rivale d’infanzia, ma si trattava perlopiù dei pranzi e le cene e di altre occasioni di questa portata. Gino domandò perché diamine dovesse continuare a provare a fidarsi di uno che proprio non gliela raccontava giusta, ma tutte le volte che aveva fatto al suo amico e consigliere Lord Braff quel genere di rimostranze, quello gli aveva replicato che i Barthalo ormai erano parecchio influenti ed era impossibile governare l’area della Dodecapoli senza la loro amicizia. Questo non significava che Braff, la miglior spia del continente occidentale, non avrebbe continuato a monitorare le operazioni dei Barthalo sia al di dentro che al di fuori di Altogiardino, e dunque anche in merito a questa materia Lord Barron tendeva ad essere piuttosto sereno: di Braff lui si fidava veramente.
                Rollo infine, il suo vecchio tutore, l’uomo che più di tutti era un piacere vedere attorno a sé continuare a servirlo in quel di Altogiardino, era tuttavia parecchio strano da quando Gino era tornato all’Altopiano. Non strano nei suoi confronti, anzi nei suoi confronti era dolce come sempre, forse l’unico vero amico che in quel momento della sua vita Gino sentiva di avere davvero accanto: quell’uomo lo aveva visto crescere, per certi aspetti era stato per lui come un padre anche più di quel suo stesso padre che Gino pure meditava, per una questione d’onore, di vendicare. Poteva dire che Rollo, nella sua vita, l’avesse perfino visto nudo, come sua madre: a Lord Barron senior questo probabilmente non era mai capitato. Sempre troppo impegnato con la politica e il falcone era stato Lord Barron padre.
                Ad ogni modo, Rollo era strano. Era come se fosse costantemente spaventato, come se sentisse che qualcosa stava per accadere, proprio in quel contesto in cui la guerra l’avevano anzi avuta alle spalle e dunque non c’era molto altro da fare se non ricostruire. Questo naturalmente il vecchio non lo esplicitò mai alla presenza del suo padrone, eppure i suoi occhi e il suo atteggiamento per Gino erano ben chiari: parlavano praticamente da soli. Solo che con l’andare del tempo, non trovando altro da pensare, il Lord Protettore dell’Altopiano non poté non attribuire la cosa al semplice fatto che il suo anziano servitore era sempre più vecchio e che per un vecchio uscire dalla propria casa per andare in un’altra normalmente non è la più piacevole delle esperienze. Tuttavia Gino aveva preteso Rollo, e anche un paio degli altri uomini che lo avevano servito a Lungotavolo, accanto a sé presso il nuovo maniero sulla collina: andare a fare un mestiere come quello, completamente impreparato e peraltro senza neanche facce amiche attorno, quello sì sarebbe stato fisicamente insostenibile; Gino non ci sarebbe mai e poi mai riuscito, dunque, anche se gli spiaceva che Rollo dovesse sentirsi un pochino fuori posto, non aveva trovato e continuava a non trovare alternative valide da mettere in pratica.
                Fu proprio il suo vetusto tutore a consegnargli il messaggio quella mattina. Gino aveva appena finito di ascoltare una discussione tra feudatari che litigavano in merito al possesso di un piccolo colle con relativo mulino. Non aveva preso una decisione, visto che non era ancora in possesso di tutti gli elementi del caso, e dunque aveva congedato i due signori e si era messo di fretta a organizzare una piccola battuta di caccia da attuare tra la mattinata ancora non definitivamente persa e l’ora di pranzo. La missiva che il vecchio Rollo gli consegnò nelle mani sconvolse clamorosamente i suoi piani.
                Già l’intestazione era, quando non proprio curiosa, abbastanza sorprendente: a mandare il messaggio era Lady Xalandra dalla assolata Cowain. Ovviamente, pensando anche a Daessenya, Gino s’incuriosì e aprì subito il messaggio alla presenza del suo servitore. Come già detto, se c’era qualcuno in quel di Altogiardino che considerava amico, quello di certo era Rollo. Il contenuto del messaggio tuttavia lo sconvolse: si trattava non tanto di una richiesta d’aiuto, quanto di un’implorazione. Cowain era di nuovo in difficoltà, e di nuovo si ritrovava a richiedere l’ausilio di Gino e non del re degli Andali, il quale era troppo distante e la situazione era emergenziale. Il demone di fuoco che si era portato via l’occhio di Gino si era risvegliato. Non era ancora nel pieno della sua forza, ma il teschio aveva ripreso ad animarsi e controllava una stanza della reggia, le cui pareti erano divenute di fiamme. Progrediva di giorno in giorno, di ora in ora. Nel momento in cui l’ex cortigiana divenuta signora di uno strategico centro del sud del continente aveva deciso di prendere carta e penna e scrivere all’amico Lord di Altogiardino, la creatura aveva perfino cominciato a parlare. Non molte parole, ma colme di significato quanto di orrore: «presto finirete tutti in cenere».
                La ragazza pure soprannaturale ma dai poteri opposti e superiori a quelli del demonio con la faccia nera si era dileguata. Aveva tenuto a bada lei il diavolo di fuoco fin tanto che era rimasta nella ridente Cowain, eppure a un certo punto era scomparsa, senza dare alcun genere di spiegazioni. E naturalmente nessuno ne conosceva l’indirizzo né alcun altro tipo di recapito. Dunque giustamente Xalandra non aveva idea di che pesci prendere (curioso per una che veniva da un borgo la cui gran parte degli abitanti erano pescatori), e allora si era rivolta al più vicino Lord comandante di un esercito organizzato, il quale guarda caso era pure uno che si era portata a letto.
                Gino ricordava ancora bene quella creatura, la rivedeva tutte le volte che si guardava allo specchio e osservava una benda di – per quanto raffinata – pezza, al posto del brillante occhio castano che una volta aveva avuto. Ricordava il suo enorme potere e il dannato caldo dell’aria che aveva attorno. Ricordava quel suo sorriso malefico stampato in una bocca di denti scoperti, mentre con il suo spadone nero a due mani annientava i nemici a dozzine, e altri ne carbonizzava scagliando vampate di fuoco dal palmo delle mani. Quella creatura era ancora viva e in salute, e anzi si stava persino rimettendo. Era vicina, molto più vicina di quanto il giovane Protettore dell’Altopiano avesse mai potuto sperare che non accadesse. Gino era confuso a questo punto, e anche lui come Xalandra si trovava nella fastidiosa situazione di non poter darsela a gambe, di dover per forza affrontare il problema senza esitazioni, e di non avere la più pallida idea di come farlo. Decise che voleva vedere da sé la situazione. Che sarebbe partito subito per il sud, senza neanche pranzare. Tuttavia, decise anche di girare la missiva a Roccia del Re. «All’unico che possa avere una qualche idea sul dafarsi» sancì Gino, rivolto a Rollo, il quale si sarebbe subito messo in moto per la gabbia dei corvi. Rollo domandò: «Il re, mio signore?»
                «No» rispose Gino «Il Maestro dei Sussurri».
 
 
 
                Con fratello Trenton Hammerhead, Brendan raggiunse un grande edificio circolare di solida pietra. Un edificio che da fuori dava tutta l’impressione di essere un luogo di preghiera, e non preghiera per pochi: un luogo da grandi cerimonie religiose. Tuttavia, Brendan, una volta dentro, non vide mai l’area di quell’edificio che fosse adibita a quello che si era immaginato. Vide lunghi e stretti corridoi e un’infinità di scale da scendere e da salire, al termine dei quali finalmente raggiunse l’ufficio dell’uomo che doveva giudicarlo, fratello Patchett. All’inizio, osservandolo da dietro, nel bel mezzo della preghiera, Brendan non poté non constatare che l’anziano confratello fosse un pingue ometto, basso quasi quanto lui. Quando tuttavia si voltò, vide in Patchett un’espressione di estrema serietà, dietro a un paio di foltissime sopracciglia quasi unite nel mezzo della fronte e a un paio d’occhi cisposi.
                Fratello Hammerhead ricordò a Patchett la ragione per cui lo stava disturbando e Patchett gli disse che naturalmente non c’era bisogno. Per un primo momento, esaminò il gracile ragazzetto dalla punta dei capelli arancioni sino a quella delle scarpe, senza dire una parola. Fu allora che Brendan si aspettò delle domande: sulla fede in generale e su quella sua personale, sul perché fosse lì, sul perché desiderasse entrare a far parte dei confratelli, sul cosa pensasse di questa o quell’altra questione teologica. Invece Patchett si rivolse a Hammerhead cambiando argomento, e deludendo profondamente il giovane novizio.
                Il fratello anziano comunicò a quello più giovane che, anche se aveva detto che avrebbe esaminato Brendan quella mattina, in realtà era sopraggiunto un altro più gravoso impegno comandatogli direttamente dall’Alto Septon. Doveva scegliere altri tre confratelli e, insieme a loro, recarsi a parlare con un nuovo predicatore che di quei tempi stava animando la vita della plebe della città. Ne erano sorti tanti nella storia di Roccia del Re, aveva continuato a sostenere Patchett, e di tanto in tanto rispuntavano, specie nei momenti di maggiore tensione sociale: quando c’erano state guerre, che avevano portato crisi economiche e monetarie, e dunque licenziamenti, disoccupazione e aumento delle tasse, e poi crisi degli approvvigionamenti, e dunque carestie e malattie di varia natura. Tutto quello stava vivendo la povera gente di Roccia del Re in quel momento: erano disperati e sempre più ignoranti e bisognosi di qualcosa di nuovo in cui credere, o qualcuno. Ecco dunque che rispuntavano soggetti di questa natura, abili nei sotterfugi e nei giochi di magia, molto spesso volgari e violenti nel modo di parlare, ma dannatamente esperti nell’arte della conquista del volgo, fino addirittura talvolta a portarlo alla sommossa, con tutte le conseguenze del caso: la morte di quelli contro cui il volgo stesso si rivoltasse, oppure quella dei rivoltosi. In ogni caso, individui di questo genere normalmente portavano allo spargimento di sangue e l’Alto Septon intendeva impedire con ogni mezzo tale situazione. Tuttavia per prima cosa bisognava conoscere il nuovo nemico e vedere se costui fosse già passato alla conclusione di mandare il popolo al macello, oppure se ci fosse ancora la possibilità non tanto di convincerlo quanto di comprarlo.
                La bella notizia fu che Patchett, oltre ad altri due confratelli di a quanto pare maggiore esperienza, scelse come terzo suo accompagnatore proprio Hammerhead e disse a Hammerhead che se voleva poteva portare il suo novizio, a patto che rimanesse tranquillo e in silenzio. Dunque la mattinata non era sprecata: Trenton chiese a Brendan se se la sentisse di partecipare a quella specie di riunione col nemico, e lui – come già detto, già di per suo molto curioso e appassionato – non perse tempo e subito acconsentì. Anzi, fu lui a pregare fratello Trenton di portarlo con sé, cosa che – alla presenza di Patchett – Trenton non si sentì di rifiutare. Fu così che, dopo neanche troppo tempo, la compagnia partì per il covo di questo sedicente predicatore. Dovettero solo aspettare l’arrivo degli altri due confratelli, l’uno dal presbiterio e l’altro dalla biblioteca, poi si diressero ancora una volta per le vie della Capitale.
                Quel luogo a Brendan piaceva. Probabilmente sul suo giudizio pesava anche parecchio il fatto che non avesse mai visto luoghi del genere in vita sua, e dunque ogni cosa nuova gli pareva enorme e splendente. Vero: passando per certe strade, attraversando certi quartieri, di tanto in tanto si sentivano certi odori sgradevoli, ma essi facevano parte della bellezza di quel contesto. Valevano il prezzo degli enormi edifici dalle mille e mille statue e colonne, delle immani strade e piazze dalle mille forme diverse, della massa eterogenea di individui dai mille volti, e mille abiti, e mille occupazioni, e mille direzioni. Cosa valevano rispetto a tutto questo qualche vicolo olezzante di piscio e qualche bancarella con un po’ di pesce avariato?
                Il luogo dove risiedeva il capopopolo del momento, a quanto pareva, era ben conosciuto a tutti: Hammerhead, Patchett e gli altri due confratelli compresi. Ma questo non significava che esso fosse facilmente agibile visto che, prima di arrivarci, fu necessario passare per una ressa di uomini, donne e bambini dall’aspetto un po’ pietoso per le loro condizioni di fame e malattia, ma un po’ minaccioso per i loro sguardi di collera nei confronti degli uomini del clero che stavano invadendo la loro casa. Li osservavano un po’ come un branco di cani randagi e affamati avrebbe guardato un gruppetto di grossi polli da spiedo. Erano primariamente affamati e lo erano talmente tanto che Brendan avrebbe detto che si sarebbero mangiati pure loro, con tutti i loro sai di corda e i loro gioielli, pur di soddisfare quella loro pressante esigenza. Ecco quella probabilmente si rivelò la prima vera esperienza di Roccia del Re che non gli risultò affatto gradevole. Ma passò in fretta nel momento in cui, dopo un aggrovigliato nodo di vicoli tutti comunicanti tra loro e tutti uguali, finalmente fu indicato al gruppo di confratelli della religione dei Sette di varcare una certa soglia, coperta esclusivamente da una tenda.
                Quello che seguì fu decisamente inquietante. Primaditutto, a Brendan come probabilmente a nessun altro della squadra diplomatica, non passò inosservato che, prima che loro entrassero in quel luogo, c’era solo una sottile tenda a indicare la soglia, mentre alle loro spalle, e dietro la tenda, si chiuse invece una spessa porta di massiccio legno. Il secondo elemento fu il buio: dovunque si trovassero, erano difatti chiusi in una stanza completamente senza luce. Brendan, come gli altri, annaspò con le mani avanti e concluse di trovarsi come in uno stretto corridoio con al suo davanti una specie di ringhiera. I loro passi procuravano un suono metallico: forse c’era una ringhiera anche sotto di loro e non solo davanti. Da qualche parte, in basso, si accese dunque un fuoco e, anche se ancora la camera non venne illuminata nel suo completo, le ipotesi del giovane novizio vennero confermate. La questione curiosa era che data la porticina nel vicolo per la quale erano entrati, Brendan si sarebbe aspettato davanti a sé una piccola camera o al massimo uno stretto corridoio. Invece si trovava in un edificio piuttosto curioso: loro erano al primo piano, mentre la camera si estendeva verso il basso come in una specie di palcoscenico di cui loro erano gli spettatori. Era ampia, dunque, e tutt’attorno a loro si poteva ben percepire il tipico frusciare di una folla che borbotta sottovoce, come un paiolo gorgogliante. Osservando meglio, Brendan riuscì perfino a distinguere qualcuno verso l’estremità della sala. Forse perfino molti individui, solo che costoro non erano alla luce. Erano anche loro spettatori, spettatori alla stessa altezza del teatrante che di sicuro da un momento all’altro sarebbe apparso nell’area illuminata dalle grandi torce.
                «Fratelli e sorelle» declamò a un certo punto una voce dall’ombra «Possa il Signore rendere grazia a ciascuno di noi. Per mano e modo del suo figlio che ora vi presento: Yashua!». Il brusio si fece più animato. Brendan udì perfino fratello Patchett sussurrare a uno dei due confratelli che non gli erano stati presentati: «Figlio di un dio?», e l’altro convenire: «Quale pacchiana blasfemia!».
                Il giovane novizio di Banefort fece appena in tempo ad accorgersi di come lui e gli altri confratelli si trovassero in una specie di gabbia, visto che alle spalle erano stati chiusi, che davanti avevano un’alta ringhiera e che di sotto, così come aveva già avuto modo di ipotizzare quando la luce non c’era, si trovava come una specie di griglia. La loro non era affatto la tribuna d’onore di quel teatrino, nonostante si trovasse collocata là dove normalmente una tribuna d’onore si colloca. La loro era una cella di metallo. Brendan fece solo in tempo a notare tutto ciò, e a preoccuparsi relativamente, quando questo Yashua venne fuori andandosi a sistemare esattamente dove le regole della messinscena dettavano: presso l’area più illuminata.
                Era giovane, molto più di come Brendan se lo fosse immaginato: se aveva davvero qualcosa come trent’anni d’età, li portava decisamente bene. Aveva una lunga barba e dei lunghi capelli castani, ed era vestito poveramente come la gran parte dei suoi seguaci. Come loro, era smunto e apparentemente alla fame. Ma diversamente da loro, i suoi occhi brillavano di tutta la luce della passione e del carisma. Non facevano trasparire certo gaiezza, ma una profonda consapevolezza di sé, tutto il contrario dello stato di confusione che normalmente albergava nei poveracci di Roccia del Re.
                Subito Yashua guardò verso di loro, alla “tribuna d’onore”, e subito parlò: «Ma… c’è un bambino lì con voi… che ci fa lì un bambino?»
                «Non sono un bambino!» proclamò Brendan, subito contravvenendo al comando che gli era stato dato, ovvero quello di star zitto. Solo che quando gli era stato impartito quell’ordine, nessuno aveva contemplato l’idea che lui venisse direttamente interpellato, e invece così fu. Il ragazzo se la sentì di specificare: «Io ho quindici anni!»
                «Beh, sei molto minuto, ragazzo» constatò Yashua «Ne sei proprio sicuro?»
                «Sì, signore. Decisamente, signore»
                «Bah: sei troppo piccolo lo stesso. Vieni: ti voglio qui!»
                «Mio signore!» lo interruppe fratello Patchett «Pensavamo di esser venuti qui a conversare su squisite questioni teologiche che concernono la nostra benedetta dottrina! Che cos’è questa mascherata?»
                «Oh, converseremo, fratello septon: sicuro» fece Yashua, con tono molto dolce a dire il vero, «Ma prima… vorreste farmi compagnia quaggiù figliolo? Davvero: mi sento solo. Non vi verrà torto alcun capello, lo giuro sul dio che è mio padre, e voi sapete che io non mentirei mai dopo un simile giuramento, vero confratelli?»
                «Vero! Non lo farebbe mai!» confermò un uomo dal fondo. E poi una donna: «Se Yashua promette, Yashua mantiene!»
                «Diversamente dai tuoi confratelli…» insistette il predicatore «Tu sei talmente minuto da riuscire a passare attraverso quell’inferriata, dico bene? Aiutatelo, fratelli!». E mentre alcuni fra i più alti discepoli di Yashua si affrettarono ad allungare le loro braccia verso la tribuna d’onore arrugginita, Brendan lanciò un’occhiata verso Trenton, il quale gli fece cenno di poter assecondare l’ambigua richiesta del giovane capopopolo. Brendan dal canto suo non trovò altro da fare, e dunque si approssimò ad assecondarla anche lui.
                «Miei signori septon dei Sette Dèi: conversiamo» proclamò dunque Yashua, e Brendan, da accanto a lui, mentre veniva trattenuto dalle stesse mani del predicatore, non poté non osservare un sinistro bagliore provenire dal suo sguardo. Yashua continuò: «Siete venuti a dirmi che voi custodite la verità e io sono un eretico e i miei seguaci dei fanatici? Miei signori, sono tutte cose che sapevamo già» rise, beffardo. Patchett invece gli rispose serissimo: «State scherzando col fuoco, signore, sappiatelo! I Sette Dèi sono sempre pietosi, ma gli uomini che li servono possono non esserlo…»
                «Sto scherzando… col fuoco, dite?» rise ancora Yashua, quasi in imbarazzo. Fu Patchett a continuare: «Speravamo di poter avere almeno un confronto alla pari. Da soli. E invece voi ci state trascinando in qualcosa che non può in alcun modo essere costruttivo»
                «Ah, no? Avete qualcosa da nascondere, mio septon? Non sono forse questi vostri fratelli e sorelle e figli, come lo sono a me? Temete voi forse l’opinione degli uomini e le donne che in virtù del vostro potere pretendete di guidare?»
                «Basta così!» si alterò un altro septon, ma Brendan non poté non notare con delusione lo sguardo perduto degli uomini che avrebbero dovuto essere i suoi mentori. «Fate in modo che tutta questa gente lasci la sala almeno, o altrimenti non abbiamo più nulla di cui parlare. Siamo già stati troppo caritatevoli a scendere nella tana di un eretico bastardo»
                «Oh! Eretico bastardo. Ora sì che vi riconosco, signori. Perché voi questo siete. Cani. Cani nutriti per troppo tempo al desco del padrone, e che ora che neanche il padrone non ha più ossa da buttargli, ringhiano e uggiolano con tutto lo squallore che li contraddistingue. Di’, figliolo» fece dunque Yashua, rivolgendosi adesso direttamente a Brendan, «Sei proprio sicuro di voler consacrarti con uomini del genere?». Non attese una risposta: non gl’importava. Quella era pur sempre una recita, e lui era il mattatore. Si rivolse alla folla scalpitante: «Miei fratelli e sorelle voi sapete bene che io non sono come questi uomini. Conoscete bene loro e conoscete bene me. Voi per anni avete ascoltato le tronfie e vuote declamazioni di individui di questo genere, e che cosa vi hanno lasciato? Quali sono i miracoli cui avete assistito da quando loro si sono accaparrati l’onore di potersi chiamare predicatori di questa somma città? Voi invece avete veduto me! E avete visto le cose che il Padre ha deciso che voi vedeste! Non avete atteso anni e anni. I miracoli sono qui, davanti a tutti noi!»
                «Inganni!» esclamò con rabbia uno dei septon che a Brendan non erano stati presentati. E fratello Trenton: «Puri trucchi da mercato rionale!»
                «Dissero coloro che non li hanno visti» rispose Yashua, osservandoli quasi con pietà, «Coloro che non hanno mai visto un miracolo in vita loro. Coloro che in vita loro non hanno mai veduto niente! Io ho veduto la vita che si cela dietro la morte. Ho visto il viale illuminato che piano si allunga verso le terre dell’aria e del cielo e che conduce gli uomini savi, e a me per primo stava conducendo, nella casa del giorno e delle fiamme benedette. Qualcuno di voi, fratelli, era là! Era già pronto con la vanga a seppellirmi in una fossa, quando d’improvviso ancora una volta le fiamme del Signore hanno preso la mia pelle e l’hanno rimessa insieme. Pezzo dopo pezzo io sono risorto! Mi sono rialzato! E sono tornato tra voi perché è tra voi che Dio mi vuole! Ora io vi domando, fratelli septon, rimettete le vostre colpe e finalmente vi inginocchiate davanti alla grazia del vero Dio? Siete venuti per pentirvi o per continuare a corrodere la vostra anima con il bieco puzzo della menzogna e dell’eresia?!»
                «Eretici?!» si adirò Patchett «Noi!?»
                «Eretici sì, ma non temete, fratelli. Io vi epurerò dalla vostra condizione di dannati. Solo vi chiedo: tornerete alla casa del Padre contriti in ginocchio come è giusto che sia? O marcerete in piedi, ancora convinti delle vostre malsane ragioni, sino a quando non sarà la fiamma della grazia di Dio a salire da voi dal centro della terra per condurvi in alto sottoforma di cenere e fiamme?». Il discorso era naturalmente delirante, e deliranti erano Yashua e tutti quegli individui lì accorsi a quel genere di sciarada. Brendan non avrebbe saputo cosa rispondere, e difatti nessuno dei suoi confratelli lo seppe. Si animarono solo nell’intenzione di lasciare la sala, accorgendosi solo ora di essere intrappolati in quella gabbia di ferro. Brendan osservò il panico impossessarsi delle loro membra, dopodiché vide Yashua dirigersi verso due grossi tubi apparentemente lasciati lì scoperti appositamente per una qualche sua speciale esigenza. Vi poggiò le mani e improvvisamente fece scaturire dai suoi palmi raggi di fuoco che entrarono nei tubi e si propagarono per tutta la sala fino alla griglia sistemata sotto ai piedi di fratello Trenton, fratello Patchett e degli altri due confratelli, septon dei Sette Dèi. Arsero quasi fin da subito, in preda a strazianti urla, mentre la folla gridava la sua approvazione, e Yashua sorrideva malignamente. Con le lacrime agli occhi, Brendan non seppe cosa pensare, non seppe neanche cosa fare. Si domandò se ci fosse una ragione per cui quel criminale avesse deciso di risparmiare a lui il servizio che aveva appena servito ai suoi confratelli; e nell’istante in cui pensò questa cosa, come se gli stesse leggendo nella mente, il mostruoso Yashua rivolse a lui la propria attenzione. E gli sorrise.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones / Vai alla pagina dell'autore: Rossini