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Autore: Itsamess    31/03/2017    4 recensioni

Il dolore gioca a nascondino con Jughead.
Certi giorni lo trova, altri no.
Lui si sa nascondere bene, dietro ad un portatile e una corazza di sarcasmo, eppure non si può scappare a lungo da qualcosa che si porta dentro. È un correre a vuoto. Jughead lo ha imparato a proprie spese. A volte gli sembra ancora di sentire la voce di Jellybean in giro per casa, se non fosse che sua sorella è lontana chilometri e “casa” è una branda clandestina nascosta in un Drive-in.
Ma se il dolore va e viene ad ondate, Betty è la bassa marea
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un saluto a chiunque stia leggendo e il solito disclaimer: Betty e Jughead non mi appartengono, altrimenti soffrirebbero molto di meno. Il titolo e la citazione iniziale sono tratti da Heal di Tom Odell. Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate :)





Like an empty bottle takes the rain

 
 
Take my mind and take my pain
Like an empty bottle takes the rain
And heal, heal, heal, heal
And tell me something last
 
 
 
Il dolore gioca a nascondino con Jughead.
Certi giorni lo trova, altri no.
 
Lui si sa nascondere bene, dietro ad un portatile e una corazza di sarcasmo, eppure non si può scappare a lungo da qualcosa che si porta dentro. È un correre a vuoto. Jughead lo ha imparato a proprie spese. A volte gli sembra ancora di sentire la voce di Jellybean in giro per casa, se non fosse che sua sorella è lontana chilometri e “casa” è una branda clandestina nascosta in un Drive-in.
 
Il dolore non è costante.
Jughead non potrebbe sopportarlo, altrimenti.
 
Gli lascia giorni di tregua, giorni in cui Jughead si veste, va a scuola e cerca di comportarsi come un qualsiasi altro ragazzo della sua età. Altri giorni, invece, il dolore gli opprime il petto con una tale forza da non lasciarlo quasi respirare e l'unica cosa che impedisce a Jughead di crollare è la certezza che, se lo facesse, non ci sarebbe nessuno a raccogliere i pezzi.
 
Il dolore va e viene a ondate.
Prende tutto ciò che c'è di buono nella vita di Jughead e lo trascina via, con l'ostinata crudeltà di un'onda che distrugge un castello di sabbia costruito sulla battigia. Lo spinge a litigare con l'unico amico che gli è rimasto e lo spinge a sedersi da solo, si tratti della mensa o del laboratorio di chimica, perché il suo dolore non possa infettare anche gli altri.
 
Ma se il dolore va e viene a ondate, Betty è la bassa marea.
 
«Potremmo andarcene via» mormora una notte, distesa accanto a lui su un letto evidentemente troppo stretto per entrambi. La luce è spenta – i vicini potrebbero insospettirsi a vederla accesa a quell'ora della notte – e Jughead non può vedere la sua espressione, ma nella voce di Betty riesce comunque a avvertire una vena di disillusa malinconia, come se lei fosse la prima a non credere alle proprie parole. «Andarcene da Riverdale per sempre e lasciarci tutto questo alle spalle»
 
«Sarebbe un'idea» mormora Jughead, continuando a guardare il soffitto della camera di Betty, ricoperto da stelline fosforescenti.
È una camera da bambina, tutta rosa e immacolata. C'è un armadio color crema e un tappetto a motivi floreali. Alle finestre ci sono le tende stirare, alle pareti fotografie incorniciate. E dentro alle fotografie, persone che sorridono.
Jughead si chiede cosa ci faccia una come lei con uno come lui.
 
«Potrei trovare un lavoro come cameriera e intanto fare la freelance per qualche testata giornalistica online, mentre tu avresti finalmente il tempo di dedicarti al tuo romanzo.… » prosegue Betty, con il tono dolce e calmo con cui si raccontano le fiabe della buonanotte «Potremmo affittare un monolocale in periferia, quanto vuoi che costi? Per la caparra chiederemmo un prestito e per l'affitto troveremmo il modo di arrangiarci...»
 
Restano entrambi in silenzio per un tempo indefinito e poi Betty mormora: «Non funzionerebbe mai, vero?»
 
«No, mai» risponde Jughead sinceramente, perché tanto a cosa servirebbe mentirle? E anche se in qualche modo riuscissero ad andarsene da Riverdale, quella città rimarrebbe loro addosso, come una ragnatela o una maledizione. Però è stato bello pensarci, anche solo per un attimo.
 
Il braccio di Betty è parallelo a quello di Jughead, le loro mani dorso contro dorso. La ragazza muove lentamente le dita piegandole il più possibile all'indietro, fino a sfiorare quelle dell'altro.
 
«Non sei venuto a scuola oggi»
 
«E se n'è accorto qualcuno?» ribatte Jughead.
Ha un tono un po' più aspro di quanto pensasse, Betty non se lo merita.
 
«Io me ne sono accorta» risponde lei, accigliandosi «E Archie. Noi non-»
Betty prende un profondo respiro, pesando le parole una ad una e voltandosi a guardarlo: «Jug... Non devi dirmi per forza dove sei stato, o cosa hai fatto… voglio solo sapere se stai bene. Solo questo»
 
Lui annuisce impercettibilmente e questo a Betty sembra bastare, perché mormora semplicemente «Ok» e stringendogli la mano torna a guardare in su.
 
Questo è quello che ama di lei.
Betty evita le domande dirette e accetta Jug per quello che è, ascoltando i suoi silenzi come fossero canzoni e dipingendo di giallo i muri che lui alza fra sé e il mondo. Non gli ha mai chiesto dove dormisse prima che gli Andrews gli offrissero il privilegio di un materasso gonfiabile, non ha mai commentato il fatto che Jughead fosse sempre il primo ad essere in classe, lui che amava denigrare il liceo di Riverdale come provinciale e di strette vedute.
Jughead non le ha mai raccontato delle notti al Drive-In né del ripostiglio dei bidelli. Betty non ha mai domandato.
 
«Ieri ho sentito Polly» annuncia Betty ad un certo punto e Jug è lieto che si sia cambiato argomento, perché non è il solo a Riverdale ad avere la vita incasinata. «Volevo sapere come se la stava cavando, con il bambino in arrivo e tutto il resto… Sai, fra i Cooper e i Lodge non è mai corso buon sangue e Hermione Logde non è esattamente miss Simpatia, quindi ero pronta ad intervenire per trovarle un'altra sistemazione-»
 
«E invece?»
 
«E invece l'ho sentita… felice, possibile?»
 
«Chi lo avrebbe mai detto? Si può essere felici a Riverdale!» declama teatralmente Jug, mentre si tormenta con le dita l'orlo della felpa «Potrei intitolare così il mio romanzo. Certo, dovrei tagliarne qualche pezzetto, tipo il capitolo sull'omicidio, i tredici successivi, la sotto-trama della sordida relazione fra uno studente e una professoressa, tutti i vari scheletri nell'armadio, gli scheletri dietro di essi, e tutti quegli accenni qua e là a effrazioni, furti con scasso e incendi dolosi-»
 
«Jug»
 
«Sì, Betty?» risponde lui, voltandosi a guardarla: la ragazza ha il gomito appoggiato al cuscino e lo guarda da sotto le sue lunghe ciglia con uno sguardo ingenuo e allo stesso tempo deciso che hanno le protagoniste dei film di Hitchcock.
 
«Il tuo è un romanzo di fantasia, vero? La realtà non è così male»
 
È anche peggio vorrebbe risponderle lui, ma gli basta guardarla per capire che Betty ha bisogno di credere che le cose miglioreranno, anche quando non lo faranno, perché Betty indossa l'aria da dura con lo stesso disarmante candore con cui porta i cerchietti. Può anche divertirsi a fare la detective e organizzare vendette contro i giocatori della squadra di football, ma resta il tipo di ragazza che si commuove guardando Forrest Gump, ordina milkshake alla vaniglia e ogni sera torna a casa a scrivere sul suo diario segreto in una stanza che ha il soffitto trapunto di stelle fosforescenti.
Di nuovo, Jug si chiede cosa abbia fatto per meritarla.
Probabilmente nulla.
 
«Queste le ha attaccate Polly?»
 
«Le stelle dici?» chiede lei indicando distrattamente il soffitto. Le braccia si stagliano nel buio come rami di una foresta vista di notte «Sì, erano un'idea sua…  indovina, da piccola voleva diventare un'astronauta! Ma del resto, tutti i bambini vogliono diventare degli astronauti, no?»
 
Jughead in realtà non ha mai pensato veramente a cosa sarebbe voluto diventare, neanche da bambino. È abituato a vivere giorno per giorno, senza chiedersi troppo cosa mangerà la sera successiva o dove dormirà quando la sua sistemazione temporanea verrà scoperta.
Quelli come lui cadono sempre in piedi perché non possono fare altrimenti.
«E tu, invece? Hai sempre voluto fare la giornalista?»
 
Quella domanda deve coglierla di sorpresa, perché Betty non risponde subito. Rimane in silenzio per un tempo insolitamente lungo, tanto che Jug quasi pensa che si sia addormentata – è già successo – e invece ci sta solo pensando. Apre e richiude bocca più volte e poi alla fine ammette: «In realtà da bambina volevo fare la principessa»
 
Jughead scoppia a ridere.
Betty aveva quasi dimenticato che bella risata avesse.
 
«La…principessa
 
«Sì... Non prendermi in giro!» esclama lei, tirandogli giocosamente una piccola gomitata «Era il mio più grande sogno! Avevo cinque anni e una cameretta tutta rosa-»
 
«La tua camera è ancora rosa» le fa notare lui
 
«È vero» risponde Betty, sollevandosi sui gomiti per guardarsi intorno «Ma i miei sogni sono cambiati. Non è questo che fanno, i sogni? O si avverano, o cambiano»
 
Betty non può fare a meno di pensare alla notte del ballo studentesco, ad Archie che balla piano con le mani strette sulla sua vita ma che non riesce a dirle ti amo anch'io.  Al ricordo avverte una punta di dolore in mezzo al petto – sa fin troppo bene che un rimpianto ferisce più di un rimorso – ma se apre gli occhi è già Aprile e c'è Juggy accanto a lei.
 
E sembra così giusto, almeno adesso, che sia lui quello sdraiato sul suo letto, e nessun altro. Betty gira la testa per guardarlo. Deve sbattere le palpebre per mettere a fuoco il suo profilo irregolare, tutto curve e spigoli e i ciuffi di capelli che gli spuntano dal berretto. Rimanendo sdraiata, si protende appena verso di lui, annullando la breve distanza che li separa. Gli accarezza la guancia con la mano e poi poggia le labbra sulle sue.
 
Sono baci lenti, leggeri, incerti. Jughead non è sicuro di cosa debba fare e decide di lasciare che sia Betty a guidarlo, lei di sicuro ha più esperienza. Per adesso non si sente a disagio. I baci vanno bene. Sono piacevoli. Le labbra di Betty sono morbide e sanno di vaniglia, come il suo milkshake preferito, o almeno quello che ordina sempre da Pop's. Forse la sua bocca ha questo sapore proprio perché Betty beve continuamente milkshakes. Jug ricorda di aver letto da qualche parte che il colore dei fenicotteri è dovuto al fatto che loro alimentazione sia esclusivamente a base di gamberetti. Jug non sa se sia normale pensare a questo genere di cose mentre si bacia una ragazza, ma la verità è che è la prima volta e non sa un sacco di cose: non sa come muovere le labbra, non sa quando respirare, non sa se tenere gli occhi chiusi anche fra un bacio e l'altro. E non sa se è a questo punto che dovrebbe sentire qualcosa, perché lui non sente niente. Niente di fisico. Ecco, se c'è una cosa che Jughead sa con certezza è che per Betty prova un legame emotivo, ma nessuna attrazione. Non che lei non sia carina. Ha i capelli biondi e gli occhi chiari e ai ragazzi piacciono queste caratteristiche, no? Però Jug, quando la guarda, non pensa che sia attraente. Pensa che il colore dei suoi occhi sia simile a quello delle foglie di ficus e che i suoi lineamenti siano piacevolmente simmetrici. Proporzioni, rapporti, schemi cromatici: Jug la trova bella come può essere bella una canzone o la facciata di un edificio. Non desidera stringerla, se non per farle sapere che è lì con lei. Non desidera baciarla, se non per rendere felice lei e fino a quando i baci restano leggeri non gli da fastidio.
 
«Jug» geme lei contro le sue labbra, provando a passare le dita nei capelli di lui, come sempre nascosti sotto al beanie di lana grigia.
 
«Dimmi»
Forse non è la risposta più romantica del mondo, ma Jug è fatto così.
 
«Il berretto non te lo togli mai?» gli sussurra all'orecchio, con una sfumatura di impazienza nella voce.
 
Jug riesce quasi a sentire il battito del suo cuore correre all'impazzata, mentre il suo resta calmo e costante: «Non se posso evitarlo»
 
«Stavolta non puoi» ride piano la ragazza, facendo come per toglierglielo.
 
«No Betty, dico sul serio»
Jug le blocca il polso con fermezza, ma senza farle male.
«Non lo tolgo mai»
 
Uno bagliore di comprensione accende per un attimo lo sguardo di Betty e la ragazza allenta un poco la presa: non vuole forzarlo a fare nulla che lui non voglia, perché finirebbe solo per allontanarlo e Jughead ha già messo abbastanza distanza fra sé e il resto del mondo. Sta per lasciar perdere tutta la faccenda quando, inaspettatamente, Jug le lascia libero il polso e annuisce quasi impercettibilmente.
 
Betty gli sfila il beanie dolcemente, con un mezzo sorriso di incoraggiamento e gli occhi che le brillano di curiosità, ma la sua espressione cambia nell'attimo in cui vede cosa stava coprendo il berretto.
 
Una cicatrice di svariati centimetri di lunghezza, visibile anche nella penombra.
I capelli, neri e mossi, sono un po' più radi, tutto intorno.
 
«Oh»
Si lascia sfuggire solo questo gemito di sorpresa, ma non fa nessuna domanda, quando Jughead sa che invece muore dalla voglia di sapere, perché del resto è un'aspirante giornalista e i misteri la affascinano.
 
«Incidente domestico» mormora lui continuando a guardare il soffitto. La voce non gli trema, anche se è la prima volta che ne parla. «O almeno così abbiamo dichiarato in ospedale. Meno domande. Niente polizia»
 
«E invece… non era un incidente?»
 
«No, se non consideri accidentale ricevere una bottiglia in testa da un padre troppo fatto per accorgersene» risponde il ragazzo in tono amaro «Avevo nove anni»
 
Rimangono entrambi in silenzio, poi Betty gli sfiora il braccio, esitante.
«Grazie di avermelo detto»
 
Lui scrolla le spalle. Non sa nemmeno se lo ha fatto per lei o per se stesso: per togliersi quel peso – un segreto in meno da tenere – e per provare, per una volta, ad essere completamente sincero con qualcuno.
 
«Ora posso riavere il beanie?» brontola mentre tenta di voltarsi dall'altro lato del letto.
 
«Aspetta»
Betty posa le proprie labbra sulla testa di Jug nel punto in cui si trova la vecchia cicatrice, come se potesse guarirla semplicemente così, con un bacio appena accennato.
 
Lui sospira, con stanchezza e abbandono, e chiude gli occhi.
 
Betty rialza la testa e gli porge il beanie.
«Ora sì»
 


 
  
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