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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Questa tregua è una beffa!” inveì Giampaolo Baglioni, togliendosi l'elmo e gettandolo in terra con rabbia, digrignando i denti e sporgendo in fuori il mento pronunciato.

I suoi occhi, che parevano privi di ciglia per quanto erano corte, restavano puntate verso Virginio Orsini, mentre cominciava a sciogliere i primi laccetti dell'armatura, scacciando con le grosse mani quelle nervose e tremule del suo povero attendente, che cercava invano di aiutarlo.

L'assedio a Gualdo Cattaneo, dopo un paio di assalti a dir poco tiepidi, comandati personalmente da Virginio, si era concluso di comune accordo tra assediati e assedianti, in barba alle proteste dei due Baglioni che si erano prodigati per una vittoria schiacciante.

“Non avete più la fibra di una volta, Orsini...” fece deluso Astorre Baglioni, appena più calmo del consanguineo, afferrando la borraccia che il suo scudiero gli stava offrendo: “Una volta non avreste accettato una tregua. Sareste morto sul campo, pur di non cedere!”

Virginio tossì un paio di volte, bevve lunghe sorsata d'acqua e poi si passò lo straccio sul collo, cercando di togliere un po' di sporco della battaglia.

Era vero, quello dicevano di lui, ma era altrettanto vero che quella volta l'Orsini aveva agito con più cognizione di causa di quelli che lo stavano accusando.

Il loro campo stava già preparando le operazioni di smantellamento e i comandanti, com'era da aspettarsi, si erano subito riversati nel suo padiglione per prenderlo a male parole.

Era stato lui, in fondo, a parlamentare con i nemici. Lui ad accettare la resa. Lui a decidere che la battaglia doveva finire lì e in quel modo. Lui a prendere una posizione a nome di tutti quanti. Si meritava qualche tirata d'orecchia.

Tuttavia Virginio non ne era pentito. Se aveva agito a quel modo, lo aveva fatto perché aveva ottimi motivi.

Prima di tutto, c'erano i soldi dei folignati, che lo avevano ben retribuito affinché fingesse solamente di impegnarsi in quell'assedio. Era sempre un uomo in vendita, e, per quanto da giovane faticasse ad accettare la sua condizione, con gli anni era sceso a patti con la propria coscienza e aveva imparato a ragionare esclusivamente in termini di guadagni e compensi. Dunque non c'era da stupirsi – né da rimproverarlo – se aveva preferito un incasso sicuro e ingente da parte dei potenti di Foligno, piuttosto che la vana speranza di strappare al nipote o a chi per esso altrettanto oro.

In secondo luogo, c'era la totale e abissale mancanza di fiducia di Virginio nei confronti di Piero Medici. Prima poteva dire di non conoscerlo abbastanza bene da dare un giudizio su di lui, ma da quando lo aveva incontrato a Siena, la sua opinione si era fatta drastica e immutabile. Il Fatuo era di nome e di fatto un inetto e restaurarlo, incentrando una Signoria su di lui, creando una Firenze a suo uso e consumo era quanto meno da irresponsabili. E Virginio, non senza un certo orgoglio, sentiva di potersi definire un uomo dallo spiccato senso di responsabilità, suprattutto a riguardo di se stesso e del bene della propria famiglia.

Era un mercenario, ma aveva anche un cervello. E una città come Firenze non era da lasciare nelle mani di un simile bamboccio.

Se avesse condotto quella campagna nel modo giusto, se fosse riuscito a convincere anche la Sforza della validità di quell'azione militare, di certo Piero sarebbe stato il nuovo padrone non solo di Firenze, ma della Toscana intera. A quel punto il Fatuo altro non sarebbe riuscito a fare se non rendersi ridicolo e perdere tutto quello che i suoi parenti avevano riconquistato per lui e allora a che sarebbe valso lo sforzo di Virginio, se non a precipitare il suo nome e quello dei suoi congiunti nella più abissale vergogna?

“Non avremmo mai potuto vincere...” soffiò Virginio, sedendosi sullo sgabello con un tonfo: “E se credete il contrario – provocò i due Baglioni, mentre i suoi occhi azzurri si accendevano della vecchia fiamma che li aveva animati di continuo negli anni più ruggenti della sua prima sconsiderata gioventù – nulla vi impedisce di radunare gli uomini e ricominciare a scalare le mura della città senza di me!”

Astorre e Giampaolo si scambiarono un'occhiata eloquente e ricominciarono a togliersi l'armatura senza dire altro.

L'Orsini tenne le sue iridi lucenti puntate su di loro ancora per qualche istante, come ad accertarsi che non si facessero venire strane idee.

Quando fu certo di averli convinti, ritornò a concentrarsi su se stesso e si trovò dolorante come non poco. Le botte che aveva preso nello scontro, benché tutte abbastanza lievi e non pericolose, gli avevano ammaccato per bene le coste e ogni respiro un po' più profondo del normale lo faceva sussultare.

Lasciandosi cavare gli schinieri da uno degli scudieri, Virginio sbuffò e pensò tra sé a quanto sarebbe stato utile in quel momento avere al suo fianco la Tigre di Forlì, corredata di tutte le sue assurde pozioni. Di certo, in mezzo a quegli olii mefitici e agli intrugli maleodoranti ci sarebbe stato un ritrovato adatto ai suoi dolori da vecchio...

 

Il naso adunco di Savonarola saggiò l'aria chiusa del Duomo, mentre il suo indice inquisitore si posava a caso sulla folla: “Voi, voi che vi chiamate Arrabbiati!” e la sua voce rimbombò tra la folla per qualche istante, mentre in molti si guardavano le spalle, fissavano i vicini, abbassavano gli occhi, indecisi tra l'accusare il prossimo o temere di essere accusati in prima persona: “Voi! Proprio voi che vi credete migliori di me e di Santa Madre Chiesa e finanche del giudizio di Dio! Voi avete brigato con papa Alessandro VI, dicendo che io, il più umile dei servi di nostro Signore, desidero il potere...”

Girolamo Benivieni, che non aveva smesso un minuto di temere per la sua vita, da quando aveva promesso alla memoria del suo amato Giovanni Pico di preservarla il più possibile evitando stupidaggini, era in prima fila, in religioso ascolto.

Detestava il piglio del domenicano e non condivideva quasi mai nemmeno mezza parola tra quelle che uscivano dalla sue labbra secche. Eppure si fingeva rapito dalle sue idee e convinzioni e andava ripetendole a tutti quelli che incontrava.

Era diventato così convincente che in molti lo credevano amico intimo del frate. Certi lo credevano così addentro alla dottrina professata da Savonarola, da interrogarlo come se lui stesso fosse stato un predicatore.

E Girolamo rispondeva a ogni domanda, e lo faceva a tono, come se tutte quelle manfrine di teologia e di fine politica ecclesiastica lo interessassero davvero.

Se non fosse stato per l'amore mai sopito che ancora gli batteva nel cuore e che lo spingeva a non cercare la morte per fare cosa gradita all'uomo che gli aveva illuminato la vita, Benivieni di certo avrebbe chinato così facilmente il capo a quella professione di fede più simile a un capestro che non alla verità che ogni credente va cercando nelle parole di Dio.

“Mi avete fatto accusare di eresia, ma io vi dico che gli eretici siete voi, che rifiutate il messaggio di Dio! Mi avete accusato di essere arrogante e vile e avaro e avido! Ma tutti questi peccati mai mi hanno sfiorato, quando invece hanno imbevuto le vostre anime come l'inchiostro imbeve la stoffa per non lasciarla mai! Eretici siete voi! Voi, che vi discostate dal messaggio e dagli insegnamenti di Gesù Cristo!” sbottò Savonarola, agitando le braccia in modo tanto repentino che le larghe maniche del vestito domenicano lo fecero sembrare un pipistrello: “Quello che è stato fatto è orribile agli occhi di Dio! Screditare me per vili fini terreni! Solo per favorire il ritorno dell'esiliato, del miscredente, di Piero Medici! Lui vuole assoggetarvi alla sua tirannia, al suo mondo di dissolutezza, fatto di viscide tentazioni e infami richiami della carne! Quella che chiama arte, poesia, sapere, altro non sono che strumenti del demonio! E lui li userà per tenervi sotto il suo giogo e fare cosa sgradita a Dio!”

Benivieni deglutì, agitato. Sentiva ribollire la chiesa tutt'attorno a lui e aveva già capito il calibro delle parole di Savonarola.

Quel frate scarno e dal profilo aquilino non aveva alcuna intenzione di consegnare Firenze alla salvezza, anzi. Stava per incitare a una guerra. Pur di difendere se stesso, avrebbe messo a ferro e fuoco il mondo, dunque di certo non si sarebbe fermato dinnanzi alla ridicola prospettiva di precipitare una città nel baratro della guerra civile.

“E allora io vi dico, chi di voi ha cuore puro, si schiererà al mio fianco e al fianco di Dio e combatterà contro gli Arrabbiati, che hanno cercato di forviare Sua Santità con accuse infondate e imperdonabili!” il grido del frate venne accolto da un boato e in molti, soprattutto i Piagnoni più convinti, si lasciarono prendere dal momento di esaltazione e cominciarono a gridare minacce verso il partito degli Arrabbiati.

Cinque giorni dopo, il 16 ottobre, Alessandro VI, assolutamente non rassicurato, per non dire oltremodo terrorizzato, da quello che i suoi informatori fiorentini gli avevano fatto sapere in merito al clima incandescente di Firenze, redasse una Breve, con cui sospendeva tutte le accuse verso Savonarola, ordinandogli, però, di non fare più né orazioni, né predicazioni, né discorsi di alcun genere in pubblico, fino a nuova decisione.

Ben lungi dal farsi scoraggiare, il frate accettò di tacitare le sue labbra, ma non la sua anima.

Un giorno, appena dopo la pubblicazione della Breve, chiamò con solerzia a sé Girolamo Benivieni, che, malgrado le voci strane corse su di lui negli anni addietro, era ormai suo notorio sostenitore, nonché uomo d'intelletto.

“Devo scrivere un paio di cose di massima importanza – gli disse, appena lo ebbe ricevuto – e voglio l'aiuto vostro.”

 

Caterina firmò anche l'ultimo documento e poi ridiede il plico al suo cancelliere, affinché sbrigasse da solo le ultime pratiche.

Finalmente, dopo giorni d'attesa, Tommaso Feo le aveva recapitato l'elenco completo dei beni mobili e immobili sequestrati alle famiglie arrestate a Imola e così la Contessa aveva potuto ridefinire le redistribuzioni una volta per tutte.

Non aveva voluto lasciare nulla a nessuna famiglia nobile superstite, in modo da non andare a ingrassare nessuna bestia che un giorno avrebbe potuto, proprio in ragione di quell'aumentata ricchezza, trovare le forze per ribellarsi a lei, mordendo la stessa mano da cui aveva mangiato fino a poco prima.

In più concedendo terre, case, cavalli, mobilia, vestiti, monili e denaro a membri dei ceti meno abbienti, Caterina sperava di poter tamponare un po' il calo di popolarità che aveva subito, per quanto, essendo i suoi prigionieri pressoché tutti nobili o ricchi, il popolino fosse quello meno colpito dallo sciagurato fenomeno. Dispensare un po' di benessere e di proprietà sembrava comunque un buon modo per rallentare la morsa della paura.

Aveva lasciato quasi tutti i campi e il denaro sequestrato ai conventi, in particolare a quelli abitati dalle suore degli ordini più poveri, alle chiese, ai Battuti Neri, ad altre confraternite religiose, che avevano prestato il loro aiuto alla morte di Giacomo, e ai suoi servi.

Un lascito speciale era stato riservato a Francesco Tomasoli che, secondo molti testimoni, era stato uno dei due servi che erano tornati indietro, infischiandosene della propria incolumità, cercando di contrastare gli assassini di Giacomo.

Purtroppo dell'altro non si erano trovate più tracce e Caterina era pressoché certa che fosse scappato dalla città per paura di essere ingiustamente accusato.

Così dei due soli Tomasoli venne premiato.

Gli furono accordati la casa di Paolo Delle Pianelle, un grosso campo a San Giorgio, uno a Murano e la parrocchia di Santa Lucia per suo fratello, che era prete.

Anche l'Auditore, che aveva saputo dare man forte alla Contessa proprio negli attimi più concitati dopo la morte di Giacomo, ricevette un notevole premio per la sua indefessa fedeltà: tutti i possedimenti di Mangagnone.

Il cancelliere Cardella, dopo aver rapidamente controllato che tutti i dettagli formali dei documenti fossero stati rispettati, partì con solerzia, il blocco di fogli sotto al braccio, e Caterina chiese subito a Mongardini, che era stato chiamato alla sua presenza per discutere della coscrizione indetta di recente: “Allora, come stiamo andando? Potremo essere pronti per l'inizio di novembre oppure ci sono stati problemi?”

“Sta andando molto meglio del previsto.” rispose il Capitano, che aveva atteso pazientemente per quasi mezz'ora che la sua signora finisse di apporre firme e rileggere i fogli consegnati poi a Cardella: “Credo che già a fine mese potremmo essere operativi. Per l'inizio del mese prossimo lo saremo di sicuro. Arrivano senza problemi e, tranne un paio di incidenti, lo fanno anche con rapidità, non appena arriva l'avviso a casa. Direi proprio che l'ordine di far presentare almeno un membro per famiglia, abile, in salute e ben armato viene rispettato senza grossi problemi e quando scoprono a quanto ammonta la paga, molti di loro sono addirittura contenti.”

Caterina sospirò, mettendosi le mani in grembo. Ottobre stava avanzando e cominciava il freddo. I contadini, e non solo loro, cominciavano a temere un inverno rigido e difficile.

Non c'era da stupirsi, se la prospettiva di uno stipendio stabile e più che discreto venisse vista con tanta allegria.

Di certo in pochi avevano capito che quel dispiegamento di forze era il preludio a una nuova guerra.

La Contessa aveva imparato a conoscere il sentire comune del popolino. Quella coscrizione, senza l'ombra di minacce da fuori, non poteva che essere stata letta come un suo abile gioco di prestigio volto a creare posti di lavoro anche per quelli più in difficoltà. Ed era esattamente quello che Caterina sperava pensassero anche le eventuali spie straniere che risiedevano nel suo territorio e che, di sicuro, la stavano tenendo d'occhio come non mai.

Quando i nuovi soldati avessero scoperto la verità, allora sì che ci sarebbe stato bisogno di tenerli calmi e tranquilli, sperando di evitare ammutinamenti e rivolte.

Era anche vero, però, che i tempi erano maturi e, se la Leonessa voleva agire, doveva farlo prima della fine dell'anno.

Era da poco giunta a Forlì una doppia notizia molto interessante. Prima di tutto, le azioni iniziali della campagna di Virginio Orsini erano state a dir poco fallimentari – almeno dal punto di vista critico di Caterina – e dunque la Contessa si era subito sentita sciolta da ogni impegno nei suoi confronti, dato che il primo punto del loro accordo stava proprio nella riuscita dell'assedio di Gualdo Cattaneo.

In secondo luogo, il 10 ottobre, Ludovico Sforza aveva firmato a Vercelli la pace ufficiale con la Francia.

Questo disimpegno deciso prettamente da Carlo VIII, ritiratosi in patria con le piume bruciacchiate e il desiderio di ricostituirsi un esercito il prima possibile, aveva costretto il belligerante Duca d'Orléans a lasciare seduta stante Novara che, dopo settimane lunghissime di assedio, finalmente si era arresa, pagando il caro prezzo di circa seimila morti.

Francesco Gonzaga, a capo degli assedianti, era subito stato additato come il maggior responsabile di quella vittoria, ma Caterina immaginava, da quel poco che lo conosceva, che il Marchese non dovesse averla presa troppo bene. Non sembrava un uomo a cui piacesse prendersi meriti non suoi, come aveva dimostrato con il suo atteggiamento scontroso e mesto dopo la 'vittoria' a Fornovo, che l'aveva visto assurgere a ruolo di eroe liberatore delle italiche terre.

“Va bene – concluse la Contessa, congedando Mongardini dopo aver ascoltato i suoi ultimi aggiornamenti e avergli riferito qualche ordine in più – per ora non c'è altro, ma se incontrate Tiberti, Cicognani o Bezzi, anticipate loro che presto li vorrò vedere per discutere alcune cose.”

Il Capitano se ne andò con un mezzo inchino un po' rigido e Caterina rimase sola a ragionare tra sé e sé sul da farsi.

“Caterina...” Lucrezia era entrata nella stanza senza annunciarsi.

Trovò la figlia seduta accanto alla finestra, gli occhi verdi rivolti alla luce debole che filtrava dai vetri chiusi, una mano sulle labbra e l'altra lasciata rilassata sul bracciolo della poltroncina.

Era completamente assorta in se stessa e le ombre che solcavano il suo viso parevano ricalcare il profilo dei suoi demoni e delle sue preoccupazioni.

Alla voce della madre, la Contessa voltò appena la testa verso di lei e moderò all'ultimo momento le proprie parole, nel chiedere semplicemente: “Che c'è?”

“Livio sta ancora male...” l'avvertì Lucrezia, scura in volto, le cui spalle ormai scarne, coperte dall'inseparabile scialle di lana, erano curve sotto il peso degli anni e dei dispiaceri.

Sospirando, mal celando l'irritazione per quell'interruzione nella sua catena di ragionamenti, Caterina lasciò la poltrona e si diresse, seguita a ruota dalla madre, alla stanza in cui riposava il suo quarto figlio.

Effettivamente Livio non sembrava molto informa. Era a letto, non si lamentava, ma non aveva affatto un bel colorito. Era sempre stato cagionevole di salute, ma ultimamente stava avendo molte ricadute.

Caterina passò davanti alle due balie che si stavano prendendo cura di lui e gli toccò la fronte. Non era molto caldo, ma probabilmente aveva un po' di febbre. Respirava male, con le labbra appena schiuse per supplire le mancanze del naso congesto, ma i suoi occhi erano vigili e la seguivano con un'intensità tutta particolare.

Caterina ordinò a una delle balie di andare nel suo laboratorio da alchimista a prendere una fiala con delle essenze particolari: “Spargete l'olio sul suo petto e massaggiatelo. Gli darà sollievo e lo farà respirare meglio.” furono le consegne della donna.

Con un ultimo sguardo, più clinico che non materno, al piccolo, che a breve avrebbe compiuto nove anni, la Contessa fece per lasciare la stanza.

Lucrezia, che era sulla porta, allargò un po' un braccio, bloccandola. La guardò per un lungo istante, con evidente rimprovero, mentre dal letto arrivava qualche stentato colpo di tosse del malatino.

“Più di questo non posso fare.” disse Caterina, con la sua consueta ostinazione, e scansò con calma, ma con fermezza, il braccio della madre, guadagnando il corridoio.

Lucrezia si rimise all'istante al capezzale del nipote, rassicurandolo di cuore sui prodigiosi effetti che la medicina avrebbe avuto su di lui.

Mentre sciorinava parole di conforto e convinceva il piccolo a non dare troppo peso al comportamento un po' distante della madre, che era molto presa dagli eventi di quelle settimane, Lucrezia non poté evitare di ricordare gli anni passati a Milano, alla complice amicizia con Bona di Savoia, ai bambini che crescevano tutti assieme come veri fratelli, alle attenzioni che lei e la moglie di Galeazzo Maria avevano riservato a tutti loro, a Caterina soprattutto.

Si chiese cosa mai l'avesse resa così, malgrado l'esempio di affetto e amore materno che aveva avuto sotto gli occhi per tutta l'infanzia.

All'inizio non se lo spiegò, ma poi si sentì una grande ipocrita.

Guardando il viso allungato, le labbra carnose e i riccioli castani di Livio, Lucrezia si rivide davanti agli occhi Girolamo Riario e non poté più fingere con sé stessa di non capire.

E a quel tormento costante si era sommato il dramma del tradimento di Ottaviano.

Forse era legittimo, che Caterina fosse diventata così.

Molte altre donne, al suo posto, avrebbero ceduto molto prima. Molte non avrebbero resistito alla tentazione di sfogare il proprio odio e il proprio risentimento in modo violento verso quelli che erano l'evidenza vivente delle sofferenze patite.

Però si chiedeva anche come facesse Caterina a non vedere anche altro, ovvero un pezzetto di sé, oltre che di Girolamo, nei suoi figli. Come poteva non riconoscere il suo stesso oro nei capelli della figlia, una screziatura di smeraldo negli occhi di uno dei figli, il profilo del suo naso in un altro, l'arco del suo labbro in un sorriso...

A Lucrezia cominciava a venire il dubbio che sua figlia odiasse pure quelle tracce di sé. Altrimenti come spiegare la distanza che aveva creato anche con Bernardino, figlio dell'uomo che aveva amato e non di quello che le aveva avvelenato per sempre l'anima?

“Va un po' meglio?” chiese una delle balie, mentre spandeva l'olio balsamico sul petto pallido del bambino.

Livio annuì, abbozzando un sorriso e provando a respirare a bocca chiusa per qualche minuto.

Stava davvero meglio. Sua madre, pur agendo in modo discutibile, senza mostrarsi troppo preoccupata, aveva comunque scelto per lui una buona cura e si era resa disponibile per lui.

E così aveva fatto sempre con gli altri, ogni volte che ce n'era stato bisogno. Aveva avuto sette figli ed erano ancora tutti vivi e in discreta o ottima salute.

Un vanto che poche donne potevano arrogarsi, con tutti i pericoli in cui un bambino poteva incorrere...

Lucrezia gli accarezzò la fronte e si disse che, a ben guardare, Caterina fino a quel momento aveva fatto anche troppo.

 

Bianca Landriani era appena tornata da una veloce visita a suo padre Gian Piero alla rocca.

Era solo pomeriggio, ma il cielo era già colorato di sera. Il freddo si stava facendo sentire, ma pioveva raramente e, con misericordia di Dio, forse non sarebbe stato un inverno di neve. Rispetto a qualche anno addietro, il tempo atmosferico pareva essere molto meno estremo, anche se certi studiosi sostenevano che presto sarebbero tornate le grandi gelate d'inverno e l'afa tormentosa d'estate.

In realtà a Bianca il clima interessava solo relativamente, ma suo padre non le aveva parlato d'altro per tutto il tempo, quindi anche lei non faceva che pensarci, mentre rientrava al palazzo in cui viveva con suo marito.

Se era andata alla rocca, l'aveva fatto solo per un motivo, quel giorno, ma ne era uscita senza aver portato a buon fine il suo proposito.

Ormai era abbastanza sicura di essere di nuovo in attesa di un figlio. Sapeva che era troppo presto per esserne completamente certa, e ancor di più per potersi permettere di essere ottimista. Gli altri bambini li aveva persi tutti abbastanza presto e, come tempistiche, questo poteva essere ancora in pericolo.

Tuttavia, quella volta, Bianca aveva un buon presentimento. Forse perché Tommaso si era avvicinato a lei come mai aveva fatto prima d'allora o forse perché lei aveva disperatamente bisogno di una buona notizia, dopo tutta quella desolazione.

Voleva dirlo a suo padre e voleva scriverlo a sua madre e a suo fratello. Poi, però, forse la scaramanzia e forse un po' di imbarazzo le avevano impedito di parlarne con Gian Piero e le lettere per Lucrezia e Piero ancora non erano state scritte.

Si ritirò nel salotto più caldo del palazzo, in attesa di suo marito. Cercava di fare vita riposata, da quando aveva iniziato a sospettare una nuova gravidanza e Tommaso era stato d'accordo con lei.

Dunque le sue giornate passavano lente e tranquille, tra ricami, bevande calde e letture alla luce della finestra o del camino.

L'unica nota stonata in quell'idillio era l'assenza di suo marito, che doveva starsene dal mattino a sera fatta coi soldati o con i membri del Consiglio, per riuscire a star dietro agli ordini di Caterina, che aveva voluto un reclutamento a tappeto, la redistribuzione dei beni dei condannati e la riorganizzazione dei Consigli cittadini, vista l'assenza – dovuta a forza maggiore – di alcuni membri che ormai o languivano nelle segrete di Ravaldino o della rocca di Imola, o erano morti.

Anche quella volta Tommaso non rientrò a palazzo fino a tardi. Bianca lo accolse con allegria e si misero a tavola all'ora in cui, in tempi normali, si ritiravano per la notte.

Durante la cena, il Governatore raccontò la sua giornata alla moglie – cosa che non aveva mai fatto, prima della morte di Giacomo – e lei lo ascoltò con attenzione, commentando qua e là con grande interesse.

Tommaso era cambiato, dalla morte del fratello, non lo si poteva negare. Non dimostrava più il suo dolore con la rabbia e la sorda cupezza con cui l'aveva fatto nei primi giorni. Sembrava solo che non volesse più pensarci.

Bianca non sapeva cosa fosse accaduto a Forlì, di preciso, né voleva scoprirlo. Non le interessava sapere cosa Caterina avesse o non avesse detto o fatto a Tommaso per innescare in lui quella reazione tanto decisa. Non le importava cosa avesse fatto scattare in sui marito quel meccanismo di difesa – perché tale era – che lo aveva portato a mostrarsi più lieto e aperto di prima con lei.

Una volta tanto, la moglie del Governatore di Imola voleva godersi un momento di grazia, senza lasciarsi prendere dai sensi di colpa al pensiero che la sua felicità, in qualche modo astruso e a lei incomprensibile, dipendeva dalla morte di suo cognato.

Quando Tommaso chiese a Bianca come fosse invece andata la sua, di giornata, lei tergiversò sulla sua visita al padre, ma all'uomo non sfuggì il velo di incertezza nella sua voce.

“Glielo dirai quando... Quando saremo più tranquilli.” la incoraggiò.

Il Governatore si sentiva di gran lunga meno fiducioso di Bianca, a riguardo di quell'ennesima gravidanza.

Ormai lui sentiva di poter vivere bene anche senza figli. Aveva finalmente scoperto l'amore per sua moglie e tanto gli bastava. Però sapeva quanto Bianca ci tenesse e così condivideva e viveva amplificata la sua ansia per un'eventuale ennesimo aborto, che avrebbe portato, oltre che sofferenza emotiva, molti pericoli anche per la salute fisica della sua giovane moglie.

Bianca finì il dolce che aveva davanti con un unico boccone e poi diede ragione a Tommaso: “Sì, lasciamo passare ancora qualche settimana. Quando il bambino sarà abbastanza grande e ci saranno meno rischi, allora lo diremo a tutti. Sarà il momento più bello della nostra vita.” e allungò una mano, posandola su quella del marito.

Il Governatore intrecciò le sua dita a quelle della moglie, mentre i servi cominciavano a sparecchiare e sussurrò, non riuscendo a tenere a freno il suo istinto realista, sempre pronto a mitigare gli altrui slanci di entusiasmo: “Sempre che tua sorella non ci trascini in una guerra inutile...”

Bianca si accigliò e si portò istintivamente la mano libera al ventre. Un guerra che lambisse anche Imola o che li portasse a doversene andare o ancora peggio che li mettesse a rischio era per lei inconcepibile, in quel momento.

“Qualunque cosa Caterina debba decidere di fare o far fare agli altri – disse la donna, fissando il marito con cipiglio – tu dovrai rifiutarti a tutti i costi di andare in guerra.”

Tommaso fece segno alla moglie di alzarsi, dato che sul tavolo ormai non restava nulla e lui aveva voglia di coricarsi, tanto era stanco da quella giornata frenetica: “Non credo che me lo chiederebbe mai.” constatò.

Bianca, camminando, si aggrappò a lui forse più del dovuto, ma le piaceva sentire la sua spalla robusta e calda contro la guancia: “Hai ragione. Non credo che lo farebbe.”

'Solo perché sei il fratello del suo amato Giacomo' soggiunse tra sé la donna, mentre il marito assumeva un'espressione che sottintendeva tutt'altro.

Come, infatti, Bianca aveva intuito, Tommaso stava ragionando sul fatto che dopotutto la Contessa non gli era mai stata completamente indifferente e dunque non avrebbe mai permesso a un uomo per cui provava qualcosa di rischiare la vita in modo tanto sciocco.

Bianca, comunque, non volle mettere il naso nei pensieri più reconditi di suo marito e così si tacque. Caterina sarebbe sempre stata un'ombra indelebile tra di loro, ma finché restava ben sepolta nell'inconscio di Tommaso, lei sentiva di poterla sopportare.

 
   
 
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