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Autore: simocarre83    03/04/2017    1 recensioni
Secondo racconto che parte dopo l'epilogo del primo. quindi se volete avere le idee chiare sarebbe, forse, il caso di leggere anche il primo. Ad ogni modo, una brutta notizia che presto diventano due, due vittime innocenti, loro malgrado, nuovi personaggi e purtroppo nemici che compaiono o RIcompaiono. Ma sempre l'amicizia che ha, come nella vita, un ruolo fondamentale.
Genere: Drammatico, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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GIUSEPPE: DALLA PARTE DEL PIU’ FORTE

Non appena sentì la paratia fermarsi e constatò di essere rimasto solo, capì che il momento era giunto per inserire il casco e iniziare a capire come liberarsi e liberare i suoi cari da quella trappola malefica. E lo fece. E quella fu, per lo meno all’inizio, la sua salvezza.
Appena la porta si aprì, un timer posto sulla porta iniziò a segnare 59 minuti e 59 secondi. Era incominciato il conto alla rovescia, e per questo motivo Giuseppe si sbrigò ad oltrepassare quella porta. Entrò immediatamente in uno stanzone, debolmente illuminato. Sembrava un capannone. Poca illuminazione, aria pesante. Queste sono le uniche due cose di cui si accorse immediatamente. Davanti a sé un muro, lontano una trentina di metri, ma solo quando la sua vista, dopo qualche secondo, si adeguò, si accorse della stretta fessura presente sulla destra. Immediatamente si incamminò verso quella fessura. Costeggiando il muro della stanza, poté comprendere quanto fosse solido. Ferro, pieno, per tutta la sua lunghezza. I sensori posti nella tuta, gli fecero capire che probabilmente si trattava almeno di uno spessore di cinquanta centimetri di ferro. Nessuna tuta avrebbe potuto scalfirlo.
Aveva fatto solo pochi metri in avanti, una decina, quando si accorse che la porta dietro di sé si stava chiudendo. Non riuscì a fermarla in tempo. Adesso era completamente isolato dal resto del mondo. Almeno, erano isolati dal resto del mondo lui e chiunque altro ci fosse stato in quella camera.
Riuscì a fare circa metà della strada, quando si accorse che il muro di acciaio si stava richiudendo su quella fessura. Incominciò a correre. E la fessura era ancora più stretta. Spiccò il volo, ma nulla. Lo spiraglio si chiuse e lui finì addirittura a sbattere contro il muro ferreo.
Fu in quei pochi decimi di secondo che si accorse di qualcosa che, obiettivamente, temeva, ma di cui non si era accorto in precedenza. Mentre era appoggiato al muro appena richiuso, e si stava rialzando, sentì la parete leggermente magnetizzata. Questo poteva significare una sola cosa. Quella fessura aveva permesso a qualcuno di entrare, ma lui non aveva fatto in tempo a superarlo.
Certo era che a quel punto, qualcuno, lì dentro c’era. non aveva la più pallida idea di chi fosse, ma qualcuno c’era.
“Tsk! tsk! tsk! Non si abbandona un campo di battaglia senza aver neanche conosciuto il proprio nemico!” disse una voce, provenire dal lato opposto della stanza.
“Chi sei! Fatti riconoscere!” urlò Giuseppe. E contemporaneamente accese le luci di volo della tuta. aveva preferito abituarsi al buio, per non consumare eccessivamente energia, ma a quel punto, “fare luce sulla situazione” si era innegabilmente reso necessario.
Il problema, però, fu che appena accese le luci, non vide nessuno. Nessuno. Inoltre, quella voce, visto l’eco provocato da quelle pareti di ferro, sarebbe potuta arrivare da qualsiasi distanza.
Attivò un leggero campo di forza attorno a sé per evitare spiacevoli sorprese. Fu appena sufficiente. Perché ad un certo punto qualcosa lo colpì alla schiena. La botta la sentì e solo quel campo magnetico impedì al colpo di fargli perdere i sensi.
Come poteva essere possibile? Non aveva visto né sentito nessuno avvicinarsi. Eppure era stato colpito. Mentre era leggermente stordito, ancora a terra, provò a riesaminare i sensori della tuta. Indubbiamente era stato colpito da un oggetto di ferro. Oggetto che era scomparso dal campo di azione dei sensori immediatamente dopo.
Per rialzarsi toccò ancora il muro. Sentì ancora il campo magnetico, ma era praticamente impossibile determinare una direzione precisa. Quando vide, casualmente, quello che stava accadendo. Un pezzo di ferro si mosse, dal muro, e lo colpì questa volta sul fianco. E questo lo sentì. Eccome se lo sentì. Venne sbalzato una decina di metri più indietro rispetto a dove si trovava in quel momento. Sentì anche parecchio dolore, anche se il campo protettivo l’aveva salvato anche quella volta. Almeno pensava.
“Ma come diavolo è possibile?!” chiese, senza neanche sapere a chi lo stava chiedendo.
“Il professore sei tu!” rispose quello, ancora una volta.
Riuscì a individuare da dove proveniva la voce, questa volta, forse perché leggermente più lontano dal muro, che con la sua distorsione sonora, gli impediva di comprenderne la fonte.
E finalmente lo vide. Era in piedi. lontano da lui. Anzi, per essere più precisi era dalla parte opposta della stanza. Vide anche che toccò con la mano destra il muro. Pochi secondi dopo un ulteriore botta gli arrivò sulla gamba, dietro la coscia, quasi rompendogliela, non riuscendoci, ancora una volta, solo grazie a quel campo di forza. Ma venendo sbalzato di un’altra decina di metri verso il centro dello stanzone.
“Chi sei?!” chiese Giuseppe, ancora dolorante, sia per le botte, che per gli atterraggi non propriamente morbidi.
La visiera del casco, oscurata, si illuminò, rivelando in parte il volto del suo nemico. Giuseppe in quel momento si rialzò. Scuotendosi un po’ di polvere dalle spalle. E lo fissò. Bastarono pochi secondi per capire chi fosse il suo nemico. È vero che erano passati anni, ma l’ultima volta che l’aveva visto era svenuto, quindi se ne ricordava bene.
“Massimo!” disse.
“Si!” rispose quello “E questo è solo l’inizio!” disse volando verso il soffitto.
-Ecco come fa!- pensò Giuseppe –con la tuta, riesce a sprofondare nel muro di ferro, con il corpo e a generare un campo magnetico che fa uscire una corrispondente quantità di ferro dalla parte…-
Fece appena in tempo a pensarlo per capire quello che stava facendo. Se riusciva ad arrivare verso il soffitto, stavolta si sarebbe fatto male sul serio. Ecco perché, appena se ne rese conto, si spostò di un metro. Proprio per vedere il perno di ferro che spuntò dal pavimento e che, se non fosse stato per quel movimento repentino, probabilmente l’avrebbe impalato senza problemi, vista la sua velocità. Il ferro si fermò ad un paio di metri di altezza. Capì anche che c’era un unico modo per risolvere il problema di quegli attacchi. Prese immediatamente il volo e volò verso Massimo. Ma appena lui prese il volo, l’altro si abbassò. Evidentemente i sensori montati sulla tuta del suo nemico gli permettevano di calcolare istantaneamente la posizione di Giuseppe e trovare il punto corrispondente, dall’altra parte della stanza, per colpirlo. Se a questo aggiungiamo che era veloce, molto veloce, Giuseppe fece qualche prova, poi la paura di vedere scaricata la batteria della tuta troppo presto gli fece optare per fermarsi un attimo. Il fatto era che Massimo era veramente veloce.
Troppo veloce.
Entro pochi secondi ricevette altri tre colpi e venne sballottato da una parte all’altra della stanza, facendosi, anche in quel caso, più male per la botta che per i colpi in sé.
Cercò allora di continuare a volare da una parte all’altra della stanza, senza alcun ordine prestabilito. Casualmente. Questo confuse un po’ Massimo. Ma obiettivamente era veramente allenato. Tanto che salvo qualche caso sporadico, non riusciva veramente a evitare i colpi.
L’ultima cosa che vide fu l’indicatore sulla porta che segnava cinquanta minuti, quando una botta un po’ più forte del solito gli fece perdere i sensi.
Quanto voleva bene ad Anna. Era tutta la sua vita. Anna e suo figlio, Simone, erano le persone alle quali teneva di più. Il suo pensiero peggiore era credere che qualcuno potesse fargli qualcosa. Quel pensiero bastò a farlo svegliare di soprassalto.
Una punta acuminata lo toccò sulla schiena. Aprì gli occhi. E capì immediatamente dove si trovava. Era perfettamente al centro della stanza, sollevato di circa dieci metri da terra. Una serie di dieci punte acuminate si trovavano, spuntate da punti diversi della stanza, a pochi millimetri dal suo corpo. Il campo di forza che aveva creato appena entrato in quella stanza, lo teneva alla stessa distanza da ciascuno spuntone. Vide l’orologio sulla porta della stanza che segnava 32 minuti e 12 secondi di tempo rimasto prima dello scadere. Cosa sarebbe accaduto poi, lui non lo sapeva.
“Ben svegliato” gli rispose quella figura in penombra, davanti a lui. Era Massimo. Era in volo anche lui, con le braccia e le gambe divaricate. Le mani erano completamente aperte e aveva un segmento di ferro che partiva da ciascun dito e si infilava a distanza nel muro.
“Ci ho messo un po’ a farlo, ma ora sei completamente in mio potere”
In quel momento, un po’ più cosciente della situazione intorno a lui, Giuseppe capì che quattro spuntoni si erano solidificati intorno a polsi e caviglie, facendogli assumere la stessa posizione di Massimo, immobilizzandolo. Gli altri sei, come le facce di un cubo si erano disposte attorno al suo corpo. Era incredibile quello che riusciva a fare con la sua tuta, quella persona. Probabilmente la conosceva benissimo e ne aveva piena padronanza.
“Cosa vuoi da me?!” chiese, agitato, Giuseppe.
“Niente!” rispose Massimo. “Il bello è questo! A me basta tenerti imprigionato per qualche altro minuto e poi, tu e la tua vita sarete finiti! Assieme a quella di tua moglie!”
“Anna! Dove l’avete portata!? Cosa gli avete fatto? Vigliacchi! Liberatela immediatamente!” urlò Giuseppe.
“È vicinissima! Anche se probabilmente non vi vedrete più! Noi non gli abbiamo fatto niente. Semplicemente, alla fine dell’ora, quando le paratie si apriranno e questo locale verrà allagato, tu non sarai stato in grado di salvarla e quindi sarai tu che l’avrai uccisa. Bello così, no!? E il bello è che non vi troverà nessuno!” disse Massimo.
Giuseppe stordito da quelle informazioni cercò di ragionare. Da lui non volevano niente. Avevano solo deciso che sarebbero morti lì. E questo significava che dalla loro morte non perdevano nulla. Questo significava anche che non avevano nessuna speranza. E che coloro che avevano di fronte dovevano solo resistere un’ora. Poi avrebbero raggiunto il loro obiettivo. Quindi era necessario agire. Forte e bene. Disattivò il campo di forza. Cadde di qualche millimetro, finché il suo stesso peso non gli fece premere gambe e braccia sui quattro anelli avvolti su di essi. Mancavano, ora, esattamente trenta minuti. E se quello era, come era, veramente, Massimo, avrebbe dovuto, quasi sicuramente, affrontare anche Giovanni e soprattutto Cosimo, prima di poter liberare Anna. Si ricordò quello che gli disse Dorian. Si ricordò che aveva bisogno della chiave per raggiungere e avere una speranza con gli altri.
“Dov’è la chiave?!” chiese, sprezzante del pericolo.
“Giusto! Tanto non ti serve più!” rispose Massimo. Chiuse gli occhi e si concentrò. Uno sportello, proprio sotto di loro si aprì. Una chiave di plastica al suo interno venne sollevata e fuoriuscì.
Questo era il momento che aspettava. Aveva commesso l’errore fondamentale. Quello che aveva aspettato fino a quel momento.
“Liberami e avrai salva la vita, altrimenti non posso assicurartelo!” esclamò Giuseppe a quel punto.
“Sentitelo! Fa anche il gradasso! Forse non ti sei accorto della situazione nella quale ti trovi!” esclamò Massimo. E avvicinò leggermente ciascun indice al pollice corrispondente. Immediatamente le gambe di Giuseppe si divaricarono ulteriormente e il suo peso lo fece scendere ancora di qualche millimetro. E questo, senza il campo di forza che in qualche modo si opponeva, lo sentì.
“Liberami ti ho detto!” ripeté Giuseppe urlando contemporaneamente dal dolore.
“Come puoi, tu, provare anche solo lontanamente a farmi paura!? Ti ho in pugno! Non puoi fare nulla. Sei completamente immobilizzato. E quando voglio, toccando il pollice e l’indice posso aprirti in due come una nocciolina, e tu mi dici di liberarti? E con quale potere pensi di sconfiggermi?!” disse.
Poi piegò ancora ciascun indice verso il suo pollice. Una leggera flessione della falange di ciascuna delle quattro dita, fece chiudere la morsa degli anelli ancora più strettamente sui suoi arti.
“O forse prima ti spezzo polsi e caviglie, così per quest’ultima mezz’ora ti meriti un po’ più di dolore!” disse. Continuando a stringere.
“Posso farti una domanda!?” chiese, a questo punto veramente sofferente Giuseppe.
“Certo! Hai tutto il diritto di avere una risposta! Non la si può negare a uno che ha ancora ventinove minuti di vita!” rispose Massimo ridendo.
“Secondo te perché ho disattivato il campo di forza?!” chiese Giuseppe. A questo punto fissando negli occhi il suo interlocutore. Massimo, dimostrando di non sapere la risposta, si zittì.
“Avevo bisogno di toccarlo questo metallo. Fare una cosa che non avevo potuto fare finchè mi colpivi. Ma visto che adesso polsi e caviglie sono a stretto contatto con il metallo, e tu, evidentemente, sei elettricamente connesso con loro, altrimenti non potresti fare quello che fai, posso farla!”
Massimo non ebbe neanche il tempo di rispondere. Una scossa elettrica partì dalla tuta di Giuseppe e colpì Massimo. Era così intensa che fuse le quattro dita dei guanti della tuta al metallo a cui erano collegati. Facendo, altrettanto improvvisamente, perdere i sensi a Massimo.
Non era morto. Giuseppe poteva ancora sentire i suoi segni vitali. Il cuore batteva ancora. Era riuscito a stordirlo. E immobilizzarlo, tanto che gli spuntoni non si erano mossi di un millimetro.
Un nuovo campo magnetico, questa volta non contrastato da nient’altro, allargò i polsi e le caviglie, permettendogli di scivolare via.
“Nooo!!” esclamò Massimo appena rinvenuto, solo pochi secondi dopo che Giuseppe era scappato alla sua morsa, chiudendo automaticamente le altre sei dita. Gli spuntoni si chiusero su di loro, fondendosi per la punta. Lì, dove, fino a pochi decimi di secondo prima, c’era Giuseppe.
Giuseppe toccò nuovamente l’insieme dei sei spuntoni con la mano destra e fece partire un’ulteriore scarica, solo per fondere il metallo con le altre sei dita di Massimo. che rimase, appeso per le dita, a quella decina di metri di altezza. Rinvenne qualche secondo dopo. Solo per vedere che la tuta si era spenta, sentire le dita che, una dopo l’altra, si stavano per rompere sotto la tensione di tutto il suo peso. Si guardò intorno. Giuseppe era sceso e aveva preso la chiave.
Vide l’orologio. Rise, istericamente. Giuseppe si voltò.
“Vengo a liberarti. Se ci riesco!” gli disse.
“Tanto non ci riesci! Dall’altra parte del muro ci sono i miei due fratelli, e tu hai solo 27 minuti di tempo! E poi non riusciresti comunque a sconfiggerli!” disse. Poi si strappò i guanti della tuta dalle mani. E cadde da quell’altezza sul pavimento di ferro. Morendo al primo contatto.
Giuseppe ebbe un brivido.
-Possibile che sia stato disposto a morire, pur con la speranza della salvezza?- pensò, mentre capì che effettivamente dall’altra parte ci sarebbero stati veramente Giovanni e Cosimo. Giovanni il più piccolo e Cosimo il più grande. E non sapeva cos’altro aspettarsi.
Inserì la chiave nella piccola serratura, che ben presto riaprì la fessura. Permettendogli di passare oltre. Circa due metri di corridoio lo portarono in un'altra stanza.
Sulla sinistra notò immediatamente il portone metallico per accedere alla stanza successiva. Ma quella sembrava disabitata. Finché una sfera metallica non lo colpì rimandandolo indietro nella stanza precedente. E facendogli anche un sacco male. Effettivamente si era dimenticato di attivare nuovamente il campo magnetico che lo proteggeva dai danni maggiori. E fortunatamente la sfera gli fece male ma era abbastanza grossa. E si fermò all’inizio del corridoio. Se fosse stata una pallina piccola, l’avrebbe probabilmente trapassato come un proiettile. E la prontezza ad attivare la tuta per il volo non lo fece neanche atterrare.
“Chiunque tu sia, ho perso abbastanza tempo dietro a tuo fratello in questa stanza. Quindi non farmi innervosire!” urlò Giuseppe, rispedendo immediatamente indietro la sfera che si era fermata.
Giuseppe volò dentro quella stanza, respingendo con maestria tutte le altre sfere, piccole o grandi, che gli vennero lanciate. E gliene vennero lanciate parecchie. Entrò. Immediatamente si voltò, guardando nell’unico posto dove, a causa della prima sfera, non aveva potuto guardare. Lanciando contemporaneamente una delle sfere in quella direzione. Poi la fermò lui stesso.
Un uomo lo attendeva. Seduto. Immediatamente la serie di colpi si fermò.
Giuseppe capì immediatamente che non era seduto per conservare energie. Era seduto perché non si poteva alzare. Perché era paralizzato.
“Ma… che cosa ti è successo, Giovanni?!” chiese Giuseppe, a dir poco stupito di quello spettacolo.
La lieve luce che arrivava dalla stanza vicina illuminò quella figura, seduta su una sedia a rotelle. Che stupita a sua volta per il mancato colpo di Giuseppe, aveva anche lei abbassato le armi. Non poteva muoversi, essendo praticamente paralizzato dal collo in giù.
Giovanni, di due anni più giovane di Giuseppe, era lì. Immobile. Le sfere tintinnarono tutte a terra e Giovanni si mise a piangere.
Giuseppe immediatamente si avvicinò. Non abbassando, però il campo di forza.
“Ma non riesco a capire!” disse Giuseppe. “Ti ho visto in piedi e attivo, quando hai rapito i nostri parenti. Come mai ora…” disse, cercando di trovare una spiegazione logica Giuseppe. Ma Giovanni lo interruppe.
“La tuta. Volendo mi posso alzare come posso volare!” disse e la disattivò. Dimostrando di non avere intenzioni bellicose. Anche Giuseppe diminuì, senza disattivare, il campo di forza.
“Come hai fatto a conciarti così?!” chiese.
“È colpa di Marco!” rispose “Dopo che eravamo stati tutti spediti in riformatorio, Marco trovò il modo per punirmi per non aver tenuto abbastanza sotto controllo il covo. Una notte mi risvegliai nel letto completamente legato a pancia in giù. Ed una persona mi colpì ripetute volte con una mazza da baseball sulla schiena. Mio fratello Cosimo mi disse che si era alzato per andare in bagno e quando era ritornato in stanza mi aveva trovato così. Mi risvegliai quindici giorni dopo in ospedale, e non avevo più l’uso delle braccia e delle gambe. È da quando ho 13 anni che sono così!”
“Ma come fai, dopo tanti anni, ancora a servire, ubbidire, eseguire gli ordini di colui che ti ha ridotto in queste condizioni?!” chiese Giuseppe.
“Cosimo e Massimo! Sono le uniche persone che mi sono rimaste!” rispose Giovanni “Non le tradirei mai!”
Giuseppe vide nei suoi occhi la debolezza e la paura per quello che stava accadendo.
“Voglio smetterla di fare del male ad altri. Mi hanno costretto a fare delle cose spaventose in questi ventiquattro anni. Sono a pezzi!” disse.
“Non preoccuparti! Vedrai che troveremo una soluzione a questo!” rispose Giuseppe. “Adesso dimmi dove è la chiave, così passo dall’altra parte! Poi ti giuro che farò tutto quanto è possibile per salvarti. Ma capisci che devo prima arrivare dall’altra parte! Altrimenti è tutto inutile. E mancano venti minuti. Non posso perdere ancora tempo!”
“Non posso aiutarti! Purtroppo non ho la più pallida idea di dove sia la chiave!” rispose Giovanni.
Giuseppe indietreggiò. Pensò ad un tradimento ma i segnali vitali di Giovanni non erano cambiati ad ulteriore conferma della verità di quanto gli aveva detto. Cercò di pensare il più velocemente possibile ad una soluzione. Quando, dalle inferriate della porta che li separava dall’altra stanza, comparve Cosimo.
“Eh! Fratellino! Pensavi di tradirci!” disse quest’ultimo.
“No! Pensavo di fare la cosa giusta, almeno una volta nella mia vita!” rispose Giovanni.
“Allora inizia a dire la verità a colui che dovrebbe essere il nostro nemico comune!” rispose sarcasticamente Cosimo. “Inizia a dirgli che non era una mazza da baseball, ma una spranga di ferro, quella che ti ha reso un paralitico. Uno scarto della società!”
“Come fai a dirlo?” gli urlò Giovanni.
Giuseppe a quel punto intervenne. Con la mente logica che l’aveva sempre caratterizzato.
“L’unico modo che ha per saperlo è…” ma a quel punto tacque. Perché non voleva tirare conclusioni affrettate.
“L’unico modo che ha per saperlo è essere stato lui a fare tutto questo!” rispose questa volta Giovanni, completando lui il ragionamento.
“Bravo! ci hai messo ventiquattro anni ma alla fine ci sei arrivato! Bene! E ora cosa pensi di fare? ah! Per la cronaca! La chiave è stata inserita all’interno del tuo stomaco cinque giorni fa. Non te ne sei neanche accorto perché dormivi, ma attraverso l’alimentazione automatica è semplicissimo farlo. Tanto la cannuccia arriva direttamente fino allo stomaco!”
Giuseppe non poteva crederci. L’unico modo per dargli una possibilità di salvargli la vita era prelevargli dallo stomaco la chiave.
“Ha ragione! Ora posso sentirla!” disse Giovanni.
Giuseppe lo guardò. “Non permetterei mai che ti accadesse una cosa del genere!” disse.
“Non mi importa chi c’è dall’altra parte della stanza. Non sono disposto a sacrificare la vita di nessuno, nemmeno per la mia. Significa che morirò anche io!”
“Pensa a Simone! Rimarrà solo! Tuo figlio solo! Sempre se riesce ad uscire vivo dalla prova di Roberto!” disse Cosimo.
Mentre Giuseppe, immobile per quello che stava accadendo, era incapace di dire qualsiasi cosa, Giovanni si voltò verso suo fratello.
“Mi avete tradito. Avete tradito la mia persona. Mi hai costretto su una sedia a rotelle. Mi hai fatto combattere contro delle persone innocenti. Adesso me la pagherai!”
Poi si voltò verso Giuseppe. “Scusatemi per tutto quello che ho fatto!”
“Ma tu non hai fatto nulla!” rispose Giuseppe. “Sei solo stato una vittima innocente di tutto questo!”
“Sono stato io che ho preparato questo posto!” rispose Giovanni abbassando lo guardo.
“Visto?! Anche lui ha i suoi peccatucci! E mi dispiace che non potrai vedere tutti gli altri giochini preparati dal mio fratellino” disse ridendo Cosimo.
“Ma come puoi comportarti in questo modo con tuo fratello? Massimo e di là morto. Giovanni è da ventiquattro anni in queste condizioni. Ma come puoi pensare di essere dalla parte giusta!?” disse urlandogli contro Giuseppe.
“Sono dalla parte del più forte!” rispose lapidario Cosimo.
Giovanni accese nuovamente la tuta. E incominciò a tirare delle sfere a Giuseppe. Nuovamente.
“Ma che cosa stai facendo!?” chiese quest’ultimo, mentre cercava di parare quei colpi. Capiva che non era al massimo della sua abilità, Giovanni, ma non riusciva a capire cosa gli stesse prendendo.
Passò poco meno di un minuto. Poi le sfere caddero per terra.
“Ho fatto quello che ho potuto!” disse Giovanni. Giuseppe si voltò. La chiave era ai piedi di Giovanni. Che perdeva sangue dall’addome. Cosimo, impassibile, osservò tutta la scena.
Giovanni, mentre distraeva Giuseppe, si era estratto la chiave. Ora era seduto, veramente stremato sulla sedia.
“Levami il casco, per favore!” disse.
Giuseppe ubbidì a quella richiesta. La tuta si spense e il pezzo di ferro usato come bisturi fuoriuscì dal suo addome. Cadendo per terra.
“Avvicinati!” disse Giovanni.
“Perché!? Perché l’hai fatto? Avrei trovato il modo per salvarti! Perché ti sei sacrificato?” disse Giuseppe. Urlandolo. Mentre correva ad abbracciare Giovanni.
“Nel corridoio c’è un’arma. So che sei in grado di utilizzarla. Fallo! Avevo previsto tutto! E sapevo tutto quello che mi aveva fatto Cosimo. Solo che non potevo combattere contro di loro. Questo è l’unico momento in cui nessuno dei due può farmi niente!”
“Giovanni! No! Perché? Perché?!” disse Giuseppe piangendo.
“Scusatemi!” disse, chiudendo gli occhi. E perdendo i sensi. Giuseppe sapeva che era ancora vivo, ma probabilmente ancora per poco.
Si alzò, andando a prendere la chiave e tornando nel corridoio.
“Ehi! Dove stai andando! Non sei contento di aver superato anche questa prova? Adesso devi vedertela con me! E io sono un pezzo dur…” disse Cosimo. Bloccandosi, subito dopo, capendo quello che gli stava succedendo, pochi secondi prima di sentire il forte dolore allo stomaco che, sapeva, avrebbe sancito la sua fine. Un altro dolore, fortissimo, alla coscia destra, ed al braccio sinistro. E cadde a terra.
“Ma… come… è possibile…” sussurrò.
Da circa dieci metri di distanza, Giuseppe si avvicinò, dopo aver scoccato le tre frecce che si erano conficcate nel corpo di Cosimo, con l’arco che aveva trovato nel piccolo armadietto apertosi nel corridoio dal quale, dieci minuti prima, era entrato.
“Giovanni, ben più furbo e superiore di voi, aveva capito tutto. E aveva ideato l’unico modo per vendicarsi. Mettere Massimo davanti a tutti, in modo che con la mia energia avrei potuto sconfiggerlo. E soprattutto il colpo di genio!” disse Giuseppe, continuando ad avvicinarsi.
“Qu-quale!?” chiese Cosimo, ansimando, e levandosi autonomamente il casco.
“Il cancello! Non ti sei mai chiesto il motivo per cui le pareti di ferro spesse un metro in tutta la struttura, avessero lasciato il posto, in quest’unico ingresso, ad un cancelletto, ben fissato ma con tante aperture verso l’altra stanza?!” chiese Giuseppe.
Cosimo ci pensò qualche secondo. Poi capì.
“Voleva… voleva uccidermi!” disse.
“Già ma poteva arrivarci solo con un arma che non contenesse metallo. E l’arco e le frecce erano perfetti!” rispose Giuseppe.
“E adesso dimmi dove è la terza chiave!” rispose mentre un altro colpo di arco fece volare via il casco lontano da Cosimo, rendendolo allo stesso tempo inutilizzabile. Solo a quel punto Giuseppe aprì il cancello, entrando nell’ultima stanza.
L’unica fonte di luce era una porticina dalla parte opposta dell’ingresso.
“L’ingresso alla stanza dove si trova Anna si trova al di là di quella porticina. Il lungo corridoio di circa cinquanta metri, per almeno quaranta di essi è occupato da una serie di fasci laser ad altissima potenza. La chiave è al di là di quel corridoio. Sarai fatto a fettine prima di arrivare dall’altra parte!” concluse. E rise. Perdendo i sensi e, come si accorse anche Giuseppe, anche la vita.
Mancavano solamente cinque minuti, a quel punto, alla fine di tutto.
“Giuseppe!” chiamò una voce. Era Giovanni. Giuseppe corse da quest’ultimo.
“Il casco di Massimo è la chiave di tutto. E la forma di questa stanza!” disse.
“In che senso? Non capisco!” urlò Giuseppe.
“Grazie!” fu l’ultima parola che disse Giovanni, chiudendo gli occhi, questa volta definitivamente.
Mancavano quattro minuti e mezzo.
Giuseppe cercò di spremersi le meningi. Perché il casco di Massimo era la chiave di tutto? Perché proprio quello di Massimo? Cosa aveva di speciale? E cosa centrava con la stanza? Poi si rese conto della strana forma di quella stanza. Uno spigolo era allungato. Molto lontano. E capì.
Volò a prendere il casco di Massimo. Pregando, nello stesso tempo, che fosse ancora funzionante. Mancavano tre minuti e mezzo. Si tolse il suo casco, indossando l’altro.
L’indicatore del tempo segnava due minuti e mezzo quando accese la tuta. Corse di nuovo verso quello strano spigolo.
-Se la stanza dove si trova Anna è alla fine di quel corridoio, è dietro quel muro. Spesso, ma se uso l’abilità del casco di Massimo per far arrivare il ferro fino a qui, sarà abbastanza sottile per sfondarlo- pensò. E così fece, quando mancavano due minuti.
Il metallo del muro, secondo i suoi calcoli ora doveva avere circa cinque centimetri di spessore. Spense quel casco, rindossando il suo. Mancavano solo quarantacinque secondi quando l’ebbe indossato. Attivò immediatamente la pila supplementare. In meno di due secondi divelse quel metallo. Aprendo un varco.
Anna era lì. Corse immediatamente alla porta di ferro, aprendola senza difficoltà da quella parte. Prese la chiave. Mancavano solo venti secondi.
Allo scoccare del decimo secondo Anna era libera dalle manette che tenevano legati mani e piedi. Dietro di lei una porticina di servizio. Che, come constatò, tirando un sospiro di sollievo, si apriva proprio con quella chiave. La fece entrare che mancavano tre secondi. Entrò anche lui, chiudendo la porta stagna dietro di loro. Neanche un secondo dopo sentì un boato. Segno del fatto che l’acqua stava riempiendo quei locali.
Abbracciò sua moglie. Era tutto finito. Un ascensore idraulico li riportò in superficie, facendoli uscire da una fossa scavata ad una cinquantina di metri dalla radura. E sbalzandoli fuori.
Giuseppe, atterrò, con un leggero volo, abbracciando sua moglie, e le disse solo una cosa.
“Ti amo!”

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NdA: Buongiorno a tutti! come potete ben immaginare di situazioni strambe ce ne saranno ancora tre e coinvolgeranno i nostri personaggi principali. spero di avervi interessato e anche un po' divertito con questo capitolo, non dimenticate di recensire!
Se volete passare dalla sezione "generale", inoltre, ho anche iniziato a pubblicare una raccolta di brevi racconti, che hanno come personaggi principali "i nostri", anche se ambientati in tempi, luoghi e circostanze diverse. fatemi sapere cosa ne pensate anche lì... come sempre apprezzo enormemente le vostre opinioni e anche le idee che mi avete dato in questi mesi! vedervi continuare così non può che fare bene a me, oltre che, credo, piacere a voi.

  
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