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Autore: ale93    03/04/2017    2 recensioni
[Riverdale]
Potrebbe andare tutto in frantumi. Basta un attimo.
(Pre-slash Jarchie | post 1x07)
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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porcelain


It was a necessary pain. I know, I know... it's all worth the wait, worth the weight.

















Archie inserisce la pompa elettrica nella bocchetta del letto gonfiabile e Jughead lo guarda. Osserva la sua schiena, le sue mani, la sua bocca quando soffia via dalla fronte i capelli.





Lo guarda, e poi guarda altrove. Lo guarda, e poi deve concentrarsi sulla pioggia che batte sulla finestra della camera. Il ticchettio gli riempie la testa.





Vorrebbe gridare. O girarsi verso la porta e andarsene.





Archie sbuffa quando la pompa smette di funzionare a dovere. «Mi dai una mano o no?» dice, senza guardarlo.





Jughead ispira dal naso, espira dalla bocca. «No,» chiude gli occhi solo un secondo, «penso che lascerò a te tutto il divertimento, ma grazie mille per l’offerta.»





Archie sbuffa una risata. Jughead stringe i denti.







*









La camera di Archie lo ha sempre fatto sentire in una bolla. Una bolla in cui niente avrebbe mai potuto toccarli, a una sola porta di distanza da tutta Riverdale e dalla sua gente, dalla sua ipocrisia.





Jughead entra in quella stanza per la prima volta a sette anni.





C’è questo enorme modellino di un elicottero a scoppio sulla sua libreria e Jughead sente lo stomaco rivoltarsi.





Si siede sul pavimento e pensa al modo più semplice e veloce per rompere un’elica. A come far crollare il mobile, a come distruggere tutto.





Poi Archie allunga il braccio, prende l’elicottero e, «ti va di farlo volare? È radiocomandato» dice; si gratta un orecchio.





«No,» dice Jughead. «Quei giocattoli sono stupidi e non funzionano.»





A sette anni, Jughead odia tutto quello che vhiede e a cui i suoi genitori rispondono “non si può” e “Jellybean ha bisogno di nuove scarpe”.





Archie fa un’espressione confusa e dice, «non è vero! È fighissimo. Prova.»





Jughead prende l’elicottero, lo pesa nelle mani. Poi lo restituisce ad Archie e incrocia le braccia al petto. «Non so come si fa», dice. Non ha il coraggio di guardarlo.





Archie si siede sul letto rimbalzando con il sedere un paio di volte. Sorride come uno stupido. «Ti faccio vedere. Però posso chiamarti Jug? Il tuo nome è troppo lungo.»





Jughead vorrebbe dire no, e il mio nome è già brutto così com’è, non mettertici anche tu, e anche non ti conosco.





Invece siede sul letto, vicino ad Archie. E non dice niente.







*









«Quindi,» Archie si schiarisce la voce. Lancia un paio di coperte sul materasso gonfiabile e gli passa un cuscino. «Tu e Betty.»





Jughead resta a fissare la pioggia fuori dalla finestra. Non ha idea di che farsene delle mani, quindi le infila semplicemente in tasca.





Pensa ancora di girarsi e andarsene, trovare un altro posto di cui a nessuno frega niente e passarci la vita.





Invece resta a fissare quella finestra. Dal piano di sotto sente arrivare il rumore di un vecchio programma tv. Il sign. Andrews sta bevendo una birra sul divano, i piedi sul tavolo da caffè che la signora Andrews adorava come un secondo figlio. Chissà se a Chicago ne ha uno uguale.





Sembra tutto piuttosto semplice. Dormire da Archie è sempre stato normale, per lui. Non normale come passare del tempo dal proprio migliore amico, ma normale come avere i boxer nello stesso cassetto di quelli di Archie. Come fare i compiti su quel tavolo da caffè.





Normale come sapere dove Archie tiene i cereali al cioccolato e ricordarsi di non aprire i rubinetti mentre qualcuno fa la doccia.





O come tuo padre che batte i pugni alla porta di casa di Archie alle tre del mattino e il sign. Andrews che gli chiede, per favore, di fermarsi a dormire. Di non guidare in quello stato.





Strano quanto siano diverse le cose, adesso. Più niente, in quella stanza, gli sembra normale.







*









Nell’estate in cui Jughead compie quindici anni, Archie decide che andranno nello stesso college perché sono coinquilini collaudati. E perché ha fatto questo stupido sogno di loro due che fondano una band e suonano alle feste di dormitorio.





«Certo, perché siamo dei così bravi musicisti,» dice Jughead, infilandosi le scarpe e cercando di sbrigarsi ad andare di sotto prima che i pancake diventino freddi.





«Possiamo imparare, Juggie», Archie alza gli occhi al cielo. Jughead lo sa anche se gli dà le spalle. È una cosa che Archie fa spesso. Quello e guardarsi i capelli allo specchio per secoli interi sono le sue attività preferite, al momento.





Sta per spiegargli nel dettaglio quanta poca voglia abbia di mettersi a fare cose come suonare una chitarra o una batteria o, peggio, cantare, quando sente Archie trattenere il respiro e dire tra i denti, «porca vacca, non ci credo!», mentre si sporge dalla finestra.





«Juggie, vieni a vedere. Sbrigati.»





Quello che deve sbrigarsi a vedere è Betty Cooper curva su se stessa, con le braccia incrociate al petto. Archie fissa insistentemente quello che Betty cerca di nascondere. Le punte delle sue orecchie arrossiscono.





Dice, «Betty è tornata dalle vacanze.»





Quello che Jughead sente è Betty non è più la bambina rompiscatole dell’inverno scorso.





«Lo vedo.»





«Dovremmo chiederle di incontrarci al Pop’s,» conclude Archie. Gli dà una pacca sulla spalla e si precipita di sotto. Dalle scale, urla «chi dorme non piglia pesci, Juggie! È la regola! Sei troppo lento. Non avrai neanche una briciola di pancake.»





Jughead smette di affrettarsi. Preferirebbe restare in quella stanza per il resto della sua vita, senza uscire mai dalla bolla.







*









«Quindi. Tu e Betty.»





Non ha il coraggio di guardarlo, mentre risponde. «Credevo ne avessimo già parlato.»





Archie si lascia cadere sul letto, le mani tra i capelli mentre ride. «Io te ne ho parlato, Jug, tu hai evitato di rispondermi per tutto il giorno.»





«Avevo altro a cui pensare» Jughead tira fuori le mani dalle tasche. Stanno tremando. Se le preme sugli occhi, sospirando, fino a quando non vede nient’altro che pallini rossi. Poi bianchi. «Qualcosa come il fatto che ero sospettato di omidicio.»





C’è silenzio. Poi il suono della gola di Archie che si schiarisce. Lo sente alzarsi dal letto. «Ehi, Jug,» gli dice, afferrandogli il polso. «Juggie. Stavo solo cercando di - » Archie parla così piano, pensa Jughead, così piano che potrebbe fargli più male di tutto quello che gli abbia mai detto suo padre.





Così piano che vuole che la smetta.





«Sono stanco, Arch. Sono veramente stanco.»





Jughead smette di premere i palmi contro gli occhi. I pallini rossi e bianchi restano ad offuscargli la vista per un po’. E la mano di Archie è ancora intorno al suo polso.







*









A quindici anni, Jughead ha paura di Betty Cooper.





Non proprio di lei. In fondo Betty è tutta sorrisi e capelli biondi sotto il sole, le guance piene di lentiggini d’estate, e poi legge fumetti invece dei giornali per ragazze. Non si può aver paura di Betty. Non si dovrebbe.





Ma Jughead la guarda, guarda il modo in cui i ragazzi cominciano ad offrirle i milkshake al Pop’s, come Archie le offre i milkshake, e le sue mani si stringono in due pugni.





E stringono, stringono, fino a quando Jughead sente il bruciore delle unghie nei palmi.





«Mi guardi in modo diverso, Juggie.»





Non passano più così tanto tempo alla piscina comunale come quando erano piccoli, Jughead, Betty e Arch. Niente più corse verso il trampolino, niente chi arriva ultimo paga gli hamburger, niente più gare di apnea.





Archie è sempre in giro, in quei giorni, sempre al cinema allo spettacolo delle sette con un cestello di popcorn doppio burro da dividere con qualche ragazza. Betty passa il suo tempo sperando di essere quella ragazza, una sera o l’altra.





«Betty, non è vero.»





Le volte in cui Archie esce con loro, Jughead può quasi leggere sulla fronte di Betty i suoi pensieri: lo voglio. Lo voglio così tanto che potrei impazzire. E ha paura di lei. Ha paura.





Ha paura anche dei milkshake e di quello che significano, ora come ora.





«Invece sì. Ma è tutto ok, Juggie. Non siamo più bambini.»





No, non lo sono.





A Betty all’improvviso offrono cene, le fissano il petto quando è in costume da bagno. Archie mette il gel nei capelli e ha bisogno della crema antibrufoli.





Jughead ha solo male alle ginocchia. Sua madre dice che è per colpa della crescita. Jellybean gli chiede di continuo quanto sia alto. Ma Jughead non si sente più alto. Si sente più solo, più confuso, e affamato. Jughead ha sempre fame. Ma continua ad essere magrolino in un modo in cui Archie non sarà più.





Archie sta crescendo più in fretta di lui. Betty sta crescendo più in fretta di lui.





E Jughead ha paura di entrambi.







*









Archie lo tira per il polso verso il letto.





Jughead lo segue senza guardare dove mette i piedi. «Non ho ucciso io Jason.»





Anche quando si mettono a sedere sul materasso, ginocchia contro ginocchia, la mano di Archie non lo lascia andare. «Lo so.»





«Giuro, Arch», dice di nuovo, «giuro che non sono stato io.»





«Smettila. Lo so. Non avresti mai potuto.»





Jughead scuote la testa. Rabbrividisce. «Sì, beh, lo sai cosa si dice in giro. La mia non è una famiglia... rispettabile. E io sono la mela che non può essere caduta lontano dall'albero.»





«La gente non sa di che cosa parla, Juggie. Io ti conosco,» mormora Archie, e Jughead non ne è mai stato così sicuro, non ha mai avuto la certezza che Archie lo conoscesse veramente. Che lo vedesse per quello che è, nonostante i segreti. Nonostante i silenzi. Nonostante la paura di Jughead.





Ha sempre pensato che Archie non riesca a vede al di là del suo naso. È per quello che ha complicato tutto con Betty e Ronnie. È per quello che si è fatto incastrare dalla Grundy.





Ma Archie parla con lui così piano, e certe t-shirt di Jughead sono rimaste nel suo cassetto, e Jughead sente di nuovo quella bolla intorno a loro. Credeva si fosse distrutta, quando Archie non si è presentato al Pop’s la mattina in cui avrebbero dovuto partire per il viaggio in macchina.





Credeva non esistesse più, che non si potessero ricostruire cose del genere.





«Ma se – »





«Smettila di pensarci, Jug, l'abbiamo risolta,» dice Archie. Se solo fosse così facile.





«La mia vita è un casino, Arch.»





Archie alza gli occhi al cielo. Lo fa ancora. Ma, d’altronde, perde ancora secoli davanti allo specchio per sistemarsi i capelli. Certe cose non cambiano. «La vita in generale è un casino. Ora cambiati. Puzzi.»







*









Jellybean attraversa la fase dei 'perché' quando Jughead sta ancora cercando di capire quale sia stato il momento in cui Archie ha iniziato a mettere le ragazze davanti ai videogames nella lista delle “cose divertenti”.





Le ragazze non sono mai divertenti a meno che non siano come Betty. E, in quel caso, anche a loro piacciono di più i videogames, comunque.





Sua sorella Jellybean, comunque, è l’essere femminile meno divertente dell’universo.





Perché Archie è il tuo miglior amico. Perché non hai ancora la ragazza. Perché i tuoi vestiti puzzano di formaggio. Perché risparmi soldi per comprare un regalo di compleanno per Archie.





Perché sei così strano, Juggie.








*









È l’una del mattino. Jughead sfila gli scarponi, si sdraia sulla branda senza levarsi i jeans. Ha dormito nello stesso letto con Archie per una vita. Si è preso le sue spintonate, i suoi calci, è rimasto in silenzio quando la pubertà ha colpito Archie in piena notte e lo ha lasciato con i boxer appiccicosi la mattina. Ora non possono più farlo.





Non ha idea di quando le cose siano cambiate.





Di quando tutto in quella stanza, in quella bolla, abbia smesso di essere normale.





Immagina abbiano tracciato dei confini. Archie soprattutto. Può abituarcisi.







*









Non è sicuro di quando lo abbia intuito. Probabilmente sta ancora cercando di mettere insieme i pezzi. Forse Archie – lui e Archie, quello che sono, quello che hanno – forse è qualcosa che cercherà di capire per tutta la vita.







*









«Com’è? Baciare Betty, intendo. Stare con lei.»





Archie respira dalla bocca, il viso schiacciato sul cuscino. Non lo sta guardando.





Ha smesso di piovere. Non c’è più niente da guardare dalla finestra. Si concentra sulla bacheca di sughero di Archie. C’è una foto di tutti e tre. Lui, Archie, e Betty nel mezzo.





Già.





Betty nel mezzo.





«Ci tengo a lei, Arch. Un bel po’. Mi sento al sicuro.»





Vorrebbe dirgli non sarà mai tanto al sicuro come mi sento qui dentro, ma non lo fa. Invece, resta a guardare la sua nuca. Archie annuisce.





«Sembra importante.»





«Potrebbe esserlo, Arch.»







*









È fine giugno, all’inizio delle vacanze estive e Archie tira sassi alla sua finestra. E poi inizia a inviare sms a raffica.





E anche se sua madre non fosse seduta in cucina con la luce accesa invece che a letto con suo padre, anche se non fosse tutto un casino, Jughead preferirebbe sempre e comunque sgattaiolare via nel cuore della notte.





«Che vuoi?» dice, cercando di bisbigliare e urlare allo stesso tempo, affacciato alla finestra.





«Esci. Sbrigati.»





Jughead alza un sopracciglio. Poi chiude la finestra e scende per le scale. Mamma non lo vede. Mamma non vede più nessuno di loro, ormai, è da un’altra parte del mondo.





Si richiude la porta alle spalle senza ripensarci.





Archie rotea gli occhi. Come sempre. «Potevi semplicemente arrampicarti sul ramo e scendere da lì, Jug.»





«Preferisco vivere,» dice Jughead e Archie gli dà un colpetto alla spalla. Dopo aver camminato per un po’ in silenzio, Jughead solleva la testa, «continui ad andare al cantiere?»





Archie scrolla le spalle. Tira su con il naso. «E’ il lavoro di famiglia. Ci provo.»





«…Ma non fa per te.»





Archie sbuffa una risata. Lo guarda con la coda dell’occhio. «Ma non fa per me, decisamente.»





Girano l’angolo dell’isolato e poi di nuovo. Jughead si rende conto di avere addosso una maglia di Archie, quando arrivano alla piscina comunale. «Ho un’idea,» dice Archie. Guarda oltre il cancello sbarrato. Sorride.





«Una pessima idea,» dice Jughead, scuotendo la testa.





«Non ci scoprirà nessuno se la smetti di lagnarti.» Archie sembra sicuro e Jughead lo segue quasi senza guardare dove mette i piedi mentre si arrampicano. La verità è che si sente come se non facesse altro che seguirlo senza guardare. Fidarsi senza precauzioni. Gran parte di quello che Jughead è diventato è legato ad Archie e al modo in cui lo ha seguito nelle avventure, nelle conoscenze, a scuola, per strada. Al Pop’s.





Non sa se valga lo stesso per Archie.





Sa che è pericoloso. È un equilibrio precario, il suo, è fragile. Basta un niente e, crash. Va tutto in frantumi.





Quando entrano in piscina, sembra un altro mondo. Si tuffa, spruzzando acqua in faccia ad Archie.





Riemerge e tutto ciò che vede sono i suoi occhi stretti per evitare gli schizzi, un sorriso morbido e stupido sulla sua bocca, prima che ricambi cercando di buttare Jughead sott’acqua.





«Demente,» Jughead ride. Non sa perché, non è una cosa che fa spesso. Forse non è una cosa che fa spesso quando non c'è Archie nei dintorni.





E' tutto un casino.





Fanno gli idioti per un po’, fingendo di affogarsi a vicenda. Non è più divertente come quando erano piccoli e le cose sono diverse. Forse sono troppo cresciuti per giocare. Archie ride davanti a lui e fatica a riprendere fiato.





«L’estate prossima,» dice, mettendogli una mano sulla spalla «l’estate prossima potrai guidare. Partiamo per il campeggio.»





Jughead vorrebbe chiedergli solo tu ed io?, ma non lo fa. Invece dice, «e con quale macchina.»



«Con uno dei vecchi furgoni di papà. Dai, Juggie. Ci divertiamo,» sa che Archie sta bisbigliando solo perché quello che stanno facendo è praticamente illegale e non dovrebbero essere lì ed è notte fonda ormai, ma c’è qualcosa nella sua voce; Archie parla così piano con lui, così piano che Jughead chiude gli occhi.





«Lo sai anche tu che non ti ho mai detto no, Arch,» dice, riaprendo gli occhi.





Archie lo osserva e Jughead lo osserva e non ha idea di che cosa dovrebbe fare per impedire alla sua faccia di diventare troppo esplicita. Ed è stupido perché Archie non sa niente, non può sapere niente, è troppo impegnato a crescere alla velocità della luce, mettendo miglia e miglia di distanza tra lui e Jughead per rendersi conto di qualcosa.





Ma Jughead ha paura. Ed è imbarazzante.





Non come il seno di Betty. Forse peggio del seno di Betty.





«E’ perché sono il migliore amico che tu potessi trovare, Jug,» dice Archie alla fine.





Jughead ride. Già. «L’hai detto.»









Quando s’intrufola di nuovo in camera sua, trova Jellybean ai piedi del letto ad aspettarlo. «Dov’eri?» bisbiglia. «Ti ho coperto con mamma.»





«…Archie,» dice. E basta. Come se valesse come spiegazione. E forse lo è, forse è davvero una spiegazione convincente perché Jelly annuisce e non chiede uno dei suoi spaventisi perché.





«Prenditi un asciugamano prima di bagnare le lenzuola,» sorride sua sorella.





Dal piano di sotto, arriva un suono terribile. Un singhiozzo di mamma.





Jughead prende fiato. Deglutisce. «Credo che…» stringe le mani in due pugni. Chiude gli occhi. «J, credo. Io – »





«Va tutto bene, Juggie,» dice Jelly e Jughead l’adora. Più di quanto qualsiasi fratello adori una qualsiasi sorella. Ma Jelly non è una 'qualsiasi sorella', questo avrebbe dovuto saperlo da sempre.







*









Archie non russa. Gli dà le spalle per gran parte del tempo. Jughead continua a guardare il modo in cui le lenzuola si alzano e si abbassano.





Sembrano le stesse che avevano da bambini.





Archie sussulta. Jughead trattiene il respiro. Da quando hanno ricominciato a parlarsi ogni passo è come muoversi sul bordo di un dirupo. Ogni cosa è fragile come porcellana.





Basta così poco.





«Mi dispiace di aver mancato il nostro viaggio, Jug. Era importante. Ma ora puoi farlo con Betty.»





Crash.







*









Archie non è mai stato puntuale. Mai.





Perciò Jughead non si preoccupa quando quell’estate deve caricare il furgone da solo. E non si preoccupa quando, passando a prendere Archie, viene a sapere dal sign. Andrews che è uscito per andare a fare un saluto a Betty.





Inizia a preoccuparsi solo un’ora dopo, quando deve pagare entrambi i milkshake che aveva ordinato al Pop’s nell’attesa.





Il suo non l’ha neppure toccato.





Controlla il cellulare ogni tre secondi, ma è inutile e deprimente.





Quando il sole inizia a farsi basso, Jughead cammina verso casa. Verso casa di Archie. Si ferma quando un isolato più avanti, in un angolo dietro i cassonetti, nota un’auto. Da lontano, sembra quella della signorina Grundy. E da vicino, è esattamente quella della signorina Grundy. Poi vede Archie uscire dall’auto e la sua bocca si spalanca.





I capelli di Archie sono incasinati, ha il viso rosso, la camicia abbottonata male e Jughead non è così stupido da non capire.





Poi Archie lo vede dall’altra parte della strada e Jughead si sente più che stupido.





Chi dorme non piglia pesci, Juggie. Sei troppo lento.





Già.







*









«Sarebbe divertente, andarci con Betty, ma non… non sarebbe lo stesso, Arch.»





Archie si gira a guardarlo. Sono faccia a faccia. Il materasso gonfiabile su cui è sdraiato Jughead perde aria. Archie tira su col naso. «Vuoi ancora andarci?»





Jughead lo guarda.





Potrebbe andare tutto in frantumi. Basta un niente.





Ispira dal naso, espira dalla bocca. «…solo tu ed io, Arch?»





Archie sorride. Quansi non sente la sua voce. «L’hai detto, Juggie.» Chiude gli occhi. «L’hai detto.»








Note: La citazione d'introduzione è tratta dal testo della canzone "Porcelain", Sleeping at last.
   
 
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