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Autore: Lost In Donbass    05/04/2017    0 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
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CAPITOLO QUATTRO: ZOOM INTO ME

Is there anybody out there walking alone?
Is there anybody out there ut in the cold?
One heartbeat lost in the crowd
Is there anybody shouting what no one can hear?
Is there anybody drowning pulled down by the fear?

Mackenzie guardava incredula Bill che finiva di pettinarsi i lunghi capelli corvini con le ciocche bianche sparati dappertutto, il trucco appena rifatto nel migliore dei modi, i vestiti più attillati e sexy che aveva nell’armadio, i piercing e i gioielli luccicanti come diamanti sulla sua pelle pallidissima, il primo vero sorriso che la bambina avesse mai visto sulle belle labbra piene, gli occhioni truccatissimi luccicanti di qualcosa che sembrava tanto eccitazione e qualcosa che sapeva di felicità. Lo guardava, seduta sul pavimento, il vestitino blu e bianco tutto pizzi e crinoline, i capelli legati in due treccine striminzite, gli occhi piegati all’ingiù malinconici. Non capiva esattamente cosa fosse successo la sera prima, se non che stare in braccio a Tom fosse così bello, perché effettivamente riusciva a stringerla e a portarla come si dovrebbe, senza barcollare e senza ansimare per la fatica di trasportare il suo peso che faceva Bill ogni volta che la prendeva in braccio. Gli piaceva, Tom. Le piacevano i suoi grandi occhi color nocciola così buoni e rassicuranti, le piaceva il suo abbraccio caldo, le piaceva la sua voce tranquilla e pacata, le piaceva il suo viso confortante e infantile, le piacevano quei buffi capelli a tubi morbidi con cui aveva distrattamente giochicchiato mentre tornavano a casa.
-Mamma, dove stiamo andando?- chiese, leccandosi le manine paffute sporche di Nutella, alzandosi a fatica e barcollando verso la porta del bagno, dove Bill stava finendo di spazzolarsi i capelli e sistemarsi meglio il piercing al sopracciglio.
-Andiamo a trovare Tom, amore mio. Pensi che stia bene così?- Bill si accucciò per terra, sfarfallando le lunghe ciglia incrostate di mascara, sorridendo quando la bambina annuì con fare compito.
Quella era stata una mattina strana per Mackenzie; non era stata svegliata a un’ora improponibile del mattino, ma Bill l’aveva lasciata dormire beatamente fino a tardi, come forse si converrebbe a una bambina di appena due anni, Bill sembrava decisamente felice, visto che sorrideva, canticchiava tra sé e sé e sospirava teatralmente come si converrebbe a qualsiasi ragazzo giovane e innamorato, e, soprattutto, non erano andati alla stazione. Per Mackenzie era stato un evento così assurdo da averla lasciata sbalestrata: perché non erano andati ad aspettare il treno da cui sarebbe dovuta sbarcare la persona che avrebbe aggiustato le loro vite? Che Bill fosse di colpo impazzito e avesse rinunciato a quell’attesa che oramai era tutta la loro vita? Aveva provato a chiederglielo, a colazione, ma l’unica risposta che aveva ottenuto era stato un bacino sulla testolina mora e un trillo che non aveva capito, per poi vedere il moro saltellare in bagno avvolto nella sua vestaglietta azzurra.
Perché sì, la piccola Mackenzie non lo sapeva, ma Bill aveva appena trovato le chiavi della sua felicità, che si chiamava Tom Kaulitz, aveva dei dread improponibili e andava sullo skateboard. Aveva passato la notte a piangere e singhiozzare, invaso da una gioia così sfrenata da essersi trasformata in crisi di nervi di portata epocale. Se ne era stato a letto, sua figlia accoccolata vicino che dormiva pacificamente, le lacrime di trucco sfatto che insozzavano il cuscino insieme ai gemiti spezzati che uscivano a stento dalla sua gola martoriata dall’isterismo. Tom era tornato. Certo, non come se l’era aspettato, non era sceso dal treno correndogli incontro e prendendolo in braccio di peso come ai tempi di Berlino, ma era comunque lì, era tornato da lui e dalla loro bambina, aveva finalmente adempiuto al suo dovere e si era ripresentato di fronte agli occhi di cristallo e al cuore di ragnatele di Bill, pronto di nuovo a prendersi cura di lui come aveva fatto all’epoca, di nuovo lì per amarlo, coccolarlo, proteggerlo e salvarlo da sé stesso. Gi avrebbe portato Mackenzie, finalmente l’avrebbe potuta abbracciare, baciare, avrebbe finalmente conosciuto la figlia che non aveva visto nascere, sarebbe tornato a essere il rasta che conoscevano tutti, con la sua famiglia. Bill era pieno, in quel momento. Tutte le lacrime di cui si era dissetato in quei due anni sembravano finalmente aver saziato il suo animo ferito e violentato dalla depressione. Non aveva nemmeno preso i suoi antidepressivi, quella mattina, limitandosi solamente a una sigaretta fumata romanticamente alla finestra della cucina, tenendola tra le lunghe dita, appoggiato sensualmente al davanzale come faceva fino a due anni prima, sentendo il vento soffiargli tra i capelli e scompirgliarglieli dolcemente, il fumo che si innalzava delicato nel pallido cielo azzurro di Loitsche, così finto e così infinito, un oceano impercorribile dove si nascondevano tutti i sogni, i segreti, le paure di tutti i ragazzi che avevano visto la luce in quel villaggio fuori dal mondo e che si erano dichiarati per la prima volta a quel cielo inifito più azzurro dell’azzuro. Aveva fumato così, tranquillo, la vestaglietta che ondeggiava nel vento, un sorriso perso sulle belle labbra, gli occhi persi nell’infinito, e aveva pensato a Tom, il suo Tom, che era tornato a casa dall’Afghanistan ed era andato a Loitsche a riprenderselo. Tutti gli avvenimenti della sera prima si confondevano nella mente di Bill solo come l’immagine dell’uomo che amava stampata a fuoco nelle retine.
Aveva pregato, sperato, pianto, sofferto, si era distrutto con le medicine e con l’alcol, si era affondato con le proprie mani, ma adesso, forse, avrebbe avuto lo straccio di una speranza. Si sarebbe rincollato tutto insieme a un bacio tanto desiderato e a una ventata di venticello della capitale. Bill non riusciva nemmeno più a concepire quanto gli fosse mancato Tom. Quando, prima di dormire, guardava la luna e piangeva una e una sola lacrima che cadeva silenziosamente sul pavimento, rimbombando come mille cocci che si infrangevano al suolo. Quando non poteva fare a meno di figurarsi il viso del rasta in quello di Mackenzie, nel suo sorriso e nel suo naso rotondo. Quando guardava l’ultimo treno scomparire all’orizzonte, nel tragico tramonto di una sera tedesca, e lui era ancora lì, da solo, seduto sulla vecchia panchina scrostata, con gli occhi gonfi e un pianto incrostato nel cuore. Quando cantava nel vecchio locale, e ricordava con strazio quando i suoi amici berlinesi lo trascinavano sui palchi di locali alla moda a fargli cantare qualche hit di Nena da ubriaco, e si metteva in mostra come la troia che era, perché Bill Kaulitz era il più bello, il più intelligente, il più geniale di tutta la compagnia, e doveva essere di conseguenza anche il più freak di tutti, mentre ora doveva nascondere sé stesso dietro a una toga e a una maschera veneziana, cantando per un mondo che aveva tentato di scordare ma che lo aveva riportato crudelmente indietro, obbligandolo a ricordare le sue origini e a non rinnegare il sangue che gli scorreva nelle vene. Quando pensava a quanto scopavano, nel vecchio appartamentino, alle loro labbra che si incontravano nella passione di un amore che Bill aveva pensato potesse essere indistruttibile ma che sembrava essersi disciolto come cera al sole d’agosto, mentre da quando se ne era andato non si era mai più fatto sfiorare da nessun uomo, nella santificazione del suo corpo come di un tempio in attesa del suo unico sacerdote. A volte, la sera tardi, dopo che erano rincasati dal Kalende May e dopo che aveva messo a letto Mackenzie, raccontadole qualche antica leggenda del deserto, si faceva un bagno caldo, e pensava, pensava al suo Tom, pensava al fatto che aveva solo ventritrè dannati anni e non era giusto tutto quello, e si toccava, si toccava e piangeva, in silenzio, figurandosi i suoi dread, il suo viso, la sua risata e la sua chitarra, vergognandosi immanamente di qualcosa che fino a due anni prima avrebbe fatto senza nemmeno pensarci troppo sopra. Certo, ma tanto due anni prima sarebbe stato a Berlino, all’università, avrebbe fatto una cosa comune a tutti i ragazzi di questo mondo. Ma lui oramai non lo era più. Si era giocato tutto quella volta, e non sarebbe più potuto tornare indietro, il passato era stato scritto in stelle che erano già deflagrate in tutta la loro potenza distruttiva e avevano sparso la loro polvere di stelle nelle lacrime di Bill, che si mescolavano con la cenere delle sigarette a poco prezzo. Avrebbe smesso tutto quello, finalmente la fine della sua tortura era giunta. Non avrebbe più pianto, aspettato alla stazione, preso antidepressivi per togliersi pure la voglia di farla finita, non si sarebbe più toccato nella vasca da bagno, non sarebbe più rimasto solo con la bambina. Poteva riappropriarsi della sua giovinezza una volta per tutte, e avrebbe lottato per ottenerla. Non sapeva perché il fato avesse designato proprio lui, ma oramai non si piangeva più addosso perché aveva avuto l’occasione per riscattarsi per sempre e l’avrebbe presa al volo.
Si inginocchiò per terra, pulendo le manine paffute di Mackenzie, per poi prenderla per mano e infilarsi la giacchetta di strass più bella del suo repertorio, insieme a una borsetta di pelliccia vuota, sorridendo radioso come un sole
-Forza, patatina, sei pronta?
La bambina annuì, dubbiosa, stringendo la bella mano di Bill, lunga e sottile, le unghie smaltate di nero e bianco e i grossi anelli a decorarle; barcollarono così fuori, lui incerto sui tacchi vertiginosi e lei incerta sulle corte gambotte grasse, una coppia molto freak per uno show che doveva ancora avere luogo.
Bill non si stupì nemmeno quando la gente cominciò a guardarli, stranita, sospettosa, spaventata. Tutta Loitsche aveva imparato a venire a patti con lui e sua figlia, li aveva amati e protetti dal mondo per preservarli per sempre nella loro bolla di incredua aspettativa, erano così abituati alle due bambole da tenere al riparo che vederle muoversi sembrava un’eresia. Non li riconoscevano più come il ragazzo malato di mente e la bambina obesa, avevano scombinato finalmente la capsula del tempo che aveva permeato il paese da due anni a quella parte. Guardò il cielo, che improvvisamente, da quell’azzurro terso con le nuvolette bianco panna distribuite ad arte, era diventato grigio perla, i cirri si erano minacciosamente ammassati uno sull’altro e pareva che il costante sereno che ogni mattina benediva quello stralcio di Germania da quando Bill e Mackenzie erano sbarcati dal treno avesse deciso di cambiare radicalmente, crudele. Le persone si fermavano a fissarli, sentiva le loro voci soffocate e stranite, quei “Ma è Bill?” “Come mai non è alla stazione?” “Sarà successa una disgrazia!” “Che sia forse tornata Simone?” che rimbalzavano da villetta a villetta come un flipper, si scontravano sulle pareti di calce bianca e ritornavano alla vecchia chiesetta protestante con la cipolla nera, per poi scivolare sugli orticelli privati di ognuno e finire il loro viaggio nel piccolo meleto. Bill non rispondeva, come al solito. Si limitava a dispensare dolcissimi sorrisi, le guance pallide un poco vermiglie, le ciglia lunghe e truccate pudicamente abbassate, un radiosità nel volto e nelle gentili movenze che nessuno aveva mai riscontrato in lui.
Lo guardavano, e lui ignorava tutti, danzando il suo personale calendimaggio in mezzo a un turbine di farfalle turchesi e un mare di fiordalisi che piovevano dal cielo e gli acconciavano i capelli corvini, perle d’acqua che gli illuminavano l’abito da sposa che tanto aveva sognato di indossare, lui, vedova ancor prima di sposarsi, sposa abbandonata all’altrare senza che nessun ve lo avesse mai portato, fidanzato tradito e bistrattato senza nessun anello a confermarlo.
-Mamma, perché stiamo andando dalla signora Schafer?- Mackenzie zampettò dietro alle lunghe gambe di Bill, stringendogli più forte la mano.
-Andiamo da Gustav a chiedergli dove sta Tom, così gli facciamo una sorpresa. Sei contenta, tesorino mio?- cinguettò il ragazzo, guardandola con un affetto che Mackenzie non era nemmeno sicura che Bill potesse provare per lei. Annuì distrattamente, tirandosi le striminzite treccine con grossi fiocchetti blu in fondo.
Per una volta in vita sua, Bill sentiva che gli sarebbe bastata la sua sola presenza e la manina di sua figlia per affrontare un universo che, in fondo, non aveva mai combattuto da solo, sempre spalleggiato e sorretto da persone che lo avevano chiuso nelle loro bolle di sapone e lo avevano tirato su come elio nel cielo, il centesimo palloncino di Nena che era fuggito dagli altri, l’unico ospite dell’Hotel California che era scappato in tempo, il soldato Johnny che scendeva in città. Per riprendersi la sua vita era pronto addirittura a mettersi in gioco senza protezioni e senza scuse, come aveva fatto sino a quel momento.
Ignorando le occhiate incredule e vagamente spaventate degli anziani del vilaggio seduti diligentemente davanti al pub a commentare i fatti invisibili di quel paesotto di ombre, entrò ondeggiando nel locale che ricordava ancora dai tempi della sua infanzia, quando sua mamma andava a parlare alla madre di Gustav e lo portava con sé, in quel posto che profumava di mele e cose buone. Lo lasciava insieme agli altri bambini, diligentemente seduti attorno alla vecchia televisione a tubo catodico che c’era nel retro, in mezzo una brocca di succo di mirtillo che nessuno beveva e un piatto di fettine di strudel che venivano divorate con gola. Bill ricordava, a malincuore, quei momenti di spensieratezza infantile, legati indissolubilmente al ricordo di sua madre e del suo sorriso triste, a quei giorni in cui ancora poteva dirsi un bambino normale, in mezzo agli altri, a fare da anfitrione con le sue storie della buonanotte che tutti ascoltavano silenti, annuendo ogni tanto, a volte ridendo, a volte semplicemente sussurrando “Bill, ma tu come le fai a sapere ste cose?” con quel reverenziale e candido tono che solo i bambini di cinque o sei anni possono avere. Gli mancava anche quella rabbia innocente e cristallina che solo se hai meno di dieci anni puoi provare, e le litigate che lui sedava tranquillamente, mettendosi in mezzo con il suo sorriso un po’ storto, sorriso che nessuno a Berlino aveva mai potuto vedere, sempre nascosto da uno sexy e costruito per sembrare affascinante, alla moda, cool. Sorrideva quando era bambino, e illuminava il cielo plumbeo di Loitsche con quei dentini storti che luccicavano allegri e spensierati, per poi smettere definitivamente non appena era precipitato a Berlino come una meteora e si era trovato sperduto in un inferno urbano che non sentiva suo. La capitale era stata la morte, per il giovane Bill, come Gropiusstadt e i suoi palazzoni di stampo sovietico che lo avevano soffocato e martirizzato per anni, insegnandogli a vivere la vita che lui non avrebbe mai voluto nemmeno conoscere. Gli aveva fatto male al cuore dover sopportare le angherie dei ragazzi più grandi, dover crescere alla velocità della luce quando a Loitsche a quindici anni eri ancoa un bambinetto poppante, però, anche se gli doleva ammetterlo, era proprio grazie al Gropiusstadt e alla sua aria insalubre che era diventato quello che era. Erano state le canne e le sigarette che gli infilavano a forza in bocca che gli avevano acceso quel lezioso sguardo malizioso e sempre un po’ ammiccante, erano stati i ragazzi polacchi dell’appartamento sotto il suo a iniziarlo al sesso ad appena quattordici anni e a crescerlo per diventare quella troia che poi in fondo era, era stato l’hashish che aveva spacciato per conto del vecchio usuraio ebreo ad averlo svegliato dal suo torpore campagnolo e ad avergli acuito tutti i sensi, erano state le prostitute estoni e kirghize a svegliare in lui quel naturale eppure sopito stimolo alla conoscenza e alla curiosità di mille culture e mille storie, erano state le universitarie della casa sopra la sua a istruirlo con loro nella moda più volgare e stupenda che ci potesse essere. Era stata la periferia a dare alla luce il Bill che tutti conoscevano, quello che si portava a letto tutti i ragazzi più belli della città, che era l’eminenza grigia dell’università, che sapeva sempre come cavarsela in ogni situazione, che ti strizzava l’occhio e ridacchiava con quella sua stridula risatina. Chi avrebbe mai potuto pensare che dietro si erano nascosti anni di fatica e di sudore per arrivare a quel livello di sconcia perfezione assolutistica e incredibile? Chi avrebbe potuto immaginare tutte le lacrime, le derisioni, la paura, la sofferenza che si nascondevano dietro un trucco impeccabile e dei vestiti alla moda? Come potevi concepire che per arrivare ad avere quegli occhioni allucinati eppure scaltri, si era lasciato attirare dalle droghe che gli somministravano e che lo avevano fatto stare così male da aver temuto per la sua stessa vita? O sapere che tutto il suo sapere in materia di sesso era dovuto a intere notti passate da solo in casa di quei due giovani gemelli polacchi che gli avevano fatto fare cose che avrebbero imbarazzato persino un politico? C’erano tanti segreti nascosti dietro agli occhi neri di Bill, dietro a un colpo di fianchi o a una strizzata d’occhio, una marea di orrori e segreti inconfessabili che lui teneva gelosamente rinchiuse nel suo cuore, la chiave buttata via ancora prima di poter rendersene conto. Ogni diva ha i suoi segreti, e Bill si era sempre sentito una diva. Una nuova e frizzante Marylin Monroe, una fine tragica per un novello James Dean, un Jimy Hendrix versione bambolina. L’arte scorreva nelle sue vene, arte che nessuno avrebbe mai potuto sperimentare ed ammirare, un compendio della cultura pop racchiuso gelosamente nella sua anima vagabonda e ferita a morte.
Sospirò, avvicinandosi al bancone dove Gustav puliva indaffarato i boccali, e cinguettò, con voce stanca
-Buongiorno, Gustav.
Il biondo sobbalzò e quando lo vide quasi rischiò di far cadere il bicchiere che aveva in mando. Si pulì nervosamente le lenti degli occhiali e ansimò
-B… Bill? Ma che ci fai qui? Non dovresti essere in stazione?
Se non fosse che giusto il moro fosse stato l’unico e vero simbolo che differenziava Loitsche da tutti gli altri villaggetti pannonici e che gli abitanti proteggevano con coraggio e sprezzo delle considerazioni altrui, la scena avrebbe anche quasi fatto sorridere, una drag queen depressa con una bambina obesa vicino e un giovane barista instupidito.
-E’ successo qualcosa? Sono venuti i ladri? La piccola sta male? Hai bisogno che ti accompagni all’ospedale?
Gustav fece rapidamente il giro del bancone, prima che Bill dicesse, un brivido di eccitazione che non riusciva a dissimulare
-Oh no! Mackenzie sta benissimo, vero alhubb al’umm?1
-Nem ‘um. ‘Inna bikhayr.- cinguettò Mackenzie, mentre Bill la prendeva faticosamente in braccio e la sedeva sul bancone, accarezzandole la guancia pallida ma florida. Oramai la bambina era praticamente bilingue, e Bill ne gioiva segretamente, quando aveva colto il guizzo di prematura genialità di quella splendida figliola che gli era toccata in sorte. Era come lui, in fondo: splendidamente intelligente, con una madre depressa e una casa in un villaggio dimenticato nella Germania più piatta e selvaggia. Era collassato pure lui nel tentativo cieco e disperato di non finire come sua mamma, convinto di avercela fatta quando, per qualche motivo assurdo e inspiegabile, era rimasto gravido di Mackenzie, e viveva a Berlino, circondato da amici adoranti, una carriera da antropologo davanti e un fidanzato spettacolare. Avrebbe avuto la vita che Simone si sarebbe meritata, sarebbe risorto dalle ceneri della fenice sua genitrice, avrebbe riscattato il prezzo da pagare per quella famiglia maledetta da generazioni che erano. Ma le maledizioni, si sa, sono fatte per rovinare tutto e far cadere in rovina imperi e sovrani, come avevano rovinato la via di Bill. Tutte le sue convinzioni erano crollate quando si era ritrovato da solo, abbandonato dall’unico uomo a cui aveva davvero aperto il cuore, lasciato in una trafficata stazione berlinese con la pancia oramai abbastanza visibile nascosta da orribili magliette da skater rubate dal suo armadio, che profumavano così tanto di menta, rivolta e rock’n’roll, il trucco sciolto per le lacrime che lo scuotevano come un fuscello, nelle orecchie che fischiavano la vaga reminescenza di qualche vecchia canzone dei My Chemical Romance. Bill in quel momento si era reso conto di non essere più nessuno, che tutto era crollato come le torri di sabbie che i jinn edificavano nel deserto. E pianse, come Alessandro Magno.
-Ma che razza di lingua è questa?- chiese esterrefatto Gustav, scuotendo la testa a guardare la buffa coppia che gli era apparsa nel pub. Non lo avrebbe mai ammesso, ma segretamente sperava che se ne andassero rapidamente, chè lui di averci proprio Bill tra i piedi non ne aveva nessuna voglia.
-Arabo, Gustav. Semplicemente arabo. Ora, per favore, stammi a sentire.- Bill si appoggiò languidamente al bancone, sfarfallando le lunghe ciglia truccate, nel clownesco rimasuglio della sensualità perduta nelle nebbie di Berlino. Era sempre stata affascinato dai segreti che nascondevano le popolazioni tribali dei deserti, e ne aveva pian piano preso le usanze, ne aveva appreso la lingua bevendola dai testi universitari come miele prelibato che cola dal favo, ne leggeva le storie e le leggende per aprirsi a storie di principesse velate e carovane di cammelli, per cullarsi negli antichi suoni di civiltà perdute da secoli e vedere favolosi arabeschi nei suoi sogni selvaggi. Quante volte si addormentava e sognava le rocce del Wadi Rum giordano, un cavallo nero come l’inferno che cavalcava selvaggio sollevando un rosso polverone che si andava a perdere nei cieli infiniti del Medio Oriente, e lui, vestito con una lunga kefiah bianca e truccato come le antiche principesse dei racconti che cavalcava verso l’infinito, da solo, finalmente libero dai legami che lo avevano assicurato a una Germania che non aveva mai sentito come sua, non tanto quanto il deserto. Cantava ninnananne arabe alla sua bambina, le raccontava storie di impavidi cavalieri con la pelle color dell’ambra e di civiltà nascoste al centro della Terra, sfociando persino nella sua personale visione di Agharti per la gioia di quei grandi occhi così simili ai suoi. Si scollava dal suo mondo di tutti i giorni per potersi appropriare di quelle mille e una notte che nessuno gli avrebbe mai dato, trasfigurarsi in regni di sette assassine che seguivano i dettami di oscure divinità fenicie, città costruite nella roccia rossa di Petra, jinn fatti di sabbia e antichi regni nascosti sotto la sabbia bollente, misteriosi templi di fanciulle vergini nel Karakum, e fughe attraverso gli altipiani. Bill parlava arabo come il tedesco perché in fondo era la vita che non aveva mai avuto, era il suo modo per estraniarsi da una realtà che non faceva che ferirlo e pugnalarlo ogni istante. – Devo assolutamente sapere dove vive ora Tom.
-Tom? Ma … ma stiamo parlando di Tom Kaulitz, il rasta?- Gustav lo guardò boccheggiando, senza nemmeno pensare a fermare Mackenzie che aveva golosamente attaccato il piatto di stuzzichini che avrebbe dovuto servire a quella famigliola in vacanza. – Il soldato?
-Certo, che domande. Qui c’è solo un Tom, ed è lui.- rispose gelidamente Bill, ritrovando per uno straccio di secondo una briciola della sua algida fierezza che sfoggiava come una tigre bianca quando poteva ancora dirsi vivo. Drizzò le spalle, acquistando quei centimetri che lo facevano sembrare un palo della luce, battendo impercettibilmente con le lunghe unghie nere e bianche sul bancone, gli occhi improvvisamente congelati nella sua alterigia che si era scavato in tanti anni di sopravvivenza estrema nella giungla della capitale. Ma Bill aveva sempre voluto il silenzio del deserto, non il caos della giungla. Poteva fare paura, quel ragazzo, con i suoi capelli corvini sparati dappertutto come un’aureola, la mascella serrata e quel qualcosa di nobile negli occhioni feriti dal pianto e dalle medicine.
-Dio, Bill … ma che ti è successo?- sospirò Gustav, lasciando la bambina ingozzarsi delle tartine come se nulla fosse, osservando tristemente da dietro gli occhiali unti quel ragazzo che si ricordava come un bambino sensibile e innamorato del bello, e che aveva ritrovato come un ventenne depresso e schoccato da cose che nessuno avrebbe mai potuto scoprire. C’erano così tanti interrogativi che la popolazione di Loitsche si faceva, nella sua ostinata protezione del loro figlio perduto. Dov’era sparita Simone, tantissimi anni prima? Come mai non era ritornata, senza farsi mai più sentire? Perché Bill era tornato a vent’anni da solo, senza nulla da dire e nulla da ricevere? Chi era Mackenzie? Chi era l’uomo che Bill aspettava così ardentemente? Che cosa aveva distrutto quella perla di bambino che tutti ricordavano? Ma in fondo, erano tutti smorfiosi capricci da chiedersi per passare il tempo e per alimentare la leggenda che proteggeva il loro piccolo fenomeno da baraccone, se qualcuno fosse stato davvero interessato a lui avrebbe potuto scoprire il vespaio di segreti e di scandali che si nascondeva dietro quella figura grottesca che infestava la stazione come un fantasma dei tempi che furono.
-Voglio sapere solo dove vive Tom. Per favore, Gustav. Dimmelo.
Lo guardò, piegando le lunghe ciglia e la testa, accarezzando distrattamente i capelli di Mackenzie, che, con la sua aria saggia e vissuta che proprio non si addiceva a una bambina di due anni, li fissava dal bancone come un dio delle steppe siberiane avrebbe potuto fissare i suoi sfortunati discepoli. Metteva inquietudine, la bambina grassa, con quel suo sorriso inquietantemente dolce e vecchio, i suoi occhi troppo profondi e tristi, il suo modo di porsi esageratamente assennato e giudizioso. Era la bambina che rappresentava la generazione distrutta di una porzione di Germania dimenticata da Dio e dagli uomini, si faceva baluardo di una decadenza estrema, dove lei, l’infanzia, era più sostenuta di qualsiasi altro adulto. Quella sua pazienza e il suo silenzio innaturale mettevano il timbro alla fine di un mondo distrutto, un capovolgimento dei ruoli che nessuno poteva comprendere ed attuare ma che, in qualche modo, si era già attuato da solo.
-Perché vuoi andare da lui? Bill, non lo conosci, che cosa …
Gustav venne interrotto da un lungo dito pallido e inanellato sulle labbra
-Affatto. Ci conosciamo benissimo, io e Tom. E ora dimmi il suo indirizzo. Insomma, ti pare che io e la mia bambina potremmo fargli qualcosa di male?
I due ragazzi si guardarono negli occhi, un paio dardeggianti come lo possono essere solamente le fiaccole della Regina di Saba che illuminano la sabbia dorata nelle infinite notti etiopi e un paio abbandonati alla routine abitudinaria e assassina di un mondo incolore e bigio come la Pianura Pannonica. Ma come poteva la Pannonia sperare di vincere contro il più grande e favoloso regno leggendario?
-L’indirizzo è questo.- grugnì infine Gustav, sconfitto dalle mille sciabole affilate che lo avevano trapassato da parte a parte non appena aveva incotrato le pupille ardenti dell’altro, scribacchiando nervosamente un appunto su un pezzo di carta unta e allungandolo tristemente a Bill, vittorioso e quasi sorridente.
-Grazie mille!- cinguettò, caricandosi Mackenzie in braccio e depositandola per terra – Alrriah yataghayar. Wanahn nutabie.2
Uscirono di nuovo in strada, la mamma e la bambina appesa ai jeans, che caracollavano per le strade uggiose e bagnaticcie di rugiaga della vecchia Loitsche che avrebbe sempre accolto i suoi emigranti nel suo sterile e infame grembo bigotto. Affrontavano le tristi mattinate, col vento che soffiava da est e le nuvole che si affollavano fuggendo nel cielo infinito di un azzurro malato come l’anima di Bill, turbinando nel loro destino evanescente come quello di una cometa, sciogliendosi poi nella tristezza di un bacio mai dato, di un sorriso mai restituito, di un “ti amo” mai sussurrato. Barcollavano verso casa di Tom, tenendosi per mano, un sorriso sapiente sul viso di Mackenzie
-Mamma, ma perché oggi non siamo andati alla stazione?- mormorò la bambina, saltellando una pozzanghera, quei suoi occhi tristi che si specchiavano nell’acqua lurida della strada. – Non dovevamo aspettare papà?
Bill sorrise, radioso, per una volta, sollevando faticosamente Mackenzie tra le braccia e stampandole un umido bacio sulla fronte pallida, sullo sfondo di una tragedia delle anime e di un funerale delle nuvole e della libertà di pensiero
-Oggi no, patatina mia, perché lo andiamo direttamente a trovare. Tom è tuo padre, tesoro. Finalmente è tornato da noi.
 
1Amore della mamma // Certo mamma, sto benissimo.
2Il vento sta cambiando. Noi lo seguiamo.

 
 
 
  
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