Nelle
tre settimane successive all'ultimo caso interessante sottoposto da Lestrade a
Sherlock – quello del presunto morto affogato rinvenuto nel vecchio capannone –
l'umore del detective era sceso ulteriormente. Nell'arco del giorno si muoveva
nervosamente per casa, parendo un leone chiuso in una gabbia troppo stretta,
oppure suonava il violino per brevi istanti, osservando fuori dalla finestra
con sguardo infastidito, come se ci fosse qualcosa di snervante proprio sotto
casa. Negli ultimi giorni, poi, aveva anche cominciato a stare fuori di casa
per ore, senza annunciare né dove andava, né chi incontrava.
Davanti
al suo atteggiamento Emily – che nel mentre continuava a seguire le lezioni del
master e a lavorare al suo scritto – si faceva via via più preoccupata.
Sospettava che ci fosse altro oltre alla mancanza di casi interessanti che
stava provocando un simile stato d'animo al proprio coinquilino e sentiva che
non si trattava di un bene. Quando aveva riferito le sue preoccupazioni a John,
il medico le aveva detto che anche secondo lui c'era sotto qualcosa e le aveva
promesso con un sorriso che avrebbe fatto il possibile per scoprire di cosa si
trattasse.
Consapevole
che John poteva essere di vero aiuto all'amico, Emily si era quindi rilassata e
aveva trascorso gli ultimi due giorni concentrandosi interamente sul proprio
lavoro, facendo il possibile per ignorare la preoccupazione che le ore di
assenza di Sherlock le procuravano.
Ogni
sera, prima di prendere sonno, rimaneva in ascolto per cercare di percepire i
rumori dell’uomo al piano inferiore, mentre la sua mente vagava alla ricerca di
possibili spiegazioni per il suo comportamento. Pensava a ogni cosa possibile:
all'omicidio di Walker, a quello di Horvat, alla busta con le carte di
cioccolatini e le briciole di pane. Quei tre elementi erano gli unici a cui
Sherlock ancora non aveva dato la giusta collocazione e lei sentiva che dietro
di essi si racchiudeva qualcosa di ben più ampio. Il detective una volta le
aveva detto che l'assassino “sta cercando di dirci qualcosa" e forse tutto
ciò faceva parte del messaggio rivolto a Sherlock dal killer. Tuttavia lei non
riusciva a trovare un nesso sensato fra quegli elementi.
Era
probabile che, a differenza di lei, il detective invece ci fosse riuscito, ma
per il momento non le stava dando quell'idea. L'unica cosa di cui era certa in tutta quella situazione
era che non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che – in qualche modo a dir poco assurdo – Moriarty
vi fosse coinvolto.
Era
seduta al tavolo della cucina quando, all’una di un nuovo sabato pomeriggio, il
suo cervello rimuginava ancora su quella faccenda, impedendole di concentrarsi
a dovere sul suo lavoro. Le sembrava di essere seduta a un campo di battaglia;
fra il caos tipico mai sistemato da parte del detective e tutta la serie di
libri e dispense che lei aveva ammonticchiato nel poco spazio libero, non c'era
più un solo centimetro visibile della superficie del piano.
Guardò
distrattamente ciò che aveva davanti. La sua mente era scostante da ore;
faticava a rimanere concentrata su un'unica cosa per un tempo sufficiente e di
tutto quello che aveva scritto da quando era davanti al portatile aveva tenuto
ben poco, cancellato e riscritto innumerevoli volte. L'unico pensiero che le
riempiva la testa e le impediva di focalizzare la concentrazione su altro, in
quel momento, era Sherlock Holmes e il suo stato d'animo attuale, così palese
eppure totalmente indecifrabile.
Alla
fine, consapevole che non sarebbe stata in grado di scrivere una sola riga in
più, si alzò da tavola e prese fra le braccia tutte le sue cose, riportandole
in camera. Nella stanza non fu in grado di ignorare a lungo i morsi della fame
tanto che decise di uscire per andare a comprare qualcosa. Il frigorifero al
piano inferiore era desolatamente vuoto, occupato solo da misteriose fialette e
vetrini pieni di organismi colorati collezionati da Sherlock. Era consapevole
di quanto fosse pericoloso afferrare qualcosa da lì dentro e preferì non
rischiare. Optò per la tavola calda che c'era sotto casa e che faceva ottimi
sandwich.
Tornò
in soggiorno dopo aver messo sterline a sufficienza nel proprio portafoglio e
quando entrò nella stanza trovò Sherlock nella stessa posizione in cui era
fermo da ore: sdraiato sul divano, gli occhi celesti fissi al soffitto, le mani
congiunte adagiate alle labbra. Proprio per via della sua alta figura distesa
Emily si era vista costretta a studiare in cucina, in mezzo al caos, anziché
poter stare accoccolata comodamente sul divano come faceva ogni giorno.
Rimase
a guardare il detective a lungo, in silenzio, mentre i suoni di Londra
entravano ovattati dalle finestre, unendosi al rumore di stoviglie
nell'appartamento di Mrs. Hudson. Rimuginò sul da farsi per altri secondi,
finché non si rianimò, decidendo di invitare Sherlock a mangiare qualcosa
insieme a lei. Per quanto lui fosse sociopatico non poteva continuare in quel
modo, ignorando lei e ciò che c'era al di fuori di quel soggiorno. Per via del
lavoro e della vita genitoriale John non riusciva a passare spesso al 221B ed
Emily sentiva che avrebbe fatto bene a tentare di risollevare da sola il morale
di Sherlock in qualche modo. Sapeva non sarebbe stato semplice – si trattava
pur sempre di un personaggio unico nel suo genere – ma determinazione e
cocciutaggine erano sufficientemente radicati nel suo DNA da farla provare
ugualmente.
«Sherlock»
lo chiamò. Attese una risposta, ma l'uomo pareva non averla sentita.
Emily
gli diede tempo per riflettere, andò a infilarsi il cappotto e,
dall'attaccapanni, prese anche quello del detective, dopodiché tornò da lui.
«Sherlock
che ne diresti di andare a mangiare qualcosa?» tentò nuovamente, alzando anche
il tono della voce.
Di
nuovo l'uomo non si scompose, continuando a fissare il soffitto anche mentre
rispondeva: «Non ho fame» in modo asciutto.
«Oh
andiamo. Non tocchi cibo da ieri a pranzo. Devi mangiare qualcosa.»
«Non
hai altro di meglio da fare che disturbarmi? Sto pensando» la bacchettò,
allontanando le mani dalle labbra e allargandole in un gesto di stizza.
«Non
sei nel tuo Palazzo mentale. Ormai capisco quando ci sei» sottolineò di tutta
risposta la ragazza, servendosi dello stesso tono ovvio spesso usato da
Sherlock.
«Il
mio cervello pensa in continuazione.»
«D'accordo.
Fatto sta che quando non sei nel tuo Palazzo mentale posso disturbarti.»
A
quelle ultime parole il detective si voltò a guardarla, infastidito. Si trovò
davanti Emily che gli tendeva il cappotto, mentre lei era già ben fasciata nel
suo.
«Scendiamo
a prendere un sandwich. Prometto che non ti costringerò a interagire con le
persone e che ascolterò ogni tua possibile frecciatina.»
Lui
continuò a guardarla senza dire nulla.
«Ti
prego, Sherlock. Sono giorni che non facciamo qualcosa insieme.»
«É
stato John a dirti di farlo, vero? A dirti di insistere tanto.»
Di
tutta risposta la ragazza scosse la testa. «No. Lui mi ha detto che quando fai
così devo mandati al diavolo. Ma prima di farlo voglio almeno provare a vedere
se riesco a farti muovere da quel divano.»
A
quelle parole il detective aggrottò ulteriormente la fronte, senza replicare.
I
due rimasero a guardarsi ancora, in silenzio. Sherlock analizzò a lungo Emily,
facendo ragionare la sua mente come sempre, osservando anche i dettagli più
insignificanti, forse sconosciuti perfino a Emily stessa. Alla fine, però, con
sorpresa della ragazza l'uomo si alzò dal divano, sbuffando sonoramente nel compiere
quel gesto. Raggiunse Emily e afferrò il cappotto che continuava a tendergli.
A
lei parve ancora contrariato per l'iniziativa che aveva avuto il coraggio di
prendere, tuttavia le importò poco, sentendo di aver ottenuto – per quanto
insignificante – una nuova vittoria sul detective.
Sherlock
si sistemò il cappotto con un paio di gesti decisi, infine guardò Emily con
superiorità «Però paghi tu.»
Lei
sorrise, acconsentendo con il capo e avviandosi lungo le scale seguita
dall'uomo.
La
tavola calda sotto il 221B era piuttosto piena, come spesso capitava durante
l'ora di punta. I due coinquilini entrarono, prendendo posto in fila per poter
effettuare l'ordine. Mentre aspettava il suo turno Emily lanciava di tanto in
tanto brevi sguardi di sottecchi a Sherlock, tentando di interpretarlo. Era
serio, imperscrutabile; i suoi occhi chiari scrutavano severi e impassibili le
persone nel locale, mentre la sua mente lavorava come sempre a gran velocità,
elaborando più volte tutto ciò che captava. La ragazza non avrebbe potuto
sapere cosa c'era nella testa del detective in quel preciso momento, né che ciò
che lo circondava lo stava, in realtà, coinvolgendo molto più di quanto dava a
vedere.
Sherlock
era ancora perfettamente ricettivo quando lo speaker radiofonico della stazione
che tenevano sempre accesa come sottofondo nel locale annunciò il titolo della
canzone che stava per lanciare. Fra il chiacchiericcio continuo e il
disinteresse generale dei presenti probabilmente nessun altro oltre al
detective sentì le note incalzanti di Stayin’ Alive levarsi. Sentendo quella canzone Sherlock si
irrigidì ancor più di quanto già non fosse, affondando le mani nelle tasche del
cappotto e tendendo i muscoli come in attesa di un imminente attacco a
sorpresa.
Era
irrequieto; non c'era solo la canzone a rimescolargli i pensieri nella mente in
quel momento, ma anche altro. Alla sua destra, inconsapevoli di quello che
stavano scatenando nelle profondità di Sherlock Holmes, due giovani ragazzi, la
divisa della tavola calda indosso, erano chini su un grosso borsone nero,
incerti.
«Pensi
che dovremmo chiamare la polizia?» chiese uno dei due, probabilmente da poco
assunto, notò istintivamente Sherlock guardando il suo atteggiamento.
«No,
non penso. Forse qualcuno l'ha semplicemente dimenticata. Proviamo ad aprirla»
replicò l'altro, chiaramente più affascinante che intelligente.
Mentre
la canzone continuava a risuonare silenziosa ai più, ma non al detective, i due
aprirono titubanti il borsone, lanciando uno sguardo preoccupato al suo interno.
Subito dopo, uno di loro ne estrasse una bomboletta di vernice spray.
«Non
capisco,» lo sentì dire Sherlock, «è piena di bombolette gialle.»
A
quelle parole l'uomo si voltò verso di loro, ma venne subito ricondotto alla
realtà da Emily, che posò una mano sul suo braccio per ottenere la sua
attenzione.
Era
arrivato il loro turno. Dietro il bancone un giovane un po' allampanato era in
attesa, sorridente.
«Tu
cosa prendi?» gli chiese lei.
Teneva
gli occhi fissi sul menù, senza guardare in volto il proprio coinquilino. Se
invece lo avesse fatto, con tutta probabilità, si sarebbe accorta di quanto
Sherlock fosse teso in quel momento. Quel posto gli stava andando stretto, lo
rendeva nervoso e stava portando la sua mente al limite.
Guardò
Emily, che non rispose al suo sguardo, infine puntò gli occhi sul ragazzo di
servizio, facendoli scorrere rapidamente sul volto, la divisa, le mani,
guardando infine il cartellino con il suo nome: James.
Prima
ancora che il collegamento potesse scattare nella testa dell'uomo, la porta
d'ingresso nel locale si aprì; non sapeva chi l'aveva varcata, ma lo sentì bene
mentre, chiaramente rivolgendosi a qualcun altro, esclamò: «Ti sono mancato?»
Quella
fu la molla che fece scattare irrimediabilmente Sherlock. Sentì ogni muscolo
del proprio corpo, anche il più infinitesimale, irrigidirsi per la tensione.
Serrò la mascella, ispirando forte l’aria dal naso, dopodiché, con voce ferma e
severa, in grado di camuffare il suo stato d’animo attuale, sentenziò:
«Dobbiamo andarcene.»
Emily a quelle parole si volse verso di lui.
«Cosa?» domandò.
Appena incrociò lo sguardo dell’uomo capì che
qualcosa in lui non andava, ma non fu in grado di identificare quale fosse il
problema. Non era ancora così brava nel capire cosa turbasse Sherlock, sebbene avesse ugualmente capito che
qualcosa lo stava turbando.
L’uomo prese la via della porta prima ancora che
lei potesse formulare quei concetti.
«S-Sherlock» cercò di fermarlo lei, ma era già
uscito.
Emily si scusò in gran fretta con il ragazzo che
ancora attendeva il loro ordine e uscì dal locale per seguire subito il
coinquilino. Appena fu fuori notò la porta del 221B ancora aperta e capì che
Sherlock doveva essere risalito in casa. Vi entrò anche lei, salendo le scale
in fretta e raggiungendo il soggiorno. Dentro trovò il detective, fermo nella
sua alta figura, le mani fra i capelli, gli occhi chiusi. La ragazza sentì una
fitta attraversarla a quella visione e si sentì improvvisamente impotente. Ne
era certa, qualcosa in lui non andava, ma non riusciva a capire di cosa si
trattasse.
Si avvicinò incerta all’uomo, che ancora non
dava segni di averla sentita entrare.
«Sherlock» lo chiamò, piano.
Dopo alcuni secondi di silenzio, lui scattò.
Spalancò gli occhi e li puntò immediatamente in quelli della ragazza, tendendo
una mano verso di lei come a volerla allontanare.
«Esci» le disse.
Il suo tono non ammetteva repliche, così come la
severa – e quasi minacciosa – luce che aveva da poco inondato i suoi occhi
chiari.
Emily lo guardò, incredula. Non riusciva a
capire cosa gli stesse prendendo, prima di allora non le aveva mai dato un
simile ordine. Aprì bocca per parlare ma non le riuscì di dire nulla. Si guardò
intorno, incerta, infine tornò a rivolgersi al detective: «Si può sapere che ti
prende?» domandò, cercando di essere il più ferma possibile. Le riuscì complicato,
nonostante tutto. Lo scatto di Sherlock di poco prima l’aveva spaventata; non
lo aveva mai visto rivolgersi a lei in quella maniera, tanto che ogni sicurezza
che nutriva sul loro rapporto cominciò a vacillare improvvisamente.
Lui non diede minimamente peso alla domanda che
la ragazza gli aveva posto. Aggrottò la fronte come gli capitava di fare spesso
in presenza di qualcuno che lo innervosiva, infine alzò la voce: «Esci. Devo
rimanere solo!»
Emily sussultò al modo in cui Sherlock le si era
appena rivolto. Irrigidì il corpo, nervosa.
Lui continuava a osservarla, austero, in un modo
in cui non aveva mai fatto prima.
Davanti a quello sguardo Emily capì che avrebbe
fatto bene a non contraddirlo e che forse – almeno così sperava lei – Sherlock
potesse avere i suoi buoni motivi per ordinarle di uscire di casa senza
un'apparente ragione.
Si sistemò il cappotto, cercando di trovare la
sua consueta sicurezza, infine acconsentì con un gesto del capo. -«D'accordo,
ti lascio solo» disse.
L'uomo non replicò in alcun modo, rimase fermo a
seguire Emily con gli occhi mentre lei si avvicinava alle scale.
«Però, se dovessi avere bisogno di qualcosa,
fammelo sapere, ok?» domandò lei, facendo così un ultimo tentativo. Consapevole
che non avrebbe ottenuto una risposta non l'attese nemmeno; si chiuse la porta
alle spalle e scese le scale, uscendo infine dal 221B di Baker Street.
Sherlock continuò a rimanere immobile nel
soggiorno, rivolto alla porta. Sapeva che Emily non sarebbe rientrata per
pregarlo di dirle cosa c'era che non andava e non ne rimase né sorpreso né
dispiaciuto. Una delle differenze
maggiori fra lei e il suo migliore amico era che Emily capiva quando era ora di
smetterla di insistere. Tuttavia, ciò, non sempre era una buona cosa.
*
Emily aveva vagato per una buona mezz'ora prima
di decidere di chiudersi in una caffetteria e tentare di calmare i nervi con
del tè. La fame le era completamente passata e non degnò di attenzione neanche
il più invitante dei biscotti che le avevano portato insieme all'infuso.
Soffiava distrattamente sul contenuto della
tazza, guardando solo il fumo argentato che si muoveva in spirali caotiche
salendo dalla bevanda. La sua mente era da un'altra parte, in un altro tempo;
era ancora davanti a Sherlock a Baker Street, alla sua figura ferma di fronte a
lei, ferrea, all'ordine che le aveva dato e a come lo aveva fatto.
Lui non si era mai comportato a quel modo nei
suoi confronti e quel pensiero le fece male. Ripensò inevitabilmente al modo in
cui le aveva detto di andarsene, alla luce severa, addirittura minacciosa, che
aveva pervaso i suoi occhi. Non riusciva a togliersi quell'immagine da davanti,
come se la stesse vedendo ancora.
Cercò di non pensarci e fece il possibile per
cacciare tutto ciò dalla sua testa, ma non ci riuscì: più si sforzava di non
pensarci, più tutto le si ripresentava davanti inesorabilmente.
Si chiese nuovamente cosa avesse potuto
scatenare un simile atteggiamento in Sherlock e non si diede alcuna risposta
attendibile. Era convinta di conoscerlo, ormai, o perlomeno di aver capito le
situazioni che lo facevano scattare e il modo in cui queste si ripercuotevano
su di lui. Aveva capito che la mancanza di casi stimolanti lo rendeva
irrequieto, così come l'assenza di risposte certe, eppure le sembrava impossibile
che un simile fattore potesse scatenare in lui un livello di frustrazione mista
a rabbia tale da farlo esplodere contro chi non ne aveva colpa.
Si chiese anche se si fosse mai comportato così
con John e, a quel pensiero, decise di provare a chiamare il medico per potersi
confrontare con lui.
Estrasse il cellulare e cercò il numero
dell'uomo. Si scoprì delusa quando si accorse che il messaggio che le era da
poco arrivato era di Richard e non di Sherlock e lo ignorò.
Chiamò John e rimase in attesa mentre il suono
tipico dello squillo a vuoto le rimbalzava nella testa. Era tesa, nervosa;
desiderava che il medico rispondesse, sperando che lo facesse in fretta e che
le potesse consigliare cosa fare – o che le dicesse che avrebbe raggiunto
subito Baker Street.
Tuttavia gli squilli si susseguirono senza
sosta, uno dopo l'altro. Mano a mano che questi si protraevano Emily si sentiva
sempre più persa.
Allontanò il telefono dall'orecchio quando la
segreteria rispose per John e rimase a guardarne lo schermo finché questo non
diventò nero.
Cosa poteva fare?
Sherlock non voleva il suo aiuto e pareva quasi
che in quella situazione non volesse proprio averla fra i piedi. Eppure lei
voleva aiutarlo. Sentiva che Sherlock aveva bisogno di qualcuno che gli stesse
accanto in una simile situazione ed Emily si disse – con quanta più convinzione
possibile – che se John al momento non poteva aiutare né lei né il detective,
allora lei stessa avrebbe dovuto fare qualcosa.
Si alzò dal tavolino e sorseggiò in fretta un
lungo goccio di tè caldo, dopodiché abbandonò il corrispettivo in sterline
della bevanda sul tavolo – come aveva visto spesso fare nei film – si rivestì
in fretta e uscì, diretta verso casa.
Volente o nolente Sherlock si sarebbe dovuto
arrendere all'idea di avere Emily accanto, così come avrebbe dovuto accettare
il fatto che lei era intenzionata ad aiutarlo. Non gli avrebbe concesso di
cacciarla di casa una seconda volta, lo avrebbe costretto ad arrendersi al
fatto che, ormai, lei faceva parte del 221B e della sua vita.
Percorse rapidamente le vie di Londra, facendo a
ritroso il tragitto che l'aveva portata alla caffetteria. Quando svoltò in
Baker Street accelerò ulteriormente il passo, pensando mentalmente a cosa dire
in presenza di Sherlock per potersi imporre alla volontà del detective.
Si fermò solo un momento davanti all'ingresso di
casa, dove prese una lunga boccata d'aria prima di girare la chiave nella
serratura ed entrare. Mentre saliva le scale tese l'orecchio, cercando di
captare possibili rumori o movimenti dell'uomo, ma non sentì nulla finché non
arrivò davanti alla porta. Aprì quest'ultima dopo una leggera indecisione,
raggiungendo così il soggiorno.
In un primo momento la stanza le parve
completamente deserta, ma si accorse che non era affatto così. Sherlock era
disteso in terra, su un fianco, la giacca dell'abito abbandonata malamente sul
pavimento accanto a lui.
Emily si sentì gelare il sangue vedendolo così.
Capì subito che qualcosa non andava, che l'uomo non avrebbe dovuto essere lì,
immobile. Con il cuore che le batteva all'impazzata contro lo sterno cercò di
riacquistare il controllo di sé, ricacciando indietro la paura e raggiunse
subito Sherlock, inginocchiandosi accanto al suo corpo. Guardò il suo petto
alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro dell'uomo. Si tranquillizzò appena, ma
la mano le tremava ancora quando la sollevò per posarla sulla spalla di lui.
«Sherlock.»