Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: MadAka    08/04/2017    0 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Nelle tre settimane successive all'ultimo caso interessante sottoposto da Lestrade a Sherlock – quello del presunto morto affogato rinvenuto nel vecchio capannone – l'umore del detective era sceso ulteriormente. Nell'arco del giorno si muoveva nervosamente per casa, parendo un leone chiuso in una gabbia troppo stretta, oppure suonava il violino per brevi istanti, osservando fuori dalla finestra con sguardo infastidito, come se ci fosse qualcosa di snervante proprio sotto casa. Negli ultimi giorni, poi, aveva anche cominciato a stare fuori di casa per ore, senza annunciare né dove andava, né chi incontrava.

Davanti al suo atteggiamento Emily – che nel mentre continuava a seguire le lezioni del master e a lavorare al suo scritto – si faceva via via più preoccupata. Sospettava che ci fosse altro oltre alla mancanza di casi interessanti che stava provocando un simile stato d'animo al proprio coinquilino e sentiva che non si trattava di un bene. Quando aveva riferito le sue preoccupazioni a John, il medico le aveva detto che anche secondo lui c'era sotto qualcosa e le aveva promesso con un sorriso che avrebbe fatto il possibile per scoprire di cosa si trattasse.

Consapevole che John poteva essere di vero aiuto all'amico, Emily si era quindi rilassata e aveva trascorso gli ultimi due giorni concentrandosi interamente sul proprio lavoro, facendo il possibile per ignorare la preoccupazione che le ore di assenza di Sherlock le procuravano.

Ogni sera, prima di prendere sonno, rimaneva in ascolto per cercare di percepire i rumori dell’uomo al piano inferiore, mentre la sua mente vagava alla ricerca di possibili spiegazioni per il suo comportamento. Pensava a ogni cosa possibile: all'omicidio di Walker, a quello di Horvat, alla busta con le carte di cioccolatini e le briciole di pane. Quei tre elementi erano gli unici a cui Sherlock ancora non aveva dato la giusta collocazione e lei sentiva che dietro di essi si racchiudeva qualcosa di ben più ampio. Il detective una volta le aveva detto che l'assassino “sta cercando di dirci qualcosa" e forse tutto ciò faceva parte del messaggio rivolto a Sherlock dal killer. Tuttavia lei non riusciva a trovare un nesso sensato fra quegli elementi.

Era probabile che, a differenza di lei, il detective invece ci fosse riuscito, ma per il momento non le stava dando quell'idea. L'unica cosa di cui era certa in tutta quella situazione era che non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che – in qualche modo a dir poco assurdo – Moriarty vi fosse coinvolto.

Era seduta al tavolo della cucina quando, all’una di un nuovo sabato pomeriggio, il suo cervello rimuginava ancora su quella faccenda, impedendole di concentrarsi a dovere sul suo lavoro. Le sembrava di essere seduta a un campo di battaglia; fra il caos tipico mai sistemato da parte del detective e tutta la serie di libri e dispense che lei aveva ammonticchiato nel poco spazio libero, non c'era più un solo centimetro visibile della superficie del piano.

Guardò distrattamente ciò che aveva davanti. La sua mente era scostante da ore; faticava a rimanere concentrata su un'unica cosa per un tempo sufficiente e di tutto quello che aveva scritto da quando era davanti al portatile aveva tenuto ben poco, cancellato e riscritto innumerevoli volte. L'unico pensiero che le riempiva la testa e le impediva di focalizzare la concentrazione su altro, in quel momento, era Sherlock Holmes e il suo stato d'animo attuale, così palese eppure totalmente indecifrabile.

Alla fine, consapevole che non sarebbe stata in grado di scrivere una sola riga in più, si alzò da tavola e prese fra le braccia tutte le sue cose, riportandole in camera. Nella stanza non fu in grado di ignorare a lungo i morsi della fame tanto che decise di uscire per andare a comprare qualcosa. Il frigorifero al piano inferiore era desolatamente vuoto, occupato solo da misteriose fialette e vetrini pieni di organismi colorati collezionati da Sherlock. Era consapevole di quanto fosse pericoloso afferrare qualcosa da lì dentro e preferì non rischiare. Optò per la tavola calda che c'era sotto casa e che faceva ottimi sandwich.

Tornò in soggiorno dopo aver messo sterline a sufficienza nel proprio portafoglio e quando entrò nella stanza trovò Sherlock nella stessa posizione in cui era fermo da ore: sdraiato sul divano, gli occhi celesti fissi al soffitto, le mani congiunte adagiate alle labbra. Proprio per via della sua alta figura distesa Emily si era vista costretta a studiare in cucina, in mezzo al caos, anziché poter stare accoccolata comodamente sul divano come faceva ogni giorno.

Rimase a guardare il detective a lungo, in silenzio, mentre i suoni di Londra entravano ovattati dalle finestre, unendosi al rumore di stoviglie nell'appartamento di Mrs. Hudson. Rimuginò sul da farsi per altri secondi, finché non si rianimò, decidendo di invitare Sherlock a mangiare qualcosa insieme a lei. Per quanto lui fosse sociopatico non poteva continuare in quel modo, ignorando lei e ciò che c'era al di fuori di quel soggiorno. Per via del lavoro e della vita genitoriale John non riusciva a passare spesso al 221B ed Emily sentiva che avrebbe fatto bene a tentare di risollevare da sola il morale di Sherlock in qualche modo. Sapeva non sarebbe stato semplice – si trattava pur sempre di un personaggio unico nel suo genere – ma determinazione e cocciutaggine erano sufficientemente radicati nel suo DNA da farla provare ugualmente.

«Sherlock» lo chiamò. Attese una risposta, ma l'uomo pareva non averla sentita.

Emily gli diede tempo per riflettere, andò a infilarsi il cappotto e, dall'attaccapanni, prese anche quello del detective, dopodiché tornò da lui.

«Sherlock che ne diresti di andare a mangiare qualcosa?» tentò nuovamente, alzando anche il tono della voce.

Di nuovo l'uomo non si scompose, continuando a fissare il soffitto anche mentre rispondeva: «Non ho fame» in modo asciutto.

«Oh andiamo. Non tocchi cibo da ieri a pranzo. Devi mangiare qualcosa.»

«Non hai altro di meglio da fare che disturbarmi? Sto pensando» la bacchettò, allontanando le mani dalle labbra e allargandole in un gesto di stizza.

«Non sei nel tuo Palazzo mentale. Ormai capisco quando ci sei» sottolineò di tutta risposta la ragazza, servendosi dello stesso tono ovvio spesso usato da Sherlock.

«Il mio cervello pensa in continuazione.»

«D'accordo. Fatto sta che quando non sei nel tuo Palazzo mentale posso disturbarti.»

A quelle ultime parole il detective si voltò a guardarla, infastidito. Si trovò davanti Emily che gli tendeva il cappotto, mentre lei era già ben fasciata nel suo.

«Scendiamo a prendere un sandwich. Prometto che non ti costringerò a interagire con le persone e che ascolterò ogni tua possibile frecciatina.»

Lui continuò a guardarla senza dire nulla.

«Ti prego, Sherlock. Sono giorni che non facciamo qualcosa insieme.»

«É stato John a dirti di farlo, vero? A dirti di insistere tanto.»

Di tutta risposta la ragazza scosse la testa. «No. Lui mi ha detto che quando fai così devo mandati al diavolo. Ma prima di farlo voglio almeno provare a vedere se riesco a farti muovere da quel divano.»

A quelle parole il detective aggrottò ulteriormente la fronte, senza replicare.

I due rimasero a guardarsi ancora, in silenzio. Sherlock analizzò a lungo Emily, facendo ragionare la sua mente come sempre, osservando anche i dettagli più insignificanti, forse sconosciuti perfino a Emily stessa. Alla fine, però, con sorpresa della ragazza l'uomo si alzò dal divano, sbuffando sonoramente nel compiere quel gesto. Raggiunse Emily e afferrò il cappotto che continuava a tendergli.

A lei parve ancora contrariato per l'iniziativa che aveva avuto il coraggio di prendere, tuttavia le importò poco, sentendo di aver ottenuto – per quanto insignificante – una nuova vittoria sul detective.

Sherlock si sistemò il cappotto con un paio di gesti decisi, infine guardò Emily con superiorità «Però paghi tu.»

Lei sorrise, acconsentendo con il capo e avviandosi lungo le scale seguita dall'uomo.

La tavola calda sotto il 221B era piuttosto piena, come spesso capitava durante l'ora di punta. I due coinquilini entrarono, prendendo posto in fila per poter effettuare l'ordine. Mentre aspettava il suo turno Emily lanciava di tanto in tanto brevi sguardi di sottecchi a Sherlock, tentando di interpretarlo. Era serio, imperscrutabile; i suoi occhi chiari scrutavano severi e impassibili le persone nel locale, mentre la sua mente lavorava come sempre a gran velocità, elaborando più volte tutto ciò che captava. La ragazza non avrebbe potuto sapere cosa c'era nella testa del detective in quel preciso momento, né che ciò che lo circondava lo stava, in realtà, coinvolgendo molto più di quanto dava a vedere.

Sherlock era ancora perfettamente ricettivo quando lo speaker radiofonico della stazione che tenevano sempre accesa come sottofondo nel locale annunciò il titolo della canzone che stava per lanciare. Fra il chiacchiericcio continuo e il disinteresse generale dei presenti probabilmente nessun altro oltre al detective sentì le note incalzanti di StayinAlive levarsi. Sentendo quella canzone Sherlock si irrigidì ancor più di quanto già non fosse, affondando le mani nelle tasche del cappotto e tendendo i muscoli come in attesa di un imminente attacco a sorpresa.

Era irrequieto; non c'era solo la canzone a rimescolargli i pensieri nella mente in quel momento, ma anche altro. Alla sua destra, inconsapevoli di quello che stavano scatenando nelle profondità di Sherlock Holmes, due giovani ragazzi, la divisa della tavola calda indosso, erano chini su un grosso borsone nero, incerti.

«Pensi che dovremmo chiamare la polizia?» chiese uno dei due, probabilmente da poco assunto, notò istintivamente Sherlock guardando il suo atteggiamento.

«No, non penso. Forse qualcuno l'ha semplicemente dimenticata. Proviamo ad aprirla» replicò l'altro, chiaramente più affascinante che intelligente.

Mentre la canzone continuava a risuonare silenziosa ai più, ma non al detective, i due aprirono titubanti il borsone, lanciando uno sguardo preoccupato al suo interno. Subito dopo, uno di loro ne estrasse una bomboletta di vernice spray.

«Non capisco,» lo sentì dire Sherlock, «è piena di bombolette gialle.»

A quelle parole l'uomo si voltò verso di loro, ma venne subito ricondotto alla realtà da Emily, che posò una mano sul suo braccio per ottenere la sua attenzione.

Era arrivato il loro turno. Dietro il bancone un giovane un po' allampanato era in attesa, sorridente.

«Tu cosa prendi?» gli chiese lei.

Teneva gli occhi fissi sul menù, senza guardare in volto il proprio coinquilino. Se invece lo avesse fatto, con tutta probabilità, si sarebbe accorta di quanto Sherlock fosse teso in quel momento. Quel posto gli stava andando stretto, lo rendeva nervoso e stava portando la sua mente al limite.

Guardò Emily, che non rispose al suo sguardo, infine puntò gli occhi sul ragazzo di servizio, facendoli scorrere rapidamente sul volto, la divisa, le mani, guardando infine il cartellino con il suo nome: James.

Prima ancora che il collegamento potesse scattare nella testa dell'uomo, la porta d'ingresso nel locale si aprì; non sapeva chi l'aveva varcata, ma lo sentì bene mentre, chiaramente rivolgendosi a qualcun altro, esclamò: «Ti sono mancato?»

Quella fu la molla che fece scattare irrimediabilmente Sherlock. Sentì ogni muscolo del proprio corpo, anche il più infinitesimale, irrigidirsi per la tensione. Serrò la mascella, ispirando forte l’aria dal naso, dopodiché, con voce ferma e severa, in grado di camuffare il suo stato d’animo attuale, sentenziò: «Dobbiamo andarcene.»

Emily a quelle parole si volse verso di lui. «Cosa?» domandò.

Appena incrociò lo sguardo dell’uomo capì che qualcosa in lui non andava, ma non fu in grado di identificare quale fosse il problema. Non era ancora così brava nel capire cosa turbasse Sherlock, sebbene avesse ugualmente capito che qualcosa lo stava turbando.

L’uomo prese la via della porta prima ancora che lei potesse formulare quei concetti.

«S-Sherlock» cercò di fermarlo lei, ma era già uscito.

Emily si scusò in gran fretta con il ragazzo che ancora attendeva il loro ordine e uscì dal locale per seguire subito il coinquilino. Appena fu fuori notò la porta del 221B ancora aperta e capì che Sherlock doveva essere risalito in casa. Vi entrò anche lei, salendo le scale in fretta e raggiungendo il soggiorno. Dentro trovò il detective, fermo nella sua alta figura, le mani fra i capelli, gli occhi chiusi. La ragazza sentì una fitta attraversarla a quella visione e si sentì improvvisamente impotente. Ne era certa, qualcosa in lui non andava, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.

Si avvicinò incerta all’uomo, che ancora non dava segni di averla sentita entrare.

«Sherlock» lo chiamò, piano.

Dopo alcuni secondi di silenzio, lui scattò. Spalancò gli occhi e li puntò immediatamente in quelli della ragazza, tendendo una mano verso di lei come a volerla allontanare.

«Esci» le disse.

Il suo tono non ammetteva repliche, così come la severa – e quasi minacciosa – luce che aveva da poco inondato i suoi occhi chiari.

Emily lo guardò, incredula. Non riusciva a capire cosa gli stesse prendendo, prima di allora non le aveva mai dato un simile ordine. Aprì bocca per parlare ma non le riuscì di dire nulla. Si guardò intorno, incerta, infine tornò a rivolgersi al detective: «Si può sapere che ti prende?» domandò, cercando di essere il più ferma possibile. Le riuscì complicato, nonostante tutto. Lo scatto di Sherlock di poco prima l’aveva spaventata; non lo aveva mai visto rivolgersi a lei in quella maniera, tanto che ogni sicurezza che nutriva sul loro rapporto cominciò a vacillare improvvisamente.

Lui non diede minimamente peso alla domanda che la ragazza gli aveva posto. Aggrottò la fronte come gli capitava di fare spesso in presenza di qualcuno che lo innervosiva, infine alzò la voce: «Esci. Devo rimanere solo!»

Emily sussultò al modo in cui Sherlock le si era appena rivolto. Irrigidì il corpo, nervosa.

Lui continuava a osservarla, austero, in un modo in cui non aveva mai fatto prima.

Davanti a quello sguardo Emily capì che avrebbe fatto bene a non contraddirlo e che forse – almeno così sperava lei – Sherlock potesse avere i suoi buoni motivi per ordinarle di uscire di casa senza un'apparente ragione.

Si sistemò il cappotto, cercando di trovare la sua consueta sicurezza, infine acconsentì con un gesto del capo. -«D'accordo, ti lascio solo» disse.

L'uomo non replicò in alcun modo, rimase fermo a seguire Emily con gli occhi mentre lei si avvicinava alle scale.

«Però, se dovessi avere bisogno di qualcosa, fammelo sapere, ok?» domandò lei, facendo così un ultimo tentativo. Consapevole che non avrebbe ottenuto una risposta non l'attese nemmeno; si chiuse la porta alle spalle e scese le scale, uscendo infine dal 221B di Baker Street.

Sherlock continuò a rimanere immobile nel soggiorno, rivolto alla porta. Sapeva che Emily non sarebbe rientrata per pregarlo di dirle cosa c'era che non andava e non ne rimase né sorpreso né dispiaciuto. Una delle differenze maggiori fra lei e il suo migliore amico era che Emily capiva quando era ora di smetterla di insistere. Tuttavia, ciò, non sempre era una buona cosa.

 

*

 

Emily aveva vagato per una buona mezz'ora prima di decidere di chiudersi in una caffetteria e tentare di calmare i nervi con del tè. La fame le era completamente passata e non degnò di attenzione neanche il più invitante dei biscotti che le avevano portato insieme all'infuso.

Soffiava distrattamente sul contenuto della tazza, guardando solo il fumo argentato che si muoveva in spirali caotiche salendo dalla bevanda. La sua mente era da un'altra parte, in un altro tempo; era ancora davanti a Sherlock a Baker Street, alla sua figura ferma di fronte a lei, ferrea, all'ordine che le aveva dato e a come lo aveva fatto.

Lui non si era mai comportato a quel modo nei suoi confronti e quel pensiero le fece male. Ripensò inevitabilmente al modo in cui le aveva detto di andarsene, alla luce severa, addirittura minacciosa, che aveva pervaso i suoi occhi. Non riusciva a togliersi quell'immagine da davanti, come se la stesse vedendo ancora.

Cercò di non pensarci e fece il possibile per cacciare tutto ciò dalla sua testa, ma non ci riuscì: più si sforzava di non pensarci, più tutto le si ripresentava davanti inesorabilmente.

Si chiese nuovamente cosa avesse potuto scatenare un simile atteggiamento in Sherlock e non si diede alcuna risposta attendibile. Era convinta di conoscerlo, ormai, o perlomeno di aver capito le situazioni che lo facevano scattare e il modo in cui queste si ripercuotevano su di lui. Aveva capito che la mancanza di casi stimolanti lo rendeva irrequieto, così come l'assenza di risposte certe, eppure le sembrava impossibile che un simile fattore potesse scatenare in lui un livello di frustrazione mista a rabbia tale da farlo esplodere contro chi non ne aveva colpa.

Si chiese anche se si fosse mai comportato così con John e, a quel pensiero, decise di provare a chiamare il medico per potersi confrontare con lui.

Estrasse il cellulare e cercò il numero dell'uomo. Si scoprì delusa quando si accorse che il messaggio che le era da poco arrivato era di Richard e non di Sherlock e lo ignorò.

Chiamò John e rimase in attesa mentre il suono tipico dello squillo a vuoto le rimbalzava nella testa. Era tesa, nervosa; desiderava che il medico rispondesse, sperando che lo facesse in fretta e che le potesse consigliare cosa fare – o che le dicesse che avrebbe raggiunto subito Baker Street.

Tuttavia gli squilli si susseguirono senza sosta, uno dopo l'altro. Mano a mano che questi si protraevano Emily si sentiva sempre più persa.

Allontanò il telefono dall'orecchio quando la segreteria rispose per John e rimase a guardarne lo schermo finché questo non diventò nero.

Cosa poteva fare?

Sherlock non voleva il suo aiuto e pareva quasi che in quella situazione non volesse proprio averla fra i piedi. Eppure lei voleva aiutarlo. Sentiva che Sherlock aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto in una simile situazione ed Emily si disse – con quanta più convinzione possibile – che se John al momento non poteva aiutare né lei né il detective, allora lei stessa avrebbe dovuto fare qualcosa.

Si alzò dal tavolino e sorseggiò in fretta un lungo goccio di tè caldo, dopodiché abbandonò il corrispettivo in sterline della bevanda sul tavolo – come aveva visto spesso fare nei film – si rivestì in fretta e uscì, diretta verso casa.

Volente o nolente Sherlock si sarebbe dovuto arrendere all'idea di avere Emily accanto, così come avrebbe dovuto accettare il fatto che lei era intenzionata ad aiutarlo. Non gli avrebbe concesso di cacciarla di casa una seconda volta, lo avrebbe costretto ad arrendersi al fatto che, ormai, lei faceva parte del 221B e della sua vita.

Percorse rapidamente le vie di Londra, facendo a ritroso il tragitto che l'aveva portata alla caffetteria. Quando svoltò in Baker Street accelerò ulteriormente il passo, pensando mentalmente a cosa dire in presenza di Sherlock per potersi imporre alla volontà del detective.

Si fermò solo un momento davanti all'ingresso di casa, dove prese una lunga boccata d'aria prima di girare la chiave nella serratura ed entrare. Mentre saliva le scale tese l'orecchio, cercando di captare possibili rumori o movimenti dell'uomo, ma non sentì nulla finché non arrivò davanti alla porta. Aprì quest'ultima dopo una leggera indecisione, raggiungendo così il soggiorno.

In un primo momento la stanza le parve completamente deserta, ma si accorse che non era affatto così. Sherlock era disteso in terra, su un fianco, la giacca dell'abito abbandonata malamente sul pavimento accanto a lui.

Emily si sentì gelare il sangue vedendolo così. Capì subito che qualcosa non andava, che l'uomo non avrebbe dovuto essere lì, immobile. Con il cuore che le batteva all'impazzata contro lo sterno cercò di riacquistare il controllo di sé, ricacciando indietro la paura e raggiunse subito Sherlock, inginocchiandosi accanto al suo corpo. Guardò il suo petto alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro dell'uomo. Si tranquillizzò appena, ma la mano le tremava ancora quando la sollevò per posarla sulla spalla di lui.

«Sherlock.»

  
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