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Autore: Sarija    09/04/2017    7 recensioni
Dal testo:
“Mi dispiace …” e come un fulmine sparì dalla mia vista, lasciandosi alle spalle un tuono di emozioni che scombussolarono il mio cuore.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Amore e sangue'
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Buongiorno! Questa è la mia prima ff in questo fandom, in quanto è da ben poco che ne sono entrata in contatto ... Sono curiosa di sapere cosa ne pensate, quindi recensite in molti! Mi va bene anche un "Crepa" xD Spero vi piaccia e... Buona lettura :D
 
Un lieve movimento alla mia destra mi destò dolcemente e lui, accortosi di avermi svegliata, mi regalò un bacio umido sulla spalla.
“Non volevo svegliarti …”, si scusò allontanandosi un poco.
Mugugnando qualcosa di incomprensibile mossi il braccio alla cieca e afferrai la sua mano destra.
“Resta …”, sussurrai con ancora le palpebre abbassate mentre accarezzavo lentamente ciò che rimaneva del suo anulare.
Lui sospirò trattenendo a stento una risata, “Non posso” e lasciò cadere la mia mano sul letto.
Aprii un occhio e, abituata all’oscurità che regnava nella stanza, vidi la sua schiena nuda poco più in là mentre si rivestiva, pronto per uscire.
Il nostro primo incontro era stato davvero strano, ma cosa ci si poteva aspettare da due persone così anormali? Lui un Assassino, un Angelo della Morte; io un medico che si era sempre finto un uomo per poter studiare e apprendere.
Lo avevo trovato in un vicolo stretto, sopra ad una montagna di fieno e una freccia conficcata nell'addome. Lo avevo trascinato a fatica a casa mia, ringraziando il cielo che la proprietaria fosse giù al mercato e mi presi cura di lui.
Lo ricucii.
Rimisi insieme i pezzi della sua anima. O almeno così lui sosteneva.
“Torna a dormire”. Il suo sussurro mi fece tornare alla realtà e annuendo richiusi gli occhi, accompagnata dal fruscio delle sue vesti.
Non so dopo quanto tempo mi risvegliai, ma i raggi del sole penetravano timidi dalla finestra.
La notte era passata tranquilla: nessuno aveva bussato con forza chiedendo di me all’infermeria. Era da alcuni giorni che accadeva.
Corrugai la fronte: si era giunti ad una svolta con i Templari o era la quiete prima della tempesta?
In pochi minuti mi preparai per scendere nella mensa della Dimora, ma prima che potessi abbassare la maniglia della porta, un'ombra si stagliò sul pavimento.
Trattenni a stento un risolino e voltandomi lo vidi appollaiato sul parapetto del balconcino.
“Questa volta ti ho battuto sul tempo”, dissi mentre lui si avvicinava.
Silenzioso come un gatto.
Sinuoso come un serpente.
Era ormai a pochi centimetri da me e in un istante fece aderire i nostri corpi, facendo pressione contro il legno scuro della porta.
Deglutii a vuoto, mentre il cuore pompava sempre più velocemente il sangue che presto mi imporporò le guance.
Non aveva ancora detto nulla, ma lui aveva questa capacità se solo si era in grado di ascoltare i suoi silenzi.
“Significa che questa notte non ti ho stancata abbastanza …”, disse lascivo mentre percorreva la linea del mio collo con le labbra.
Mi feci scappare un sospiro di puro godimento mentre un piacevole languore si diffuse nel basso ventre.
Il suo fiato caldo si infranse sulla pelle delicata del mio orecchio e un brivido mi percorse la schiena quando sussurrò solenne come per una promessa: “Rimedierò”.
 
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Il pomeriggio dello stesso giorno, seduta a cavalcioni sul davanzale di una finestra, stavo leggendo tranquillamente un saggio di medicina orientale, quando un barattolino anonimo apparve davanti alle pagine scritte minuziosamente.
Alzai lo sguardo sul proprietario della mano che stringeva il piccolo contenitore di vetro e incontrai il suo volto nascosto per la maggiore dal cappuccio biancastro.
Era teso.
Come ogni volta.
“Ti ringrazio”, gli dissi con il sorriso sulle labbra.
“Uhm sì ...ehm, mi avresti augurato l'Aljahim altrimenti…” e mentre parlava quasi scappò via.
Ridacchiai tra me e me. Lui era fatto così: nascondeva la sua gentilezza con lamentele sconclusionate.
Il barattolino conteneva cera d'api: quasi introvabile. Utilizzavo quel prodotto sulle mani quasi ogni giorno a causa dei continui lavaggi dovuti al mio lavoro di medico.
E lui riusciva sempre a procurarsela.
 
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“Presto delle bende!”, dissi ad alta voce sperando che qualcuno mi avesse sentito: il frenetico ritmo dell’infermeria nella Dimora era tornato a pieno regime. Oltre ai Novizi che si ferivano durante gli allenamenti, dovevamo occuparci di Assassini ben più esperti e la cosa mi stava preoccupando sempre più.
Anche lui pareva preoccupato, ma non condivideva i suoi pensieri con me. Rimaneva immobile, con lo sguardo perso nel nulla di fronte a sé: avrebbe fatto invidia alle statue elleniche.
Mi sciacquai le mani nella tinozza all'angolo della stanza e con le unghie feci forza per togliere il sangue che già si era coagulato. Indietreggiando mi scontrai con qualcuno, che riconobbi appena mi circondò la vita per non farmi cadere a causa del contraccolpo.
“Ti devo parlare”.
Mi irrigidii e lui parve accorgersene perché mi cinse anche con l'altro braccio, in una morsa salda ma dolce al contempo.
Mi parlò della sua missione, di ciò che avrebbe dovuto fare, di dove sarebbe dovuto andare e senza neanche accorgermene finimmo all'esterno della Dimora, con la Luna come spettatrice.
“Dovrai partire immediatamente …?”, chiesi speranzosa in una risposta negativa, ma lui annuì semplicemente.
Le mie labbra si tesero in un sorriso amaro, “Allora ti aspetterò … anche se non dovessi più tornare”.
Ebbe un sussulto e sul suo viso passarono fulminei miriadi di sentimenti, fino a che la sua espressione non si bloccò sul senso di colpa. Sembrava dilaniato dall'interno, come per una lama vigliacca e traditrice.
Si mosse veloce e in un battito di ciglia le sue labbra erano sopra le mie in un bacio leggero, casto, ma pieno d'amore.
“Mi dispiace …” e come un fulmine sparì dalla mia vista, lasciandosi alle spalle un tuono di emozioni che scombussolò il mio cuore.
 
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Era morto. Lui non era tornato. I volti dei suoi compagni di ritorno dalla missione portavano un chiaro messaggio, ma aspettai finché non pronunciarono quelle parole.
Parole così semplici. Taglienti. Bastarde.
Il mio mondo, il nostro mondo che ci eravamo costruiti tassello per tassello, era scomparso.
Fu come una pugnalata al cuore. Una lama fredda, subdola. E mi trapassò, da parte a parte.
Era diventato tutto così grigio, lento.
Morto.
Facevo il mio lavoro come un automa, per inerzia cucivo ferite su ferite, sperando inutilmente che il prossimo paziente fosse lui.
Tutti mi dicevano di lasciarlo andare, ma avevo fatto una promessa e ogni giorno salivo sul tetto della Dimora per aspettarlo sotto lo sguardo attento delle stelle.
Era ormai passato quasi un mese, ma la ferita al cuore era ancora sanguinolenta, tanto da desiderare di diventare polvere o di poter estrarre quel muscolo maledetto dal petto.
Mentre ero con il naso all’insù, una figura nera nel cielo attirò la mia attenzione, ma la nebbia delle lacrime mi impedì di comprendere subito di cosa si trattasse.
Lesta mi passai la manica della tunica beige sugli occhi e guardando attentamente mi resi conto che fosse un'aquila.
Cominciò a volteggiare in circolo proprio sopra di me, fino a che non atterrò con eleganza sul parapetto,  esattamente dove mi trovavo io.
L'aquila mi guardò interessata, indagatrice e mi accorsi solo dopo qualche minuto che attorno ad una zampetta vi era legato un biglietto arrotolato su se stesso.
Mi avvicinai con calma, stando attenta che il volatile non mi attaccasse, ma lei sembrava molto calma, a differenza mia.
Sul biglietto non vi era nulla, se non per qualche macchia di inchiostro nero qua e là, come se la mano di chi avesse voluto scrivere non avesse avuto la forza per farlo.
In un impeto di consapevolezza mi strinsi la piccola striscia di pergamena al petto e nuove lacrime iniziarono a solcarmi le guance come aratri.
Lui… Lui non… non era morto.
Altaïr …”
   
 
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