Serie TV > Agents of S.H.I.E.L.D.
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Autore: Marika_Amberle    09/04/2017    0 recensioni
Quando Fitz invita finalmente Simmons a cena fuori tutto sembra andare per il verso giusto. Fin quando Jemma viene risucchiata dal monolite e mandata su un pianeta sperduto. Ma l'unica cosa che vuole è tornare a vedere il sole, tornare a vedere Fitz.
Songfic FitzSimmons che copre alcuni eventi dalla 2x22 alla 3x18 sulle note di "Bird With A Broken Wing" degli Owl City.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jemma Simmons, Leo Fitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bird With A Broken Wing
 

Clack.
Alzo gli occhi verso il monolite, ancora nessuna differenza. Tutti i test sono negativi. Cosa mi sfugge, cosa non capisco? Incrocio lo sguardo con Fitz: mi sta torturando con domande improbabili e non è per niente il momento giusto. Mi accorgo che gli devo ancora una risposta.
“No, non capisco. Continui a sproloquiare e ancora non capisco che vuoi dire.”
“Cena.” Mi risponde. Una semplice parola. Ma come può pensare alla cena in un momento così? Siamo davanti ad un manufatto Kree che si comporta nei modi più inspiegabili e lui pensa alla cena.
“È quasi ora di cena, sì. E mangeremo a breve, tranquillo.” Affermo esasperata.
“Sì, no, no… ma.” Mi accorgo solo ora che è nervoso. Dopo il danno al lobo frontale balbetta sempre quando non si trova a suo agio. Ma perché non lo è? Siamo solo io, lui ed il monolite. In effetti, gettando una seconda occhiata questo coso, qualsiasi cosa sia, mette i brividi.
“Io e te.” Continua Fitz. Mi volto in fretta verso di lui, con aria interrogativa. “Magari potremmo mangiare da un’altra parte… tipo… In un posto… carino.” Lui si appoggia lentamente sulla teca contenitiva e mi osserva, ed io intravedo nel riflesso il mio viso cambiare espressione ogni millisecondo. Ora capisco. In effetti abbiamo tantissime cose in sospeso di cui parlare, tantissime cose su noi due. E scegliamo sempre i momenti più melodrammatici per lanciare la pietra, sconvolgere l’altro e poi ritirarci: lui sul fondo di quel maledetto oceano, cedendomi il nostro unico respiro per la salvezza; io, invece, poco prima di vederlo partire in missione su quella portaerei, dopo aver compreso, grazie a Bobbi e Hunter, che qualcosa ancora c’è.  Troppe cose, troppe parole non dette, troppi gesti accennati rientrati nel dimenticatoio: un oceano di tutto ciò ci separava, ma fortunatamente intravedo una scialuppa. Ma cosa fare? Dalla gioia e confusione riesco a rispondere con un “Oh”, a metà tra il sorpreso e lo speranzoso. Riesco a fare un piccolo sorriso verso Fitz che, impreparato per questa mia reazione, perde l’equilibrio e tocca qualcosa della teca che, per tutta risposta, emette uno strano rumore.
“Bene, ok.” Risponde, sollevato. “Bene, allora… vieni a cercarmi quando hai finito qui. Io intanto cercherò alternative da sottoporti… per la cena.” Lo vedo uscire dalla stanza, a passo lento inizialmente, poi sempre più veloce. Mi sa tanto che l’ho sconvolto un bel po’. Ma Leo, ricordati: sono stata io a risollevare il polverone prima della missione sulla Iliad, io ti ho detto che forse qualcosa di cui parlare c’è. E ora è giunto il momento di affrontare l’enorme elefante rosa nella stanza. Sovrappensiero ripongo gli strumenti, mentre un sorriso affiora spontaneamente sulle mie labbra. Forse, dopo anni e anni, siamo giunti al giusto punto di svolta. Getto un ultima occhiata verso il monolite, ma vedo che qualcosa non va: la teca è aperta.
“Ma che…” Dico sovrappensiero. Sarà stato di sicuro Fitz prima. Accade tutto in pochissimi secondi. Vedo il monolite sciogliersi, travolgere la porta della teca e spalancarla: la sostanza mi tocca i piedi, mi si stringe attorno alle gambe, mi tira verso di sé, dentro di sé.
Che diavolo sta succedendo, Fitz? Perché te ne sei andato? Aiutami!
Riesco solo a gridare ma il mio urlo si perde, soffocato dal monolite. E poi, tutto diventa nero.
 
Sento il mio corpo impattare con il terreno, apro gli occhi e vedo tutto… blu. Lancio un’occhiata in giro e vedo il punto da dove sono uscita, corro per tornare indietro ma sono troppo lenta: quello che sento tra le dita è solo terra. D’impulso prendo il cellulare per chiamare Fitz, per chiedergli aiuto, ma ovviamente non c’è campo. “Dove diavolo sono?” Mormoro al vento. Vorrei proprio saperlo.
 
So I walk alone down the darkest roads
'Cause I've always known how the story goes
When the curtain falls, I'll be wearing thin
Clawing at the walls as they're closing in
In this twisted plot I was destined for
I'm an astronaut on the ocean floor
So misunderstood 'till the bloody end
How I wish I could do it all again
 
Non mi perdo d’animo, non posso stare immobile nella vana speranza che un miracolo avvenga. Incomincio a camminare, anzi a correre alla ricerca di un punto più alto per osservare dove diavolo sono. Solo quando arrivo in cima alla collinetta non riesco a credere ai miei occhi: sono su un pianeta blu con due lune. Ero convinta di sapere qualcosa della grande storia della scienza, ma davanti a fenomeni come questi non so che dire. Ritorno al punto in cui sono arrivata tramite quel maledetto portale, camminando per i sentieri di questo pianeta, cercando di confortarmi, di trovare un modo per far finire questa stramba avventura. Devo solo aspettare: sono un agente persa sul campo, il protocollo di estrazione sarà già stato attivato. Ma come faranno a riportarmi a casa se nemmeno io so dove sono? L’unica cosa che riesco a fare è comportarmi come sempre, allo stesso modo di quando conduco esperimenti in laboratorio. Prendo dunque il telefono e faccio partire una nota vocale. “Sono la dottoressa Jemma Simmons, aggiornamento sul monolite che io e Fitz stiamo studiando.  Ora so che è uno strumento di trasporto il cui stato della materia cambia. Un portale. Davvero notevole, in realtà. Sono stata trasportata in un pianeta sconosciuto in un sistema solare diverso.” Prendo un profondo respiro e continuo. “L'aria è respirabile, ossigenata. La gravità sembra essere leggermente più forte... O forse sono io a essere stanca.” Dico, mentre saltello. Per essere sicura faccio un'altra prova. “No, penso sia la gravità.” Apro la fotocamera, immortalo lo scenario che mi si para davanti agli occhi. “Il terreno... È arido, desertico. Nonostante sembra che ci siano le condizioni per organismi terrestri, non c'è alcun segno immediato di vita ne' vegetazione evidente o acqua.” Mi siedo per terra, osservandomi intorno. Più passa il tempo più mi sembra di stare sul fondo dell’oceano. Non riesco a capire nulla, tutto mi sembra estraneo. L’unica cosa a cui riesco a pensare è una frase di Fitz: “Se non riesci a risolvere un problema, dormici sopra.” Mi tolgo la giacca, la appallottolo come un cuscino e mi sdraio. Mentre aspetto che arrivi il sonno penso alla decisione presa ormai un bel po’ di tempo fa di diventare finalmente agente operativa sul campo con Leo: se fossimo rimasti in accademia o in una delle strutture dello S.H.I.E.L.D. tutto questo non sarebbe mai successo. Ma più ci ripenso e più sono convinta che, anche potendo tornare indietro nel tempo, avrei rifatto tutto.

 
It feels like I'm a lone survivor
Forgotten in a dark and deadly world
And on my own I walk alone
To see the sun again I'd give anything
But life demands a final chapter
A story that we all must leave behind
It's do or die, and this is mine
The anthem of a bird with a broken wing
 
Mi risveglio di soprassalto ed è ancora notte. “Quanto durano le notti su questo pianeta?” Affermo tra me e me. Non ne posso più, sono persa in questo mondo così scuro, così… morto. Non c’è anima viva, nessuna vegetazione e nessun animale. Anche le zanzare, gli insetti più odiosi del mondo, non sono qui. Mi sento… dimenticata, da tutto e da tutti. Non riesco più a stare ferma, cammino facendomi compagnia con il suono dei miei passi. Ma ancora tutto non è perduto: guardo il cielo e vedo ancora quelle due strane lune. Speranzosa sussurro: “Arriverà l’alba, prima o poi.”

Ma non vuole arrivare. Passo le ore, anzi i giorni a camminare su questo piccolo pezzo di terra, cercando di non allontanarmi dal punto d’accesso, osservando le due lune muoversi nel cielo. Ma ad un certo punto crollo. “Dov’è il sole?” Urlo al cielo, “Cosa gli avete fatto? Voglio il sole! Lo voglio!” Sento le lacrime rigarmi le guance, I singhiozzi mi scuotono il corpo, le mie ginocchia toccano il terreno. Voglio solo andare a casa, chiudere questo sgradevole capitolo della mia vita.
Ma questo capitolo non vuole passare, non sembra esserci una ragione valida per lasciarmi tutto alle spalle. È giunto il momento di affrontare la situazione di petto: o faccio tutto il possibile, o muoio. Non ci sono altre alternative valide. Sono già passate 79 ore dal mio arrivo, e posso sopravvivere senz’acqua solo per 100. Devo darmi una mossa, in modo da trovare quella dannata acqua. “Mi spiace, Fitz.” Dico, mentre slaccio la collana che porto e la poggio su uno dei massi che formano una freccia, per indicare la direzione in cui sto andando, “Non posso aspettare più. Ma se arrivi mentre non ci sono, saprai dove trovarmi.“
Mentre cammino non riesco a stare zitta, e parlo con te. Sono curiosa di sapere dove mi porterai, come ti comporterai, come mi comporterò io. Spero solo che tutto vada per il meglio, non voglio rovinare questi 10 anni di amicizia meravigliosa. Amicizia: ma chi prendo in giro? Non siamo mai stati solo amici: siamo stati compagni di vita. E tutto è iniziato quel primo giorno in accademia.

Sono seduta nel cortile interno, appoggiata ad un albero, con gli appunti della prima lezione di programmazione del professor Vaughn. Sono… sconfortata al massimo. Non mi sono mai approcciata a un livello così alto di programmazione, e mai avrei pensato di doverlo capire e anzi, superare. Disperata chiudo gli appunti con tanta forza che il ragazzo fermo davanti a me con una tazza di the caldo tra le mani perde l’equilibrio e si rovescia il tutto addosso.
“Oh porca… ehi, ciao. Ti ho visto uscire dall’aula parecchio disperata, ho subito pensato avessi bisogno di una buona tazza di the per calmarti. Avevo ragione, vero?”
“Io…si, hai ragione.” Mormoro. “Ma come hai fatto a capirlo?”
“Semplice: sei del Devonshire. Si vede da lontano un miglio. E quale modo migliore per far calmare un inglese? Un bel the caldo, con una spruzzata di limone. La tazza è andata, mi dispiace, ma te ne posso procurare un'altra.”
“No no, davvero, non ce n’è bisogno… come hai detto che ti chiami?” Domando, confusa.
“Ah, giusto, ancora non l’ho detto! Sono Fitz.”
“Fitz? Dai, non può essere il tuo nome, al massimo il tuo cognome. Devo provare ad indovinare?”
“No, mi daresti i nomi più strani. È che… non lo dico mai. Cioè, in realtà nessuno me l’ha mai chiesto.”
“Facciamo un patto, piccolo scozzese.” Alla mia affermazione sgrana gli occhi, sorpreso. “Si, ho capito che sei scozzese, non sei l’unico ad avere buon occhio clinico. Dimmi il tuo nome e il tuo ambito di studi e io ti dirò i miei, e ti pagherò il conto della lavanderia. D’altronde quella macchia è colpa mia. Ci stai?”
Fitz guarda in aria, confuso se accettare o meno questa proposta così semplice. Alla fine, fa buon viso a cattivo gioco ed afferma, tendendo la sua mano:  “Leopold Fitz, ingegnere.”
“Jemma Simmons, biochimica.” Rispondo io.
Ci stringiamo la mano e in automatico battiamo il pugno, senza averlo premeditato, senza averci ragionato. E scoppiamo a ridere.

 
Mi arrampico, stremata, lungo il crinale di una collina con questi pensieri in mente, quando vedo qualcosa che mi sconvolge: una tempesta di sabbia mi travolge, non riesco a ripararmi. Chiudo gli occhi e aspetto che tutto diventi nero.
Ad un tratto… sento: sento il mio corpo contro il terreno, sento la sabbia scivolarmi sulle braccia, il sapore salato sulle labbra. Stanca mi giro ed apro gli occhi e, quasi come per miracolo, vedo la mia fonte di salvezza: acqua. Mi tiro su, barcollo verso quel piccolo specchio d’acqua che mi chiama invitante, cado più di una volta, ed ogni volta mi rialzo. Non posso arrendermi così vicina alla meta. Arrivata sul bordo bevo, cancellando così tutte le mie preoccupazioni: c’è acqua su questo pianeta, c’è ancora una speranza. Felice, guardo il cielo e piango.

Sono passate quasi tre settimane dalla scoperta di questa piccola pozza d’acqua, ma da quando ci sono entrata per farmi un bagno e quella cosa mi ha attaccato non ho fatto progressi sul trovare qualcosa di commestibile. Ora non posso più rimandare: prendo un bastone, una pietra appuntita e li lego insieme. Pian piano mi immergo, un passo dopo l’altro, consapevole che in qualsiasi momento posso essere attaccata. Ma non ho paura, anzi questo è il mio scopo: essere attaccata per poi attaccare. Improvvisamente sento trascinarmi giù, giù, sempre più giù dalla creatura, ma non mi arrendo e la colpisco più e più volte, fin quando finisce di dibattersi. È finita, ho vinto io. Esco trionfante dall’acqua, non riesco a trattenermi ed urlo: “You’re dinner, biatch!” 1  Lo urlo a pieni polmoni, zoppicando sulla sabbia, guardando vittoriosa la mia cena per questo giorno e molti giorni a venire. Lo urlo quasi come fosse un inno: l’inno di un uccello con un’ala spezzata.
 
It's another night of the living dead
Like a viper bite in a spiderweb
It's so deathly dark in the alleyway
And a bleeding heart makes you easy prey
I would run and hide for the afternoon
With the butterfly in the panic room
Though I won't be missed, I would say it's time
For a different twist in the story line

È un altro giorno, o meglio, un altro giorno senza sole che sono qua. Sto pian piano perdendo le speranze. Sono ancora sulla riva di questa pozza, a mangiare gli ultimi pezzi rimasti della creatura, ma mi sento morire dentro. Sto sopravvivendo su questo pianeta, un giorno segue l’altro, nel suo monotono ciclo. Mai uno spiraglio di sole, mai qualcosa di diverso: solo le due lune che pian piano camminano nel cielo. Mi sento come intrappolata in una ragnatela. Sono a mio agio ma aspetto solo che la morte arrivi. No, non è vero. Aspetto te. E anche se ho perso la via per tornare al punto d’accesso so che tu mi troverai. Ma non posso stare ad aspettarti senza fare nulla. Devo trovare del cibo se voglio sopravvivere. Proprio mentre faccio un altro aggiornamento (ormai sono sempre meno, devo risparmiare la batteria) sento il canneto vicino alla salvifica pozza d’acqua muoversi e le canne sbattere tra loro, come se qualcuno ci fosse passato attraverso. Meditabonda afferro la mia arma e mi avvicino alla fonte del rumore: è impossibile che ci sia qualcuno qui, ma devo controllare. Fortunatamente non è nulla, è lo stesso vento che mi scompiglia i capelli a muoverle. Un piccolo sorriso affiora sulle mie labbra ma, nello stesso istante, sento il vuoto sotto i miei piedi e cado. Mi ritrovo a terra, sotto terra, guardando il cielo da un buco che era coperto da un telone, che pende nel vuoto. Sono caduta in trappola, proprio come un animale. Ma chi è il mio cacciatore? Poco prima di svenire per la botta ricevuta vedo un’ombra sistemare nuovamente il telone, negandomi la visione di quel piccolo spicchio di cielo senza sole.

Non so quanto tempo passa, mi risveglio letteralmente in gabbia, una ciotola piena d’acqua e una con del cibo vicino a me. Proprio mentre mi avvicino ad esse noto quell’ombra, l’ombra del mio cacciatore che si avvicina. La reazione è spontanea. Indietreggio verso l’angolo più remoto della gabbia, impaurita, dicendo: “Chi sei? Cosa vuoi da me?” Ma, stranamente, anche lui se ne va.
Passano le ore, ed ogni tanto il mio aguzzino viene a trovarmi. La frase che dice è sempre la stessa: “Sei ancora qui.” Non lo riesco a comprendere. Cosa si aspetta, che scompaia magicamente? I giorni passano: lo provoco, lo stuzzico, lo imploro, gli grido contro o sto in silenzio, ma nulla cambia. Lui viene, mi dà da mangiare e se ne va. Poi sono sola per tutto il tempo, come se fossi in una stanza antipanico, rinchiusa con me stessa. Ma non posso più aspettare, devo fuggire. Devo riprendere in mano la mia vita, devo essere là fuori per quando tu mi troverai. Decido di passare all’azione. Fingo di star male, lo accuso di avermi avvelenata. Stranamente crede alla mia messinscena, apre la gabbia e cade nel tranello. Lo colpisco con la ciotola dell’acqua vuota e scappo. Scappo da quell’inferno per tornare in superficie, sperando di rivedere il sole, sperando di rivedere te. Ma il solito cielo blu con due lune mi accoglie. Corro lungo questi pendii scoscesi, il fiato del mio carceriere alle calcagna fin quando metto un piede in fallo e cado, ferendomi. Non posso più scappare, è giunta la mia ora. “Uccidimi, se vuoi. Ma non sarò più tua prigioniera.” Sussurro a colui che mi ha tenuto imprigionata per tanto tempo, che si erge dritto davanti a me. Esita pochi secondi, poi conficca il coltello per terra. “Stai sanguinando.” Afferma, stranito. Prende la mia fascia e copre la ferita, dando come spiegazione alle mie vane proteste “Fiuta il sangue”. Ma fiuta il sangue cosa? Mi trascina dentro il suo rifugio, affermando che sta arrivando. Mi trascina di nuovo nella caverna dove ero imprigionata, nell’esatto momento in cui arriva una tempesta di sabbia. Ed è chiudendo la botola che mi sorprende: gli chiedo cosa c’è là fuori secondo lui, e mi risponde con una semplice parola: “Morte”.
Ed ecco che arriva il colpo di scena, quello che non riesci minimamente a comprendere. Will, così si chiama il mio carceriere, è bloccato su questo pianeta da 14 anni. Ed è allora che mi racconta tutto: la sua storia, la missione per la NASA, i suoi compagni di viaggio e ciò che quell’essere, quella presenza che imperversa per tutto il pianeta e che lui chiama Morte, ha fatto ai suoi colleghi.

 
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The anthem of a bird with a broken wing
The anthem of a bird with a broken wing

Resta poco da fare, se non collaborare. Io e Will ci mettiamo al lavoro, cercando un modo per tornare a casa, per abbandonare questo pianeta che lentamente ci sta uccidendo. Ma i giorni passano inesorabili, ed ancora non vediamo una via d’uscita. Ed è dopo l’ennesimo giorno infruttuoso che decido di andare nella no-fly zone, anche se secondo Will là c’è solo quella cosa pronta a rendermi pazza. Ma sono una sopravvissuta solitaria, dimenticata in questo pianeta morto, e non voglio arrendermi. Voglio rivedere il sole, voglio rivedere te, e sono pronta ad affrontare di tutto. Ma Will non cambia idea, mi proibisce di andare là. “Abbiamo deciso di controllarci a vicenda.” Afferma, esausto per l’ennesima discussione con lo stesso argomento. Non ne posso più, ho bisogno di aria fresca. “Controllarmi non significa essere tua prigioniera.” Dico uscendo dalla grotta, verso quel paesaggio immutabile ed ostile che mi attende fuori.
Cammino da sola lungo queste dune per calmarmi. Non capisce che siamo intrappolati qua da troppo tempo? Non vuole rivedere anche lui il sole? Stendersi su un prato con i raggi che, delicati, ti riscaldano il volto. Un tramonto ammirato con una birra in mano e la tua squadra, mentre guardi un 084 partire per andarsi a schiantare sul Sole. Un’alba intravista dal Quinjet, di ritorno alla base dopo aver passato mesi infiltrata nell’Hydra, lontana da te. Come posso resistere ancora su questo pianeta? Ma non ho scelta, devo aspettarti, tu troverai un modo, ne sono sicura. E nel frattempo c’è Will: sono sicura che ha le migliori intenzioni. D’altronde è sopravvissuto per quattordici anni su questo pianeta, sa quello che fa. Forse stavolta ho sbagliato io, lui vuole solo il mio bene. Per farmi perdonare decido di raccogliere delle provviste e di preparargli la cena ma, mentre raccolgo dei funghi sul bordo della no-fly zone, alzo gli occhi e vedo qualcosa di sconvolgente. Delle rovine. Decisa ad indagare mi avvio verso di esse, quando dalla sabbia vedo emergere un elsa. Mi starò immaginando tutto: sono su un pianeta deserto, è impossibile trovarci una spada. Ma i miei sensi non mi ingannano, quella che ho davvero davanti è una spada e, poco distante, c’è una bisaccia mezza sotterrata dalla sabbia, con dentro una bottiglia di vino. Ma le sorprese non finiscono qui, poco lontano c’è sotterrata una scatolina. E dentro ad essa un sestante. Tutto è chiaro. “The stars. Fitz, that’s the answer” 2 Sussurro, estasiata. Mi verrebbe voglia di urlarlo a pieni polmoni, rivolta verso questo cielo blu che presto non vedrò più. So come tornare a casa.

 
It feels like I'm a lone survivor
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The anthem of a bird with a broken wing
 
Una tempesta di sabbia mi sorprende subito dopo l’epifania appena avuta. Scappo per mettermi a riparo, arrivo sulla cima di una duna ma, spinta dalla forza del vento, rotolo giù. Ma qualcosa non va: non sono atterrata su semplice sabbia, ma su qualcos’altro. Ossa umane. Alzo gli occhi, impaurita, e vedo avanzare qualcuno nella tempesta. Per un momento spero sia tu, pronto a riscaldarmi il cuore con il tuo sorriso. Ma l’andatura è completamente diversa, questo essere avanza spietato verso di me, senza curarsi minimamente della tempesta, come se la creasse lui. Corro via, torno verso quella grotta che mi ha protetto, verso colui che aveva ragione. C’è davvero qualcosa su questo pianeta.

Tornare a casa è semplice: io e Will siamo arrivati in due punti differenti del pianeta in due giorni differenti. Il portale non si muove a caso, segue la rotazione di questo pianeta infernale. Bastano delle osservazioni stellari e qualche calcolo e sapremo dove e quando il portale si aprirà. Ma tutto ha un costo: se vogliamo fuggire abbiamo bisogno di riparare l’attrezzatura di Will e alimentarla, e l’unica cosa disponibile è la batteria del mio telefono, quella batteria che hai sapientemente modificato per farla durare per mesi. Dovrò rinunciare alla tua voce, al tuo viso, a tutto pur di tornare da te. Decido di guardare quel video per un ultima volta, per imprimermi nella mente quei labili fotogrammi, quelle onde sonore che si disperdono trasportate dal vento. “Addio, Fitz” sussurro, “ci vediamo presto.” Perché sto tornando da te.
Passano I giorni, io e Will sempre al lavoro per cercare di rimettere in sesto il computer. Miracolosamente ci riusciamo. Acquisiamo dati, senza sosta, alternandoci davanti al salvifico schermo, fin quando non si spegne. Ma tutto questo lavoro ha dato i suoi frutti: sappiamo quando si aprirà il portale, ma è nel mezzo della no-fly zone, a quaranta ore di cammino dal nostro rifugio e l’attraversata di un canyon di oltre trenta metri. Will è scoraggiato, ma io non mi do per vinta: devo tornare da te. E se per farlo sono costretta a condurre il mio unico compagno in questa terra desolata verso una missione suicida accampando le motivazioni più disparate non esito minimamente. “Non eri tu a saper resistere quando le possibilità sono minime?” Lo sfotto, per incoraggiarlo a non essere troppo pessimista.
Purtroppo so che questo portale è instabile, che forse non saremo in grado di attraversarlo, dato che non sappiamo quanto tempo rimarrà aperto. Per questo prendo carta e penna, cercando di spiegarti tutto, perché so che tu ce la farai. Finito di scrivere, prendo il foglio e rileggo il messaggio.
 
Leo.
Si, non stai sognando, questa è la mia grafia. Come potrai aver intuito sono viva, ma sono certa che già lo sai, così come io sono certa che stai facendo tutto il possibile per riportarmi a casa. Riportarci, in realtà- beh, diciamo che è una lunga storia. Ti spiegherò appena ci vediamo. Se ciò non avviene, ed hai in mano questa lettera, è perché, come sospettavo, il portale non è rimasto aperto per il tempo sufficiente per l’attraversata. Per questo nell’altro foglio troverai tutte le istruzioni su come funziona il monolite, con quale regolarità si apre e dove. Tu sarai capace di controllare i calcoli meglio di me.
Non vedo l’ora di riabbracciarti.
Ti voglio bene,
Jemma.


E così l’avventura per tornare a casa ha inizio. 3575 ore dopo l’arrivo su questo pianeta io e Will ci mettiamo in cammino, pronti per raggiungere il punto dove si aprirà il portale. Ma, eccitati per il nostro imminente ritorno, non riusciamo a fare altro che immaginare cosa faremo di nuovo a casa.
“Mangiare, fare la doccia o dormire: cosa farai per primo quando torniamo a casa?” Chiedo, mentre scaliamo una collinetta. “Mangiare. Ma dai, con chi credi di parlare?” Mi risponde, trattenendo a stento una risata. “Tu cosa farai?” Ribatte. Abbraccerò te, vorrei rispondere. Alzerò gli occhi sul tuo sorriso, mi perderò nel sentire di nuovo la tua voce. Ma non è quello che si aspetta di sentire come risposta, opto per un più diplomatico “Mangerò nella doccia e mi addormenterò nel frattempo.” Will sogghigna, lodando la mia efficienza. La strada è lunga, gli ostacoli sono tanti, ma continuiamo senza sosta la nostra marcia, solcando i sentieri di questo pianeta dimenticato. Ma quando giungiamo al canyon abbiamo una brutta sorpresa: è diventato molto più largo, almeno cento metri, impossibile da attraversare. Per Will è tutta colpa di quella cosa, afferma che non vuole lasciarci andare. E, ad un tratto, il portale si apre sotto ai nostri occhi, dall’altra parte del canyon. Incomincio a crollare, vedo le mie certezze sgretolarsi ed essere portate via dal vento, per mai più ritornare. Ma, nel momento in cui il mio cervello si paralizza, bloccato per la paura di non farcela, Will prende l’iniziativa. Sostituisce il rampino con la bottiglia destinata a te, e la lancia oltre il dirupo tramite il cannone rudimentale che ha costruito, mirando al portale. Seguiamo il moto della nostra ancora di salvezza con il fiato sospeso ma, una frazione di secondo prima che entri nel portale, esso si chiude, lasciando solo la dura terra con la quale impatta, frantumandosi in mille pezzi.

Tornati al rifugio l’unica cosa che riesco a fare è guardare il fuoco, attonita. Non ce l’abbiamo fatta.
“Non torneremo mai a casa.” Affermo, non riuscendo a staccare gli occhi da quelle fiamme.
“Forse è questa casa nostra, adesso.” Mi dice Will, cercando di consolarmi.  Ma non può riuscirci. Sento i pezzi del mio cuore cadere a terra, infrangersi contro il duro pavimento della realtà che stiamo vivendo.
“Questa non è una casa” dico, “questo è l’inferno.” È l’inferno essere lontana da te, è l’inferno realizzare che non ti vedrò mai più, che non potrò mai dirti cosa provo veramente. È l’inferno pensare che non potrò mai baciarti, mai svegliarmi accanto a te in un letto, mai invecchiare con te. E, se fino ad ora ho sopportato in silenzio, ora non ce la faccio più: ho bisogno di fare tutto a pezzi, buttare alla rinfusa i tavolini, distruggere tutto ciò che mi circonda fin quando tutto questo farà meno male. Mi ritrovo a terra, in ginocchio, con Will che cerca di consolarmi, facendomi forza. Le lacrime mi scorrono lungo le guance. “You were right. There’s no hope on this planet” 3. Sento le mani di Will che mi circondano il viso, delicatamente, girandolo leggermente in modo tale da guardarci negli occhi. “La pensavo anch’io così” sussurra, “poi sei apparsa tu”. Il mio cervello si ferma, smetto di ragionare. Vedo tutto nero ma in fondo scorgo una luce: Will.
Perdonami Fitz.
 
The anthem of a bird with a broken wing
 
Davanti a me un tavolo pieno zeppo di libri.
Ancora non ci credo che grazie a te sono riuscita a tornare a casa, a rivedere il sole. Ma tutte le cose belle accadono con un costo terribile: Will è rimasto su quel pianeta e tu non sei più lo stesso, dopo che ho confessato tutto. Ma chi sto prendendo in giro, tu sei sempre lo stesso: sei buono, caritatevole, pronto a fare la cosa giusta. Quando ti ho parlato di Will, anche se va contro noi, hai deciso di salvarlo, senza pensarci un secondo. Hai deciso di mettere la tua felicità da parte e di fare la cosa giusta, cercando di riportarlo indietro. Ma come diavolo fai a comportarti così? Perché per una dannata volta non pensi solo a te? Perché non mandi tutto a quel paese, la smetti di aiutare tutto e tutti e mi lasci da sola, come meriterei di stare, visto che ti ho tradito? Non riesco a sopportare un altro secondo il tuo sguardo, quegli occhi dolci e comprensivi che cercano di fare di tutto per rendermi felice, a costo di cadere nella disperazione più totale. Scappo via da te. Mi rifugio nel nostro laboratorio, sperando che tu non mi segua. Ma mi sbaglio di grosso.
“Cosa ti succede? Sei davvero arrabbiata con me?” Dici, mentre mi raggiungi, con una faccia sconvolta. Perché non vuoi capire, Leo, perché?
“Sono arrabbiata con me stessa per averti coinvolto, non è giusto. E arrabbiata con te che sei così disposto ad aiutarmi.” L’ho detto. Perché non possiamo continuare così, tu che fai di tutto e io che mi sento uno schifo.
“E… cos’altro dovrei fare? Cosa ti aspettavi?” Affermi, sorpreso.
Devo dirlo. “Non lo so, che ti arrabbiassi. Non riesco a immaginare una soluzione che non ferisca a qualcuno a cui voglio bene.”
Agitato ascolti le mie parole, muovendoti sul posto, come se non volessi sentirle. Ma lo sai anche tu che non possiamo andare avanti così, che stiamo solo tergiversando. Ma mentre io fuggo, tu agisci. Scoppi come un vulcano attivo. “E pensi che io non sia arrabbiato? Mi viene da vomitare, sono furioso, ma non con te!” Sento l’aria tra di noi solidificarsi e incrinarsi, pronta a essere ridotta in mille brandelli taglienti. E poi, nel silenzio del laboratorio, urli il tuo inno di uccello con un’ala spezzata: “’Cause we’re cursed!” 4  
Io sono immobile, non riesco a dire nulla e nel mentre fuggi da me, cercando di metterti in salvo da quelle schegge che stanno per colpirci. “L’intero universo non vuole che stiamo insieme.” Continui, con un tono stanco nella voce. Ma non può finire così, e lo sai anche tu. Noi siamo i fautori del nostro destino. “L’universo non vuole proprio niente.” Mi ritrovo a dirti, perché è vero. Ci siamo solo noi.
“Beh, io la penso diversamente. Perché per anni abbiamo lavorato fianco a fianco, e non ci siamo mai accorti di niente. E quando ce ne siamo accorti non abbiamo avuto il coraggio di parlarne.”
A sentire le tue parole il sangue mi ribollisce nelle vene, spingendomi a parlare d’impulso, perdendo qualsiasi forma di razionalità. “Ne volevi parlare sul fondo dell’oceano, perché credevi di morire.” Mi ritrovo ad esclamare mentre tu ribatti con “Tu mentre andavo in guerra su una portaerei e poi sei stata risucchiata su chi sa pianeta disperso. Con lui. Laurea a pieni voti, pilota, astronauta, supereroe.”
Ogni parola che dici su Will è una pugnalata al cuore. Fa male. Ma fa ancora più male avere te così distante. “Farei qualsiasi cosa…”
Mi interrompi. “Lo ami?” Sento le disperazione nella tua voce, quel tono incrinato che ogni santa volta vorrei non ascoltare. Ma, per quanto la verità sia dura e possa far male non posso tacere più. “Non lo so, credo… si.”
L’aria intorno a noi si rompe, con un suono orrendo che risalta nel silenzio improvviso che si è creato. Forse sono solo io a sentire il rumore, ma tu senti il dolore: migliaia di schegge che ti si conficcano nella pelle, che ti fanno perdere ogni speranza. Abbassi le spalle, sconfitto dall’evidenza.
“Già.” Mormori, così piano che riesco a malapena a sentirti. “Si, certo che lo ami. Certo, lui è forte e intelligente, e vi siete dati speranza nel mezzo del nulla.”
Non posso vederti farti del male così. “Non farti questo, Fitz.” Riesco a dire, ma vorrei dirti molto di più. Non me ne dai il tempo. Scoppi per la seconda volta. “Pensi che non gli abbia cercato difetti? L’ho fatto.” Esclami, mentre sbatti la mano sul tavolo, avvicinandoti a me. “E non c’è niente. Non posso odiarlo, è perfetto. Come potevi non odiarlo? Ha fatto tutto per bene.”
Non posso sentirti ancora, non posso vederti mentre ti sminuisci, mentre ti rendi colui che non sei. Ora è il mio turno di scoppiare. “E tu ti sei buttato in un buco attraverso l’universo per me!”
Tutto succede in un attimo: dalla stasi passi all’azione. Sento le tue labbra sulle mie, una mano sul fianco e l’altra tra i capelli. Un bacio quasi violento, inaspettato. Ma finalmente è arrivato. Non voglio che finisca, voglio rimanere in quest’attimo sospeso nel tempo per l’eternità. Ma tu ti allontani, e sento che sto per perderti. Per questo ora tocca a me fare la mossa vincente, quella che mi porterà allo scacco matto. Mi avvicino, le mani dietro al tuo collo, e ti bacio. Mi sento stringere in un abbraccio caloroso, le mie mani scorrono sul tuo viso. Quando tutto finisce hai ancora gli occhi chiusi, il respiro rotto. Ma ti allontani. “We’re cursed.” Mormori ancora una volta. Ora le schegge colpiscono anche me e fanno malissimo. 

The anthem of a bird with a broken wing
 
Spaziotempo. Da stamattina non riesco a pensare ad altro. Si, quadrimensionalmente parlando tutto ha senso: il tempo è un illusione. Passato, presente e futuro non esistono, tutto è già fissato. Ma, dentro di me, non voglio sia così. Perché ciò significa che tutte le scelte che ho intrapreso non sono state frutto del mio ragionamento, ma qualcuno o qualcosa ha già deciso per me. Tutto quello che ho vissuto, che sto vivendo e che vivrò sono legati a qualcosa, ad uno scopo. Ma quale? Un pensiero si forma velocemente: tu. Tutto quello che faccio, tutto ciò che mi capita mi porta sempre più vicina a te. L’accademia, la nostra prima missione insieme, quel dannato fondo dell’oceano, Maveth. Tutto ci ha avvicinato, e allontanato, e avvicinato ancora, come se strattonassimo a turno quel filo rosso che ci lega. Ora siamo qui, nel cortile del palazzo che ospita la Transia, a guardare il cielo. Quasi tutte le visioni di Daisy si sono avverate. E ciò vuol dire che io avevo torto: sbagliavo quando credevo che alcune cose non erano inevitabili.
Sento qualcosa arrivare sul mio viso, gentilmente. Strano, non c’è una nuvola in cielo. “Non è neve.” Ti sento mormorare. È la cenere del cartello pubblicitario che cade su di noi, bianca, proprio come fosse neve.
“I think we're supposed to hold hands now.” Ti dico, sorridendo, mentre lentamente le nostre mani si avvicinano e si stringono. “Maybe some things are inevitable.” 5
 
Tell the world I know that my mind is made
It's a horror show, but I'm not afraid
Though I won't be missed, I would say it's time
For a different twist in the story line

Un raggio di sole illumina il mio volto e mi sveglio. Siamo io e te, avvolti nelle lenzuola di un letto di un albergo della Romania, dopo aver attraversato il nostro personale orizzonte degli eventi. Alzo gli occhi verso il tuo viso e tu sei lì, concentrato a fissarmi e sorridere.
“Buongiorno.” Ti dico, mentre mi sporgo per baciarti. Ma il bacio si trasforma presto in una sequenza di essi: sulle labbra, sul collo e le spalle, le nostre mani che si intrecciano e si muovono lungo i nostri corpi nudi. Quando ci allontaniamo per riprendere fiato vedo il tuo sguardo corrucciato. “Leo, che succede?” “Buffo,” rispondi, “non mi hai mai chiamato Leo in tutti questi anni.”
“Il tuo nome mi sa di qualcosa di… intimo.” Mi sento le guance scottare mentre dico queste ultime parole, “un nome da pronunciare solo in occasioni speciali. Ma basta evitare il discorso, cosa c’è che non va?” “Stanotte sono stato sveglio, eri impaurita mentre dormivi”.
Un lampo e ricordo tutto. “Ho sognato Maveth.” Ti rispondo. “Ho sognato tutte le nostre disavventure, tutto quello che ci ha portato fin qua. E ho paura per quello che succederà. Tu hai incrociato Daisy, io ho affrontato Hive ma, per quanto abbiamo fatto del nostro meglio, ci sono sfuggiti. Mi sembra di vivere in uno show dell’orrore.” Le tue mani mi accarezzano il viso, i tuoi occhi si fermano sui miei. “Non dobbiamo avere paura Jemma. È vero, ne abbiamo passate di cotte e di crude, ma ne siamo usciti, sempre insieme. Supereremo anche questa. Perché siamo Leopold e Jemma, siamo i FitzSimmons.” Il sorriso affiora sulle mie labbra. Hai ragione, è giunto il momento di una nuova svolta nella nostra storia. “Si, noi siamo i FitzSimmons” rispondo “E nulla mai potrà separarci.”






Note
 
1 “Sei la cena, stronza!”
2 “Le stelle. Fitz, questa è la risposta.”
3 “Avevi ragione. Non c’è speranza su questo pianeta.”
4 “Perché siamo maledetti!”
5 “Credo che ora dovremmo tenerci per mano. Forse alcune cose sono inevitabili.”



 
Rieccomi qui, dopo anni di inattività. Perché non sono una scrittrice, sono più una scribacchina, che quando trova qualcosa da dire si mette alla tastiera del pc e… ci mette nove mesi a completare una one-shot. Tra “blocchi dello scrittore” e università il tutto non è stato per niente facile.
Questa storia è nata per caso: grazie ad una collega (ancora grazie, Noemi!) ho scoperto la serie tv Agents Of S.H.I.E.L.D. e, da brava futura scienziata, mi sono innamorata dei FitzSimmons. Durante la pausa tra la terza e la quarta stagione riscopro gli Owl City e, al primo ascolto di Bird With A Broken Wing (qua per ascoltarla), vedo le immagini di Jemma su Maveth scorrermi davanti agli occhi. Ma da una storia incentrata solo su Jemma questa songfic si è trasformata in una vera e propria storia sui FitzSimmons, perché non esiste l’uno senza l’altro.
Durante la lettura avrete sicuramente notato delle stranezze, come le frasi in inglese o una trascrizione delle battute diversa dall’audio italiano. Seguendo la programmazione americana sono affezionata a quegli “inni di uccelli con un’ala spezzata” così come sono, e non sono riuscita ad usare la loro controparte del doppiaggio italiano. Ovviamente il loro primo incontro e la scena finale sono di mia immaginazione, mentre tutto il resto sono fatti realmente accaduti nella serie, conditi dai pensieri di Jemma.
Spero che questa storia vi sia piaciuta. In ogni caso, grazie per essere arrivati fino alla fine.
Marika_Amberle. 
  
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