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Autore: Sydrah    10/04/2017    7 recensioni
24 Novembre 2041, Corea del Sud. L'esplosione della centrale nucleare di Hanul ha fatto sì che il governo prendesse un veloce provvedimento per impedire la diffusione dei gas tossici, e sopra la zona colpita fu posta una cupola. Al suo interno sopravvissero delle persone, gli 'eletti', dotati di abilità speciali, e tra interni ed esterni continuò a crescere un odio reciproco.
Jimin, un esterno e Jungkook, un interno, si incontrarono per caso, e tra morte e misteri la loro relazione crebbe pian piano. Sarebbe riuscita, però, ad andare oltre ai pregiudizi?
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Salve a tutti! Scusate per questa parentesi prima del capitolo, ma prometto che sarò breve.
Ultimamente ho riflettuto molto su questa storia, e penso che per un po’ di tempo la lascerò in pausa.
Mi occupa molto tempo scriverla, tempo che da ora in avanti probabilmente sarà molto limitato.
Oltre ad essere una questione di tempo, ultimamente sono piuttosto demotivata. Come avevo già accennato, è un tipo di storia che non ho mai provato a scrivere, e mi sarebbe piaciuto molto ricevere un paio di pareri (negativi o positivi che fossero) a riguardo, per capire come migliorarla e che direzione far prendere alla trama.
Dunque, non è detto che tra due settimane pubblicherò il nono capitolo. Mi serve un po’di tempo per riflettere e vedere se ha un senso mandarla avanti e in caso come mandarla avanti.
Ad ogni modo, grazie a Mik4n e Rozalin Kyouko per aver recensito lo scorso capitolo.
Fatemi sapere cosa ne pensate a riguardo, ogni pensiero potrebbe motivarmi ad andare avanti.
Con affetto, Sydrah~
 
 
 
 
 
 
Mi  alzai dal letto di scatto, un altro incubo.
Ormai era diventata una consuetudine avere incubi tutte le notti, svegliarsi col cuore in gola ed il terrore negli occhi.
Quando ero piccolo mi mettevo sempre a piangere, gridavo e chiamavo mia madre, che arrivava in camera, stanca a causa di tutte le volte che lo facevo, e con un’espressione un po’ scocciata mi abbracciava, carezzandomi i capelli per tranquillizzarmi.
Aveva smesso da quando avevo compiuto dieci anni, considerandomi ormai un bambino grande, che non aveva più bisogno della mamma, ed io avevo imparato a soffocare le urla nel cuscino, così come le lacrime ed i singhiozzi.
A quindici anni avevo semplicemente smesso. Niente più nulla, mi svegliavo, calmavo il mio cuore e iniziavo la mia routine, era tutto normale, il solito.
Mi scompigliai i capelli mentre slanciavo le gambe, piantando i piedi sul pavimento.
Il letto cigolò come al solito, così come il parquet a contatto con i miei piedi. Sospirai, perché tutto doveva essere così dannatamente rotto?
Camera mia era un buco: un letto ormai troppo piccolo per la mia altezza, un armadio dalle dimensioni discutibili ed una scrivania in legno con una sedia nera vicina, non intonata al resto ‘dell’arredamento’ se così si poteva definire.
Le pareti erano di un rosso ormai rovinato, diverse crepe lo percorrevano e disegni vari erano appesi con un pezzo di scotch, insieme ad un paio di foto e basta.
Era vuota, era priva di personalità, ma non mi interessava curarla, tanto il mio obiettivo era andarmene dal quel posto il prima possibile.
Mi diressi verso la cucina, dove mio padre stava legandosi la cravatta prima di andare a lavoro e mia madre stava lavando i piatti della colazione, una piccola ciotola con kimchi e riso poggiata sul tavolo.
Mi avvicinai in silenzio, cercando di non attirare la loro attenzione, spostai la sedia e mi ci sedetti, prendendo in mano le bacchette e avvicinandomi la misera ciotola.
Ero intento a masticare il primo boccone quando mio padre, soddisfatto del nodo, si voltó  verso di me augurandomi buongiorno con un sorriso. Era sempre così  maledettamente allegro e sereno, nonostante facesse turni improponibili in azienda e tornasse a casa sempre più  stanco, una pila di fogli su cui lavorare ancora sottobraccio, però  era costretto a farlo per cercare di mantenere la famiglia e non far accumulare troppe bollette.
A quel punto anche mia madre chiuse il rubinetto d'acqua, asciugandosi le mani sul grembiule, slegando poi il fiocco che lo teneva stretto in vita
 
-"Buongiorno Jungkook" disse con un tono freddo e monotono. Sapevo che era ancora arrabbiata dal giorno prima, anche durante la cena mi aveva tenuto il muso tutto il tempo, e non avevo ancora avuto occasione di dirle che ero riuscito a trovare un lavoro. Mi dispiaceva fosse arrabbiata con me, ma anche questo era una consuetudine, e non potevo che essere offeso a mia volta dal momento che la sua incazzatura era ingiustificata, era lei nel torto. Era lei stavolta, come moltissime altre volte (così  tante che avevo smesso di contarle dopo la 173esima) che aveva sbagliato, era lei che era sempre stata una madre troppo fredda, distaccata. La sua presenza intangibile, come quella di mio padre il cui tempo libero era stato completamente eliminato, ricordi di un'effettiva  infanzia mai avuti.
Continuai a mangiare, se la guerra fredda voleva la guerra fredda avrebbe avuto, non sarei stato io il primo a scusarmi sicuramente.
L’atmosfera era tangibilmente tesa, e mio padre continuava a far saltare il suo sguardo tra me e mia madre. Mi pulii la bocca con un tovagliolo e posai la ciotola nel lavandino, presi poi la felpa e chiusi la porta di casa alle mie spalle.
Il giorno due di lavoro stava per avere inizio.
Con le mani in tasca mi diressi verso il locale, cappuccio tirato su e sguardo rivolto verso l’alto, mentre osservavo il movimento delle nuvole.
Aprii la porta di ingresso ed il tintinnio della campanella mi accolse, probabilmente prima o poi lo avrei iniziato a considerare familiare e non potevo che sorridere al pensiero.
Salutai Eunwoo, che era già dietro al bancone ad organizzare le torte del giorno, con un cenno della mano e subito andai nella stanza del personale, stringendo il grembiule in vita con un nodo.
 
-“Jungkook!” entrò Seulgi, salutandomi con un sorriso smagliante, come diamine facevano le persone ad essere così attive e felici la mattina non ne avevo idea. Si legò anche lei il grembiule, con un fiocco e poi riprese a parlare “Vieni in cucina, ti presento il cuoco”, aprì la porta scorrevole e mi fece segno di varcarla per seguirmi subito dopo.
“Ti sembrerà un po’…distaccato, ma presto capirai che è in realtà un bravo ragazzo, non temere. E’ solo timido” io mi limitai ad annuire, curioso di chi potesse essere questo fantomatico cuoco (che dovevo ammettere, preparava dei muffin ai mirtilli favolosi).
 
-“Ehi Taekwoon! Ti presento Jungkook, il nuovo arrivato” Un ragazzo decisamente alto e muscoloso dai capelli neri come il carbone stava tagliando dei pezzi di fragola su un tagliere di plastica bianca.
La sua schiena era molto ampia e sotto il sottile strato della maglia bianca che indossava potei intravedere la definizione dei suoi muscoli.
Posò il coltello vicino al tagliere, voltandosi verso di noi, occhi sottili per nulla amichevoli, ma allo stesso tempo neanche ostili, semplicemente sembravano privi di emozioni.
Mi inchinai subito, non volendo essere scortese e col tono di voce più sicuro che potei mi presentai.
Sentii un ‘piacere’ bisbigliato, la sua voce dolce completamente diversa da ciò che ci si poteva aspettare dall’apparenza, ma in un attimo fui di nuovo accolto dalla vista della sua schiena fredda, la stanza nuovamente silenziosa.
Seulgi mi sfiorò la spalla, catturando così la mia attenzione, facendomi poi segno di uscire dalla stanza.
 
-“Come ti avevo detto, non ti preoccupare, presto diventerà meno timido” io annuii, ringraziandola, mettendomi poi subito al lavoro.
Gli ordini arrivavano uno dopo l’altro, un caffè dopo caffè. Per mia fortuna non mi ero ancora mai imbattuto in clienti troppo esigenti, e gli ordini erano sempre stati relativamente semplici da eseguire.
Stavo cercando di creare una forma di un cuore con la schiuma quanto sentii delle risatine provenire da uno dei tavoli. Alzai lo sguardo dalla tazza e notai che al tavolo era seduto un gruppo di quattro ragazze, presumibilmente più grandi di me, che mi stavano fissando, scambiandosi parole nascoste dalle mani poste davanti alle loro labbra.
Arrossii leggermente, ma sorrisi comunque al gruppo, ricevendo un’altra serie di risatine.
Non ero certamente un pudico, ma ricevere l’attenzione di delle ragazze mi lasciava sempre un attimo imbarazzato.
Neanche loro pensai con un sospiro.
 
 
Uscii dal lavoro con un buco allo stomaco, avendo a malapena mangiato un tramezzino, ma non avevo la minima intenzione di tornare a casa. Andare da Yoongi o Jin non era neanche un’opzione, essendo che a quell’ora stavano ancora lavorando, quindi decisi di fare un giro per la città, ora pullulante di vita dal momento che era l’ora di uscita dalle scuole,e studenti affollavano le strade riempiendole di rumore e risate.
Tagliai per una strada meno frequentata, dove l’asfalto era dissestato, i muri pieni di scritte, gli intonachi rovinati ed alcune finestre erano rotte, tutti elementi che segnalavano l’ingresso nella zona più povera e malfamata, che però io non temevo di dover percorrere dato che mi era comunque familiare, avendoci speso molti dei miei pomeriggi a giocare a nascondino con i miei due amici, da piccolo.
C’era solo un posto in cui sarei voluto andare, ma pian piano che mi ci avvicinavo non potevo che sentire il battito del mio cuore accelerare.
E se?
L’asfalto fu sostituito dalla soffice erba, il solito, il sole venne nuovamente filtrato dai folti rami degli alberi.
Provai confusione, e non potevo che esserne indispettito.
Perché il giorno prima non ero riuscito ad andare? Perché c’era quello stupido ragazzo, cercai di ragionare con me stesso, ma perché ero così spaventato di incontrarlo? Non ero spaventato, ero disgustato perché lui era un esterno. Ma a me non aveva mai causato alcun male, perché dovevo essere arrabbiato proprio con lui? Perché lui o un altro dei suoi non faceva differenza, erano tutti sporchi assassini.
Quando però arrivai davanti alla cupola mi sentii stranamente freddo. La vista che mi accolse era la stessa di sempre, che fino ad un paio di giorni fa avevo sempre amato e che non vedevo l'ora  di ammirare, eppure ora mi sembrava così  vuota, come se mancasse un piccolo pezzo di un enorme puzzle, che però  faceva sì  che senza esso sembrasse insensato.
Come un testo di una canzone senza parole, una melodia incompleta, come un'estate senza sole, vento gelido e piogge ghiacciate.
Un unico piccolo foglietto attaccato mi teneva compagnia, ed i caratteri marcati sopra non facevano altro che tormentare ancora di più  la mia anima.
Due poli opposti che si scontravano, come dell'acqua che cerca di calmare un incendio incontrollabile, o come una piccola fiamma che cerca di scaldare un corpo ibernato.
La promessa di un possibile nuovo incontro per il giorno seguente stava leggermente colmando il mio cuore, ridonando colori più  vivaci al paesaggio che avevo  intorno.
Non ci andrai, tanto, il mio cervello continuava a ripetermi, non dovresti, non devi. 
Però se nessuno lo avesse saputo? Se avessi buttato solo un'ultima volta l'occhio, solo per memorizzare il suo viso e poi basta? Come quando inizi a leggere un libro e arso dalla curiosità  leggi l'ultima  parola con cui la storia si conclude e niente più. Un piccolo spoiler, innocuo.
Non avrei dovuto, ma forse una sola volta sarebbe andata bene.
 
No?
 
 
 
Il giorno seguente vi fu la solita routine, mi svegliai in preda ad un altro attacco, soffocando le urla in gola, negando alle lacrime una via d’uscita.
Mi feci velocemente una doccia, passando il sapone su ogni centimetro della mia pelle, strofinando con foga, sempre di più, quasi a voler cancellare il peccato che era la mia esistenza, riempiendo la mia pelle di tanti piccoli graffi bianchi, che poco a poco si arrossavano per poi scomparire, ma non bastava, non mi sentivo comunque pulito.
L’acqua mi era familiare, essendo il mio elemento, mi sentivo a mio agio a contatto con essa. Era come se ogni piccola goccia che percorreva il mio corpo, seguendo le rientranze e sporgenze dei muscoli, fosse viva, come se ogni singola una possedesse un anima, una personalità, era come se le conoscessi tutte una per una, le avrei potute distinguere tutte, chiamarle per nome come fossero mie amiche.
Però, nonostante fosse il mio elemento, non potevo che sentire freddo sotto quel getto, sebbene fosse bollente, non era ancora abbastanza per scaldarmi.
Normalmente quando ero a contatto con fonti d’acqua mi sentivo più forte, energico, ma ora mi sentivo solamente spento, appesantito.
 Il  riflesso allo specchio era ciò che mai sarei voluto diventare, una persona vuota, monotona, grigia, una fra una marea di altre uguali.
Indossai una semplice maglia bianca, coprendo la mia pelle dall’aria fredda mattutina, infilandomi poi anche una felpa nera e dei jeans.
Andai in cucina, di mio padre stamattina non c’erra traccia, e mia madre si stava preparando anche lei per andare a lavorare: faceva la commessa in un supermercato, nulla di più nulla di meno.
Notò la presenza quando spostai la sedia del tavolo per accomodarmici, la sua espressione era impassibile come al solito, dovevo aver imparato da qualcuno dopotutto.
 
-“Dove stai andando tutte le mattine?” disse in tono accusatorio, neanche un saluto, neanche un buongiorno.
 
-“Cosa ti importa, tanto che mi droghi, faccia botte o che vada a salvare gattini ed aiutare anziani sempre un nessuno rimango, no?”
 
-“Ancora con sta storia Jungkook?!” il suo tono di voce si alterò subito “Ti ho fatto una domanda, sarebbe educato che tu rispondessi” schioccai la lingua continuando a mangiare, e notai che il suo sguardo si scurì, atmosfera sempre più tesa
 
-“Jungkook, non è il modo di comportarsi”
 
-“E quale sarebbe, mamma? Non mi pare che ti sia mai presa la briga di insegnarmi qualcosa a parte che vi sono debitore a vita”
 
-“Sei incredibile” arrivò quasi ad urlare “Ora stai seriamente sfociando nel ridicolo, capisco che tu possa avere tutte le crisi adolescenziali del mondo, ma tutto ha un limite” mi bloccai per un instante, sorpreso dalla sua voce dura e severa (non che non vi fossi abituato, ma ogni volta aveva effetto).
Abbassai lo sguardo e continuai a masticare, il riso improvvisamente amaro in bocca, le lacrime di anni di solitudine stavano bruciando ai lati degli occhi e mi stavano pregando di lasciarle andare.
Deglutii, mandando giù quel boccone acido, parlando a bassa voce, improvvisamente debole, più di quanto fossi mai stato consapevole di essere.
 
-“…A lavoro” probabilmente nessun’altra persona avrebbe colto le mie parole da quanto a bassa voce le avevo mormorate, ma lei le percepì, il rossore che aveva in volto a causa della rabbia scomparve, venendo sotituito di nuovo dal suo pallido incarnato.
 
-“Lavoro?” Disse con voce altrettanto bassa, e io mi limitai ad annuire, non guardandola mai direttamente, tenendo gli occhi puntati sulla misera ciotola di fronte a me.
Sentii rumore di passi, il famigliare ticchettio delle sue scarpe avvicinarsi, e poi sentii delle mani calde prendermi il viso, con una delicatezza che mai nessuno mi aveva mostrato precedentemente nei miei confronti.
Fece in modo che la guardassi in viso e poi mi sorrise.
 
-“Scusa Jungkook” mi disse con una sincerità che mai avevo pensato potesse rivolgermi “Scusami se ho mai dubitato di te e se sono stata troppo severa. Lo so che ho sbagliato molte cose nel crescerti, ma spero che un giorno capirai. Non è mai stata solo questione di soldi, ma quando si è adulti spesso si dimentica delle cose a cui si dovrebbe davvero dare importanza. Lo sai vero che io e appa ti vogliamo bene vero?” Si fermò, cercando la risposta nei miei occhi ormai lucidi, ma lottai per non far scendere le lacrime, diavolo se lottai “Lascia andare Kookie” E a quel punto non ci fu più bisogno di lottare, almeno per un paio di minuti. Poggiai il mio viso sul suo morbido petto, sentendo il suo dolce profumo di lavanda invadere i miei sensi, il cotone rovinato della sua maglia solleticarmi la pelle, e una confortevole serenità pervase i miei sensi. “Sono fiera di te” mormorò al mio orecchio, carezzandomi i capelli come tanto avevo desiderato fin da quando ero piccolo.
Andava tutto bene.
 
 
(Ma non sarebbe potuto sempre andare bene)
 
 
 
 
A lavoro fu tutto come al solito (seppur fosse solo il mio terzo giorno), stavo ormai iniziando a capire come le varie cose andassero fatte, e tutto scorreva liscio.
Stavo pulendo un tavolo, poco prima della fine del mio turno quando una ragazza mi si avvicinò.
Era molto carina, bassa, lunghi capelli castani che parevano essere seta, e una frangetta che le copriva anche le sopracciglia, grandi occhi a mandorla e labbra sottili. Era carina, decisamente, e quando mi sorrise non potei fare a meno di arrossire.
Sembrava essere piuttosto insicura ma si decise comunque a parlare.
-“Hmm, oppa…” (avrei voluto controbattere, dirle che, nonostante fosse carina e tutto, era chiaramente più grande di me, e che quindi non doveva chiamarmi oppa, ma mi trattenni, sembrava essere un momento piuttosto difficile per lei) “Tieni” mi passò un tovagliolo, ed io rimasi un attimo perplesso, osservai l’oggetto come se no ne avessi mai visto uno prima in tutta la mia vita, ma poi scorsi dei piccoli numeri scritti sul lato.
Oh.
Diciamo che noi interni non possedevamo orologi con strane proiezioni come gli esterni, e mai avevo visto la loro tecnologia da vicino prima del giorno in cui il certo ‘Jimin’ ricevette una chiamata, però anche noi avevamo dei telefoni. Certo, non tutti ne avevano uno, e probabilmente erano dei modelli molto, troppo arretrati, inoltre  le persone lo usavano di rado rispetto ai mostri là fuori, molti infatti si limitavano ad avere un telefono di casa e basta.
Io ne avevo ricevuto uno il giorno del mio sedicesimo compleanno, uno di quelli che devi rompere lo schermo con i polpastrelli per far ricevere gli impulsi al touchscreen, ma era addirittura uno dei modelli più buoni, sempre meglio di quei carrarmati con i tasti. Comunque non lo usavo praticamente mai, rimaneva quasi sempre a prendere polvere in camera mia, dopotutto chi avrei mai dovuto contattare? I miei genitori si erano rassegnati e non volevano più sapere che cosa facevo della mia vita(circa), e per parlare con Yoongi o Jin preferivo mille volte andare a cercarli di persona, in uno modo o nell’altro riuscivamo comunque sempre a trovarci.
Una delle leggi tra il patto tra interni ed esterni era che non saremmo mai dovuti entrare in contatto attraverso essi, quindi possedevamo delle reti diverse, numeri difficilmente rintracciabili da ambo i lati, e ogni contatto era impossibile.
Continuai a fissare quei numeri scritti con cura, curve e linee che li componevano tracciate con accuratezza.
Alzai lo sguardo sulla ragazza, che probabilmente stava aspettando una reazione, ma dal momento che ero un ragazzo esteriormente terribilmente apatico, il suo sorriso scomparve poco a poco.
Cercai di forzare un sorriso, non sapendo che altro fare, e un’espressione soddisfatta tornò sul suo volto.
 
-“Chiamami, oppa” disse facendo un occhiolino, e mi trattenni dal non sbuffare, ‘oppa a chi?’, poi uscì dal locale insieme alle sue amiche, con cui iniziò a parlare a sottovoce, mentre loro le davano delle pacche sulla spalla, ridendo.
Misi il tovagliolo in tasca, dove probabilmente sarebbe restato, e dove si sarebbe frantumato quando avrei lavato quel paio di jeans. Era carina, niente da dire, ma ancora nulla, il mio cuore era freddo come sempre.
Stavo iniziando a diventare addirittura infastidito dal fatto, perché diamine non riuscivo a sentire nulla per nessuno?! Se fossi andato a chiedere aiuto a Jin probabilmente mi avrebbe detto qualcosa di estremamente poetico del tipo ‘ Tutto a tempo debito’, ma io ero stanco di sentirmi così freddo,  dannatamente vuoto.
Incrociai le braccia ed aggrottai le sopracciglia, infastidito da me stesso, un essere umano mal funzionante, dove diamine erano le mie emozioni?!
 
-“Smettila di fare il broncio, che poi diventi brutto e saremo costretti a licenziarti” Eunwoo mi pizzicò la guancia, mentre stava passando con un vassoio in mano “Il tuo turno è finito, puoi andare, ci vediamo domani Jungkook-ah”.
Lo ringraziai ed andai a posare il grembiule, afferrando lo zaino che mi ero portato dietro, uscendo poi dal locale salutando tutti.
Era ancora presto, troppo presto, per andare nel posto, ma non avevo nulla di meglio da fare o nessun’altra persona con cui intrattenermi per perdere un po’ di tempo, dunque presi una bella boccata d’aria, mi armai di coraggio  e mi ci diressi, curioso di come le cose sarebbero andate.
(e forse anche curioso di rivedere quel viso dagli occhi incredibilmente dolci, ma questo non lo avrei mai ammesso).
 
 
  
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