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Autore: _Frame_    10/04/2017    6 recensioni
Anni Ottanta.
Intorno al periodo di Natale, la piccola Pauline si reca in quella che una volta era la Cecoslovacchia per visitare i mercatini natalizi assieme alla mamma, alla nonna e al fratello maggiore, accompagnata inoltre dal suo amato coniglietto di peluche che finirà per perdere in mezzo alla calca. Una perdita che potrebbe comportare nella sua vita più conseguenze di quante lei creda.
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[Storia partecipante al contest di Biancarcano: Oggetti e giocattoli dimenticati...o ricordati?]
[Prima Classificata]
[Vincitrice del premio "Gli alberi sono alti"]
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore su ffz e su efp: _Frame_

Originale o fandom: Originale

Titolo: Il Coniglio della Cecoslovacchia

Oggetto utilizzato: Un coniglietto di peluche

Come è stato utilizzato l'oggetto: La perdita del suo coniglietto di pezza strappa alla piccola Pauline la speranza del primo vero sogno su cui aveva costruito il suo futuro. Il coniglio rappresenta la prima delusione che riceve dal mondo che la circonda, e il vuoto che le rimane dentro la condurrà a una tragica fine.


 

N.d.A.

Nella parte iniziale del racconto, quando Pauline è una bambina, il suo lessico appare molto infantile, pieno di ripetizioni, anche di congiuntivi sbagliati e di altre sbavature che appartengono appunto al livello narrativo di una bimba. Poi il linguaggio e la capacità di espressione crescono assieme a lei.


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Il Coniglio della Cecoslovacchia

 

 

Mi sporgo dal seggiolino dell’auto, la cintura mi preme sulla pancia ma riesco lo stesso ad appoggiare la fronte al finestrino. Il mio fiato fa la condensa sul vetro, come quella che viene sullo specchio dopo che ho fatto il bagno. Fa freddissimo. Stringo le braccia attorno a Panciolino per tenere al caldo anche lui, e il suo musetto affonda nella stoffa del cappotto. L’auto rallenta, si mette in coda dietro a tutte le altre, e i signori con i giubbotti neri e i caschi grigi si spostano davanti alle sbarre fra le case a forma di cubo con le vetrine. Premo una mano sul vetro e pulisco la condensa per vedere meglio, mi asciugo le dita sul cappotto. Uno dei signori stringe forte il fucile che ha in mano e va a dire qualcosa a un altro signore con il casco. Quando parlano esce tutto il fumo anche dalle loro bocche.

La mamma ferma la macchina, si sporge di lato e anche lei guarda fuori dal finestrino. «Ma siamo già in fila?» Si solleva con le spalle e riesco a vedere la sua testa sbucare da dietro il sedile davanti a me. «Dove comincia la fila?»

La nonna le indica una delle case a forma di cubo con la sbarra, dove si sono fermate tutte le altre auto. «Di là, di là» le dice. «Dovevi metterti di là.»

La mamma scuote la testa e la macchina va ancora un po’ avanti. «No, mamma, quella corsia è solo per i camionisti.» Torna a mettersi seduta composta e si passa una mano fra i capelli, si gratta la testa. «Uff, Dio, ogni volta questa manfrina.» Fa tamburellare le unghie sul volante, spinge le spalle in avanti e guarda male uno dei signori con i fucili. Due di loro si sono fermati vicino a una macchina rossa davanti alla sbarra abbassata e stanno parlando con i signori che ci sono dentro.

«Non ti agitare.» La nonna si rimbocca la sciarpa attorno al collo, si sistema gli occhiali. «Perché ti agiti?»

«Sono calma.» La mamma si gira e guarda Dominic, tende un braccio verso di lui e schiocca le dita. «Dominic, mi prendi i passaporti in borsa? E anche le carte d’identità.»

Dominic abbassa il libro illustrato da davanti il viso – “Il Mago di Oz” – e sbuffa. «Quali sono i passaporti?» Appoggia il libro sul ginocchio e raccoglie la borsa della mamma sul sedile fra me e lui. Io non posso toccarla, la mamma mi dice sempre che non si mettono le mani nelle borse.

«Lascia stare» dice la mamma, e torna a girarsi, a stringere il volante. «Passa la borsa alla nonna. Fai fare a lei.» Spinge un dito sulla radio e la spegne. Uffa, stavamo ascoltando gli ABBA e non eravamo ancora arrivati a Waterloo!

La nonna si gira e prende la borsa dalle mani di Dominic, gli sorride. «Dai alla nonna, Dominic.» Se la mette in grembo, la apre, sposta il portafoglio della mamma, e rivolge anche a me un sorriso da sopra la spalla. «Hai pisolato, Pauline?»

Sbadiglio, mi metto la mano davanti alla bocca e mi stropiccio un occhio con un pugno. «Poco.» Torno a stringere Panciolino, gli pettino il ciuffo di pelo fra le orecchie, gli faccio un massaggio alla testolina. «Solo dentro la galleria.» Faccio vedere Panciolino alla nonna e gli faccio rimbalzare le orecchie. «Panciolino ha fatto la guardia.»

La nonna sorride, tira fuori i nostri quattro libretti e li mette sulle ginocchia, sopra la gonna. «Digli che resista solo un altro po’.» Richiude la borsa della mamma e la posa in mezzo ai piedi. «Siamo quasi arrivati.»

«Mamma, ricontrolla la cartina» le dice la mamma. Fa andare avanti la macchina e torna subito a fermarsi, guarda a destra e a sinistra. «Che dopo non so quale sbocco dobbiamo prendere.»

«Chiedi al posto di blocco, no?»

Tiro in avanti le spalle e la cintura mi pizzica il collo. «Siamo arrivati?» Torno a guardare tutte le case a forma di cubo, le tapparelle rosse davanti alle finestre, i signori con i giubbotti neri e i caschi, e le sbarre che bloccano le auto. «È questo il mercatino?»

Dominic solleva il Mago di Oz e sfoglia una pagina. «No, stupida, è il posto di blocco della dogana.» Ne sfoglia un’altra.

La mamma gli lancia un’occhiata brutta. «Dominic, queste parole.»

«Che c’è?» Dominic gira un’altra pagina e fa spallucce. «Se è stupida...»

Gonfio il broncio, gli tiro un calcio sul ginocchio e metto Panciolino davanti a me. «Panciolino dice che tu sei più stupido.»

Dominic si pulisce i pantaloni dove ho lasciato l’impronta con la scarpetta, mi fa la linguaccia. «E Panciolino è il più stupido dei conigli stupidi.»

«Ragazzi!» esclama la mamma.

Anche io faccio la linguaccia a Dominic e mi rimetto sul seggiolino, stringo Panciolino al petto, lo coccolo, gli pettino un’orecchia e gli do un bacino sul muso. Non gli piace quando io e Dominic litighiamo.

La macchina va ancora avanti ma si ferma subito, ci stiamo anche noi avvicinando a una delle sbarre. 

Torno a guardare fuori dal finestrino e aggrotto la fronte, cerco meglio da dietro il vetro appannato, perché non mi sembra che l’anno scorso c’erano le sbarre al mercatino. «Dov’è che si comprano le palline di Natale?»

«Più avanti, tesoro» mi dice la nonna. «Ma prima dobbiamo fare spazio nel bagagliaio.»

Sorrido sentendo tutte le guance diventare calde e lo stomaco pizzicare di gioia. Agito le gambe contro il seggiolino, faccio rimbalzare Panciolino sul ginocchio. «Possiamo comprare delle palline rosa?»

«Io non le voglio le palline rosa sull’Albero» si lamenta Dominic. Sfoglia un’altra pagina del libro. «E poi non ci bastano i soldi.»

La mamma sbuffa. Uno sbuffo di quelli che fa quando è nervosa prima di andare dal medico o in banca. «Qui con trentamila lire ci portiamo via tutto il mercato, se vogliamo.» Guarda fuori dal finestrino e fa andare avanti la macchina.

«Nonna.» Sporgo le spalle verso il sedile della nonna, le tiro un lembo della sciarpa di lana. «Dopo andiamo a mangiare la torta nel ristorante dell’anno scorso? Possiamo?»

La nonna sta per rispondermi, ma la mamma parla prima di lei.

«Io le nascondo, eh.»

Tiro di nuovo la sciarpa, faccio la voce più triste perché non mi sta ascoltando. «Nonna.»

«Non serve nasconderle» risponde la nonna alla mamma.

«Con tutto quello che prendiamo», la mamma indica i nostri sedili e il bagagliaio, «questi non ce le lasciano portare a casa, fidati, altro che tassarcele. E magari ci becchiamo anche una multa.»

«Nonna, nonna.» Ora le tiro la manica del cappotto. «Il ristorante» insisto.

La nonna si gira e mi guarda con occhi confusi. «Cosa?»

«Voglio andare al ristorante dell’anno scorso» le dico. «Perché anche Panciolino vuole mangiare la torta ai frutti di bosco, e l’anno scorso lui non l’ha mangiata perché non c’era.»

La nonna sorride, annuisce. «Sì, tesoro.» Si ripulisce la manica dove l’ho spiegazzata. «Ci andiamo sicuro.»

La mamma sbuffa, i suoi piedi traballano sul pavimento della macchina, le dita tamburellano sul volante. «Mamma, accendimi una sigaretta.» Torna a pettinarsi i capelli via dagli occhi e si rosicchia le unghie.

La nonna la guarda come fa prima di rimproverarci. «Non davanti ai bambini.»

Dominic alza una mano. «Io non sono un bambino.» E sfoglia un’altra pagina.

«I passaporti e le carte d’identità.» La mamma si gira verso la nonna, stringe così tanto le dita sul volante che la pelle diventa bianca. «Dove sono i passaporti?»

«Qui, qui, non ti agitare.» La nonna le passa i libretti. «Fatti dire dove possiamo fare il cambio dei soldi. Quelli che abbiamo cambiato in banca non bastano.»

La mamma fa di sì con la testa e abbassa il finestrino. Entra un’aria freddissima che mi mette i brividi e che puzza di gas di macchina e di pioggia.

Mi metto Panciolino davanti alla bocca per respirare il profumo di fragola che ha il suo pelo, torno a girarmi per guardare fuori, passo di nuovo le dita sul vetro appannato, e uno dei signori con il fucile e il caschetto si gira a fissarmi. Cammina accanto alla nostra macchina e va verso la sbarra bianca e rossa illuminata dai fari.

Sorrido, sollevo Panciolino davanti al finestrino così può vedere anche lui. «Visto, Panciolino? Fra poco siamo arrivati.»

Questa notte non siamo nemmeno riusciti a dormire, né io né Panciolino, perché eravamo troppo contenti di fare il viaggio in macchina in Cecoslovacchia, di ascoltare le cassette della mamma alla radio, di fermarci a fare colazione con il cappuccino d’orzo e la brioche al cioccolato nel bar prima di prendere l’autostrada. E poi questa sera torneremo a casa con tutti i pacchi da far vedere a papà!

Faccio dondolare Panciolino sul mio ginocchio. «Compriamo le palline e mangiamo la torta, e a casa facciamo l’Albero.» Anche lui è felicissimo, me lo ha detto nell’orecchio!

Uno dei signori con il fucile si ferma accanto al finestrino abbassato della mamma, le dice qualcosa in una lingua che non conosco, ma la mamma gli mostra un sorriso tirato e gli risponde in italiano. «Salve.» Gli dà i nostri libretti. «Siamo in quattro.» Indica la nonna, me e Dominic. «Čtyři

Il signore apre uno dei libretti, lo mostra alla mamma e parla ancora quella lingua strana. «Itálie

La mamma annuisce. «Itálie, ano.» Il suo sorriso trema.

 

.

 

La mamma mi sgancia la cintura, mi prende in braccio per farmi scendere dal seggiolino, mi fa appoggiare i piedi sul marciapiede e mi spolvera il cappotto, rimboccandomi il bavero. Raddrizza le spalle e sospira sventolandosi il viso accaldato. «Fiuu, finalmente.»

Tengo Panciolino stretto sotto il braccio e saltello battendo le mani. «I mercatini, i mercatini!» I palmi non fanno tanto rumore perché ho i guanti.

Dominic richiude lo sportello, si mette la mano davanti alla fronte come i pirati in cima alla nave, e guarda al di là della strada, verso i mercatini. «Chissà se c’è quello con le granate della Seconda Guerra Mondiale dell’altra volta?» Cammina già verso le strisce pedonali dove altri signori si sono fermati per far passare le macchine.

«Aspettate» ci chiama la mamma. «Aiutatemi a fare spazio nel bagagliaio, prima di andare.»

Dominic sbuffa e incrocia le braccia al petto. «Io non voglio portare le buste.»

Alzo un braccio sopra la testa e salto vicino alla mamma. «Io porto le buste, io, io!»

La mamma apre il bagagliaio e guarda Panciolino, aggrotta la fronte e i suoi occhi mi rimproverano. «Pauline, lascia il coniglio in macchina, sennò lo perdi.»

Stringo forte Panciolino, faccio un passo all’indietro e scuoto la testa. «No, non lo perdo.»

La mamma abbassa il sedile fra il mio e quello di Dominic, per lasciare spazio alle scatole che compreremo, e richiude il bagagliaio. «Ma poi non riesci a tenere le borse e – Dio, voglio una sigaretta.» Si infila le mani in tasca, tira fuori il pacchetto e l’accendino. Mi fa venire un’idea!

«Non lo perdo, guarda.» Mi metto anche io Panciolino nella tasca più grande del cappotto, lo infilo fino alla testolina lasciando le zampe e le orecchie di fuori, lo mostro alla mamma. «Sta nella tasca del cappotto, vedi, ci entra tutto e non lo perdo, faccio tipo canguro.»

Dominic stende l’indice e punta una delle bancarelle circondata da tavoli pieni di valige ricolme di monetine d’argento e d’oro. «Io vado a vedere quella là.» Corre verso le strisce pedonali.

La nonna gli saltella dietro allacciandosi la sciarpa attorno al collo. «Dominic, non attraversare senza di noi, e stai fermo sennò perdiamo pure te.» Si gira verso di me e mi porge il braccio con cui regge la borsetta. «Pauline, la mano.»

Le mostro il mio coniglietto. «La do a Panciolino.»

La mamma si toglie la sigaretta dalla bocca, rimette l’accendino in tasca, e soffia una nuvola di fumo, tipo un drago. «Dopo non te lo tengo in mano io se ti stufi.» Mi viene vicino e mi avvolge la mano, mi fa camminare vicino a lei.

Scuoto la testa, metto il muso. «Non mi stufo.»

«Allora siamo pronti» dice la nonna. Stringe il gomito a Dominic e si avvicina anche lei al ciglio della strada davanti alle strisce. «Mano alla nonna e andiamo.»

Sorrido. Faccio un salto in avanti e tiro la mamma dietro di me. Andiamo!

 

.

 

Rimango appesa al cappotto di Dominic, stringo Panciolino con la mano libera, e mi avvicino a una delle bancarelle che vendono le ghirlande di abete e di vischio da mettere sulla porta di casa. Mi alzo sulle punte dei piedi per vedere oltre le signore che si sono spinte davanti a me, ma non trovo nessuna pallina di Natale rosa. Ne abbiamo comprate di verdi, di bianche, di rosse, di gialle e di blu. Le abbiamo comprate con disegnati sopra i fiocchi di neve e anche quelle con attaccate le campanelle, ma non ne abbiamo trovata nemmeno una color rosa, color Panciolino, e ormai mi fanno già male i piedi a forza di camminare.

La mamma si fa spazio fra le persone davanti alla bancarella che vende le posate e i bicchieri di cristallo, esce dalla fila, si stringe nel cappotto facendo sballottare sui fianchi le borse piene di scatole, e porge alla nonna un’altra confezione di cartone. «Mi ha fatto lo sconto, guarda.» Le indica la fotografia dei bicchieri appiccicata sul cartone. «Questi stanno bene con il centrotavola azzurro.»

La nonna cammina all’indietro tenendo Dominic per mano, si allontana dalla gente che ci passa davanti – prima un signore le ha anche pestato la scarpa – e sposta i manici delle borse attorno al polso per raccogliere la scatola che le ha dato la mamma. «Vediamo.» Si aggiusta gli occhiali, rigira la confezione, fa uno sguardo triste. «Oh, ma mi avevi detto che quest’anno avresti messo quello rosso e oro che ti ho cucito io. Questi non stanno bene.»

Tiro il gomito di Dominic, lo faccio venire più vicino alla bancarella che vende gli orologi a cucù e i carillon, e sollevo Panciolino sopra la testa, così se vede qualcuno che vende le palline di Natale rosa mi avverte.

La mamma riprende la scatola dalle mani della nonna e la infila in una delle borse. «Quello lo mettiamo a Pasqua, mamma.»

Due signori si spostano da una delle bancarelle, dietro di loro si apre il bancone coperto da un tettuccio di legno. Sulla parete scintillano file di palline di Natale. Rosse, gialle, verdi, blu. Nell’angolo in alto a sinistra, appese ai rami di un piccolo abete piantato in un vaso, pendono palline rosa dello stesso colore della pelliccia di Panciolino, decorate da piccoli cristalli bianchi che le avvolgono come ghiaccio.

Sgrano gli occhi, spalanco la bocca prendendo un sospiro di meraviglia, e il cuore fa un salto di gioia. Salto anch’io! «Mamma, mamma!» Mi stacco dal gomito di Dominic e le vado incontro, mi appendo al suo cappotto. «Mamma, mamma!»

Lei abbassa lo sguardo, sposta il peso delle borse da una mano all’altra. «Cosa, Pauline?» sospira con voce stanca.

Io allargo il sorriso e le indico la bancarella delle palline, faccio un altro salto. «Le palline rosa» esclamo. «Mi avevi detto che prendevamo le palline rosa come Panciolino. Le ho trovate, sono là, guarda, quelle là!»

Dominic sbuffa. «Io non le voglio sull’Albero.»

Sbuffo anche io, gli corro vicino e gli do un calcio alla caviglia.

Dominic salta. «Ahi!» Si stringe la gamba e la massaggia.

La mamma e la nonna si scambiano un’occhiata, la nonna sorride, solleva le sopracciglia, la mamma fa roteare gli occhi e sospira, si passa una mano fra i capelli. «Dove sono queste palline rosa?» Mi viene dietro, sporge anche lei lo sguardo sopra le teste delle persone.

Io corro verso la bancarella. «Laggiù, laggiù, vicino al negozio degli orologi.» Torno indietro e apro verso di lei la mano che non tiene Panciolino. «Mi dai i soldini che vado a comprarle, per piacere?»

La mamma raggiunge l’apertura della sua borsetta di pelle, infila la mano e cerca il portafogli. «Dominic, prendi tua sorella e portala a comprare le palline rosa.» Lo allunga sopra il mio palmo ma lo dà a Dominic.

Dominic stringe il portafogli, ma solleva un sopracciglio. «Cosa?» esclama.

Io mi giro di scatto, lo stringo per il lembo del cappotto e lo tiro dietro di me. «Dai, Domi, andiamo a prendere le palline.» Per poco non vado a sbattere contro una vecchietta che tira un carrellino.

La mamma si massaggia la fronte. «Dominic, fai un favore alla mamma, vuoi?»

Dominic fa roteare lo sguardo. «Uff.» Si infila il portafogli in tasca e mi segue.

Io salto di gioia, spingo Panciolino sopra la mia testa. «Sììì

Ci infiliamo fra la gente e raggiungiamo la bancarella. Dominic mi tiene per mano, fa un cenno al signor venditore con la mano e gli indica le palline sull’abete. «Ehm, mi scusi, dovremmo comprare quelle, se è possibile.»

Saltello sul posto e sollevo Panciolino, così le può vedere anche lui. «Le palline, le palline.» Tiro una manica di Dominic. «Quelle rosa, Domi, digli quelle rosa!»

Dominic balbetta qualcosa strofinandosi la testa e fa roteare l’indice. «Růžový

Il signore del negozio ci sorride e annuisce. Si piega a raccogliere una scatola di cartone, controlla una scritta sul fianco stampata vicino a un pallino rosa, e me la porge continuando a sorridere.

Sgrano gli occhi, il petto si gonfia di emozione. Sfilo la mano da quella di Dominic e lascio scivolare Panciolino nella tasca, mi sporgo per raccogliere la scatola che contiene le palline di Natale e me la stringo al petto. Il cuore scoppia di gioia.

 

.

 

Porgo alla mamma la scatola con dentro le palline di Natale rosa, lei la infila fra le altre nel bagagliaio, incastrandola come quando papà mi insegna a giocare a Tetris alla sala giochi. Giungo le mani e saltello, ancora felicissima per averle trovate, ma una strana sensazione di vuoto mi fa fermare. Apro le mani, guardo i palmi inguantati, agito le dita, guardo dentro a una tasca del cappotto, ma non trovo niente. Non c’è Panciolino.

«Ecco.» La mamma chiude il bagagliaio, raddrizza le spalle e si massaggia la schiena. «Se non passiamo alla dogana, chiamo Philippe e...»

«Non serve chiamare Philippe» la rimprovera la nonna. «Lascia in pace quell’uomo, non ci fermano alla dogana.»

«Mhf.» La mamma sfila una sigaretta dal pacchetto e la avvicina alla bocca. «Stupidi comunisti.» Spinge il pollice sull’accendino e fa partire la fiamma, inspira una prima boccata.

Controllo anche nell’altra tasca del cappotto, mi giro, guardo in mezzo ai piedi, tasto le tasche dei pantaloni, sbircio fra le maniche, ma non lo trovo. Sale un senso di paura a stringermi la gola, come quella volta che mi sono persa al supermercato, e la voglia di piangere mi pizzica le guance. «Mamma.» Mi avvicino alla mamma e le tiro la giacca.

La mamma soffia il fumo della sigaretta. «Cosa?»

Faccio gli occhioni tristi. «Dov’è Panciolino?»

La mamma prende un’altra boccata dalla sigaretta. «Ce l’hai tu, Pauline.»

Ma no, non ce l’ho io!

Corro da Dominic e gli tiro la giacca. «Domi, dov’è Panciolino?»

Lui apre lo sportello, getta la sciarpa attorno al sedile, raccoglie il suo libro. «E che ne so.» Non mi guarda nemmeno, mette a posto il segnalibro che si è spiegazzato.

Gli occhi mi pungono, mi devo rosicchiare il labbro per non farlo tremare e per trattenere i singhiozzi, il cuore batte forte, si riempie di paura.

Corro dietro la macchina. «Mamma, apri il bagagliaio, non trovo Panc...»

«Non è nel bagagliaio, Pauline.» La mamma mi blocca.

«Forse l’hai perso alla bancarella» dice Dominic. «Quando lo hai messo in tasca.»

Quando l’ho messo in tasca...

Le mani che scivolano via da Panciolino, che si tendono per aggrapparsi alla scatola di cartone che mi porgeva il signore della bancarella.

Sgrano gli occhi, socchiudo le labbra. «Oh.» E le lacrime gocciolano scivolandomi fra le labbra. Strizzo le palpebre, schiaccio i pugni sul viso e corro dalla mamma. «Mamma, mamma, torniamo indietro.» Mi appendo al cappotto. «Andiamo a prendere Panciolino.»

La mamma si scosta e scuote la testa. «Non dire scemenze, Pauline, siamo già in ritardo.»

Allungo un braccio verso le bancarelle. «Ma Panciolino!» piango.

«Cosa c’è, Pauline?» La nonna ritorna dopo essere andata al bagno del ristorante, si sistema il cappotto.

Mi stacco dalla mamma e tiro su col naso. «Ho perso Panciolino.» Asciugo le lacrime dal viso ma continuano lo stesso a gocciolare fra le dita. «Mi è caduto nei mercatini.»

«Ooh, tesoro.» La nonna mi viene vicino.

«Mamma, no» le dice la mamma. «Così impara. Le avevo detto di non portarlo.» Fa cadere la sigaretta e la schiaccia con la scarpa.

Mi abbraccio alle gambe della nonna, soffoco i singhiozzi nel suo profumo. «Dovevamo fare l’Albero assieme.» Singhiozzo ancora, e la voce si arrochisce per le lacrime. «Dovevo fargli assaggiare – sniff! – la torta.»

«Oh, Pauline.» La nonna mi carezza la testa e mi prende per mano, si rivolge alla mamma. «Voi girate la macchina. Accompagno Pauline a cercare Panciolino.»

Dominic ride da dentro l’auto. «Te l’hanno rapito.»

Corro verso di lui e tiro un calcio alla portiera.

Panciolino si è perso, e potrebbe averlo raccolto un altro bambino. E il bambino ora lo porterà a casa sua, lo laverà al posto mio, lo asciugherà e lo farà mangiare assieme a lui come faccio anche io, ma gli farà mangiare le carote e lui odia le carote, le odia! Lui mangia solo mela grattugiata e caramelle gommose alla liquirizia, ma queste cose il bambino non le sa e non potrà mai farlo felice. Panciolino piangerà un sacco perché gli manco, perché gli manca la mela grattugiata, perché gli mancano le mie coccole e la mia ninna nanna prima di andare a dormire, e invece dovrà stare stretto fra le braccia di un cecoslovacco che non sa nemmeno come si chiama!

Mi stringo alla nonna mentre attraversiamo le strisce, chiudo il pugno inguantato contro gli occhi e smetto di piangere.

Lo devo ritrovare!

 

.

 

Affondo la forchetta nello strato di frutti di bosco che ricopre la fetta di torta, passo attraverso la crema alla vaniglia e rompo la pasta, ne stacco la punta e la raccolgo portandola vicino alle labbra. Tiro su col naso, mi strofino le palpebre ancora gonfie e bagnate, gli occhi mi bruciano tantissimo, e avvicino la bocca alla torta. Ne addendo un piccolo morso, un mirtillo mi rotola sulla lingua assieme al sapore della pasta e della crema. Singhiozzo. Il gusto dolce della torta si mescola a quello salato delle lacrime.

La mamma sfila il cucchiaino dalla sua tazzina di caffè e mi rivolge uno sguardo di rimprovero indicando la torta con il mento. «Mangia la torta, Pauline, altrimenti smettila di giocarci.» Posa il cucchiaino sul piattino e raccoglie la tazzina, prende un sorso di caffè.

Tiro di nuovo su col naso. «Non la voglio.» Poso la forchetta accanto alla fetta, faccio scivolare il piattino vicino alla scatoletta con le bustine di zucchero, e incrocio le braccia al petto, finisco di piangere a sguardo basso.

Dominic sfila la sua forchetta dalla bocca – ha ancora le labbra sporche di cioccolato e marmellata di albicocche – e la allunga verso il mio piattino. «Allora la mangio io.»

Scatto in avanti e gli do uno schiaffo al polso. «No!» Prendo di nuovo il piattino e lo circondo con le braccia. È la mia torta! È la torta che dovevo far assaggiare a Panciolino! Le lacrime tornano a pizzicarmi gli occhi, scorrono lungo le guance e mi bagnano le labbra. Singhiozzo un’altra volta, mi sfrego un pugno sulle palpebre. «Dovevo mangiarla con Panc – hic! – ciolino.» Piango ancora, mi schiaccio tutte e due le mani sulla faccia per nascondermi, la pancia e il petto tornano a farmi male.

La mamma scuote il capo e posa la tazzina sul piattino. «Pauline, è inutile che adesso piangi, ti avevo detto di lasciarlo in macchina.»

Tiro su col naso, lo strofino con il fianco della mano. «Ma voleva vedere i mercatini e le bancarelle», singhiozzo, «doveva aiutarmi a scegliere le palline da mettere sotto l’Albero.»

La nonna toglie la bustina di tè dalla sua tazza. «Ooh, tesoro.» La posa sul piattino, tende il braccio verso la mia mano e la carezza, anche se è tutta bagnata di lacrime. «Il prossimo anno, quando torniamo, chiediamo al signore della bancarella se lo ha trovato.» Mi regala un sorriso di incoraggiamento. «Hai sentito anche tu, no? Ha detto che se lo trovava ce lo metteva da parte e poi ce lo ridava il prossimo anno.»

Dominic sghignazza e mangia un altro boccone di Sacher. «Oppure se lo mangerà.» Ride, ancora con le guance piene di torta.

Io gli tiro un calcio sulla gamba. «Non si mangiano i peluche, stupido!»

Dominic tira via il piede e mi fa una smorfia con il naso, fa lo sguardo da sapientone. «Magari è un maniaco mangia-peluche, stupida!» Lecca la forchetta.

«Ma non possiamo mettere dei cartelli?» chiedo alla mamma. «Come ha fatto la zia quando ha perso Furina e ha messo i volantini con il numero di telefono.»

Dominic risponde al posto suo e fa spallucce. «Devi farli in cecoslovacco, i volantini.» Raccoglie un’ultima forchettata di Sacher e la infila fra le labbra.

Piego la testa di lato, mi metto l’indice sul labbro e sbatto le palpebre. «E come si scrive in cecoslovacco?»

«E che ne so.» Dominic pigia la forchetta sul piattino per raccogliere le ultime briciole di torta. «Magari quando diventi grande puoi tornare qui, diventare un’allevatrice di conigli cecoslovacchi e continuare a chiedere in giro se qualcuno ha trovato per terra Panciolino. Oppure apri anche tu una bancarella di Natale, con le palline e i peluche.» Lecca di nuovo la forchetta e si ciuccia un dito.

Torno a fare gli occhi tristi, una sensazione di sconforto mi fa di nuovo sentire le lacrime gonfiarsi sul viso e arrossarmi le guance. «Ma non posso parlare in italiano?»

«E chi ti capisce, poi?» Dominic mi sventola contro la forchetta. «In Cecoslovacchia si parla cecoslovacco, no?»

In cecoslovacco. Ma io non lo so il cecoslovacco.

Un’idea però mi fa sgranare gli occhi. Rimbalzo sulla sedia e volgo lo sguardo alla mamma. «Mamma!» Sollevo un braccio al cielo, come quando devo chiedere alla maestra di andare in bagno. «Quando sono grande posso imparare il cecoslovacco?»

La nonna prende un sorso di tè e sorride.

La mamma ha finito il suo caffè e sta cercando qualcosa nella borsa, annuisce. «Sì, Pauline.» Tira fuori il borsello degli spiccioli e l’agendina del telefono.

«E posso venire in Cecoslovacchia a vendere le palline di Natale?»

«Sì, Pauline.» La mamma si alza dalla sedia, sospira, si massaggia il collo. «Vado a vedere se hanno un telefono per chiamare Philippe.» Rimette la sedia a posto, stando immobile per far passare una cameriera, e poi cammina verso la signora alla cassa. «Forse lo trovo ancora in ufficio.»

Dominic si mette una mano attorno alla bocca per farsi sentire. «Di’ a papà che ha promesso di aggiustarmi la ferrovia del trenino, quando torna a casa.»

«Sì, Dominic.»

Il cecoslovacco.

Faccio dondolare le gambe sotto il tavolo, e tutto il formicolio di eccitazione che ieri sera non mi ha fatto addormentare torna a pizzicarmi sui piedi, nel petto, e nelle mani. Ritrovo il sorriso, le guance arrossiscono per l’emozione, non per il pianto.

Imparerò il cecoslovacco e così, anche se Panciolino passerà tanto tempo qua ad aspettarmi in Cecoslovacchia, poi potrò parlargli lo stesso e staremo insieme come abbiamo sempre fatto.

«Nonna» la chiamo. «Se io da grande imparo il cecoslovacco e vengo ad abitare in Cecoslovacchia, secondo te riesco a trovare Panciolino?»

La nonna sorride, sfila la tazzina dalle labbra, la posa sul piattino e raccoglie la bustina vuota che conteneva il sacchetto del tè. «Sì, Pauline, sicuramente sì.» Apre il suo portafogli e la infila fra le banconote, per la sua collezione.

Il pancino borbotta, guardo la mia torta ai frutti di bosco e crema, e mi torna la fame.

Afferro la forchetta, stacco un pezzetto grosso e lo mangio in un boccone. La torta è buona e dolce come me la ricordavo, e quando avrò imparato il cecoslovacco e ritrovato Panciolino la farò assaggiare anche a lui!

Mi imprimo nella mente l’immagine di Panciolino seduto ad aspettarmi, con le orecchie ammosciate sui fianchi e la zampina rosa che sventola sopra la sua testa, chiamandomi e salutandomi come quando eravamo assieme.

 

●●●

 

Cinque anni dopo

 

La voce della televisione crea un brusio che mi raggiunge nel corridoio. Mi stropiccio gli occhi ancora umidi di sonno, gratto la pelle accaldata che pizzica sotto la stoffa del pigiama, ciabatto verso la cucina e spingo la vetrata della porta illuminata dallo schermo e dalla lampada a soffitto. Sbircio da dietro lo stipite, una ciocca di capelli mi cade davanti al viso.

Papà e Dominic sono seduti al tavolo della cucina, i visi rivolti alla televisione. La mamma ha ancora in mano la caffettiera fumante, il grembiule allacciato in vita, e anche lei tiene gli occhi incollati allo schermo.

Il presentatore del telegiornale guarda la telecamera. «Una notte storica per i berlinesi e per il mondo intero» dice. «Cinquantamila persone hanno varcato il Muro da Est verso Ovest, accolti dall’abbraccio fraterno di una città in festa.»

Spingo la porta, i cardini cigolano, entro di un passetto e mi stropiccio l’altro occhio, sbadigliando. «Mamma?»

La mamma mi lancia una rapida occhiata e si posa l’indice sulle labbra. «Ssh.» Torna a guardare la televisione e versa il caffè nella tazza di papà.

Papà si gira, mi sorride da sotto i baffi e tende il braccio sporgendomi un ginocchio, come quando mi fa salire in grembo. «Bonjour, ma petite

Sorrido anch’io. «Bonjour, papa.» Gli corro in braccio, mi faccio sollevare sulle sue ginocchia e mi rannicchio come quando stavo bene sotto le coperte.

Papà mi massaggia la schiena e torna a guardare il telegiornale. Sullo schermo appaiono immagini di una ruspa circondata da persone che impugnano martelli e picconi, il mezzo si schianta addosso a un muro e fa cadere tutto il cemento.

La voce del presentatore continua a parlare. «Le autorità della Germania Comunista hanno cominciato oggi a demolire il Muro. Si stima che entro...»

Che noia. Tiro la camicia di papà, gli cerco lo sguardo. «Papà, cambia canale, voglio vedere Heidi.»

Papà mi fa segno di stare in silenzio con l’indice come aveva fatto la mamma. «Ssh, un attimo, Paulie.»

«Ma c’è Heidi!»

Dominic parla con la bocca piena. «E taci un po’.» Addenta il suo panino di marmellata, prende un sorso di latte, e anche lui non toglie gli occhi dalla televisione.

«Un fiume di folla» continua a commentare il signore del telegiornale. «Un fiume di folla che passa proprio sotto gli occhi della Polizia del Popolo che tante volte ha terrorizzato i cittadini che provavano a passare...»

Aggrotto le sopracciglia, seguo tutte le persone nello schermo che corrono sotto un cielo notturno facendo volare bandiere nere, rosse e gialle. «Che cos’è?» chiedo a papà.

Dominic risponde per primo. «Berlino.» Indica la televisione con il mento. «Cade il Muro.» E addenta di nuovo il suo panino.

Sollevo un sopracciglio. «Che muro?»

«Il Muro, stupida» risponde.

Papà lo guarda severamente. «Dominic.» Si arrabbia sempre se ci diciamo le parolacce. Mi stringe i fianchi, mi solleva dalle sue ginocchia e mi riappoggia a terra, si mette composto al tavolo e raccoglie la sua fetta biscottata spalmata con il miele. «Vedrai che disastro, adesso» dice, rivolto alla mamma. Dà un morso alla fetta, si pulisce le labbra con il fazzoletto e ridacchia. «Tutti quelli della DDR verranno di qua, butteranno giù tutte le fabbriche all’Est e salirà la crisi economica a rodere tutta l’Europa.»

La mamma fa uno sguardo preoccupato, posa la caffettiera nel lavello. «E i sovietici?» Apre il rubinetto e si sciacqua le mani. «Quelli non c’entrano, no?»

«Ah, quelli cadono il prossimo anno, vedrai.» Papà prende il suo caffè e lo butta giù in un sorso.

Torno a voltarmi verso la televisione, e di nuovo si vedono le immagini della gente arrampicata su per un muro pieno di graffiti, alcuni in bilico come quelli che camminano sulla corda al circo, e tutti che ridono, che si abbracciano, e che saltano di gioia.

La voce del presentatore del telegiornale quasi non si sente sopra il loro fracasso. «Tanti giovani e giovanissimi in festa che della vita in Occidente sapevano solo quello che avevano raccontato i loro genitori. Guardate questo fiume di folla che...»

Mi rivolgo a Dominic. «Berlino è in Cecoslovacchia?»

Dominic sta spalmando un altro panino con la marmellata. Scuote il capo. «No, scema, è in Germania.» Lo addenta.

In Germania. In Germania si parla tedesco, no? Non cecoslovacco.

Sospiro, sollevata, e scuoto il capo. «Allora non mi interessa.» Mi siedo al mio posto, raggiungo il barattolo di biscotti, ne pesco tre e inizio a mangiare anche se la mamma non mi ha ancora versato il latte.

Un mese fa, tornando a casa da scuola, io e Dominic abbiamo trovato il peluche di un gattino proprio vicino a un muretto, tutto bagnato, sporco di fango, spelacchiato e senza un occhio. Forse è questa la fine che faranno i peluche ora che quel muro sta cadendo, ma se in Cecoslovacchia non sta succedendo niente, allora non devo preoccuparmi, perché fra un po’ andrò alle medie. Sono grande! E presto potrò studiare cecoslovacco e tornare a cercare Panciolino come gli ho promesso.

Sorrido. Addento un altro biscotto e faccio dondolare le gambe sotto il tavolo.

La mamma si asciuga le mani sul grembiule, esce dalla cucina. «Io chiamo la banca, non si sa mai.»

Papà ridacchia e raccoglie il quotidiano dall’angolo del tavolo. «Ah, vedrai le Borse che botta che si prenderanno.» Apre il giornale, inizia a sfogliarlo.

 

●●●

 

Un anno dopo

 

Intreccio le dita sul banco – il mio nuovo banco – e sorrido allargando le spalle e tenendo la schiena dritta, anche se la nuova uniforme della scuola media mi sta un po’ stretta. Il ragazzino prima di me sta ancora blaterando di come gli piaccia un sacco l’italiano e di come da grande voglia fare il poeta. Che moccioso. La professoressa ha chiesto a tutti di presentarsi, dato che oggi è il primo giorno, ma nessuno ha progetti per il futuro belli e originali come i miei.

Il mio sorriso si allarga, fiero e composto, anche se non riesco a far stare ferme le gambe sotto il tavolo. Quando sarò il mio turno farò rimanere tutti a bocca spalancata.

La voce della professoressa mi chiama. «Ora tocca a Pauline.»

Mi alzo con uno scatto, dritta come un soldatino. «Sì.»

Tutti si girano a guardarmi, la professoressa mi sorride, toglie l’indice dall’elenco sul registro. «Bene.» Giunge le mani sul grembo. «Ciao, Pauline. Cosa ci racconti di bello di te?»

Guadagno un respiro, tengo il mento alto come ho provato ieri con Dominic, e salgo sulle punte dei piedi. «Ciao a tutti. Mi chiamo Pauline, che è un nome francese perché il mio papà è francese, anche se la mia mamma è italiana.»

La professoressa sorride, stupita. «Aah, che meraviglia.» Una ragazzina si china a sussurrare qualcosa alla sua compagna di banco.

Annuisco. «Sì, e abbiamo anche una casa in Provenza dai nonni. Ci andiamo ogni estate e portiamo a tutti i mazzi di lavanda. Ho un fratello maggiore che ha un nome francese anche lui, Dominic, e lui è in Terza C perché ha due anni in più di me. Ho anche due gatti che si chiamano Éclair e Macaron, e il papà mi ha promesso di regalarmi anche un cagnolino per il mio compleanno.»

La professoressa rinnova il sorriso. «Ti piacciono un sacco gli animali.»

Annuisco di nuovo, dondolo avanti e indietro. «Sì, tantissimo! Il mio animale preferito in realtà è il coniglio, e le materie che mi piacciono di più sono scienze e matematica, ma anche geografia.»

«Bene» risponde la prof. «E cosa ti piacerebbe fare da grande, Pauline? La scienziata? O la veterinaria?»

Allargo il sorriso, scuoto il capo con energia. «No, io da grande voglio imparare il cecoslovacco, trasferirmi in Cecoslovacchia e vendere le palline di Natale ai mercatini.»

Due ragazzini si chinano a ridacchiare, uno si regge la pancia e un altro si copre la bocca.

Il sorriso mi cade. Rivolgo un’occhiataccia a quello che si è stretto la pancia – quello stupido che prima ha detto che vuole diventare pompiere e che la sua materia preferita è ginnastica – e schiaccio i pugni sui fianchi. «Perché hai riso?» gli faccio. «Cosa c’è da ridere?»

Lui si toglie la mano dalla bocca e solleva un sopracciglio, mi guarda come se fossi scema. «Ma scusa, non lo sai?»

Sapere cosa?

Anche la professoressa si posa una mano davanti alla bocca per sopprimere una piccola risata. «È un bel mestiere, Pauline.» Mi rivolge un sorriso gentile e comprensivo. «Ma ormai la Cecoslovacchia non esiste più, è stata dissolta.»

Una coltellata di panico mi trafigge il petto. La classe diventa buia, le cartine e i poster con la tavola periodica appesi alle pareti si storpiano, mi assale un senso di vertigini che mi fa girare la testa, ghiacciandomi il sangue.

«Co...» Mi si è seccata la lingua, devo bagnarmi il palato diventato amaro. «Cosa?» Rivolgo alla professoressa un’occhiata perplessa e incredula.

La professoressa scuote il capo ed esce da dietro la cattedra. «Non esiste più. E il cecoslovacco non è una vera lingua. Ci sono due lingue distinte: il ceco e lo slovacco, che sono molto simili e appartengono al ceppo delle lingue slave.» Raccoglie una stecca, si avvicina alla lavagna e tende l’attrezzo sulla parete, ne posa la punta su una cartina dell’Europa. «Vedi, c’è stata quella che si chiama – oh no, hanno ancora la cartina vecchia.» Arriccia le labbra in una smorfia contrariata, si porta in disparte e passa la stecca su tutta la regione colorata di rosa. Rosa anche quella. Tutto è rosa. «Vedi» mi spiega. «Questo paese una volta era tutta Cecoslovacchia, ma ora si è divisa, ed è diventata due nazioni differenti. Una è la Slovacchia, e l’altra...»

La voce della professoressa sfoca in un ronzio confuso e ovattato. La nebbia mi riempie la testa, ovatta la mente, appanna la cartina dove c’è ancora il contrassegno “Cecoslovacchia” sopra la regione al di là delle Alpi.

La Cecoslovacchia che mi ha rubato Panciolino. La Cecoslovacchia a cui ho pensato ogni notte prima di addormentarmi, in cui già mi vedevo ad abitare, a lavorare assieme alla gente che parlava una lingua diversa ma che finalmente capivo, la gente che avrebbe poi dovuto dirmi dove riprendermi il mio coniglietto di peluche. Il mio coniglietto di peluche...

Singhiozzo. Le prime lacrime rigano le guance, scivolano fra le labbra riempiendomi la bocca di un sapore amaro.

Mi tappo gli occhi, scoppio a piangere in mezzo a tutta la classe ma non m’importa.

L’unica cosa che importa ora è l’immagine di Panciolino, seduto a farmi ciao con la zampa come me lo ricordavo, che si allontana per sempre da me.

 

●●●

 

Quindici anni dopo

 

«Sì, alla fin fine credo che quel dannato coniglio rappresentasse un po’ questo. Semplicemente era la mia infanzia repressa, credo, oppure una qualche speranza che mi ero imposta e che ora vedevo sfumare. Forse è stato il primo calcio di vita che mi è arrivato in faccia e non l’ho preso bene. Poi, sa, il bum è successo quando ero in prima media, in fase preadolescenziale, proprio, una di quelle età che devi trattare come vetro. Ma il problema non credo fosse il coniglio di per sé, sa. Semplicemente io avevo un sogno, un obiettivo nato da quel fottuto – scusi – maledetto coniglio, e ora quel sogno se ne andava per sempre facendomi capire che se il mondo ti vuole mandare a puttane il futuro, a volte lo devi accettare, punto e basta.»

Tiro su lo sguardo dalle ginocchia, mi bagno la lingua sul palato dopo aver parlato come una mitragliatrice per mezz’ora di fila, e incontro lo sguardo del dottor Manzetti. Inarco un sopracciglio e sbuffo una risatina, dondolo con le spalle.

«Dice che ha senso?»

Il dottor Manzetti aggrotta le sopracciglia, solleva gli occhi dalla sua cartellina di appunti a cui è ancora posata la stilografica impugnata dalla sua mano, e annuisce. «Ha senso, eccome se ha senso, Pauline.» Posa gli appunti e la penna, si stravacca sullo schienale della poltroncina girevole, accavalla le gambe e si infila una nocca sotto la lente degli occhiali per stropicciarsi la palpebra. «Questo spiega il perché dei cocci delle palline di Natale.» Allarga le braccia, piega un sorriso d’intesa. «E il perché dei coniglietti di pezza lasciati, be’...» Abbassa le palpebre, mi rivolge un’occhiata buia e complice. «Dove li lasciavi.»

Annuisco e sorrido.

Accanto al cadavere di quel porco professore di lingue slave che non ha accettato il mio esame perché non capiva la mia calligrafia, o a quello di storia moderna che ha rifiutato il mio saggio sulla scissione della Cecoslovacchia e sul Divorzio di Velluto perché lo trovava troppo sconnesso dal tema della caduta dell’Unione Sovietica, o al curatore della mia tesi che me l’ha fatta rifare per quattro volte dicendomi di smetterla di renderla così personale, come se stessi scrivendo un romanzo. O al commesso del centro commerciale che si è rifiutato di ordinarmi le palline di Natale rosa perché erano fuori catalogo.

Il dottor Manzetti guarda l’orologio da polso. «Be’, direi che per oggi può anche bastare.» Si alza dalla poltroncina e fa il giro della scrivania. Annuisce e mi sorride. «Stiamo facendo progressi, Pauline. Va molto meglio rispetto a tre mesi fa, no? Ci stiamo sbloccando, pian pianino.»

Mi stringo nelle spalle, mi alzo anche io dalla seggiola. «Immagino di sì.» Seguo il dottore che mi fa strada verso l’uscita dello studio.

Il dottore apre la porta e si mette in disparte per lasciarmi passare, come un gentiluomo che fa entrare la sua donzella al ristorante. «Ti hanno già avvertito che la prossima settimana spostiamo l’incontro al martedì?»

«Uh. Sì, devono avermi accennato qualcosa.»

La guardia in uniforme si piazza davanti a me, mi sbarra la strada investendomi con la sua ombra, mi squadra con occhi truci.

Lo ignoro. Sbuffo, tendo le braccia verso di lui unendo i polsi, e mi rivolgo al dottore. «Allora alla prossima settimana.»

Il dottore mi saluta sventolando la mano. «Alla prossima, Pauline. Alla prossima.»

La guardia sfila le manette dalla cinta, la apre con un gracchio metallico e fa passare la superficie fredda e dura attorno ai miei polsi. Le aggancia, il metallo schiocca, mi pizzica la pelle. La guardia mi posa una mano sulla spalla e mi riaccompagna in cella.

 

 

Fine

   
 
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