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Autore: A J Foster97    12/04/2017    0 recensioni
[Non Dirlo al Mio Capo]
Napoli.
Lisa Marcelli è una giovane vedova in difficoltà economiche alla ricerca di un posto di lavoro. Con uno stratagemma si fa assumere come praticante avvocato nello studio legale di Enrico Vinci, un uomo affascinante, ma con un brutto carattere al quale nasconde l'esistenza dei suoi due figli, Mia e Giuseppe. Allo studio suscita la gelosia di Marta, ambiziosa e desiderosa di sposare Enrico, il quale invece non sembra interessato ad arrivare all'altare. A casa invece si fa aiutare e consigliare da Perla, la nuova vicina e improbabile baby-sitter, che forse in circostanze normali non avrebbe mai frequentato.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3
Un gioco che non vinco mai

Lo smarrimento che provo quando il silenzio invade la cornetta è immenso. Sembra quasi che un'ondata di violenta tristezza mi abbia travolto in pieno viso e tutto ciò che posso permettermi di fare è disperarmi. In punta di piedi, per non far rumore, quasi trascinata dalle onde del mio malessere mi dirigo verso il balcone. Giuseppe mi chiede chiarimenti, si domanda come mai io, d'un tratto, sia così afflitta e dolorosamente angosciata. Gli rispondo di andare a dormire e di non preoccuparsi. Una volta fuori, l'atmosfera della notte, fresca e pulita, rimbalza sulle mie guance, addentandone il calore e tranquillizzandomi. Prendo un respiro profondo, ingoiando fiumi di stelle e profumi lontani. Tento di non crollare, ancora una volta. E non lo faccio. Non posso permettermi il lusso di lasciarmi andare alla frustrazione. Devo cercare un altro modo per rimanere integra, per sopravvivere a questa burrasca contro la quale l'esistenza mi ha gettata. Afferro immediatamente il pacchetto delle winston che avevo nascosto dietro una pianta e ne fumo un paio senza alcun pudore. Mi accorgo addirittura di Mia, giù in cortile, con una merit in bocca, come se fosse un giocattolo. ''Massì, fuma come tua madre!'', esclamo, nel silenzio della notte. In questo momento non ho proprio la lucidità necessaria per trascinarla nella sua stanza e metterla in punizione, così la lascio fare, immaginando che la sua giornata non sia stata grandiosa. In questo momento non ho proprio la lucidità necessaria per trascinarla nella sua stanza e metterla in punizione, così la lascio fare, immaginando che la sua giornata non sia stata grandiosa ''Louboutin, tacco quindici, se te lo conficco nello sterno sei morta!'', tragugida una voce alle mie spalle. Presa dalla paura, sputo via un urlo incontrollato e mi accorgo improvvisamente di essermi mossa così placidamente da aver addirittura sconfinato nel balcone altrui. La ragazza che mi ha mosso questa terribile minaccia di morte ha gli occhi sbarrati, scarabocchiati dalla violenza di questa sera. ''Ladra! Ladra! Forse assassina!'', continua a sbraitare, le pupille dilatate, la bocca imbrattata dal rossetto, una camicia da notte di seta blu che le accarezza le curve. ''Sono la tua vicina di casa e questa casa è disabitata da anni, e i miei figli non sanno che fumo e oggi è stata una giornata di merda, c'ho Giuseppe che vomita, Mia mi odia, mi hanno licenziato e fra una settimana devono lasciare la casa!'', dico tutto d'un fiato, rendendomi finalmente conto della gravità della situazione. La concretezza delle mie parole iniziano a pesarmi come un macigno sopra le spalle. ''Sta' lontana, non mi toccare'', ribatte la ragazza, appena cerco di avvicinarmi. ''Solo un bicchiere d'acqua, piccolo...'', le chiedo, continuando a sporcare i miei polmoni con il fumo. L'abitacolo nel quale vengo scortata è stracolmo di scatoloni sfatti, quadri invecchiati di John Atkinson Grimshaw e mobili ancora ricoperti dal cellophane. Una leggera pellicola di polvere ha macchiato i pavimenti intarsiati e le luci soffuse che avvolgono le pareti danno alla stanza un'aria demodé. ''Quando mi hanno chiamato e mi hanno detto che mio marito aveva avuto un incidente stradale, io... è come se fossi morta anch'io'', dico, una volta seduta su un divano samoa young scomodissimo. ''Tieni'', sussurra maldestramente, porgendomi con insistenza un martini bianco. ''No, grazie'', rifiuto, quasi dolendomi d'essere astemia. Sotto il chirore della lampada riesco a scorgere i suoi tratti delicati e la fisionomia elegante: gli occhi verdi brillano d'intelligenza, il viso profuma di fondotinta appena spalmato, le labbra sono bagnate da una forte pennellata di rossetto, mentre la sua sagoma, minuta e femminile, fa rimpicciolire la mia autostima. Non bastava Marta Castelli, adesso anche la mia antipatica vicina ha più fascino di me. ''Ti farà bene'', m'invoglia la ragazza, della quale ignoro ancora il nome, con un leggero accento toscano. ''Quindici anni insieme e mai una lite, poi sono andata a Parigi...'', continuo il mio sermone, agitando nell'aria la sigaretta fumante. ''Olivetta?'', mi domanda, come se non stesse assolutamente ascoltando ciò che le sto confessando, come se non ne capisse la portata. ''No, grazie'', la fulmino, per la seconda volta, ''E mi hanno detto che non era da solo, era con la sua amante. Due anni. Per due anni si vedeva con lei! Mi diceva che andava fuori per il week-end, e invece non era vero, stava con lei.'' Questa stramba quanto sofisticata vicina continua a mangiucchiare le sue olive striminzite e ad ingurgitare litri di alcol, quasi come se non ci fossi. Talvolta mi lancia un'occhiata annoiata e torna poi ad occuparsi del proprio pasto. ''Guarda, guarda cosa m'aveva portato dal suo viaggio'', le dico, per attirare la sua attenzione, sflilando dal polso un braccialetto di poco valore. ''Chissà, forse l'hanno scelto insieme... e parlavano di me... e ridevano di me'', la mia voce è tremolante dal risentimento e dalla violenza di quei ricordi ancora troppo vividi, di quel tradimento atroce che non mi meritavo affatto. ''Bella merda'', gracchia la ragazza, continuando a masticare. ''Lo so'' ''No, no, dico... il braccialetto è proprio una bella merda, perché le perle sono sicuramente d'allevamento'', ribatte, spiazzandomi. In un attimo mi sento deteriorata, svuotata, come smarrita in questo fiume d'eventi. In uno slancio di empatia che assomiglia molto più ad una richiesta d'aiuto, mi avvicino, sfiorandole il braccio e le dico: ''Senti, io non l'ho mai detto a nessuno...'', e sono onesta, è la prima volta che racconto a qualcuno ciò che mi è accaduto. Dopo la morte di Alberto tutte quelle amiche che prima mi ronzavano intorno si sono dissolte nel nulla e, adesso, mi ritrovo a casa di una sconosciuta ad elemosinare gentilezza. ''Non mi toccare'', ribatte, per poi aggiungere: ''Anch'io mi sono separata da poco, rimarrò qui giusto il tempo di portar via la casa al mio ex-marito, quindi, io e te non siamo amiche'', dice, con un sorriso malevolo sul viso. Tuttavia, all'imbrunire del mio viso e dopo essersi resa conto di quanto sia stata brusca, continua: ''Però per quel che può valere, io ti consiglio di buttarlo quel braccialetto. Il miglior modo per dimenticarsi qualcosa è di togliersela da sotto gli occhi''. ''Me l'ha detto anche Vittorio'' ''Ora chi è questo Vittorio?'' ''Un cliente dello studio dove lavoravo... te l'ho già detto che mi hanno licenziato?'', il mio atteggiamento cela tutto il dolore che questa consapevolezza mi provoca, ma lei sembra non accorgersene. ''Te l'ho già detto che non siamo amiche?'', ribatte la ragazza, facendomi per un attimo sorridere. ''Bene, e adesso levati dalle scatole perché ho preso i miei sonniferi e non ho voglia di svenire mentre tu stai qui tra i piedi. Vai!'', mi dice, scortandomi fino alla porta. ''Ah!'', esclama, costrigendomi a voltarmi. ''Il tailleur di Chanel me lo ricompri''. Una volta rientrata, mi dirigo verso la stanza di Mia e trovo la porta inspettatamente aperta. La osservo guardare lo schermo del computer mentre fa scorrere a ripetizione alcune foto di Alberto sotto le note di Losing your memory di Ryan Star. La musica riempie la stanza di pallidi ricordi e lacrime celate. Quando si rende conto della mia presenza, cambia espressione. Si alza di scatto dalla sedia e mi sbatte la porta in faccia. ''Buona notte anche a te'', dico, più a me che a lei. Prima di andare a dormire, Giuseppe mi dice che con le sue magie farà ricomparire papà. Il cuore mi si frantuma in mille pezzi, e la notte trascorre tra le lacrime, le battaglie per farcela e qualche documento di troppo che mi adocchia sul tavolo mentre preparo la crostata ai lamponi per domani. La notte mi ha portato consiglio, e sono sicura di riuscire a risolvere il caso Torrini.
 
***

Nella dolcezza della mattina nessuno mi parla Nella dolcezza della mattina nessuno mi parla. Mi aggomitolo su me stessa, dissolvendomi nei sogni, nel chiarore della luce. Le fiamme pallide dei primi attimi innervano la città di mantelli bianchi, cristalli liquidi e grappoli di rose fredde. Il freddo di Settembre mi sconcerta, caccio via un lamento aggrovigliato e mi tiro sù. A colazione sorseggio del caffé accompagnato da un delizioso croissant al miele; quando ne addento metà, i pensieri e gli avvenimenti della notte precedente si librano dentro di me come una nebulosa di stelle, dando vita a buchi neri e temporali. Come un lampo nella burrasca, afferro il telefono, non riuscendo a porre un freno alle mie dita che, digitano un numero sconosciuto; non sapevo neanche di averlo memorizzato. Chiamo Claudia, e tremante, le faccio una proposta. Un'ora dopo sono seduta in casa di Vittorio Torrini con una fumante tazza di tèenglish breakfast tra le mani infreddolite. ''Silvia non è sua figlia, vero?'', gli dico, rompendo così un imbarazzante silenzio ormai durato troppo a lungo. Il signor Torrini s'irrigidisce ed inizia nervosamente a mescolare col cucchiaino il suo espresso amaro. ''Ho visto le carte della sua causa e ho notato che lei ha fatto una richiesta, due anni fa, al tribunale per un test del DNA. Ovviamente il risultato è secretato, ma credo di aver capito perché lei è andato via'', continuo, con garbo, cercando di captare ogni sua possibile reazione, ogni suo sguardo furtivo. ''Per non vedere più Silvia, giusto?''. Questa mia ultima osservazione ha l'effetto di un incoraggiamento su di lui che, dopo aver poggiato la tazzina su un tavolino in vetro ed aver preso un lungo respiro, inizia a raccontare la storia dal principio. ''Silvia doveva fare un piccolo intervento, una cosa da poco, e l'ospedale ha chiesto un profilo medico dei genitori. Mia moglie mi dice, insomma, che Silvia non è mia figlia. La vita mi è crollata addosso e me ne sono andato. Poi, qualche mese fa, mia moglie si è ammalata e mi ha chiamato. Mi ha chiesto di occuparmi di Silvia, per questo mi ha ceduto metà dell'azienda... per obbligare Silvia a starmi vicino''. Raccontare, questo piccolo squarcio di vita, per di più ad una sconosciuta, gli costa un coraggio immane. Alla fine, nonostante tutto, credo che si senta sollevato. E, d'altronde è ciò che è capitato a me ieri sera, con Perla (ho scoperto il suo nome); confessare una parte di noi stessi, che vorremmo non essere mai stati, è come mettersi a nudo. E' tremendamente difficile, ma assolutamente bellissimo. ''Ma perché non parla con Silvia?'', domando poi, con il té che rischia di scivolarmi sui polpastrelli. ''Lei non può capire...'', dice, scuotendo la testa in segno di rassegnazione. ''No, io posso capire eccome! Mio marito è morto sei mesi fa e mi ha lasciato senza un soldo. Mi tradiva. E in tutto questo mia figlia mi odia. Le sembra giusto? No, non è giusto. Quindi non è giusto che Silvia odi lei. Lo capisce?'' ''Non mi vuole parlare, non mi vuole nemmeno vedere, l'unica cosa che ci unisce è questa cavolo di causa''. E sarà proprio questa causa a farli riavvicinare. Ho già prestabilito tutto: io e Vittorio ci dirigeremo in studio dall'Avvocato Vinci (che ovviamente non sarà in sede, e, sì, me ne sto fregando se mi ha licenziata), poi con una scusa farò convocare Silvia e, dulcis infundo, li chiuderò in una stanza. A quel punto saranno costretti a confrontarsi e a risolvere il problema.
 
***
 
Claudia è ancora un po' restia, ma riesco a tenerla a bada, dicendole: ''Ma tu non c'entri nulla, ho organizzato tutto. L'avvocato mi ha già licenziata, cos'altro può fare? Uccidermi?'' ''Ma tu sei sicura che lui non lo verrà a sapere?'', mi domanda, in fibrillazione. Un po' perché ha paura, un po' perché non vede l'ora. ''Certo che sono sicura! Gli ho prenotato un massaggio alle 8:00 e il personal trainer alle 9:00, lui prima delle 10:30 non sarà in ufficio!'', le dico, incoraggiante, con un sorriso molestatore. Quando Silvia suona il campanello, lei avvampa; vorrebbe fuggire, glielo si legge chiaramente negli occhi. ''Lisa... ci metteremo nei guai!'', ripete, piagnucolando, mentre mi dirigo verso l'entrata per accogliere la figlia del signor Torrini. ''Stai tranquilla, fa' fare a me'', le dico, fingendo di avere tutto sotto controllo. In verità, non ho la più pallida idea di che cosa io stia combinando, so solo che ho bisogno di fare del bene in questo oceano di bugie e cose storte. ''Non capisco il perché di questo appuntamento improvviso. Ma l'Avvocato Vinci vuole parlarmi?'', domanda Silvia, un po' perplessa poiché frastornata da una telefonata così repentina, una volta entrata. ''Più o meno!'', mi giustifico, con un sorriso tanto grande quanto insicuro. Tuttavia, quando i suoi occhi incontrano quelli del padre, seduto in poltrona ad aspettare nella stanza delle conferenze, il suo sguardo diventa glaciale e la sua espressione è un miscuglio di emozioni. ''Tuo padre ti vuole parlare'', le dico, gentilmente, cercando di farle vedere tutto il bene che le sto mettendo nelle mani. ''Aspetta!'', dichiaro, riacciuffandola, quando tenta di andarsene con un'espressione corrucciata. Le afferro le mani, la guardo intensamente, e le dico: ''A mia figlia, a volte, sulle unghie metto lo smalto amaro. Non sempre le cose cattive vengono per nuocere'', concludo, infilandola nella stanza e chiudendo la porta a chiave. Vedo Claudia sbucare dalla reception con uno sguardo folle, l'atteggiamento preoccupato. ''Tutto secondo i piani!'', sorrido, lanciandole un occhiolino. ''Tutto secondo i piani tua sorella! Ho appena visto la macchina dell'avvocato. Sta salendo. Madonnina'', nella sua intonazione le si legge tutto il rammarico che prova in questo momento per una scelta tanto azzardata, eppure, al tempo stesso, è esaltata, come se andare controcorrente, talvolta, le rendesse la vita un po' meno tragica. Sorpresa da uno slancio di coraggio, mi infilo velocemente in ascensore, condividendo l'abitacolo con una serie di impiegati privi di anima con le camice appena stirate e le scarpe tirate a lucido. Appena raggiunto il piano terra, mi faccio forza ed esco, assaporando ancora per poco la tranquillità di questa bella mattina di sole. L'avvocato si manifesta davanti ai miei occhi in tutto il suo dannato splendore e per poco non gli cado ai piedi. Cerco di mantenere un controllo scrupoloso ed un atteggiamento che forse appare troppo teso, ma non posso fargli capire che gli sbavo dietro in modo imbarazzante. ''Tu? Sei ancora qui?'', domanda, infastidito e un po' annoiato dalla mia presenza. Eh, no. Oggi no. Non mi farò più mettere i piedi in testa, soprattutto da uno che non è più il mio datore di lavoro. Tuttavia, quando mi passa accanto per entrare in ascensore, con quel suo buon odore di pulito e la mano destra in tasca, non posso fare a meno di perdere qualsiasi velleità. Come faceva quella canzone della Pausini che ascoltavo tantissimo quando ero un'adolescente? Un gioco che non vinco mai, il mio sbaglio più grande. Che rabbia che mi fai. La trappola dei giorni miei . Sei il mio sbaglio più grande ma che rifarei. Quando lo vedo varcare la soglia dell'ascensore e mettersi comodo, mi riprendo e scaccio via questo vecchio motivetto dalla mia testa insieme all'idencente significato che alcune parole hanno per me. ''Che fine ha fatto il tuo massaggio? Lo avevo prenotato per le otto'', chiedo a bruciapelo, sorprendendomi della mia determinazione. ''Sì'', i suoi occhi acquamarina si poggiano su di me per un istante che sembra durare un'eternità, poi continua: ''...di domani mattina''. Ma dove ho la testa? Spiazzata dalla mia stessa negligenza e carezzata dall'orrendo pensiero che probabilmente anche io mi licenzierei, lo seguo all'interno della cabina in un pudico silenzio. Mentre poggia le dita sul pulsante numero uno, per errore, ho l'impressione che i suoi polpastrelli mi abbiano sfiorata, e questa vicinanza così inattesa e deliziosamente sofferente m'ingarbuglia le emozioni. Tuttavia mi irrigidisco all'istante quando comprendo di trovarmi chiusa, in uno spazio di pochissimi metri quadri, con un uomo del quale riesco a malapena a reggere lo sguardo. ''Da quando mi dai del tu?'', prende a dire, poi, mentre aspettiamo. ''D-da quando non lavoro più per te'', dico, col viso tutto rivolto verso le porte dell'elevatore per evitare di inciampare in un suo sguardo tentatore. ''E lascia che ti dica una cosa'', riprendo, piena di dignità, in uno sbalzo d'umore repentino. Premo lo stop e l'ascensore si arresta. L'avvocato Vinci si guarda in giro, perplesso, quasi intimorito da questa mia reazione avventata. ''Non si lasciano le fidanzate tramite le praticanti, non si urla contro le donne incinta e non si tiene un sacco di boxe dentro l'ufficio. Sei un maschilista presuntuoso e cattivo'', dichiaro, con forza, tremando come una foglia per l'entità delle mie parole. L'avvocato mi è pericolosamente vicino e tutta quella paura che mi sembrava di aver percepito sul suo viso, adesso è stata rimpiazzata da un sorriso beffardo. Sbaglio o è compiaciuto d'essere stato insultato? Nel momento in cui inizia a fissare le mie labbra arrossate con interesse, noto nei suoi occhi accendersi la brillantezza dell'eccitazione. Sento le fila del mio cervello spegnersi, il mio cuore incomincia a ronzare come una girandola e le guancie s'arroventano. ''Ti piaccio'', bisbiglia, troppo vicino al mio viso, così tanto che mi basterebbe davvero poco per baciarlo, ma questo significherebbe calpestare completamente il mio orgoglio di donna indipendente (nonché una vedovanza ancora troppo recente!). Eppure questa sensualità incontrollata mi trascina verso di lui in modo prepotente, tanto che per un nanosecondo mi sembra addirittura che anche lui voglia questa intimità, questo contatto segreto. ''Che cosa?'', rispondo, allontanandomi di botto, per poi retrocedere fino a cozzare le spalle contro il ferro freddo delle pareti. ''Tu sei pazzo, eh! No. Tu non mi piaci. I-io gli odio gli uomini come te: pieni di sé, arroganti e antipatici''. Per l'avvocato è facile ingoiare i miei insulti in quanto la mia figura, per lui, ha lo spessore di una sottiletta kraft. Annuisce con vigore, come a darmi ragione, tanto per darmela vinta. Quest'uomo è proprio un gioco che non vinco mai. ''E' vero'', dichiara, avvicinandosi nuovamente al pulsante e facendo ripartire l'ascensore verso l'alto. ''A volte posso sembrare spiacevole. Ma se provi a chiedere alle donne con cui sono stato nessuna potrà accusarmi d'averle ingannate. Io non mento. Non uso strategie. In un mondo di vigliacchi, ti sembra poco?''. Mi volto dall'altra parte, come una bambina alla quale non è stato acquistato il gelato, e mi prodigo per fermare di nuovo l'ascensore, solo che questa volta l'effetto è permanente. ''Che cosa è successo?'', domanda l'avvocato, pieno d'agitazione. ''Che succede... s'è bloccato, no?'' ''Cazzo'', impreca mentre un velo di sudore gli brilla sulla fronte: gli occhi magnificamente azzurri sembrano addirittura farsi più cupi e le sue mani vengono scosse da un tremolio improvviso. ''Cosa ti prende?'', chiedo, preoccupata, coprendo in due passi la distanza che ci separava. ''Soffro di claustrofobia'', ammette, sfinito dalle mie continue domande. Allora è umano, ed anche tremendamente indifeso in questo momento. In questa nuova veste, smarrito ed impacciato, mi sembra quasi di riuscire a vederlo per la prima volta, di riuscire ad intravedere qualcosa nella sconfinata oscurità che avvolge la sua anima. Ed è luce. Nella dolcezza di questo momento di debolezza, scorgo il folgorante bagliore che sconvolge il suo cuore. ''Guarda cosa faccio. Premo l'allarme, ecco, tinc, e ci tireranno fuori. Stai tranquillo. Anche mio figl- cioè mio fratello soffre di claustrofobia, quindi... so che cosa fare.'' L'avvocato tenta di slacciarsi la cravatta ed è così emotivamente vacillante che alla fine mi implora d'aiutarlo. Ci sediamo a terra e le nostre mani, nella fretta, si cercano, s'intrecciano. Il nostro è un contatto piuttosto strambo, scomposto, impacciato e relativamente romantico. Il suo respiro irregolare, nel silenzio profondo, ha lo stesso suono del vento che squassa le cime degli alberi nei giorni di novembre. ''Pensa a qualcosa di bello'', gli dico, carezzandogli il dorso della mano. ''A quando eri bambino, a qualcosa che ti rendeva felice...'' ''Sì, sì, lo faccio, ma tu stai zitta'', mi interrompe, con un piglio arrogante che riesco a perdonargli. ''Sto zitta'', gli dico, con dolcezza, mentre osservo con particolare tenerezza i suoi occhi arrossati, i ciuffi ribelli che sono riusciti a sfuggire al gel, il colletto della camicia sbottonato, la cravatta per terra. Il caos generale che lo avvolge rende il suo animo, per qualche ragione che non riesco a capire, magnificamente sensibile. Lo rende un po' più vicino a me. ''Mio padre aveva una barca, ci andavamo a largo e mi faceva tenere il timone'', sussurra, con la voce rotta dai ricordi, dalle gioie lontane e da un forte dolore ancora troppo difficile da dimenticare. ''Bene, ehm, è una cosa molto bella, no?'' Annuisce, un po' imbarazzato. ''Bé, di' qualcosa tu adesso, altrimenti...'', sembra quasi arrossito. ''Sì. Be', io... io non so nuotare'', confesso, con un sorriso che ha tutto il sapore della libertà, di una confidenza recondita ed infinita. ''Da piccola sono caduta in acqua, ricordo che chiedevo aiuto ai miei genitori ma loro non mi sentivano perché stavano litigando. Dall'ora non entro più in acqua, nemmeno in piscina'' ''E nemmeno litighi, immagino'', mi risponde, ridacchiando; un suono che stordisce, che mi fa percepire il movimento del mio cuore fino alle tempie. ''E' un peccato. Litigare è il miglior modo per iniziare a farsi una scopata''. Adesso i miei battiti si trasformano in martellate continue, il sangue sembra affluire sulle mie gote in maniera istintiva. Deglutisco rumorosamente, cercando di evitare il suo sguardo languido che mi ispeziona, come se per la prima volta mi stesse seriamente prendendo in considerazione. L'incanto di questo momento, così intenso e violentemente proibito, sembra ardere in eterno, ma in realtà, in un soffio è già scomparso quando l'ascensore inizia a ripartire. ''Fantastico! Ci liberano'', riprende, staccandosi da me e donandosi nuovamente un contegno. Raccoglie le sue cose da terra e strofina le mani sudate le une sulle altre. E' bello da mozzare il fiato. ''E... cos'è stato della barca?'', dico, con un filo di voce, alzandomi da terra. ''Mia madre è morta e mio padre l'ha venduta'', mi liquida, con uno sguardo indifferente, come se tutto ciò che è appena accaduto tra di noi non avesse avuto la minima importanza, almeno, non quanto per me. ''Aspetta... devo dirti una cosa'', biascico, mentre lo seguo nella hall. ''Avrei dovuto dirtelo prima, ma se lo avessi fatto non avresti vovuto. Ehm...'', e ora come faccio? ''Ho parlato con Vittorio'', dichiaro, improvvisamente, quasi soffocando per l'agitazione. ''E ho scoperto perché se n'è andato!'', riprendo, come se questo mi giustificasse o riuscisse a mettere tutto a posto. Ma, in fin dei conti, perché dovrei avere paura? Ormai il peggio è passato. ''T'avevo ordinato di non parlare con lui'', dice con durezza, gli occhi spalancati per la sorpresa e la rabbia repressa. Il suo viso è la perfetta rappresentazione della frase perché questa è capitata a me! ''E invece l'ho fatto. E se tu lo avessi fatto prima non ci troveremmo in questa situazione'' ''Tu sei una praticante! Quindi non parli con i clienti e soprattutto non parli con i nostri avversari. Io sono un avvocato e il mio obiettivo è far vincere la mia assistita'', scandisce con così tanta attenzione le parole che quasi temo di essermi tramutata in una sciocca dodicenne. ''E se la vittoria rendesse la tua assistita infelice?'', domando, con la voce frantumata da una delusione che credevo di non poter più provare. Come se immaginare che lui sia capace d'interessarsi solo alla parcella mi facesse un po' male. ''Qui non ci occupiamo di felicità. Qui ci occupiamo di vincere delle cause. Ti è chiara la differenza? Basta, vattene, non lavori più qui!'', mi dice, allontanandomi con un cenno della mano. D'un tratto, Silvia esce dall'aula delle conferenze e l'Avvocato impallidisce. ''Silvia! Che ci fai qui?'', chiede, con un sorriso forzato. ''E' questo che volevo dirti prima. Si sono incontrat- cioè, li ho fatti incontrare io'', m'intrometto, addossandomi tutta la colpa di un probabile fallimento. ''Perdonami, dev'esserci stato un malinteso...'', si scusa l'avvocato, scuotendo il capo per non scoppiare dalla rabbia. ''No, anzi! Papà mi ha ceduto le quote dell'azienda. Niente tribunale'', afferma un'esuberante Silvia, con un sorriso così luminoso da far affievolire il sole stesso. ''E in cambio, una volta a settimana, Silvia, verrà a pranzo con me. Come una vera famiglia!'', esordisce Vittorio Torrini, colpito da quella gioia improvvisa che si manifesta quando tutto sembra ritornare alla normalità. ''Grazie avvocato. Non so come abbiate fatto, però, abbiamo vinto'', conclude Silvia, con una stretta di mano. ''Già. Accomodati nel mio ufficio che formalizziamo l'atto'', risponde l'avvocato, sempre più stordito. Silvia entra nel suo ufficio ed io faccio per andarmene, quando lui mi blocca. ''Ci vediamo domani mattina. Alle otto'', mi informa, sforzandosi di mantenere un atteggiamento incolore, ma in verità mi è riconoscente. ''Ma non mi avevi licenziata?'', dico, sarcastica, con le gambe già in fibrillazione e la testa altrove. ''Non adesso. Ah! E, la praticante raccomandata da Giorgi si chiama Elisa ed è la sua amante, ecco perché ho scelto te, oltre per il fatto che ho capito che al momento sei disperata. Quindi, non mi mentire più. E per favore, ricomincia a darmi del lei'', conclude. Poco dopo, si avvicina al mio viso con una movenza improvvisa e inaspettata e bisbiglia, con un perfido ghigno che non riesco assolutamente ad odiare: ''E ovviamente, i danni della mia macchina, li scalo dal tuo stipendio''. ''Ovviamente'', rispondo, con la consapevolezza che non mi disferò facilmente di questa inguaribile infatuazione che ha appena travolto il mio mondo.
   
 
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