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Autore: vernal winter    12/04/2017    1 recensioni
Il problema di Abigael era sempre stato uno: pensare troppo.
Era in quella fase della vita in cui i giorni si susseguono, protagonisti di un’ordinaria routine. Sempre uguali, sempre gli stessi. Talmente monotoni da farle credere di essere rimasta ferma nello stesso secondo per chissà quanto tempo. Faceva le stesse cose, rispondeva alle stesse domande ed ogni giorno, alle dieci e mezza di sera, il pensiero di quanto sarebbe stato più appagante farla finita la sfiorava come una mano amica. C’erano mille modi per farlo, aveva pensato ad ognuno di essi con estrema attenzione, valutandone i pro e i contro.

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Una ragazza triste.
E due occhi che la strapperanno dalla monotonia di una vita che non vuole.
Un'indagine su una serie di omicidi che la porteranno a conoscere meglio se stessa e le persone che la circondano.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Mille  gradi di separazione

IV - OF TROUBLES AND FEELINGS

 

 

 



 

Non aveva chiuso occhio quella notte.
Continuava a vedere davanti ai suoi occhi quelli di Richard. Continuava a rivivere il momento in cui l’aveva difesa, come se fosse qualcosa di vitale importanza. E, mentre se ne stava rannicchiata sotto il piumone nel suo piccolo appartamento, lo era. Perché proprio in quello stesso luogo, prima che iniziasse a lavorare per il Times, aveva sognato il ragazzo misterioso, immaginandolo come l’unica persona in grado di capire il vuoto che si sentiva dentro. Ma poi era stata smentita. Platealmente e violentemente. Quel barlume di confidenza che lui le aveva dato - quella breve ed inattesa dimostrazione di interesse nei suoi confronti - le era bastata per cadere di nuovo nel vortice dei suoi occhi. Avrebbe voluto sapere di più, avrebbe voluto fargli un sacco di domande e si ripromise che il giorno seguente gliene avrebbe posta almeno qualcuna.

La mattina, però, arrivò troppo velocemente e lei si ritrovò alle nove - dopo aver affrontato un interminabile viaggio verso l’ufficio, fra tram affollati e taxi inesistenti - china sulla propria scrivania a redarre le bozze che avevano preso possesso della sua casella email. Il moro non si era ancora fatto vedere e lei non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Si era già informata in merito alle notizie che la polizia aveva divulgato riguardo l’omicidio e stava iniziando a farsi una propria idea. Avrebbe, però, voluto parlarne con lui dato che sembrava il primo ad essersi interessato al caso. Gli articoli da correggere, tuttavia, scorrevano insieme alle lancette dell’orologio che ben presto arrivarono a segnare le dodici e quarantacinque. Aveva terminato la revisione degli articoli e si era dedicata al “killer con le ali”, anche se non nutriva molte speranze di trovare qualcosa da sola: non aveva mai fatto niente del genere. 

Proprio mentre apriva la pagina web delle news, la porta a vetri dietro di sé si aprì.

« Ti stai interessando al caso? » La voce di Lark la colse di sprovvista alle spalle, dato che era rimasta voltata verso lo schermo del proprio computer, credendo che si trattasse di Richard. 

« Oh, buongiorno! » Esclamò, voltandosi subito con la sedia per puntare lo sguardo in quello cristallino del suo capo, che continuava a fissarla sinceramente curioso. « Sì, io— Beh, mi sembra interessante. » Buttò lì alla fine, consapevole che raccontargli della soffiata segreta non sarebbe stata una grande mossa. 

« Vorresti scriverci un articolo? » La domanda la spiazzò.

« Credo di non essere abbastanza competente. »

« Lascia giudicare me. Me ne aspetto uno sulla mia scrivania lunedì mattina! » 

E sparì, così come era arrivato, lasciandola con un palmo di naso a chiedersi perché tutti sentissero questa strana esigenza di sorprenderla con gli atteggiamenti più strambi. Non poteva certo soffiare l’articolo a Richard, dato che era stato lui ad indirizzarla, ma, allo stesso tempo ignorare l’invito del proprio capo a fare qualcosa di concreto era totalmente fuori discussione.

Si passò le mani fra i capelli rossi, racchiudendoli in una disordinata coda di cavallo, così da non averli di fronte al viso mentre tornava a spulciare tutte le informazioni di cui aveva bisogno. Dopo qualche minuto di inutile ricerca, tuttavia, si ricordò di avere ancora le foto che Thomas aveva lasciato loro nella borsa e, stando attenta che nessuno entrasse, le tirò fuori per poterle guardare meglio. Erano crude, violente e fredde. Non era un tipo facilmente impressionabile, ma vedere quelle due persone martoriate e manovrate come burattini le faceva venire la nausea. Chi diavolo poteva essere così malato da mettere in scena una cosa del genere? Ma soprattutto, perché? Aveva preso di mira la classe politica londinese, quindi, sarebbe potuto essere anche un semplice e squilibrato cittadino in cerca di qualche tipo di redenzione, ma per arrivare a colpire due così alti esponenti dello stato doveva per forza aver avuto degli agganci interni. 
Mentre rifletteva, lo sguardo le cadde sulla fotografia che ritraeva la vittima del secondo omicidio. C’era qualcosa sulla mano sinistra, ma da quell’angolatura era impossibile capire che cosa. Rovistò nella busta, alla ricerca di una foto più vicina al punto che le interessava e, proprio quando stava per credere che non ce ne fossero, la trovò. Un simbolo inciso sulla pelle faceva sfoggio di sé nell’inquadratura del mezzo busto della donna. Non capiva bene cosa fosse, anche perché il sangue rappreso rendeva difficile disegnarne i confini, ma, a prima vista, sembrava una L con due gambe di tropo. 

Cercò nei cassetti della scrivania fino a che non trovò una penna, con la quale scrisse sopra la foto, evidenziando quello che aveva visto. Il fatto che sembrasse una ferita appena aperta doveva per forza far credere che fosse stato l’assassino a procurargliela. Ma perché? Che fosse una sorta di firma?  Come presa da una febbrile voglia di scoprire la verità, sparse le foto sulla propria scrivania, cercando fra quelle che riguardavo il primo caso qualcosa di simile. Ed eccolo. Sulla scapola destra dell’uomo, un altro simbolo, simile all’altro, ma diverso nella forma, era stato inciso nell’epidermide con qualcosa di molto sottile, come la lama di un bisturi. 
Improvvisamente le tornarono in mente tutti i saggi letti, tutti i libri gialli, tutte le indagini poliziesche di cui si era interessata e si diede della stupida per non averci pensato prima. Sperava seriamente che quelli del distretto fossero stati più svegli di lei. Era ovvio che il killer volesse lasciare una traccia, altrimenti non si sarebbe dato la pena di allestire le scene ogni volta. Voleva che lo scoprissero, che gli dessero la caccia e quelli erano di certo degli indizi lasciati per dar loro una momentanea pista. Ma cosa volevano dire? Non potevano essere dei simboli a caso. Le sue mani si mossero da sole, veloci e decise, sulla tastiera del computer digitando parole sul motore di ricerca, nella speranza di trovare qualcosa. Ma Google era troppo vasto affinché lei, senza un minimo di conoscenza dell’argomento, riuscisse a trovare qualcosa di affidabile. Un nome, poi, le si parò davanti all’ennesima ricerca: “Morgan Rey, esperto di simbologia”. 

Si scrisse l’indirizzo su un post-it e stava quasi per lasciare la stanza, quando la fonte di tutti i dubbi che l’avevano cullata quella notte non fece la sua entrata in scena, gettando la propria tracolla sulla sedia accanto alla sua. Era serio - più del solito, almeno - e le occhiaie sembravano segnare ancora di più i tratti già marcati del suo viso. La guardò solamente quando si rese conto di essere sotto il suo sguardo vigile già da una buona decina di secondi. 

« Ciao. » Le disse alla fine, prima di tornare a darle le spalle e sedersi alla propria scrivania. Per poco non gli lanciò qualcosa contro.

« Non credevo che potessi essere ancora meno loquace del solito. » Commentò, inarcando le sopracciglia e, probabilmente, stupendolo dato che fino a quel momento non si era mai permessa di fare battutine sul suo comportamento decisamente incoerente. 

« Ti infastidisce? »

« Mi infastidisce nella misura in cui mi trascini ad un’uscita che non avevo voglia di fare, per poi sparire senza una spiegazione. » Non mancò di notare come gli occhi di Richard fissassero tutto meno che lei e questo la irritò ancora di più. Quale era il suo problema? « E si può sapere cosa hai detto a Joshua? Dopo la tua scenetta pareva che avessi la peste da tanto mi evitava! »

« Perdonami, non avevo capito che traessi piacere nell’avere un cretino del genere a sbavarti addosso! » Esclamò lui, allargando le braccia in un segno di stizza. Che fosse geloso?

« Certo che no, ma sono quanto meno rimasta stupida dal suo comportamento. E anche dal tuo. » Spiegò, cercando di non alzare i toni per non peggiorare la situazione. Voleva spiegargli quello che aveva scoperto quella mattina e chiedergli se poteva accompagnarla all’indirizzo che aveva segnato, ma se avessero continuato con quella stupida ed insensata discussione senz’altro non sarebbe arrivata da nessuna parte.

« Il mio comportamento non ti riguarda. » 

« Vai al diavolo, Richard. » 

Come non detto.

Arrabbiata con lui e con quella parte di lei che gli permetteva di avere così tanto controllo sul suo umore, afferrò le proprie cose ed uscì dall’ufficio senza più voltarsi. Avrebbe voluto urlare o mettersi a piangere, ma non fece niente del genere anche se, si rese conto, forse era un bene che almeno riuscisse a provare qualcosa: solitamente se ne rimaneva inerme nel suo guscio di apatia. Richard riusciva a scatenare in lei sensazioni forti, anche se avrebbe sperato in modo totalmente diverso. L‘immagine di lui sulla metro, con gli occhi spenti e le spalle curve, non riusciva ad abbandonarla e le faceva rimanere addosso un senso di incompiuto che difficilmente sarebbe riuscita a scrollarsi via. Tuttavia, in quel momento, era troppo adirata per pensare a lui in modo positivo e si limito a raggiungere a passo svelto l’ufficio di Lark proprio in cima all’infinita rampa di scale.

Bussò due volte prima di permettersi di aprire il pesante battente di mogano e quando entrò il capo la accolse con il sorriso di sempre.

« Signore, avrei una pista per quanto riguarda l’articolo del “killer con le ali”. Mi servirebbe qualche ora di permesso. »

 

*** 

 

Trovare l’indirizzo che si era segnata era risultato molto più difficile del previsto. Come se la giornata non fosse già stata abbastanza difficoltosa, il telefono le si era scaricato, lasciandola in mezzo al traffico londinese senza la più pallida idea di dove si sarebbe dovuta recare.  Aveva chiesto in giro, ma quasi nessuno sembrava essere a conoscenza di niente. Alla fine, dopo aver comprato un caricabatterie in un vecchio negozio d’angolo e aver sfruttato la corrente dello Starbucks più vicino, era arrivata sul luogo. Peccato che fossero già le otto di sera e il quartiere non apparisse affatto convincente. 
Mentre si affrettava lungo il marciapiede sporco si sentiva addosso le occhiate di chi era perfettamente conscio che lei non avrebbe dovuto trovarsi lì. Da sola, tantomeno. Era uno di quei quartieri in cui scarseggiavano i soldi, ma abbondava la delinquenza. Uno di quelli in cui una come lei non avrebbe mai dovuto trovarsi. Cercò di rimanere calma, ma continuava a chiedersi come fosse arrivata a quello. Fino a due settimane prima, non riusciva a trovare nemmeno un motivo per cui potesse dire che la sua vita valeva qualcosa, mentre, adesso, si ritrovava a fare cose stupide soltanto per rincorrere un articolo. Cos’era che la spingeva a farlo? La voglia di trovare il colpevole? L’ambizione di fare bene il proprio lavoro? O la volontà di rifarsi agli occhi di Richard? Probabilmente, tutte e tre le cose, ma, mentre continuava ad avanzare per le strade che si facevano sempre più strette, avrebbe solo voluto avere lui al suo fianco. Senza neanche un reale motivo, dato che ben poche volte si era dato la pena di interessarsi a lei. 

Buttò giù il nodo che le attanagliava la gola, quando vide il gruppo di ragazzi che fino a quel momento l’aveva squadrata, attraversare la strada in sua direzione. Guardò nervosamente la mappa sullo schermo del cellulare, rendendosi conto che mancava davvero poco all’arrivo a destinazione, solo un altro centinaio di metri. Ma loro erano sempre più vicini, le loro voci sempre più alte e il suo cuore batteva sempre più forte. Che avrebbe dovuto fare?

« Hey, bella! Dove stai andando? »

Accelerò il passo. Mancavano cinquanta metri.

« Avanti, non ignorarci così: non ti facciamo niente. » 

Trenta. 

« Mi sono sempre piaciute le rosse. » 

Dieci. Riusciva a vedere l’insegna.

« Adesso frena, piccoletta. » Una mano rude le afferrò l’avambraccio, strattonandola all’indietro e facendola quasi cadere, ma lei continuò a fissare quell’insegna che avrebbe potuto significare la sua salvezza. Sapeva che urlare non sarebbe servito a niente. « Morgan Rey, eh? » Alla pronuncia di quel nome, portò di scatto lo sguardo verso la figura che continuava a tenerla ancorata lì. Doveva essere più giovane di lei, ma era sicuramente più minaccioso e più alto. I capelli, di un biondo slavato, erano lasciati lunghi, in una triste imitazione di quelli di Kurt Cobain, e una cicatrice gli spaccava il sopracciglio sinistro. « Non ci piacciono le spie qua, sai? » 

I suoi amici risero e, senza nemmeno sapere come, si ritrovò con il culo per terra nel vicolo di fronte al quale l’avevano bloccata. Il cuore sembrava esploderle nel petto, riempiendola di adrenalina, ma anche di consapevolezza. Lottare non sarebbe servito a niente. Non ce l’avrebbe fatta nemmeno se fosse stata in possesso di un’arma. Ma che diavolo le era venuto in mente? Recarsi lì da sola. Per cosa, poi? Per dimostrare a Richard di non essere una stupida? Beh, effettivamente aveva ragione lui. 
Si guardò intorno, alla ricerca di qualsiasi cosa avrebbe potuto aiutarla, mentre loro iniziavano ad avanzare verso di lei. Niente, non c’era niente. Solo cemento e rifiuti. In quel momento avrebbe voluto essere apatica. Avrebbe voluto non provare niente e agognare quella morte che tante volte aveva pensato di infliggersi da sola. Ma qualcosa la teneva legata a quel momento - alla vita - e ogni fibra del suo corpo sembrava lottare contro la voglia di lasciarsi andare. 

« Non ti azzardare a toccarmi. » Sibilò, quasi felina, quando una mano si sporse verso di lei per afferrarle un polso. E approfittò della sorpresa del ragazzo per tirarsi velocemente in piedi.

« Ah, ma allora parli. Avete sentito, ragazzi? Ha la voce. » Esclamò, ridendo. Ma poi i suoi tratti si indurirono, si fecero freddi e crudeli e la sua lingua uscì fuori dalle labbra per umettarsele, come un cacciatore che pregusta la sua preda. « Sarà un piacere farti urlare. »

La schiena al muro.
Le mani bloccate.
Un corpo premuto contro il suo.
Uccidimi. Fu l’unica cosa che pensò, ma era ovvio che quello non fosse il suo intento.

Riusciva a sentire il fiato di lui - che sapeva di marijuana e tabacco - infrangersi contro la pelle della sua guancia, così vicino che quasi le venne da vomitare. Non riusciva a muoversi e un avambraccio di quell’energumeno le premeva contro la gola, rendendole anche difficile emettere qualsiasi tipo di suono. Non era la prima volta che lo faceva, era evidente, e la sua mente volò già al dopo. Come si reagiva ad una cosa così? Come si andava avanti quando già la tua vita sembra priva di senso? Tentò di dargli un calcio, ma non riusciva a prendere la mira. Probabilmente, però, lo colpì perché sentì il gemito di lui e le risate dei suoi compagni.

« Hai bisogno di una mano, Trevor? Mi sembra agguerrita. »

« È come tutte le altre. Appena glielo metti dentro si tranquillizza. »

Quella frase. La spontaneità con cui l’aveva pronunciata. Il modo semplice in cui faceva apparire una cosa come lo stupro, le fece ribollire il sangue nelle vene. Prese a dimenarsi, usando tutte le sue energie, provando a gridare, a morderlo, a fare qualsiasi cosa pur di toglierselo di dosso. Sapeva che non sarebbe servito a niente, anzi, probabilmente lo avrebbe solo infastidito e sarebbe stato peggio, ma non gli avrebbe permesso di prendersi ciò che voleva senza lottare. Lui continuava a stringerla e sbatterla contro il muro. Le faceva male la schiena, le facevano male le braccia. Ogni cosa sembrava bruciare e stava quasi per arrendersi, quando, senza un apparente motivo, fra le urla generali e uno scalpiccio di fuga, si ritrovò libera e accasciata per terra. 

« Allontanati subito, prima che decida di farti un buco in testa. »

Quella voce le arrivò lontana, forse perché le orecchie le fischiavano così tanto da renderle difficile riconoscere perfino il suo stesso respiro. I passi di quello che l’aveva bloccata fino a quel momento si allontanarono veloci, raggiungendo i compagni. Doveva alzarsi, e lo fece, perché essere passiva e lasciarsi salvare da chissà chi proprio non faceva per lei. Ma non appena fu stabile sulle gambe, due mani l’afferrarono per le spalle e avrebbe ricominciato subito a dimenarsi se non avesse riconosciuto quegli occhi verdi che si erano incastrati nei suoi, con un’espressione preoccupata mai vista prima.

« Stai bene? » La voce di Richard era carica di emozione, carica di passione e per poco non si lasciò crollare fra le sue braccia, permettendosi di piangere con lui tutte le lacrime che si era sempre tenuta dentro. Ma si trattenne.

« S-Sì, sto bene. » Mormorò, portandosi le mani fra i capelli e cercando di far smettere la sua testa di girare. Si tirò, però, indietro quando le mani di lui tentarono di alzarla. « Ho detto che sto bene. Riesco a camminare. »  Non voleva farsi vedere debole. Non da lui. Non adesso. 

« Allora muoviti. » Mormorò, mentre raccoglieva da terra le cose che le erano cadute di mano, compreso il suo cellulare, per poi avviarsi all’uscita opposta del vicolo dove un BMW nero faceva sfoggio di sé, decisamente fuori contesto in quelle strade abbandonate a loro stesse. 

Lo seguì senza aggiungere altro, ancora troppo stordita per formulare un pensiero coerente. Doveva allontanarsi da lì, subito. O sarebbe impazzita. Salì sul lato del passeggero, trascinandosi dietro le gambe che sembravano farsi più pesanti di secondo in secondo. E lui era serio, decisamente incazzato - a buon ragione dopotutto. Solo quando a sua volta si fu accomodato sull’auto notò che, oltre ai suoi effetti personali, tenesse in mano anche una pistola. Beh, era ovvio, di certo quei tre non se ne sarebbero andati così se lui non avesse avuto qualcosa con cui minacciarli. Eppure il pensiero di lui armato la metteva in agitazione.

« Perché hai una pistola? » Sussurrò quando lui gettò tutto sui sedili posteriori. 

« È scarica. » Il suo tono di voce era nettamente diverso da quello utilizzato prima. Adesso era freddo, anche più del solito. Era tagliente e lei si sentì in colpa per il rischio a cui lo aveva esposto. 

« Come facevi a- ? »

« Sei un idiota! » La interruppe e il volume decisamente alto della sua voce andò ad intonarsi con il rombo della macchina che si accendeva. « Come cazzo ti è venuto in mente di venire qua da sola? Per cosa, poi? Incontrare un morto!? » Dovette accorgersi della sua espressione perplessa perché alzò gli occhi al cielo, per specificare, mentre si allontanava a gran velocità da quel quartiere. « Se ti fossi data la pena di controllare meglio prima di partire come un treno, avresti scoperto che Morgan Rey è stato ucciso una settimana fa. »

Rimase in silenzio, sotto il peso delle proprie colpe e della propria inesperienza. Aveva creduto che avere un’idea e impegnarsi per scoprire se fosse vera o meno sarebbe bastato, ma, a quanto pareva, non era così. Se c’era una cosa che non sopportava era proprio dover dipendere dagli altri. Non appena ne aveva avuto la possibilità si era allontanata perfino da suo padre, così da non dover pesare a nessuno. Ritrovarsi in una situazione del genere con l’unica persona di cui, in quel momento, le importava effettivamente qualcosa - senza un reale motivo, per giunta - la faceva andare fuori di testa. Voleva riscattarsi e, invece, aveva finito per peggiorare la propria situazione.  Non disse più una parola per diverso tempo. Ancora si sentiva addosso le mani di quel ragazzo e la paura di non riuscire a scappare. Se non fosse arrivato Richard, a quel punto, sarebbe già successo tutto e lei non avrebbe più avuto il coraggio nemmeno di guardarsi allo specchio. 
Il paesaggio continuava a cambiare di fronte ai suoi occhi, dall’altra parte del finestrino e solo dopo un’abbondante mezzora iniziò di nuovo a riconoscere le vie centrali di Londra. Era buio e i lampioni illuminavano la strada insieme alle insegne a neon delle varie pubblicità colorate. Si sentì di nuovo sola. Di nuovo estranea a tutta quella vita che sembrava andare avanti indipendentemente da tutto e da tutti. 

« Dove stiamo andando? » Domandò alla fine, senza distogliere lo sguardo dal semaforo al quale si erano fermati.

« A casa mia. » Disse con una semplicità che la disarmò, facendole sgranare gli occhi. Cosa?« So che abiti fuori città. Non sei nelle condizioni per fare un viaggio del genere da sola e io preferisco ospitarti da me, piuttosto che fare avanti e indietro. »

Deglutì, mentre lui ripartiva. Dopo tutto quello che era successo non sapeva se fosse effettivamente in grado di passare la notte a casa di lui. Era già debilitata per conto suo e l’unica cosa che aveva pensato di fare era un bagno caldo e buttare fuori tutta la tensione che si era tenuta dentro per tutta la giornata. 
Voltò il capo per guardarlo e ne studiò il profilo definito: la mascella marcata, coperta dallo scuro strato di barba; gli occhi fissi sulla strada; il naso dritto; i capelli in cui avrebbe tanto voluto affondare le mani. Tutto in lui la richiamava, eppure il ragazzo sembrava detestarla e, dopo quella serata, ne aveva tutte le ragioni.

« Ti fa male? » Solo quando lui aprì di nuovo bocca si rese conto che lui le stava lanciando occhiate furtive a propria volta. A cosa si riferiva? « Il ginocchio, ti fa male? »

Abbassò lo sguardo e trovò la calza scura che aveva indossato quella mattina lacerata dalla coscia in giù e una macchia rosso scuro si estendeva dal ginocchio fino a metà dello stinco. Non si era nemmeno accorta di essersi ferita. A giudicare dal primo impatto non doveva essere niente di profondo: probabilmente, aveva solo strusciato per terra. A preoccuparla erano di più le condizioni delle sue collant. Non sarebbe certo potuta andare a lavoro il giorno dopo con solo il vestito di lana che aveva indosso. 

« Oh- No. Non è niente. » 

Lui la guardò perplesso, ma poco dopo venne distratto dalla manovra di parcheggio e lei poté tornare a respirare regolarmente. Si rese conto di essere in un grande piazzale, all’interno di uno di quei palazzi che ospitano un sacco di appartamenti. Non si sarebbe mai potuta permettere niente del genere. Lo seguì fuori dall’auto quando lui scese.
Neanche cinque minuti dopo, le porte dell’ascensore che avevano preso si aprirono, mostrandole l’ingresso di una casa non troppo grande ma decisamente ben curata. Gli arredi erano scuri, ma la grande parete a vetri che permetteva di vedere le affollate strade di Londra sotto di loro rendeva il tutto non opprimente. L’adorava. 

« Vieni qua. » Le disse Richard, dato che fino a quel momento era rimasta impalata sull’ingresso con la propria borsa in mano, a fissare quella casa stupenda. 

Ubbidì e, quando fu vicina, lui le fece segno di accomodarsi sullo sgabello della cucina, mentre rovistava nei mobiletti alla ricerca di chissà cosa. Quando tornò da lei, aveva in mano dell’acqua ossigenata e dei batuffoli di cotone che appoggiò sull’isola alle sue spalle, prima di avvicinarsi ulteriormente. Abigael dovette trattenere il fiato, perché vederlo inginocchiarsi di fronte a lei, mentre le teneva fra le mani la gamba per esaminare la gravità della ferita, le faceva decisamente uno strano effetto. I suoi polpastrelli le accarezzavano la pelle del polpaccio, fortunatamente ancora coperta in parte dal sottile strato di nylon.  Le sembrò di andare a fuoco. Soprattutto quando lui, con tutta la naturalezza del mondo, le tolse gli anfibi dai piedi per poi poggiarli a terra, di fianco al muro.

« Che stai facendo? » Mormorò e il suo tono di voce fu più rotto di quando non avesse preventivato. Fortunatamente lui lo interpretò in modo totalmente sbagliato.

« Rilassati, non ti faccio niente. Solo che non riesco a disinfettarla con tutta questa roba che hai addosso. » Se solo avesse saputo quando desiderava non avere niente addosso. « Credo che- Beh, dovresti toglierti le calze. »

E nonostante sapesse che quella richiesta era stata fatta solo per poterla aiutare meglio, dovette deglutire un paio di volte per riprendersi del tutto. Di certo non voleva fare l’amore con lei. Ma perché lei sì? Perché lei era pronta a concedersi a lui anche in quel momento, come se tutti quei giorni in cui aveva passato a trattarla male non fossero mai esistiti? Non era mai stata così. Non aveva mai dato confidenza a nessuno, tantomeno agli uomini e specialmente in quel senso. Eppure con Richard tutto era diverso. La sua pelle, solitamente così piatta e inerme, sembrava prendere vita e il cuore - che aveva maledetto così tante volte per quel battito frenetico - voleva appartenere a lui, nonostante praticamente non ne conoscesse niente.
Alla fine, riuscì a scendere dallo sgabello abbastanza stabilmente per fare quello che le aveva chiesto, per poi rimettersi seduta prima che il tremolio delle sue gambe tradisse la sua reale agitazione.

« Posso farlo da sola. » 

« Lo so. »

« Allora perché lo stai facendo tu? »

« Voglio rendermi utile. »

« Mi hai già salvato la vita, non ti sembra abbastanza? » 

Gli occhi del moro, che fino a quel momento erano stati fissi sul suo ginocchio, a seguire i movimenti della propria mano, si alzarono verso di lei. E lei lo vide di nuovo. Quell’abisso verde in cui avrebbe voluto gettarsi a capofitto solo per provare, almeno una volta nella sua vita, la sensazione di essere compresa. 

« No, non è abbastanza. » Mormorò, senza distogliere lo sguardo. « Devo chiederti scusa. » Che stesse sognando? « Se non mi fossi comportato da coglione non saresti andata da sola. » 

Era lì, così vicino da poter sentire il suo odore, tanto che le tornò in mente il loro primo contatto fisico sulla metro e quel sorriso sbieco che gli aveva provocato il suo arrossire. Ma questa volta non sarebbe scappata, né da lui, né dalle sensazioni che la spaventavano. Avrebbe voluto donargliele e chiedergli se anche lui provasse lo stesso, ma era troppo orgogliosa e troppo ferita dall’atteggiamento che aveva tenuto con lei in quei giorni per poter fare un passo in più.
Rimase lì, con il respiro corto, a godersi la sensazione della sua mano che dal ginocchio le risaliva la coscia, il fianco, il busto, mentre il pozzo verde dei suoi occhi sembrava risucchiarla sempre più a fondo. Stava per baciarla. Doveva baciarla. Ma si allontanò e lei sentì improvvisamente freddo.

Sembrava altrettanto scosso.

« Credo che tu debba riposare. La camera è infondo al corridoio, io me ne sto sul divano. » 

Due ore dopo, era ancora sveglia, ma in un letto che almeno profumava di lui.

 
 



 






ANGOLO AUTRICE.

Ancora una volta ho aggiornato meno velocemente di quanto volessi, ma questo capitolo mi ha un po' preso la mano e mi sono ritrovata ad aggiungere elementi che non avevo preventivato. Si entra nell'azione, si sviluppano le prime idee sul caso e anche il rapporto fra Abigael e Richard muta, trasformandosi in qualcosa di più complicato. Spero che apprezzerete, perché io mi sono divertita a scriverlo.
Vi invito ancora a recensire e vi lascio un bacio. Per qualsiasi dubbio non esitate  contattarmi.
A presto.

   
 
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