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Autore: Elphie94    13/04/2017    2 recensioni
[Modern!AU] Considerato il più grandioso genio del nuovo secolo, Erik Danton vive recluso, nascondendo al mondo la ragione della sua volontaria segregazione. La sua vita cambia quando vi entra a far parte Meg Giry, una ragazza spavalda e apparentemente senza regole, che diverrà la sua nuova (quanto involuta) allieva. Tra i due non scorre buon sangue, ma nessuno, neanche Erik, può prevedere il futuro...
[Edit 2020: lievi correzioni e modifiche al testo.]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ad Elvira,
senza la quale non sarei qui.



Scena I.
[ I due personaggi si trovano in uno studio dall'aria confortevole. La prima, una donna sui quaranta, vestita con pantaloni e camicia casual, accavalla le gambe su una poltrona che ha visto tempi migliori. La seconda, drappeggiata in abiti neri che la fanno sembrare più intimidatoria di quanto sia in realtà, è seduta a gambe divaricate su un divano rosso, la schiena appoggiata a morbidi cuscini di velluto. È chiaro che sono a loro agio nel parlare l'una con l'altra. In questo momento discutono di una questione che sembra dividerle. ]

DOTTORESSA LAURENT: È un'ottima idea.
MEG: (aggrottando la fronte) No, è una pessima idea.
DOTTORESSA LAURENT: Il miglior virtuoso del mondo. È un'occasione da non perdere. C'è chi pagherebbe oro pur di avere un'opportunità come la tua.
MEG: Beh, io non sono chiunque, quindi… La risposta è no. (si ferma a rosicchiarsi un'unghia smaltata di nero, accigliandosi dinanzi a una pellicina molesta) È ridicolo. Non ho bisogno di un baby sitter.
DOTTORESSA LAURENT: Non si tratta di un baby sitter. Fa parte della terapia, Meg. E in quanto tale faresti bene ad accettarla.
MEG: (bofonchia qualcosa che assomiglia pericolosamente ad uno scimmiottio delle parole dell'altra donna) Mpfh.
DOTTORESSA LAURENT: Tua madre ha avuto un'idea brillante. Beh, è una donna brillante, non c'è da meravigliarsi se… (si ferma, ponderando le parole) Lo farai? Almeno provaci. Conoscerai un grande artista.
MEG: Non si sa nulla di lui. È un recluso da vent'anni, da quando praticamente ha iniziato la sua carriera. Sarà uno di quei vecchi con la puzza sotto il naso. Non mi faccio fare da tutor da un vecchio altezzoso, io.
DOTTORESSA LAURENT: É vecchio?
MEG: Nessuno lo ha mai neanche visto in faccia. Non si sa niente di lui. Se non che non dà concerti… Un egoista, a mio parere. Uno non può creare musica del genere e poi… (fa un gesto vago con le dita piccole e magre) Puf. Scomparso dalla circolazione.
DOTTORESSA LAURENT: Quindi hai ascoltato le sue opere.
MEG: Certo che sì. Chi non lo ha fatto? Forse solo qualche adolescente brufoloso che si spara immondizia tecno nelle orecchie. (fa una smorfia) Comunque sia, continua a sembrarmi un'emerita puttanata. (non si scusa per il termine volgare)
DOTTORESSA LAURENT: (trattenendo a stento un sospiro — Dio solo sa quanti pazienti cocciuti ha seguito negli anni, ma questa in particolare…) Meg, ricorda quello che abbiamo detto tante volte riguardo al rischiare. Tu sei sempre troppo impaziente di provare le cose. Ti getti nella mischia senza pensare. A volte può essere un difetto… (Meg emette un lieve sbuffo sarcastico) ma d'altro canto è qualcosa che non possiamo ignorare. E quel qualcosa mi dice che muori dalla voglia di saperne di più.
MEG: Su cosa, esattamente?
DOTTORESSA LAURENT: Su di lui. Sul mistero che lo circonda. Da quanto tempo ci conosciamo, Meg?
MEG: Da prima che avessi Dany.
DOTTORESSA LAURENT: Fidati di me, allora. Vedila come un'avventura.
MEG: Sono troppo grande per le avventure. Ne ho avute abbastanza per una vita intera, e non erano come mi aspettavo da bambina.
DOTTORESSA LAURENT: Questa volta è diverso. Credo fermamente che nella musica ci sia un potere di guarigione per l'anima che le medicine non possono offrire. Pur con tutta la nostra scienza, noi medici ci troviamo disarmati davanti alla vera bellezza. All'arte. (una breve pausa, in cui osserva con occhi acuti quelli scettici della sua paziente) Sei convinta, adesso? Prendila come una sfida.
MEG: E che io sia dannata prima di tirarmi indietro davanti a una sfida.
DOTTORESSA LAURENT: (sorride) Esatto.



i.


Non sa cosa lo sveglia, se il ronzio nelle orecchie o il rombo del cuore nel petto. Si puntella sui gomiti e si sfila di dosso le lenzuola, divenute ingombranti, asciugandosi il collo sudaticcio con un asciugamano che tiene sempre a portata di mano sul comodino. Il sangue che gli pulsa nei timpani è a dir poco fastidioso. China la testa tra le ginocchia e respira lentamente, il movimento dei polmoni ben palpabile sotto la pelle. Inspira, espira. Così gli ha detto il terapista da cui andava anni fa. Non che andarci sia servito a tanto. Solo un'inutile perdita di soldi — ma di soldi ne ha da spendere, lui, quindi non ci fa caso. Inspira, espira.
Mi chiamo Erik Danton, ho quarantacinque anni e sono francese. Si ripete questo segmento di pensiero più e più volte, per ricordare a se stesso chi è e dove si trova. Sono nella mia stanza, a casa mia. Appena fuori Parigi. Sono al sicuro. Al sicuro dalla morte, dal sangue — sulle mie mani e su quelle degli altri. Al sicuro da tutto.
Si passa le lunghe dita ossute tra i capelli umidi e controlla la sveglia. Sono le quattro e mezza del mattino: un orario un po' atipico per farsi una doccia, ma è abituato a stranezze ben peggiori. Sa che alle otto precise riceverà una chiamata dal Daroga, che lo vorrà sveglio e pronto invece che a dormicchiare spaparanzato sul letto disfatto. Poi la cameriera, la signora Giovanna. Sì, non può farsi vedere in questo stato. Con un sospiro quasi doloroso, si tira su dal letto. Un ultimo sguardo di nostalgia alle lenzuola calde e accoglienti, e poi dritto nella doccia. Anche lì, nel bagno, non ci sono specchi.
Naturalmente.


«Dovrebbe mangiare di più, signore.»
Giovanna è una sessantenne piena di energia che ogni sabato gli rifila una porzione di lasagne fatte in casa che potrebbe sfamare un'intera famiglia, non certo uno stomaco ristretto come il suo. A suo tempo, quando girava per il mondo, ha imparato a vivere di poco. Anche dopo anni di agio, tutto quel lusso lo disorienta.
Sorride sotto la maschera che indossa — sempre — e fa cenno alla donna di non preoccuparsi. Giovanna viene da una famiglia italiana di antiche tradizioni: da qui le lasagne per il datore di lavoro. Non sa se sia così gentile con lui perché la paga tanto da fare invidia a tutte le domestiche del mondo o perché è sinceramente cortese e apprensiva. Una miscela di entrambe le cose, sospetta. Il denaro rende gentile chiunque, se necessario.
Quando la domestica ha ormai terminato le sue pulizie e lo ha edotto abbastanza sulla cucina italiana da saziare una mandria di buoi, lui si dedica ad un altro tipo di pulizia: quella personale. D'altronde, oggi ha appuntamento con una donna.
Nulla di galante, naturalmente. Al pensiero, quasi sogghigna — con l'usuale amarezza. Non ha mai avuto a che fare con appuntamenti galanti, lui. Conosce molti modi per uccidere un uomo, e nessuno può — o poteva — superarlo nell'uso del laccio del Punjab, ma non ha mai capito nulla delle donne. A parte Giovanna, la domestica peso massimo che si ostina a chiamarlo “signore” nella sua lingua d'origine, e non “Monsieur”, non c'è nessun’altra nella sua vita. Nessuna, a parte una vecchia conoscenza: Antoinette Giry.
Infelicemente vedova da tredici anni, di una manciata d'anni più anziana di lui, è istruttrice integerrima di danza all'Opera Garnier. È lì che l'ha conosciuta, quando gli riservava il palco numero 5 perché…
No, meglio non pensare al passato. Certe ferite sono ardue da rimarginare, e lui ha troppe cicatrici sulla pelle anche solo per contarle.
Indossa il suo completo Armani con un'eleganza che gli è quasi naturale. Si fa recapitare giacche, cravatte, camicie e pantaloni di pura seta dalle migliori aziende di moda, da tutte le capitali di stile del mondo — Milano, Londra, New York, la stessa Parigi. È sempre stato un suo… vizio, l'eleganza. Non per apparire più attraente — senza la maschera che indossa costantemente, o almeno quando non è solo in casa, sarebbe più facile far sembrare mansueto un leone affamato — ma per sentirsi più sicuro di sé. L'eleganza ha il suo perché, dopotutto.
Non gli importa di spendere tutto quel denaro in completi e scarpe e cappelli che chiunque altro non potrebbe permettersi. Il Daroga è ostinato nel ricordargli che i soldi non sono eterni, ma lui non è stupido, e sa amministrare le sue spese. Sapeva risolvere le divisioni a tre anni. Si limita a godersi quel poco che può: non c'è peccato in questo, assolutamente.    
Ritornando ad Antoinette, si tratta di un favore con cui deve ripagarla  per tutto ciò che lei ha fatto per lui negli anni dell'Opera. Non sia mai che si dica che Erik non paga i propri debiti. È molte cose, ma non è un ingrato, per quanto il Daroga lo accusi spesso di questo peccato — ti ho salvato la vita, Erik, e tu mi tratti come fossi lo zerbino di casa tua! Dammi retta invece di annegare nel vino come fai di solito. Continua così e ti rivedrò in un centro per alcolisti anonimi. E così via. Gli sembra di avere sul collo il fiato di un genitore iperprotettivo. Ma cosa ne sa, lui? Non ha mai avuto dei genitori veri.
Rumore di ruote sul viottolo. Ah, eccola che arriva. Il suo debito da ripagare. Erik si aggiusta il nodo alla cravatta, lanciando un'occhiata fuori da una delle grandi finestre nel salotto. Uno dei salotti, a dire il vero — beh, non ha importanza. Scorge una figurina vestita di nero a bordo di una motocicletta grossa il doppio di lei. Erik aggrotta la fronte dietro la maschera. Se lo avesse saputo, le avrebbe prenotato un taxi, con quel freddo.
Bussano alla porta. Non può dire di non essere un tantino nervoso. Non ha rapporti con le persone — eccetto il Daroga e Giovanna e pochissimi altri — da anni. Quel che gli serve se lo fa recapitare a casa via posta, o grazie ad Internet. Con quest'ultimo può tenersi aggiornato sul mondo anche se non vi vive davvero. Un'invenzione assai utile, a suo giudizio.
Erik attraversa il grande atrio e apre la porta.
Non sapeva cosa aspettarsi, ma quello che si trova davanti non è… facilmente immaginabile. Una ragazza — potrà avere sui diciannove, forse vent'anni al massimo — con disordinati capelli neri, pelle olivastra e un viso che non si può dire grazioso, ma passabile. (Beh, di certo lui non è tipo da giudicare una persona per il proprio aspetto. Nei suoi anni di convivenza con un volto deforme e una pelle fatalmente diversa, ha imparato a non farlo mai. L'apparenza inganna.) Lunghe ciglia scure incorniciano occhi di carbone e onice. È vestita nel modo strano in cui si abbigliano certi giovani: giubbotto di pelle, stivali anfibi dal tacco pesante, jeans strappati. In più, matita da sguardo letale intorno agli occhi allungati e lucenti. Tutto rigorosamente nero. Sembra uscita da una rivista di moda controcultura di scarsa qualità.
La giovane si toglie le cuffie dalle orecchie e gli offre una mano, guantata — sempre di nero.
«Meg Giry. Mi aspettavi?»
Sembra notare solo adesso che lei è vestita praticamente di stracci e lui sfoggia un completo impeccabile. Non ne arrossisce minimamente. Si apre in un sorrisetto e chiede di entrare.
«Prego» dice lui, e le fa cenno di accomodarsi. La vede mordersi un labbro, e sa perché. La sua voce è sempre stata suadente alle orecchie degli altri, e questo deve averla disorientata. Non era intenzione di Erik, comunque. Meg si riprende in fretta, guardandosi intorno con una curiosità che sfiora la maleducazione.
«Cazzo. Bella casa.»
A queste parole, Erik già sa che il suo compito di insegnante sarà ben più difficile del previsto. Cominciamo bene.


Le offre di accomodarsi in salotto, e lei si siede sul bordo di uno dei lussuosi divani in pelle, sempre lo sguardo attento ad ogni dettaglio che la circonda.
«Un bicchiere di Chianti?»
«Di che?»
Erik si schiarisce la gola. Non può impedire al suo tono di voce di assumere una sfumatura arrogante.
«Di Chianti. Un vino italiano. Un'ottima annata.»
«Preferisco la birra al vino.»
«Ah. Pardon, ma non ho birra.»
«Un appunto per la prossima volta. Se hai in casa altro alcol, però — whisky, vodka, gin — ne prendo un cicchetto volentieri.»
Si dà il caso che conservi una bottiglia di vecchio saké in cantina, e ne offre un "cicchetto" all'amabile ragazza seduta sul divano di casa sua. A gambe divaricate, poi, completamente a suo agio, almeno all'apparenza.
Si scola lo shot di saké in un fiato, umettandosi le labbra con l'eterno sogghigno. Di certo non è vergine al sapore dell'alcol. È quasi inquietante, ora che la osserva meglio, quanto assomigli alla madre e allo stesso tempo abbia l'aria di una persona con cui Antoinette Giry non potrebbe mai essere imparentata. Ha la stessa forma degli occhi e i capelli neri, ma è piccola e magra quanto la madre è alta, e scura di pelle quanto l'altra ha la carnagione di porcellana. Immagina che siano i colori del padre. Doveva avere una qualche origine africana, suppone.
Ha sentito parlare di Claude Giry, naturalmente. Pianista talentuoso, marito e padre esemplare, rinomato nell'ambiente musicale parigino. A questo, è succeduto un ricovero in un istituto di igiene mentale, fino al suo tragico suicidio avvenuto tredici anni prima. Una storia che urla dramma da tutti i pori.   
«Mia figlia non ha più continuato a suonare il pianoforte dopo che…» Questo gli ha detto Antoinette al telefono, quando lo ha contattato per proporgli per la prima volta la sua offerta. Non sa ancora come si sia procurata il suo numero, anche se è certo che ci sia di mezzo il Daroga. Lui è ancora un frequentatore dell'Opera, e tutti sanno che è vicino al misterioso e geniale musicista Erik Danton.
«Vorrebbe riprendere?» aveva chiesto lui, con la sua voce più vellutata. Antoinette aveva sospirato.
«Si è convinta, alla fine. Le farebbe bene. Non ha mai superato davvero la morte del padre, e questo… questo potrebbe aiutarla a riavvicinarsi alla sua memoria in un modo che le ispiri amore e dolci ricordi, e non amarezza.»
Lui aveva alzato un sopracciglio. «Capisco. Madame, siete certa che io sia la persona adatta?»
«Sì. Non conosco musicista più talentuoso di voi, Erik.» Un sospiro. «Si tratta di un esperimento, capite. Abbiate pazienza con lei. Ha avuto un vissuto problematico.»
Posso solo immaginare, pensa mentre la guarda masticare rumorosamente una cicca e tamburellare il piede sul pavimento di marmo lustrato — opera di Giovanna, ovvio; quella donna è sempre diligente nel tenere la grande villa Danton ben pulita e ospitabile, sebbene i visitatori siano ben più che rari.
Ma ora Erik si è impelagato in questa situazione, e non può uscirne fuori. Non vuole, d'altronde. Sembra una sfida interessante. Fare di quella ragazza una brava pianista… Magari ha davvero talento. Il padre doveva pur capirne qualcosa.
«Perché la maschera?» chiede Meg all'improvviso. Erik nota che la sua voce è roca e bassa, non certo il soprano delicato e argentino di…
No, non devo pensarci. Non adesso. Non a lei.
Si concentra sulla giovane donna che siede dinanzi a lui. Non ha alcuna vergogna nel chiedergli quello che di solito la gente ha troppo timore di sputargli in faccia.
Perché la maschera, Erik? Ne indossa una di porcellana nera, che gli copre la maggior parte del viso. Solo il labbro inferiore è lievemente scoperto, così che si nota quando sorride o fa una smorfia. Ora è il momento di fare una smorfia.
«Un incidente?» chiede di nuovo Meg, senza attendere che lui risponda alla sua prima domanda. Erik si schiarisce la gola.
«Un incidente di nascita, ti correggo.»
Lei alza le mani, lievemente sgomenta. «Non lo sapevo. Mi dispiace.» Sembra sincera dalla prima volta che ha messo piede in casa sua. Se solo non continuasse a masticare rumorosamente quella cicca…
«Niente di cui tu debba preoccuparti.» Una pausa. «Sono inutili le presentazioni, suppongo.»
«Su di te so quel che sa il resto della gente.»
Erik sorride, sardonico. «La gente presume molto, di solito. Cosa sa?»
«Il tuo talento è… ineguagliabile. È risaputo.» Non lo dice per ingraziarselo: è un dato di fatto, molto semplicemente. Non sbatte neanche le ciglia. «Cantante lirico e non, compositore, musicista — suoni una miriade di strumenti, e…» Si ferma per versarsi dell'altro saké. «Non ti sei mai fatto vedere in pubblico. La gente conosce il tuo nome, ma non la tua faccia. E ora so perché.» Si scola un altro bicchierino. Deve vantare una buona resistenza all'alcol, perché quando ha finito è ancora lucidissima.
«Io invece di te non so molto, se non che sei una ballerina nella compagnia dell'Opera di Parigi. Un ruolo ambizioso.» Non le dice che sa anche come è morto suo padre, o che sua madre è sinceramente preoccupata per lei. Non deve — non vuole — immischiarsi.
«Sono tutti convinti che queste dannate lezioni mi farebbero bene. Sono qui per dimostrare il contrario.» Gli sogghigna in faccia. Osa sogghignargli in faccia. Ma bene.
«Tua madre deve pur averti insegnato l'educazione.»
Lei s'incupisce. «Perché mi dici questo?»
Lui le sventola un indice sotto il naso. «Prima di tutto, per te è Monsieur. Secondo, non sono qui per giocare.»
Lei distorce le labbra sottili in una smorfia — un'altra. «Io ti chiamo come mi pare.»
Erik sospira. Quella ragazza lo sta facendo avvicinare pericolosamente al punto di ebollizione. «Un po' di rispetto sarebbe dovuto.»
«Perché sei un vecchio recluso? Uno il rispetto se lo deve meritare da me, ecco tutto. E se tu mi apostrofi in questo modo…»
Iniziamo male. Molto male. «Ragazza, non ti chiedo niente.»
Lei si infiamma. «Il mio nome è Meg. Non ragazza
«Non avevi detto che potevi chiamarmi come più ti piaceva? Ebbene, farò la stessa cosa anch'io.»
Lei si morde un labbro. Sembra sul punto di alzarsi e prenderlo a pugni, ma non lo fa.  In qualche modo, si controlla.
«Ti hanno mai detto che sei uno stronzo arrogante?»
«Molte volte.» Ora sorride, serafico. «Cominciamo la lezione?»


Ha bisogno di accertarsi sulla sua preparazione. Che c'è, solo che è arrugginita, decisamente arrugginita. E poi c'è qualcos'altro che la blocca… Qualcosa a cui non sa dare nome. Sa solo che, quando vede il lucido pianoforte a coda nella stanza della musica, ne rimane impietrita per un attimo. Non stupita dalla sua bellezza, no: proprio raggelata. Quasi impaurita. Svanisce in un secondo, comunque, e ritorna spudorata come sempre. Si guarda intorno masticando la cicca. La sala della musica è l'orgoglio di Erik, riempita di ogni strumento possibile, libri di spartiti e una stanza adiacente che è un vero e proprio studio di registrazione.
Erik la invita a sedersi sullo sgabello dinanzi al pianoforte, al centro della camera.
«Non ho portato uno spartito. Avrei dovuto?»
«No. Scegline uno da quella cartella.»
Inizia con un semplicissimo valzer, ma s'intoppa sul più bello. Ci vogliono due ore intere di esercizi perché riesca a suonarlo in modo tale da non fargli sanguinare le orecchie. Dopo interminabili minuti di digrignar di denti e maledizioni sussurrate, Meg ce la fa, ed Erik ha compreso pienamente da dove cominciare con lei. Ossia, quasi daccapo.
Conosce le basi, ma la tecnica è scarsa. Si premura di informarla al riguardo, non senza quel tono di superiorità che lo contraddistingue, ed è forse per questo che lei si rabbuia e fa per prendere lo spartito e scagliarglielo in testa. Alla fine non fa nulla, il che è un bene. Erik non è tipo da accettare con beneplacito che qualcuno gli lanci la sua roba (concernente la musica, per altro) sulla propria testa mascherato.
Come compiti per casa, le assegna diversi esercizi di solfeggio. Lei distorce le labbra, disgustata.
«Pensavo che la pratica fosse più importante.»
«Lo è anche la teoria.»
«Beh, si dà il caso che a me non piaccia. Non mi è mai piaciuta.»
«Fattela piacere a forza. Non vi è altro modo.»
Meg gli riserva uno sguardo fulminante. Si accordano per la lezione successiva — sabato prossimo, alla stessa ora del pomeriggio — dopodiché Meg fa per andarsene con il nuovo plico di spartiti sotto il braccio.
«Ripassa bene quel che ti ho insegnato oggi. Non dimenticare: il solfeggio è—»
«La base della pratica. Sì, lo so.» Gli dardeggia contro uno sguardo acceso da sotto le folte ciglia scure. «Questa lezione è ridicola. Anzi, questa idea è ridicola.»
«Senti un po', piccola scost—»
E prima che Erik possa concludere, lei scompare lungo il viottolo, mette in moto l’Harley Davidson — nera anche quella, bella potente — e si dirige senza casco per la via di casa. Se avesse qualcosa in mano, Erik glielo lancerebbe contro.
In cosa mi sono immischiato? Questa ragazza è terribile. Senza contare che gli ha dato dello stronzo arrogante pochi minuti dopo averlo conosciuto. Non sa se essere più offeso o stupito perché, sorprendentemente, ci ha azzeccato in pieno.



Note dell'autrice: Eccomi tornata con una nuova E/M! Chi ha letto l'altra mia long fic - Mon coeur s'ouvre à ta voix - avrà già familiarità con i personaggi e la coppia. Questa fic è una sorta di AU, ma non è necessario aver letto l'altra per capirla - sono sconnesse tra loro. Inoltre è molto più leggera, meno tragica e assai meno lunga della "collega". E' senza pretese, e spero vi faccia sorridere. Aggiornerò regolarmente, dato che l'ho già conclusa.
Bye :)
   
 
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