CAPITOLO DUE
“Am I
Just Dreaming?”
Non
tutti i sogni sono fatti per essere ricordati; la
maggior parte di essi non ha nemmeno un senso.
~
La sveglia
non smise di suonare, incessante; quasi come volesse star lì
a sottolineare una
situazione anomala, caotica. E lo era.
Joanna aprì
finalmente gli occhi, dalla voragine che aveva creato nel suo
voluminoso
piumone, sprofondandoci dentro la notte prima, probabilmente. Con una
mano
cercò subito di spegnere la sveglia alla cieca, riuscendoci
dopo diversi
tentativi andati a vuoto; la fece anche cadere a terra.
Che si fosse
rotta o meno, Joanna era troppo frastornata per raccoglierla,
così si prese
ancora un secondo prima di sollevarsi iniziare la giornata.
Finalmente
era in piedi, poco dopo, recuperando il telefono da sopra al comodino:
11
chiamate perse; una da parte di Nigel, suo collega di lavoro, e tutte
le altre
da parte di mona. C'erano anche dei messaggi.
Messaggi non letti:
Mona: Sono in
ritardo, tra poco arrivo. [Lunedì, ore 07.36]
Mona: Carino da
parte tua lasciarmi sola, stamattina. Mia sorella è riuscita
ad incastrarmi con
la faccenda del trasloco. Mi toccherà aiutarla, ti chiamo
stasera. [Lunedì, ore
14.48]
Mona: Dove diavolo
sei? Sono quasi due giorni che non ti vedo e non ti sento. Non sei
nemmeno in
casa, ho bussato per ore. [Martedì, ore 09.23]
Numero sconosciuto: Ehi, sono Nigel, scusa se ti
disturbo, ma al lavoro non ci sei venuta,
perciò volevo sapere se… beh, se volevi unirti a
noi per comprare un regalo di
compleanno a Lambert. Dopodomani gli facciamo una festa a sorpresa qui
in
ufficio. Memorizza il mio numero, fammi sapere. [Martedì,
ore 16.01]
Mona: Mi prendi
prendi il culo??? Joanna, cazzo, chiamo la polizia, ok?
[Martedì, ore 23.12]
Joanna
sbigottì con gradualità a ciascun messaggio
letto, mettendosi una mano sulla
fronte, stordita. Subito portò il telefono all'orecchio,
effettuando una
chiamata; non riusciva a capire cosa stesse succedendo ed era
intenzionata a
scoprirlo.
“Mona,
pronto?”
“Scherzi, vero? Ti fai
sentire dopo tre
giorni?”
“I-io non
riesco a capire, ci siamo viste ieri… - si spostò
in cucina, agitata,
sforzandosi di ricordare dove fosse stata nei giorni precedenti -
Penserei che
sia uno dei tuoi scherzi, ma ho ricevuto dei messaggi anche da Nigel;
non mi ha
vista al lavoro.” spiegò ancora, con voce
incredula, vittima di una strana
surrealità.
“Joanna, nessuno ti ha
vista! Compresa me! Ma
che fine hai fatto?!”
“Nessuna
fine, ieri ero con te! - si affannò nel riferirle la
verità - Abbiamo parlato
di quella faccenda del sogno, poi siamo andate alla centrale e abbiamo
scoperto
che Spencer esiste; che l’uomo dei miei sogni è
reale, il tizio al luna park!”
“Uooo, uooo, frena
ragazza! - esclamò, subito
frastornata - Dimmi che non sei finita a Tijuana, strafatta in qualche
vicolo.
Seriamente, c'è qualcosa che non va, sei strana. Lo
percepisco.”
“Non sono
strafatta, sono nel mio appartamento! - urlò esasperata -
Non capisco cosa stia
succedendo, è tutto così assurdo. - si
guardò intorno, accorgendosi
dell'assenza del suo cane. - Ma dov’è
Bluto?”
“Chi?”
“Il mio
cane, Mona! - esclamò seccata, cercandolo in tutta la
casa.”
“...Ok, se prima pensavo
che c'era qualcosa
che non va, ora ne sono convinta: chi diavolo è
Bluto?”
Quella si
sollevò da terra, dopo aver controllato sotto il letto:
“La smetti di fare
l’idiota? È il mio cane e non riesco a
trovarlo.”
“Joanna, tesoro, tu non
hai un cane… E,
francamente, mi stai spaventando.” le confessò,
esprimendo a pieno il suo
disagio.
Joanna si
fermò per un istante, le sue pareti non erano bianche come
le ricordava, ma di
uno sbiadito celeste: “... E non mi hai aiutato a ridipingere
le pareti della
mia camera, vero?”
“Sono mesi che dici di
volerlo fare, ma non ti
sei mai decisa a comprare la vernice e i pennelli.”
Sconcertata,
Joanna lasciò scivolare lentamente il telefono lungo il
viso: “Ti richiamo…”
poi lo lasciò cadere a terra.
“Ma che mi
sta succedendo?” provò paura, gli occhi e la bocca
spalancati per l’angoscia di
non sapere cosa le stesse capitando.
Si rese
conto che qualcosa non andava per davvero, così corse in
bagno a sciacquarsi la
faccia, per poi guardarsi riflessa nello specchio.
“Sembrava
così reale…” mormorò.
~
Verso sera,
Joanna si ritrovò invitata a casa della sorella di Mona;
aveva dato una cena
per pochi intimi, in occasione del trasloco nella nuova abitazione.
Per tutto il
giorno, Joanna ebbe provato a lasciarsi quella bizzarra vicenda alle
spalle,
ancora ignara di cosa fosse successo in realtà. Mentre tutti
se ne stavano nel
salottino a ridere e scherzare, Joanna restò in disparte con
in mano il suo
bicchiere di vino e un capo decisamente troppo elegante e troppo
scomodo per i
suoi gusti; del resto, era stata Mona a metterle quel completo nero con
lo
scollo sul seno, una gonna stretta fino alle ginocchia e dei tacchi
decisamente
alti.
“Tesoro, non
ti diverti?” le si avvicinò Mona, diretta verso la
cucina con in mano i piatti
del dolce.
“Sono solo
pensierosa…” ricambiò con un sorriso
molto forzato, che riuscì a rassicurarla
quanto basta.
“Scusa se
sono andata alla polizia, ma non sapevo che altro fare o pensare. - si
scusò
ancora una volta, pensando fosse quello il motivo di tanto distacco -
Fortuna
che sei ricomparsa prima delle 48 ore standard di attesa.”
“Già, che
fortuna!” marcò con un sollevamento delle
sopracciglia, fingendo sollievo per
la cosa.
Improvvisamente
le squillò il telefono: era Nigel, quando
controllò; la sua espressione
scocciata attirò la curiosità di Mona.
“Chi ti sta
chiamando?”
“È
Nigel!”
le rispose distrattamente, impegnata a decidere se rispondere o meno.
“Perchè non
rispondi?”
“In ufficio
organizzano una festa a sorpresa per Lambert, stanno facendo una
colletta per
il suo regalo.”
Le due si
spostarono in cucina.
“Joanna, non
dirmi che fai ancora l’asociale in ufficio? - si
infuriò, mettendo i piatti nel
lavello - Quante volte ti ho detto di farti avanti e superare questo
muro che
ti sei costruita attorno?”
“Non mi
sento molto bene, ultimamente.” si giustificò,
poco credibile.
“Non sarà
che ti vergogni a parlare con Nigel? È questo che ti
frena?”
“No!”
esclamò in maniera sonora, per poi mettersi a braccia
conserte con un broncio
insicuro.
Mona capì di
avere ragione, a quel punto: “Sono passati due anni, Joanna.
Non credo che ti
compatisca ancora. Nessuno lo fa.”
“E invece
lui mi compatisce! - ribatté, convinta di questo - Del
resto, sono la ragazza
su cui ha scritto il suo primo articolo di esordio allo Yell of
news.”
“Vuole solo
essere gentile, sa cos’hai passato e ti tratta di
conseguenza. E poi ho amato
le parole che ha usato per descrivere quel mostro di Kyle, in
quell’articolo;
non avrei saputo usare parole migliori.”
“In ufficio
sono tutti amici suoi, non riesco mai ad avvicinarmi. -
sospirò - Ho paura che
se provo a rivolgere loro la parola, tutti si gireranno a fissarmi per
poi
ricordare ciò che mi è accaduto e vedermi come
una patetica e fragile ragazza
che non ha saputo prevedere le conseguenze di quella relazione malsana.
-
esternò le sue paure - Preferisco fare il mio lavoro e
tornare a casa mia, dove
posso finalmente respirare e non dover affrontare nessuno.”
L'altra
sorrise, trovandola stupida: “Joanna, tu vivi in un sogno se
pensi che la vita
sia davvero così difficile.”
“Un sogno,
hai detto?” sgranò gli occhi a quella parola,
leggermente turbata.
“Sì, Joanna!
- la prese per le spalle, risoluta - Se c'è una cosa che ho
imparato dalle mie
esperienze, è che la vita non è difficile come
crediamo: siamo noi a renderla
così; lo facciamo con le nostre inutili paranoie e le nostre
stupide
incertezze. - le spiegò - Joanna, devi solo fare un passo e
iniziare a parlare;
di per sé, queste, sono azioni semplicissime, non
credi?”
Joanna
abbassò lo sguardo, riflettendo su quanto le era stato
detto; forse Mona aveva
ragione, forse siamo proprio noi stessi a rendere tutto così
difficile.
Nell'altra
stanza, poco dopo,Claire, suo marito e i loro amici, stavano indossando
i
cappotti. Prima di uscire, quella avvisò Mona.
“Sorellina,
noi stiamo uscendo. Accompagnamo Denise a casa sua e
torniamo.” si fece sentire
dalla porta.
“Va bene, io
e Joanna diamo una sistemata intanto. Ciao, ragazzi!
Buonanotte!” salutò,
facendosi sentire dalla cucina; quelli ricambiarono subito il saluto,
per poi
uscire.
Approfittando
del fatto che erano rimaste sole, Joanna sputò il rospo sul
suo strano
atteggiamento; non riuscì proprio a placarsi.
“Ti ho
mentito!” rivelò.
Mona si girò
con la testa, mentre era intenta a lavare i piatti della cena:
“Su cosa?”
“Oggi ti ho
mentito, non era vero che sono stata dai miei genitori in Vermont negli
ultimi
tre giorni.”
“Ok,
d’accordo… - chiuse il rubinetto, concedendole la
sua attenzione - E dove
saresti stata?”
Joanna
faticò nel far uscire un suono dalla sua bocca, non sapeva
come dirle la
verità: “Io… I-io…”
“Tu, cosa?”
le domandò, sulle spine.
“Io ho
dormito! - esclamò, finalmente - Ho dormito per quasi tre
giorni, senza
svegliarmi”.
Mona si
asciugò le mani con uno straccetto, leggermente perplessa e
schiva con lo
sguardo: “Ehm, ok… Dev'essere stanchezza, no? Sei
andata dal medico?”
“Mona, non è
stanchezza. - esternò con terrore - Sento che c'è
qualcosa che non va.”
“Ok, allora
che cos’hai? Spiegami!” le intimò.
“In questi
ultimi tre giorni ho dormito, ma non ho percepito del tutto la
differenza al
mio risveglio; o almeno, non finchè non ho letto i
messaggi.” provò a spiegare.
“Differenza
tra cosa?” cercò di seguirla con fatica.
“Tra il
sogno e la realtà! - esclamò con preoccupazione -
Nel sogno che ho fatto, avevo
un cane, le pareti che volevo dipingere di bianco erano bianche e io ho
finalmente trovato il coraggio di parlare con Nigel e gli altri
colleghi.”
“Perché
segui i miei consigli solo da addormentata? Devi parlare con il Nigel
della
realtà e non quello dei sogni: comodo! - le fece subito una
ramanzina,
distaccandosi dall’atmosfera seria che Joanna creò
- Per quanto riguarda le
pareti, beh, sei pigra! Dovevi essere proprio pompata di steroidi in
questo
sogno, se ti sei finalmente decisa a ridipingerle. ”
“Mona, per
favore, ascoltami! - esclamò isterica, catturando una sua
smorfia sorpresa a
quella reazione così esagerata - Era reale, quanto
è reale questa
conversazione, ok? - raccontò con più precisione
- I secondi, i minuti e le ore
passavano lentamente e ho vissuto ogni istante come se fosse quella la
mia
vita; infatti anche nel sogno sono passati tre giorni e li ho passati
in parte
con te, in parte in ufficio e poi a casa: come al solito.”
“Joanna,
cosa c'è di strano in tutto questo? Si chiamano sogni
lucidi, proprio perché
sembrano veri.”
“Non avevo
idea che in ufficio stessero organizzando una festa a sorpresa per
Lambert.
Come posso aver sognato di saperlo, se non lo sapevo?”
“L’avrai
sentito distrattamente da qualcuno e il tuo cervello ha immagazzinato
l’informazione.”
“Ti ho anche
parlato di un sogno che ho fatto: ero in questo luna park con altre tre
persone; sembrava ci conoscessimo da sempre. Poi, quando mi sono
svegliata,
c'era questa foto sul mio telefono e… - si fermò
di colpo, sgranando gli occhi
- Oh mio Dio, la foto!” tuonò, recuperando subito
il suo cellulare dalla borsa,
lì sul tavolo.
Mona sembrò
sempre più confusa: “Un secondo, hai fatto un
sogno, mentre stavi...sognando?”
trovò bizzarro.
“Ehm, sì,
più o meno… - le rispose distrattamente, cercando
disperatamente quella foto -
Ma dove diavolo è???”
“Forse non
c'è?” puntualizzò, sottolineando la sua
follia.
Joanna si
fermò nel cercare, lanciandole una brutta occhiataccia.
“Che c'è? -
reagì Mona, marcando il suo giusto scetticismo - Davvero
stai cercando di
trovare nel tuo telefono una foto che hai scattato nel sogno che hai
fatto
mentre sognavi?”
Joanna si
rese conto che era fin troppo assurda come storia, così
cercò di convincere
Mona in un altro modo: “Ho ancora una possibilità
per essere creduta. So che
non sono credibile al momento, ma vieni con me al distretto di polizia
e saprai
che dico il vero.” le supplicò con lo sguardo.
“Cosa c'è al
distretto per farmi cambiare idea?”
“Grazie al
tuo aiuto, abbiamo decifrato un secondo sogno che ho fatto in una
spiaggia;
c'era uno dei tre ragazzi che era con me in quel primo sogno al luna
park;
sembravo avere una cotta per lui, o, meglio, la Joanna del sogno era
innamorata
di lui. Si chiama Spencer Goodwin.”
“Quindi
troveremo questo Spencer in prigione?” pensò con
logica.
“No, uno dei
poliziotti è suo fratello. Da lui abbiamo scoperto che
Spencer era un tossico.”
“Ti innamori
sempre dei cattivi ragazzi, eh? - ricevette l’ennesima
occhiataccia - Ehm,
scusa.” si ammutolì.
Joanna
piombò nuovamente nella paranoia: “Ho paura di
stare sognando anche in questo
momento. Magari tra due minuti mi sveglierò e
dovrò ripeterti da capo tutto
quanto.”
“Non essere
drastica, prendo il cappotto!” esclamò, avviandosi.
Joanna,
presa subito da un raptus, lanciò un bicchiere a terra. Mona
si voltò,
spaventata.
“Ma che
diavolo ti è preso?”
Quella
deglutì faticosamente, mortificata: “Scusa, volevo
solo capire se sto
sognando.”
“Buttando un
bicchiere a terra?” replicò con tono sconvolto.
“Pensavo di
svegliarmi, ma come vedi non è successo.” le
sorrise, sperando sorvolasse su
quanto appena accaduto.
“Ti prego,
dimmi che la Mona del sogno trova tutto questo molto folle.”
“Altrochè!”
Mona cacciò
fuori un sospiro, riprendendosi dallo spavento preso: “Bene,
viva il
#TeamMona!”
~
Al
distretto, ancora infreddolite dall’ambiente esterno, le due
ragazze erano in
cerca dell’agente Goodwin.
“Il piano
era questo, c'è la scrivania dell’agente Tesler,
laggiù!” indicò Joanna
all'amica, facendo da guida.
“E chi
diavolo sarebbe?”
“La Mona del
sogno è sessualmente attratta da lui.”
“Ah,
sì?”
pensò, curiosa.
In
quell’istante, l’agente Tesler tornò
alla sua scrivania. Mona poté finalmente
vedere com'era.
“Mmh, la
Mona del sogno sa il fatto suo.” ammiccò,
trovandolo affascinante.
L'agente Tesler
buttò un occhio sulle due, non appena avvertì la
loro presenza; il suo sguardo
incrociò subito quello di Mona, che gli sorrise ammaliata.
Joanna la
tirò verso un'altra direzione, però, mettendo
fine a quel momento: “Sì, ma non
è lui con cui dobbiamo parlare. L'ultima volta che sono
stata qui, nel sogno,
lui mi ha indicato la scrivania di Derek Goodwin, il fratello di
Spencer.”
Mona indicò
subito un agente alla sua scrivania, poco lontano da loro:
“Quel tipo, per
caso?”
“Sì,
lui.”
confermò Joanna.
Le due
rimasero lì impalate a fissarlo, timorose di avvicinarsi.
“Come hai
intenzione di esordire? Dicendo: “Salve
agente, ho conosciuto suo fratello in un sogno che ho fatto dentro un
altro
sogno”?
Joanna prese
coraggio, avviandosi decisa: “Reggimi il gioco!”
L'altra
rimase indietro, rincorrendola subito: “Ehi, aspetta, quale
gioco? Io non sono
brava nei giochi!” esclamò preoccupata.
Qualche
secondo più tardi, erano davanti alla sua scrivania; nessuna
delle due parlò,
fissandolo e basta, a braccetto come due vecchiette. L'uomo
alzò lo sguardo,
impaziente.
“Sì?”
“Ehm, Salve
agente… - le sembrò di aver iniziato come
prospettato da Mona - Ehm, io…”
“Non sfidare
la sorte…” le sussurrò l'amica con un
angolo della bocca.
L'agente
Goodwin restò lì a fissarle, trovandole strane.
“Siete qui
per sporgere una denuncia o cosa?”
“Ouh, no no!
- Joanna chiarì subito - Sono qui perché so che
lei è il fratello di Spencer… -
insieme a Mona osservò la sua reazione - non è
così?” deglutì malamente,
sudando freddo.
Finalmente
l'agente disse qualcosa: “Sì, sono il fratello di
Spencer. Quindi?”
Joanna
sorrise, tirando un sospiro di sollievo. Mona, invece, restò
a bocca aperta,
incredula.
“Cazzo, non
ci credo…” commentò sottovoce, ma non
così tanto da non essere ascoltata.
L'agente
Goodwin continuò a spostare lo sguardo fra le due, sempre
più stranito.
Joanna
riprese subito parola: “Io e Spencer eravamo nella stessa
clinica. - inventò,
basandosi con astuzia sulle informazioni che possedeva - Quando sono
stata
dimessa, ho perso il numero che mi aveva scritto
e…”
“Ah, eravate
nella stessa clinica… - borbottò con tono serio,
l’argomento non sembrò fargli
piacere - E che problema avevi?”
Joanna, i
cui dubbi erano finalmente diventati certezze, continuò per
quella via: “Ehm,
mi facevo! - rispose, fingendo vergogna; Mona sgranò gli
occhi ed impallidì,
restando in silenzio - Non voglio entrare nei dettagli, se non le
dispiace.”
“No no,
nessuno lo vuole. - disse l’agente, osservando il suo
orologio da polso -
Quindi sei venuta fin qui, alle undici passate di sera, per chiedere un
numero?
- trovò bizzarro - E poi come fai a sapere chi
sono?”
“Spencer mi
ha raccontato di te, mi disse che facevi l'agente di polizia, qui a San
Francisco; così mi sono ricordata ed eccomi qui.”
spiegò prontamente.
“Non sapevo
che mio fratello amasse parlare di me. - restò sorpreso -
Sapete, non andiamo
molto d'accordo; io sono un po’ il fratello che segue le
regole, in famiglia,
mentre lui è quello ribelle che non ascolta mai nessuno. -
la cosa lo rendeva
chiaramente triste - A dir la verità, mio fratello non ha
mai dato grossi
problemi… finché non è successo quello
che è successo…” abbassò lo
sguardo,
facendo capire alle due che, dietro alla storia della
tossicodipendenza, c'era
molto di più.
Mona notò i
suoi occhi improvvisamente lucidi, sincerandosi delle sue condizioni:
“Tutto
bene, agente?”
Quello fece
un colpo di tosse, poi un suono mucoso col naso, riprendendosi subito:
“Ehm,
ora vi scrivo il numero. - prese carta e penna, fingendo di non aver
avuto quel
momento di debolezza - Inutile stare qui a parlare di cose legate al
passato,
no? - consegnò il numero a Joanna, forzando un sorriso ad
entrambe - Se sei
stata in clinica con lui, ti avrà già raccontato
qualcosa della sua vita.”
A qualunque
cosa si riferisse, Joanna non poteva saperla, ma finse ugualmente di
sapere:
“Certo, abbiamo parlato molto. Non ce l'avrei mai fatta senza
di lui, ci siamo
sostenuti a vicenda.”
“Mi
raccomando, sembri una brava ragazza. E sei giovane. Non ricascarci
più.” le
suggerì Derek.
“Non
succederà. - gli sorrise - E sono sicura che non
succederà di nuovo nemmeno a
Spencer.”
“Lo spero
anch'io.” ribatté, cercando di essere fiducioso
quanto lei.
Mona fece
subito un intervento, carismatica come suo solito: “Stia
tranquillo, agente
Goodwin. La tengo d’occhio io!” esclamò,
facendo anche un occhiolino.
L'uomo
sollevò le sopracciglia, accennando un sorriso; le due si
allontanarono dalla
sua scrivania dopo averlo salutato.
Fuori dal
distretto, sulle gradinate, Joanna rivolse subito un occhiataccia a
Mona,
irritata.
“La tengo
d'occhio io? Seriamente?”
“Che c'è?
Sei una tossica, no? - ribadì - Mi ha chiesto tu di reggerti
il gioco.”
“Mh, hai
ragione. - si placò, tirando fuori il numero di telefono
dalla tasca, fissando
il foglietto - Mio Dio, Mona: ce l'ho! Ho il numero di Spencer, era
tutto
vero.”
“O sei una
stalker a livelli raccapriccianti o tutto questo è realmente
vero.”
“Dici che lo
devo chiamare?” chiese consiglio, improvvisamente ansiosa,
l'aria gelida che le
usciva dalla bocca per il freddo.
“Non ho
portato il mio culo fin qui per sentirmi fare questa domanda, Joanna:
certo che
lo devi chiamare!”
“E come gli
spiego tutto questo?”
“Ascolta, se
si trattasse di me, io probabilmente non ti capirei; nessuno ti
capirebbe, a
dire il vero. Tu, però, mi hai detto che Spencer era in un
sogno che hai fatto
mentre sognavi durante gli ultimi tre giorni: magari sta accadendo la
stessa
cosa anche a lui. Provaci.”
“Ok,
riaccompagnami a casa. - le sue parole la convinsero -
Proverò a chiamarlo.”
“Bene, ora
andiamo. - mise il suo braccio sotto quello di Joanna, rabbrividendo -
Sto
congelando!” e iniziarono a scendere i gradini, dirette
all’auto.
~
SACRAMENTO,
CALIFORNIA.
Davanti al
bordo di un cavalcavia che si affacciava su un’autostrada,
Spencer Goodwin era
solo, con indosso una felpa nera e malandata, un giubbino sopra e dei
jean;
stava osservando una fotografia, stretta tra le mani, con le lacrime
agli
occhi: la foto raffigurava lui stesso assieme ad una ragazza;
sembravano
felici, forse innamorati.
Dopo averla
messa in tasca, a seguito dell'ennesima occhiata sofferente, Spencer
salì sul
bordo, mentre le auto passavano veloci sotto di lui. Dopo
aprì le braccia, come
fosse un segno liberatorio, poi chiuse gli occhi: era pronto a farla
finita.
Il suo cuore
batteva forte, stava per farlo, ma, improvvisamente, il suo telefono
squillò e
perse l'equilibrio. Fortunatamente per lui, non cadde di sotto, ma
solamente
all'indietro; ancora a terra, il respiro rumoroso e il cuore a mille,
recuperò
il telefono: era un numero sconosciuto. Rispose.
“Pronto? Chi
parla?”
D'altra
parte del telefono, Joanna si sollevò di scatto dal letto,
dove, sdraiata,
aveva atteso una risposta fino a quel momento. Incredula e con il cuore
in
gola, finalmente disse qualcosa.
“Sto parlando
con Spencer Goodwin?”
“Sì, chi mi
cerca?” domandò, frastornato.
“Ehm, mi
chiamo Joanna Alldred… - provò a trovare le
parole per spiegare - Ehm, so che
ti sembrerà strano, ma ho fatto un sogno in cui-”
Spencer
sgranò gli occhi, interrompendola: “Sei quella del
luna park, vero?”
“Sì! -
esclamò subito, non riuscendo a credere alle sue orecchie -
Anch'io ti ho
conosciuto al luna park, eravamo insieme ad altre due persone ed era
come se
fossimo amici o, comunque, conoscenti.”
“La ragazza,
quella con i capelli neri e mossi e il piercing al naso…
credo si chiamasse
Cassie.” raccontò, tornando in fretta alla sua
auto.
Anche Joanna
si sforzò di ricordare: “...Sì, mentre
l'altro ragazzo, quello più giovane, di
colore… se non sbaglio, il suo nome era Bradley.”
“Sì, ora mi
ricordo. - entro in macchina, adrenalinico e pieno di domande - Ma come
mi hai
trovato?”
“E difficile
da spiegare… - rispose, facendo avanti e indietro davanti
alla finestra - So
solo che dopo il sogno che ho fatto al luna park, ne ho fatto un altro
dove
eravamo su una spiaggia.”
Spencer fece
mente locale, ritrovandosi anche in questo scenario: “Ok,
anch’io ti ho sognata
in una spiaggia, ma è solo un ricordo, non mi sembra di
averti parlato.”
“Perché nei
sogni non possiamo farlo, siamo solo spettatori. In qualche modo,
però, ho
scoperto da piccoli indizi che qualcuno a te caro lavorava al distretto
di
polizia, qui a San Francisco, dove vivo: tuo fratello.”
“Hai avuto
da lui il mio numero?”
“Sì, ho
finto di essere una tua amica. Ti sembrerà assurdo, ma i
sogni che ho fatto su
di te e sul luna park, li ho fatti mentre-”
Fu
interrotta nuovamente: “Anche tu hai fatto un sogno dentro al
sogno, non è
vero? - sperò di ricevere una risposta affermativa - Ti
prego, dimmi di sì,
perché sento di stare impazzendo.”
Joanna si
mise una mano sul petto, sollevata: “No, non sei pazzo. Ho
dormito per quasi
tre giorni, ma, mentre sognavo, credevo di essere nella
realtà.”
“Ho dormito
per tre giorni anch'io e quando mi sono svegliato, ho pensato di
essermi fatto
fino al limite e non riuscivo a capire cosa stesse accadendo; sai, devi
sapere
che sono un tossico e che due settimane fa sono stato dimesso dalla
clinica in
cui i miei genitori mi hanno portato.”
“Sì, lo so,
me l'ha detto tuo fratello; cioè... tuo fratello del sogno,
non quello reale.”
“Perchè,
cosa ti fa credere che non sia un sogno anche questo?” ebbe
dei seri dubbi a
tal proposito.
“Perché
stavolta non ho un cane, mentre nel sogno ce l'avevo. Persino le pareti
della
mia stanza sono diverse da quelle del sogno.”
“Anche tu ti
sei accorta delle differenze? - fece caso - Nella versione del mio
sogno, dopo
essere uscito dalla clinica, sono tornato nel mio vecchio appartamento
e sotto
casa aveva aperto una nuova caffetteria. Nella realtà,
invece, sono tornato a
casa dei miei genitori perché avevano venduto il mio
appartamento; volevano
tenermi d'occhio, in modo che restassi pulito. Furioso, poi, sono
andato a
stare da un mio amico e mi sono risvegliato sullo stesso divano su cui
mi ero
addormentato.”
Joanna ebbe
un’altra perplessità: “Sai, quando mi
sono svegliata, credevo ancora di avere
quel cane; ho creduto anche in molte conversazioni che non sono mai
avvenute,
finché non ho letto alcuni messaggi sul telefono e mi sono
resa conto che avevo
solo sognato.”
“Quei sogni
si sono insinuati nella nostra mente, facendoci credere che fossero la
realtà;
quando mi sono svegliato a casa di quel mio amico, inizialmente non
capivo
perché non fossi nel mio appartamento.”
“Scusa, ma
il tuo amico dov'è stato durante quei tre giorni?”
“Fuori
città!” spiegò, per poi sospirare.
“D'accordo,
ragioniamo un secondo… Entrambi abbiamo dormito per quasi
tre giorni; quando
andavamo a dormire, sempre durante il
sogno, abbiamo sognato il luna park e poi la spiaggia: non
può essere una
coincidenza. Dev'esserci successo qualcosa, se riusciamo a connetterci
tramite
i sogni.”
“Sì, ma
cosa?” non aveva idea.
“Forse,
prima, dovremmo provare a cercare Cassie e Bradley: se io e te siamo
reali,
sono reali anche loro. Insieme potremmo capire cosa ci è
accaduto, se è
accaduto anche a loro.”
Spencer
annuì, scarno di parole: “Ottima idea, bene.
Faremo così.”
Subito calò
il silenzio sui due; non sapevano che altro dirsi.
Joanna,
allora, riprese a parlare, trovando qualcos’altro da dire:
“Scusa se ti ho
chiamato a quest'ora. Spero di non aver interrotto nulla.”
L'altro
sorrise, trovando quella frase alquanto paradossale rispetto a
ciò che aveva
realmente interrotto: “Non hai interrotto nulla di cui tu
debba preoccuparti;
anzi, mi hai salvato la vita.”
Joanna rise,
imbarazzata: “Addirittura?”
Ovviamente
non le disse cosa stesse realmente facendo, prima della telefonata:
“Beh, sì,
finalmente non sono più da solo in questa cosa. Un altro
giorno e sarei finito
in manicomio, perciò… grazie per aver chiamato
nel momento giusto. Il tempismo
sembra essere il tuo forte!”
“Forse sono
brava solo in quello!” replicò con sarcasmo,
nascondendo una triste vita colma
di fallimenti clamorosi.
“Buonanotte,
Joanna!” le disse dolcemente, un sorriso genuino che il suo
volto non vedeva da
tempo.
“Buonanotte,
Spencer!” rispose con premura, un sorriso genuino che nemmeno
il suo viso vedeva
da tempo.
Entrambi
chiusero la chiamata, e fu così che nel dramma delle loro
vite, ancora
sconosciute, Spencer e Joanna si erano trovati grazie ad un sogno; un
sogno che
per loro non aveva un senso, ma che era stato capace di unire i loro
destini e
dar loro una speranza, nonostante ci fossero più domande che
risposte. Nel suo
inizio, però, questo sogno aveva fatto molto di
più di quanto appena detto:
aveva appena cambiato il corso delle loro vite. Per sempre.
CONTINUA NEL
CAPITOLO TRE
Prestavolto:
Claire Bay
(36 anni) - Julie Benz