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Autore: _Lady di inchiostro_    14/04/2017    3 recensioni
C’è chi dice che la nostra strada è già stata decisa, che è il destino che stabilisce quali difficoltà dobbiamo incontrare durante il cammino, o chi ci accompagnerà durante il percorso.
C’è chi dice che la nostra strada, invece, ce la costruiamo da soli, che siamo noi a decidere chi incontrare, siamo noi padroni delle nostre azioni.
Iwaizumi Hajime aveva sempre creduto nella seconda opzione. Finché non ha incontrato Oikawa Tooru. E allora si chiese se il destino non volesse farli incontrare per davvero, in qualsiasi modo possibile.
***
[Future Fic and What if?] [Tanto angst e cose belle ♥]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II
~


 
[8 ottobre 2016]





Iwaizumi si era svegliato un po’ più tardi del solito, gli occhi ancora impastati di sonno, il soffitto bianco sporco che lo accoglieva ogni mattina davanti a sé. Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di controllare che razza di ore fossero – e no, questa volta la sveglia non l’avrebbe quasi mandato con la faccia per terra nel tentativo di spegnerla. Erano solo le dieci, e aveva tutto il tempo per potersi preparare e uscire. Tanto, ne era quasi certo, nel posto in cui sarebbe andato non ci sarebbe stata tanta confusione. 
Prese il cellulare tra le mani, il cavo dell’alimentatore ancora attaccato, notando che aveva ricevuto qualche messaggio su Line da parte di Tomoko-san, che lo mandava gentilmente a quel paese per non essere passato in ufficio neanche quella volta. Hajime fece una mezza risata, prima di risponderle, continuando a prenderla in giro. 
Riuscire ad ottenere un permesso del genere da parte di Oohashi-sensei, contando che tutti quanti stavano lavorando per la copia che sarebbe uscita a breve, era una vera e propria rarità. Ma non era solo Tomoko quella ad essere prediletta all’interno dell’ufficio, e questo era uno dei motivi per cui si trovasse bene solo con lei; oltre al fatto che, in un modo o nell’altro, si ritrovassero invischiati nei favori e favoretti che dovevano svolgere per il loro capo, come a ripagarli per essersi presi un permesso di troppo. E questo implicava l’intervista ad Oikawa Tooru.
Dato che aveva finito il suo articolo prima del previsto, aveva chiesto se potesse lavorare a quello del mese prossimo direttamente da casa, almeno per quel sabato. L’uomo, per telefono, gli era sembrato molto combattuto, c’erano ancora un paio di cose che dovevano essere riviste prima della stampa ufficiale, ma alla fine aveva ceduto. In quel momento, disteso comodamente a letto, ad Hajime non venne in mente niente che potesse essere peggiore di quella stramaledettissima intervista, perciò qualsiasi favore Oohashi-sensei gli avrebbe chiesto, l’avrebbe svolto senza troppe lamentele – non che si lamentasse, di solito. 
Si alzò, recandosi in cucina e cercando l’occorrente per poter fare una buona colazione, una volta tanto. Non trovò nulla di speciale, solo un pacco di biscotti aperto da chissà quanto tempo, ma decise lo stesso di accontentarsi. La televisione era già accesa, e sentiva alle sue spalle il telecronista annunciare un servizio dopo l’altro, mentre aspettava il fischio tipico della caffettiera. 
Qualche minuto dopo, si sedette sul divano, e in televisione un simpatico meteorologo stava annunciando le previsioni del tempo. Hajime cambiò canale con una smorfia, saltando da una stazione all’altra, finché non trovò qualcosa che catturò la sua attenzione. Era la replica di un’intervista avvenuta qualche mese prima dell’inizio delle Olimpiadi, e uno dei canali sportivi che seguiva maggiormente la stava giusto rimandando in onda, come quelle di tanti altri atleti. Solo che Hajime questo non poteva saperlo, perché si ritrovò davanti a quella fatta proprio ad Oikawa. Ricordava bene quell’intervista, il ragazzo aveva annunciato, con una punta di sfacciataggine, che avrebbero vinto l’oro, e glielo aveva anche ripetuto qualche settimana prima a lui, sostenendo che avrebbero avuto una vittoria facile proprio in casa. 
Iwaizumi era un poco scettico su questo: non che la squadra non fosse forte, ma c’erano alcuni anelli deboli che a suo avviso dovevano essere saldati.
Bevve un sorso di caffè, continuando a tenere gli occhi fissi verso Oikawa, il classico sorriso finto sul viso, e Hajime non poté fare a meno di sovrapporlo a quello sincero che aveva visto illuminargli il viso, chiedendosi se fosse esattamente la stessa persona che adesso ammiccava verso la telecamera. Si chiese come mai proprio lui, sì lui, fosse riuscito a causare un tale felicità a quel setter che, secondo la modesta opinione del giornalista, non faceva che coprirsi di ridicolo con quei suoi atteggiamenti da sciupafemmine, ma alla fine il pubblico lo adorava anche per questo.
Scosse la testa, spegnendo il televisore e concludendo la sua colazione in pochi minuti.
Non avrebbe mai ottenuto una risposta. O almeno, questo era quello che pensava.





Iwaizumi non era nuovo alle bugie. Non che le dicesse per male, o perché fosse una persona cattiva, semplicemente voleva evitare di arrecare danno a qualcuno, compreso se stesso. Era solo un modo facile e veloce per evitare di dire la verità.
In questo caso, dire a Oohashi-sensei che il permesso era per poter scrivere in pace l’articolo, piuttosto che dirgli che gli serviva per poter assistere ad una mostra fotografica, serviva a salvare se stesso da una possibile lavata di capo e dal licenziamento. 
L’unica a sapere del suo segreto era Tomoko, che aveva già assistito alla mostra qualche tempo prima. Se non fosse stato per lei, probabilmente non l’avrebbe mai saputo; e se si fosse documentato meglio prima, ora non sarebbe arrivato con l’acqua alla gola, costretto a mentire al suo capo per una sciocchezza simile.
In un’altra occasione, Hajime avrebbe rinunciato: non era da lui fare queste cose, dopotutto. Ma qui si parlava di una mostra che racchiudeva tutte le migliori fotografie rappresentanti i paesaggi della Bolivia. Aveva sempre avuto il desiderio di visitare quei posti, fin da quando, da adolescente, non aveva trovato un libro con una serie di fotografie sul Salar de Uyuni; da allora, si era ripromesso che avrebbe scattato qualche fotografia di persona, un giorno.  
Era solo un ragazzino appena entrato nel mondo del liceo, ma la passione per la fotografia era rimasta, come anche il suo amore per la Bolivia. No, questa volta non poteva rinunciare. 
Il cielo era plumbeo e l’aria frizzante, un classico paesaggio autunnale, e Hajime si ritrovò a stringersi nel suo impermeabile verde per cercare un po’ di calore. Aveva deciso di lasciare la macchina a casa e prendere la metropolitana, alla fine non gli faceva male fare due passi. Non si aspettava di trovare questa temperatura, però, e quando arrivò nel luogo prestabilito sentì i muscoli che si rilassarono al contatto con l’aria riscaldata.
Come aveva giustamente previsto, non c’era troppa folla, sia perché si trattava dell’ultimo giorno, sia perché non tutti erano interessati a mostre di quel tipo. 
Cominciò subito a guardarsi attorno, esaltatissimo – anche se non lo dava a vedere –, studiando ogni foto minuziosamente, scovando quel dettaglio che magari altri non avevano trovato.
Sorrideva mentre analizzava i paesaggi, un sorriso limpido, di chi si trovava a proprio agio in quell’ambiente, di chi non era in una semplice galleria d’arte ma era immerso totalmente nelle fotografie, nelle stradine caratteristiche, nel deserto di sale, nella volta celeste. Stava ancora fissando con intensità una foto scattata alle cunette di sale, quando captò una voce alla sua destra, stridula e fastidiosa come un ronzio. 
«Iwaizumi!»
Il giornalista girò la testa lentamente, con l’intento di freddare con lo sguardo chiunque l’avesse appena fatto deconcentrare, trovandosi davanti l’ultima persona sulla faccia della terra che avrebbe voluto incontrare.
Oikawa Tooru lo fissava dalle lenti di quegli stessi occhiali che, aveva scoperto Hajime, altro non erano se non il suo travestimento; indossava un giubbotto blu scuro come il cardigan dell’altra volta e un paio di pantaloni marrone chiaro. Teneva la testa inclinata di lato e gli sorrideva, sotto lo sguardo atterrito dell’altro.
«Sorpreso di vedermi?» rise. 
Sì, molto sorpreso di vederti.
Hajime pregò che gli venisse in mente qualcosa per potersene uscire in tutta fretta. Deglutì, tanto per cominciare, cercando di ricomporsi. 
«Devo essere onesto? Sì» gli rispose. «Non ti facevo un appassionato di fotografia..» aggiunse poi, in un flebile sussurro. 
«Oh, mi piace scattare qualche foto, ma non sono un esperto!» disse, tornando a fissare una foto che rappresentava le montagne illuminate dalle luci notturne, con la funivia che si stagliava all’orizzonte. «Sono venuto solo perché si trattava della Bolivia. Sai, desidero andarci da quando ero solo un ragazzino…»
Qualcosa si smosse dentro Hajime, una sensazione calda che non provava da anni, oramai, e che era riaffiorata solo nel sentir parlare Tooru, nel vederlo con un’espressione genuina, sincera, pura, mentre osservava le fotografie. Qualcosa si smosse dentro Hajime, perché non era possibile che un individuo del genere avesse il suo stesso medesimo desiderio, e la cosa lo fece innervosire ulteriormente, più di sentire quel calore dritto al petto e che voleva scacciare via a tutti i costi.
«Okay» disse, non badando più alle fotografie, tornando finalmente con i piedi nel presente. «Alla prossima allora!»
Si recò a passo di marcia verso l’uscita, lasciando Tooru leggermente spiazzato, e cercò di far finta di non sentire i suoi continui richiami. Adesso, l’aria frizzante dell’esterno era diventata più piacevole, e Hajime si affrettò a compiere a ritroso la stanza che aveva percorso neanche un’ora prima. 
Non era al sicuro, però, per niente. Venne strattonato all’indietro per il braccio, trovandosi davanti Oikawa con il fiato corto e che, avendo realizzato di essere riuscito a raggiungerlo, sorrise poco dopo. Non c’era da stupirsi, quel ragazzo correva praticamente tutte le mattine. 
Hajime riuscì a liberarsi dalla presa. «Si può sapere che vuoi?» disse, brusco. 
«Non è questo il modo di rivolgersi a una persona, lo sai?»
«Me ne fotto delle tue maniere!»
«Modera il linguaggio!» continuò a canzonarlo l’altro, e Hajime era quasi sul punto di saltargli addosso e pestarlo a sangue. «Volevo solo invitarti a pranzo.»
Iwaizumi non credeva di aver sentito bene. «Invitarmi a pranzo?»
«Sì, hai da fare?» chiese, alzando le spalle.
Questo era il punto in cui Hajime avrebbe dovuto rifiutare, ringraziare forse, e andarsene. C’era qualcosa, tuttavia, che lo trattenne ancorato lì: la consapevolezza che Oikawa Tooru volesse qualcosa da lui, anche se non aveva ancora ben chiaro che cosa. 
«Posso sapere perché?»
L’altro alzò ancora una volta le spalle. «Per ringraziarti del caffè dell’altra volta?» Vedendo il sopracciglio alzato del giornalista, si affrettò ad aggiungere: «E perché mi piacerebbe conoscerti, dico sul serio! Visto che non abbiamo potuto farlo prima!»
Era questo quello che voleva? Conoscerlo, magari diventare per giunta suo amico? 
Forse Oikawa non aveva ben capito che tipo di persona fosse lui, di certo non il classico amicone e animale da festa di turno; non era di certo una persona che avrebbe potuto fare amicizia con uno come lui anche volendolo, erano di due mondi totalmente diversi, come due galassie lontani anni luce. 
E poi, aveva promesso a se stesso che il passato sarebbe rimasto nel passato. Punto. Non sarebbe più tornato a fargli visita. 
«Ascolta…» Stava già per troncare quella mezza chiacchierata lì, quando Tooru lo interruppe di nuovo. 
«Conosci Seb’s? E’ un ristorante italiano che hanno aperto da poco, ti va di venire?»
Certo che Hajime conosceva quel ristorante, Tomoko non aveva fatto altro che ripetergli che i proprietari erano delle persone gentilissime e che, lì, il cibo richiamava veramente quello italiano, a detta di sua madre. Forse era anche per questo che si faceva pagare, e Hajime sapeva che con il suo stipendio sarebbe riuscito a mangiare in quel posto solo a ottant’anni. 
«Allora, accetti?» Oikawa lo guardava con fare affabile, giusto con un po’ di malizia, facendo vece del famoso detto secondo cui per conquistare un uomo si deve prima passare per il suo stomaco. 
Ma non era tanto quello a far gola – in tutti i sensi – ad Hajime. Anzi, a dirla tutta, era abbastanza lucido per poter rifiutare l’invito. 
Fu qualcosa a spingerlo: per lui, si trattò solo della sua quasi mortale curiosità, ma altri avrebbero detto che il destino stava già cominciando a posizionare i pezzi del suo gioco.





Si pentì di aver accettato l’invito non appena si ritrovò davanti il ristorante, la porta a vetri e laccata di nero, un cameriere all’entrata che si apprestò subito a servirli, controllando se c’era qualche tavolo libero per loro. 
Hajime si guardò intorno, storcendo il naso: troppo sfarzo per i suoi gusti, e la gente seduta ai tavoli non era di certo vestita con impermeabili e scarpe da ginnastica, sembravano tutte persone di un certo lusso. 
Non che a lui importasse chissà che cosa, e si stupì di vedere che per Oikawa era lo stesso, quest’ultimo che scherzava con il cameriere. Probabilmente lo conosceva. 
Vennero guidati dentro la sala, decisamente più accogliente dell’entrata, e il giornalista fu sorpreso di trovare non una, ma almeno una ventina di fotografie appese alle pareti. Si sedettero al tavolo che, a detta del cameriere, era il preferito di Oikawa, l’enorme vetrata sulla destra, la parete alle spalle del setter, e su questa vi era appesa una foto del tempio greco d’Agrigento. Erano tutte fotografie che rappresentavano diversi monumenti italiani, e Hajime cercò di individuarne il più possibile da lontano. Alcuni li conosceva, altri, come quella che aveva di fronte, un po’ meno. 
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto!» Tornò a focalizzarsi sulla persona che gli stava seduta davanti, producendo solo qualche borbottio in risposta a quanto detto dal setter. 
Benché Oikawa gli avesse detto di ordinare tutto quello che riuscisse a mangiare, non si lasciò andare troppo – certo, poteva fargli pagare un occhio della testa, ma non voleva seriamente essere così meschino. Rimasero in silenzio per la maggior parte del tempo, Hajime si era limitato a chiedergli se fosse già venuto in quel posto, domanda dalla risposta piuttosto ovvia, e poi al tavolo calò il mutismo. 
Fu mentre stavano mangiando i primi, cercando di usare nella maniera più corretta possibile le posate, che Oikawa sbottò: «Sei sposato, per caso?»
Il giovane alzò lo sguardo dal piatto, posando poi la forchetta con un rumore sordo. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la situazione. «Se vuoi parlare con me, vedi di essere meno diretto con le domande!»
«Ho capito, sei divorziato allora…» mormorò, mettendo in bocca un ennesimo boccone del suo piatto. 
Hajime avvertì il sangue ribollirgli nelle vene, scorreva come un fiume in piena, ed era tentato di strattonare quel bamboccio da quattro soldi per la collottola.
Prese un bel respiro, contando fino a dieci, dopodiché strisciò la sedia all’indietro, con l’intenzione di alzarsi e andarsene. «Va bene… Abbiamo finito qua!» disse. 
Per la seconda volta, avvertì qualcosa che gravava sulla manica del suo maglioncino, e girandosi poté vedere Tooru che lo fissava, sinceramente mortificato. 
«Okay, scusami. Volevo solo sapere qualcosa in più su di te…»
Il giornalista si rimise comodo sulla sedia, tornando al suo posto, serio, mentre le labbra dell’altro si incresparono in un piccolo sorriso. 
«Puoi farmi le domande che vuoi… ma non ti assicuro che risponderò a tutte» gli intimò, e Oikawa annuì vigorosamente, continuando a sorridere. 
Ci fu solo un attimo di silenzio, prima che tornasse di nuovo alla carica: «Non ti ho chiesto che cosa ci facessi lì…»
A questa, si disse Hajime, poteva rispondere. «Sono un appassionato di fotografia» Il castano lo fissò come se aspettasse che continuasse a parlare. Sospirò. «E mi piace molto la Bolivia.»
«Uh, questa sì che è una bella sorpresa, Iwa-chan!» esclamò l’altro. 
Ci mise un po’ per elaborare quanto aveva appena detto l’altro, e l’immagine di quel bambino con il grembiulino celeste si sostituì a quella che aveva davanti, e adesso Oikawa di anni ne aveva cinque, un batuffolo dentro una narice e la sua manina si agitava verso l’alto. 
Ci vediamo domani, Iwa-chan!
«Non chiamarmi così…»
«Così come?» Oikawa parve cadere dalle nuvole. 
«Non storpiare il mio cognome con quello stupido suffisso… L’hai fatto anche con Tomoko-san, ed è una cosa che mi manda sui nervi!»
«Oh» Si sporse in avanti. «Perché, sei geloso di lei?»
Iwaizumi avvampò leggermente. «Io e lei siamo solo colleghi, non è questo il punto. Mi da solo fastidio che si usi quel nomignolo, tutto qua!»
«Un giapponese che non usa il “chan”, questa mi è nuova!» esclamò, lasciandosi andare a una risata sprezzante. La vena del collo di Hajime cominciò a pulsare irrefrenabilmente. «Mi spiace deluderti, Iwa-chan, ma mi viene spontaneo chiamarti così!»
«Beh, vedi di farti passare questa abitudine!»
«Iwa-chaaan ~!» cantilenò. Era più probabile che così facendo, Oikawa si sarebbe fatto un nuovo nemico, più che un amico! Eppure non poteva farci niente, gli piaceva stuzzicare quel ragazzo: era l’unico che non rispondeva alle sue provocazioni con risatine civettuole, e finora solo i suoi compagni di squadra gli avevano risposto a tono. Non gli era mai capitato con una persona quasi sconosciuta. 
«Dacci un taglio, Shittykawa!»
Il setter spalancò le iridi scure, fissando Hajime come se l’avesse appena sentito parlare in marziano, quest’ultimo che mangiava come se nulla fosse, come se non avesse detto nulla di che. «Come mi hai chiamato?»
«Oh, ti sei offeso?» Stavolta fu il turno del giornalista di sporgersi in avanti, i gomiti sul tavolo e un mezzo sorriso sulle labbra. «Immagino che nessuno ti avesse mai chiamato così, di solito usano nomignoli tipo: “Il grande Oikawa Tooru”, o “La rivelazione della pallavolo” e altre stronzate varie!»
«Mi stai prendendo in giro, Iwa-chan?» disse, retoricamente, posando il mento sul palmo aperto. 
«No, Shittykawa, è solo una tua impressione!» rispose l’altro, sarcastico. 
«Smettila di chiamarmi così!»
«Solo se tu la smetti di chiamarmi col “chan”!»
«Scordatelo!»
«Allora sarai costretto a doverti sorbire questo nuovo soprannome!»
Erano faccia a faccia, in un confronto che non pareva avere alcun vincitore, e per Hajime fu qualcosa di assolutamente nuovo, perché non gli era mai capitato di discutere animatamente con qualcuno senza che non volasse qualche schiaffo o qualche pugno. E dire che proprio Oikawa Tooru se lo meritava qualche schiaffetto sulla testa, secondo Hajime era stato picchiato poco nella sua vita. 
Il setter, alla fine, scostò lo sguardo verso il basso, ma solo perché non riuscì veramente a trattenere la risata che aveva bloccata in gola da un po’. «Hai davvero una faccia buffa, lo sai Iwa-chan?»
Una parte di Hajime gli disse che era quello il momento per mollare un pugno in testa al giovane, o – per essere più gentili – di versargli il contenuto del piatto sui capelli castani. Un’altra parte, però, che si fece strada con prepotenza, gli disse di non fare niente. 
Rimase a fissarlo, mentre quello tornava a puntare gli occhi su di lui, e per la prima volta provò una strana sensazione: era stato praticamente provocato, stuzzicato, ma c’era qualcosa di diverso rispetto alle altre volte, quasi come se gli fosse seriamente piaciuto essere trattato così da un’idiota come quello. 
Scosse appena il capo, evitando quelle iridi color cioccolato e tornando a concentrarsi sul piatto.





Il pranzo si rilevò piacevole, tutto sommato.
Oikawa si era limitato a chiedergli che liceo avesse frequentato, e Hajime gli rispose che aveva frequentato una scuola di poco conto, con una squadra di pallavolo che non brillava per chissà quali doti, e Oikawa del resto non ne aveva mai sentito parlare. 
Lui gli parlò della sua squadra all’Aoba Johsai e di come, poi, avesse ottenuto la nomina di alzatore titolare della Delegazione mentre ancora frequentava l’università. Hajime non si espose troppo riguardo quel punto, decidendo di raccontargli solo lo stretto necessario su come avesse ottenuto il suo attuale lavoro, e ringraziando il cielo che Oikawa non avesse fatto ulteriori domande. 
Lo aspettò fuori mentre pagava il conto, i piedi sul gradino, lanciando qualche occhiata annoiata ai passanti di tanto in tanto. Mordicchiò la zip del suo impermeabile, spostando lo sguardo di lato quando Oikawa aprì la porta del locale. 
«Cavolo se fa freddo!» disse, sistemandosi di nuovo gli occhiali sul naso che, durante tutto il pranzo, aveva tenuto dentro la tasca della giacca. 
Hajime annuì distrattamente, scendendo dal gradino. «Bene, allora io vado.»
«Dove hai la macchina?» 
Tutta quella gentilezza da parte del setter stava cominciando a dargli fastidio, e sperava che quella fosse la prima e l’ultima volta che uscisse con lui. «Vado con la metro.»
Oikawa annuì, facendo poi cenno a un taxi di avvicinarsi. Iwaizumi credeva fosse per lui, gli aveva accennato che gli allenamenti per quel sabato sarebbero stati solo nel pomeriggio, e invece fece cenno a lui di entrare dentro l’abitacolo. Saettò lo sguardo dal sorriso sfacciato di Oikawa, alla portiera gialla aperta. 
«No, mi hai già pagato il pranzo» disse, scuotendo le mani come a rifiutare l’invito. 
«Oh, tranquillo, la prossima volta offri tu!» disse, dando un’abbondante mancia al taxista, che non evitò di esprimere la sua sorpresa. 
Hajime alzò una sopracciglio. «La prossima volta? Chi ti dice che io voglia rivederti?» E, in effetti, non era nei piani del giovane uscire di nuovo con lui. Era convinto che quel pranzo gli fosse bastato. 
«Ci rivedremo, fidati!» disse, senza smettere di sorridere. «Ti sentirai in colpa per il pranzo e ti sentirai in dovere di ricambiare.»
«Sinceramente? Non me ne frega niente, per me puoi pure nuotarci nel tuo denaro!»
E, detto questo, Hajime salì in macchina, non prima di sentire Oikawa che urlava qualcosa del tipo: «Nessuno sfugge a Oikawa Tooru!», a cui rispose con un bel dito medio alzato in direzione del ragazzo. 
Il castano non ebbe il tempo di protestare per i modi fin troppo rudi del giornalista, ma in fondo si ritrovò a sorridere in direzione della macchina che sfrecciava via: Iwa-chan non era cambiato per niente, era rimasto lo stesso ragazzino di cinque anni che aveva tentato di medicarlo. E mentre saliva su un altro taxi, Oikawa sperò che Iwa-chan lo richiamasse veramente.
Qualcuno stava già cominciando a giocare, e i pezzi si erano già mossi. Ma questo, né lui né Iwaizumi potevano saperlo.




 
[It’s getting stupid, cause I shoulda known but I forgot
That you think we’re something that we’re not]





 
Delucidazioni:
SONO VIVA! *resuscita come Mushu*
Chiedo scusa per la mia assenza (ma tanto nessuno segue sta storia…), ma nell’ultimo periodo sono stata impegnata con l’università, giorno venti devo dare un esame, sigh! T^T
Pensavate seriamente che sti due non si sarebbero rincontrati? AH!
Ho sparso un po’ di riferimenti qua e là, a cominciare dalle foto sulla Bolivia: prende spunto da un doujinshi della Somma Gusari (questa qui), e vi consiglio caldamente di andare a cercare qualche immagine della Bolivia su Internet, perché sono veramente meravigliose! *^*
Per quanto riguarda il nome del ristorante, prende spunto dal film La La Land, ah ah, alcuni di voi l’avevano notato immagino, vero? *la menano*
Mentre il tempio di Agrigento è questo qui, scusate, ma sono della Sicilia e mi sentivo il dovere di valorizzare questo monumento, sorry :’)
La citazione è tratta da Something that we’re not di Demi Lovato; mi ha aiutato durante la stesura.
Altro da dire? Non mi sembra lol
Ringrazio chi sta seguendo questa storia e chi è stato disposto a lasciarmi un’opinione. Tenderò a rispondere quando aggiornerò, se il tempo me lo permette… *il manuale la risucchia*
Ci si vede alla prossima allora! Pensate che Hajime ricambierà alla fine? ;)
*la lanciano in aria*
_Lady di inchiostro_


P.S: Per avere ulteriori aggiornamenti, o se vi interessa sapere qualcosa sulla mia patetica vita potete andare sull’uccellino che cinguetta!
 

 
  
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