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Autore: M a i    15/04/2017    1 recensioni
"La mediocrità degli uomini è preoccupante, a volte. Lo sguardo languido con cui mi fissava da mezz'ora il barista era un motivo sufficiente per sostenere un concetto simile. Deglutii a forza la vodka, disgustata, non sapevo nemmeno io se per il maledetto bruciore che mi lasciò il liquido al suo passaggio insieme al suo sapore o per il comportamento dell'uomo dietro al banco. Non avevo mai amato gli alcolici, né avevo mai frequentato i pub. Erano due cose che semplicemente disprezzavo. Insieme alle persone in generale, per intenderci. Per questo non mi spiegavo neppure perché intraprendessi relazioni con uomini che nel giro di una settimana mi risultavano rivoltanti e privi di spessore. La mia coerenza faceva schifo quanto quel barista, pensai, bevendo un altro sorso. "
Questa è la storia di un'infanzia distrutta e di un presente tormentato. Perché alcune cose si abbattono come un uragano sulla tua vita e lasciano cicatrici che non se ne vanno più.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Qualche avvertimento prima della lettura: vi accorgerete che non ci sono coordinate spaziali, e ciò è voluto. Non ho pensato a un luogo dove ambientare la storia per il semplice fatto che è del tutto irrilevante; vi accorgerete anche che la protagonista non è descritta fisicamente e che gli altri personaggi sono poco tratteggiati, sono tutte mancanze volute. Sappiate comunque che questa cosa è colpa del mio professore di filosofia, Hobbes e del mondo di merda in cui viviamo.
 
 
 
 
Quello che la piccola Lottie sapeva
 
La mediocrità degli uomini è preoccupante, a volte. Lo sguardo languido con cui mi fissava da mezz'ora il barista era un motivo sufficiente per sostenere un concetto simile. Deglutii a forza la vodka, disgustata, non sapevo nemmeno io se per il maledetto bruciore che mi lasciò il liquido al suo passaggio insieme al suo sapore o per il comportamento dell'uomo dietro al banco. Non avevo mai amato gli alcolici, né avevo mai frequentato i pub. Erano due cose che semplicemente disprezzavo. Insieme alle persone in generale, per intenderci. Per questo non mi spiegavo neppure perché intraprendessi relazioni con uomini che nel giro di una settimana mi risultavano rivoltanti e privi di spessore. La mia coerenza faceva schifo quanto quel barista, pensai, bevendo un altro sorso.

- Ciao - Mi voltai lentamente con il bicchiere sospeso, verso il mio indesiderato interlocutore, un uomo che secondo gli standard del genere femminile sarebbe rientrato almeno nella fascia del ‘niente male’. Lo soppesai, critica, per qualche secondo, poi feci segno al barista di riempirmi ancora il bicchiere e lo ignorai. L’uomo continuò, imperterrito, a mantenere il bel sorriso, che si era stampato in faccia quando si era avvicinato, nonostante l'evidente indifferenza che ostentavo.
- Vuoi che ti offra qualcosa? - tentò gentilmente. Avevo una voce rauca, di certo finta e resa tale per sembrare più affascinante. Quanto erano prevedibili gli uomini.
- Le sembra che io voglia che qualcuno mi offra qualcosa? - gli chiesi, secca, lanciandogli una breve occhiata. Lo lasciai interdetto e il suo bel sorriso preconfezionato vacillò.
- Beh, una bella ragazza come lei, da sola, a un bancone ... –
- Senta, si risparmi queste stronzate, arrivederci. - lo gelai, immediatamente.
 
Mi alzai e lo lasciai lì da solo, dirigendomi all'uscita di quel pub da quattro soldi. Quando la porta si richiuse alle spalle, precludendomi il tepore che c’era nel pub, fui investita in pieno da un’ondata di freddo che mi fece rabbrividire: dicembre era un mese che avrei tranquillamente cancellato dal calendario. Soprattutto il Natale e le varie feste annesse. Non che non ci avessi provato a farmelo piacere, ma il resto del mondo sembrava che si fosse coalizzato contro di me proprio con il fine di farmelo odiare: a partire da quelle canzoni banali e ripetitive che qualcuno dal gusto veramente sadico si divertiva a trasmettere alla radio ogni dieci minuti all'allegria forzata e al buonismo finto e patetico della gente per poi passare a tutte quelle luci inutili che sprecavano più energia di quanto ne sprecasse un intero isolato. Il Natale doveva averlo inventato sicuramente qualcuno per costringere noi uomini a essere buoni almeno una volta all'anno: doveva aver pensato che non potevamo passare tutti i giorni della nostra vita a sputarci veleno addosso o qualche alieno uno di quei giorni, tratteggiando noi umani, avrebbe distrutto la nostra immagine di razza superiore davanti a tutte le altre specie aliene presenti nell'universo. La strada davanti al pub era deserta, erano quasi le otto di sera secondo il campanile e tutti dovevano essere a casa pronti per cenare. Mi incamminai lentamente, attenta a non scivolare sul leggero strato di ghiaccio che si era formato sul marciapiede, stringendomi nel cappotto pesante. Qualcuno che aveva ritardato nei negozi per le ultime compere si vedeva ancora, e una madre era ferma davanti a un negozio, ormai chiuso, intenta a riordinare le varie buste, la figlia che attendeva al suo fianco. Mi voltai a guardarle: la bambina stava parlando di Babbo Natale.
- Dici che la mia letterina gli è arrivata, mami? –
 - Ma certo, tesoro - rispose distrattamente la donna, troppo presa dai pacchetti.
 - Ma ne sei sicura?-
 - Certo che sì, ti dico. Babbo Natale riceve sempre tutte le lettere dei bambini, non è vero? - aggiunse poi rivolgendosi a me, vedendomi lì ferma che ascoltavo. Trascorse qualche istante in cui la donna mi fissò con un sorriso incoraggiante e la bambina mi guardò perplessa, poi dissi:

- Babbo Natale, non penso proprio, ma di sicuro tua madre l’ha letta e ha provveduto a comprarti ciò che hai chiesto. - La bambina spalancò la bocca e si mise a tirare con insistenza il braccio della madre, chiamandola, mentre la donna mi guardò malissimo, evidentemente indignata. Me ne andai, con lo sguardo arrabbiato della donna incollato alla schiena. Avevo rovinato una parte dell'infanzia di sua figlia: meglio così. Non ero cinica, non fraintendetemi, o forse sì, non lo so, non importa. Solo non avevo mai condiviso l’idea spalleggiata da praticamente tutti gli adulti che riempire di tante frottole e castelli campati in aria i bambini sia un ottimo metodo educativo.  Mi sedetti su una panchina ghiacciata nel parco giochi del paese.  Dare loro una visione del mondo quanto mai lontana dalla realtà non aveva niente di intelligente, né valeva la pena farlo per difenderli.  Qualsiasi bolla si possa creare intorno al proprio figlio non fermerà la crudeltà della vita che scorre al di fuori di essa. Per una frazione di secondo mi sembrò di vedere il volto sorridente di mia madre. Chiusi con uno scatto gli occhi e li riaprì subito per cacciare quell’immagine, come se fosse una mosca molesta. Fissai i giochi del parco immerso nell’oscurità e mi parve allora di sentire una risata infantile. La mia. Mi alzai in piedi velocemente e rimasi così ad ansimare nel gelo. Socchiusi le palpebre nel tentativo di rilassarmi e calmare il respiro. No, pensai, il male filtra dappertutto e i bambini lo percepiscono meglio dei grandi.  A quel punto persi un battito quando udii chiara e forte la voce di mia madre.
- Carlotta, non ti spingere troppo in alto ! – . Mi guardai intorno con ansia, gli occhi attenti che vagavano attentamente su tutto il parco. Sapevo bene perché quel luogo mi facesse quell’effetto, eppure ogni volta ci tornavo come attirata da una calamità, un’attrazione quanto mai malsana. Mi tremarono le gambe quando la voce dolce di mia madre, da un punto non precisato, parlò di nuovo: - Andiamo a casa, Lottie -. Sembrava provenire da ogni angolo di quel luogo e quasi credetti di vedere mia madre con il suo maglione rosso, quello caldo e morbido, che allacciava i bottoni del mio cappottino e prendeva per mano la versione bambina di me.  Scappai via. Cercai di non farla sembrare una fuga, ma camminai talmente velocemente che quando arrivai al portone di casa avevo il fiatone.  Girai la chiave nella serratura della porta con le mani mal ferme. Quando riuscì ad aprirla, me la richiusi con un tonfo alle spalle e mi ci accasciai contro. Il mio piccolo salotto era completamente silenzioso, non c’era alcun albero o presepe. La piccola Lottie, invece, ogni anno aveva sempre la casa addobbata, nell’enorme salotto un gigantesco albero di Natale faceva bella mostra di sé. Anche l’anno di quell’uscita eravamo tornate a casa e l’albero illuminato campeggiava in salotto, ma c’era anche lui. Scorsi la sua ombra nel buio del salotto e d’istinto affondai la testa fra le gambe nel tentativo di nascondermi. Tremai. Allo stesso modo di quel giorno. - Vai in camera tua, Lottie - mi disse la sua voce. Feci finta di andarci, lui aveva quello sguardo. Quando aveva quello sguardo non voleva dire niente di buono e non volevo lasciarlo con mia madre da solo. Mi dondolai avanti indietro, stringendo forte gli occhi, io ero forte. Ero forte. Fui la stessa cosa che mi dissi quel giorno quando rintanata dietro il divano sentii le solite urla, forti, molto più forti di me.  Mi dondolai più velocemente, respirando a fatica. Se avessi alzato lo sguardo, lui sarebbe stato lì con quel martello in mano. Quel martello che scagliò una, due, tre, dieci volte, sul cranio di mia madre. Il rumore del mio cuore che batteva era assordante. Sollevai il capo e urlai, urlai come facevo da quando avevo cinque anni, ogni Natale da quel maledetto giorno.  E come ogni anno, lo vidi lì, insanguinato, negli occhi la follia, mi guardò e come sempre disse: - Va tutto bene, Lottie, non devi urlare.-  Nessuno mi ha più chiamato Lottie da quel momento, non ho più permesso che qualcuno lo facesse. Sentì le lacrime bagnarmi il viso, nel mio sguardo vacuo mia madre era ancora a terra in una pozza di sangue rossa come il suo maglione profumato. Odiavo il Natale, odiavo la falsità degli adulti: l’uomo è meschino, lo è per natura e  niente può celare questo né il Natale, né i castelli delle fate, e non si può nasconderlo di certo ai bambini. La piccola Lottie lo sapeva bene.
   
 
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