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Autore: LatersBaby_Mery    17/04/2017    14 recensioni
Dopo aver letto numerose volte gli ultimi capitoli di “Cinquanta sfumature di Rosso” ho provato ad immaginare: se dopo la notizia della gravidanza fosse Christian e non Ana a finire in ospedale? Se in qualche modo fosse proprio il loro Puntino a “salvarlo”?
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anastasia Steele, Christian Grey, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 59.

POV ANASTASIA


Nella vita capita spesso di vivere dei momenti in cui una persona si sente estromessa dal proprio corpo, come se, da spettatore silenzioso, stesse guardando la propria vita scorrere. Sono quei momenti in cui si perde la concezione della realtà, e tante volte si spera che sia tutto un incubo, che all’improvviso la sveglia suoni e ci si ritrovi nel proprio letto, con la fronte imperlata di sudore tra l’angoscia nel ricordare quel brutto sogno e il sollievo nel rendersi conto che è finito, e va tutto bene.
Io in questo preciso istante mi sento esattamente così: vorrei che fosse solo un incubo, che il suono stridulo della sveglia mi ridestasse dal sonno, facendomi aprire gli occhi e sorridere guardando Christian che dorme avviluppato a me, come se temesse sempre che scappassi via.
Invece più passano i secondi e più mi rendo conto che è tutto maledettamente reale.
È reale l’istinto che ho in questo momento di sprofondare, scappare via, lasciarmi inghiottire da una qualche voragine, ma sono completamente attonita, immobile, incapace di muovermi, parlare, formulare pensieri coerenti.
È reale Christian che, in un misto tra incredulità, panico e rimpianto, ascolta attentamente ogni singola sillaba che esce dalla bocca di Shirley, cercando di capire, metabolizzare, domandare, dare una logica a tutta questa storia assurda.
E, infine, quello che fa più male, è reale Shirley, quella foto che tiene tra le mani, la sua voce incrinata e quasi colpevole, mentre racconta e risponde alle domande di Christian. Sono reali le parole che pronuncia, ognuna delle quali rende sempre più profonda la crepa sul mio cuore.
“Sapevi già di essere incinta quando abbiamo chiuso?”
“No. Pochi giorni dopo aver rescisso il contratto ho fatto il test di gravidanza. La ginecologa mi disse che probabilmente l’effetto dell’iniezione era finito prima..”
“Perché?” dice Christian in tono rabbioso “Perché non mi hai detto niente??”
Shirley abbassa lo sguardo. “Ho.. ho avuto bisogno di qualche giorno per pensare.. da sola.. E mi sono resa conto che nonostante tutte le difficoltà io quel bambino lo volevo..”
Christian si alza, camminando su e giù per il salone, passandosi nervosamente una mano sul viso.
“E non ti è mai passato per la mente di dirmelo??”
“E tu cos’avresti fatto, eh?” si altera Shirley “Tu non volevi un figlio, Christian. Come minimo mi avresti accusata di essere rimasta incinta apposta solo per avere i tuoi soldi.. Oppure avresti deciso di assumerti le tue responsabilità con un cospicuo assegnino a fine mese.. Ma io non volevo quello, non sono mai stata interessata ai tuoi soldi.. Per crescere un figlio ci vuole l’unica cosa che tu non saresti mai stato in grado di darmi: l’amore”
Lancia uno sguardo verso di me. Ed io fisso il vuoto, ripetendo nella mia mente quella parola: amore. Quel sentimento che Christian mi regala con devozione da quasi sei anni, quel sentimento grazie al quale sono nati i nostri bambini. Perché i nostri figli sono frutto dell’amore, quello più profondo, più forte, più sincero, non di qualche ora di sesso nella Stanza Rossa.
E il pensiero che dalla loro unione sia nato lo stesso frutto che è nato dalla nostra mi provoca paura e quasi.. ribrezzo. È egoistico, lo so, e mi vergogno dei miei stessi pensieri, ma quel bambino non sarà mai come Teddy e Phoebe, non può esserlo.
“Era mio diritto sapere..” replica Christian, a voce più bassa ma più risentita.
“L’avresti odiato, Christian, e avresti odiato me.. Per te sarebbe stato solo.. un incidente, un impreviso, mentre per me quel bambino era già tutto il mio mondo..”
Mi ritornano alla mente stralci di quella conversazione di quella sera di cinque anni e mezzo fa, quando comunicai a Christian di essere incinta di Teddy.

Ecco perché. Ecco perché mi piace avere il controllo. Così le stronzate come questa non mandano tutto a puttane.

A quell’appellativo il mio cuore si era spaccato in due. Non riuscivo a credere che potesse definire “stronzata” nostro figlio, quella minuscola vita che cresceva dentro di me. Quella sera avevo letto nei suoi occhi un sentimento più profondo, nascosto sotto la sua reazione dura e rabbiosa: la paura. Paura di non essere un buon padre, paura di dovermi dividere con un’altra persona che sarebbe inevitabilmente diventata il centro del mio mondo, paura di non riuscire ad amare suo figlio come meritava.
L’incidente gli fece cambiare radicalmente la visione delle cose, e Christian giorno dopo giorno si è innamorato sempre di più della mia pancia che cresceva, del cuore di nostro figlio che batteva, dei suoi movimenti dentro di me, e quando è nato Teddy è stato completamente rapito da lui, dal suo amore, dalla sua dolcezza.
Ma io ero sicura che anche senza l’incidente si sarebbe reso conto che nonostante tutto un figlio è la cosa più bella che ti possa capitare nella vita.
La mia convinzione era dettata dal fatto che sapevo quanto Christian mi amasse e sapevo che, in un futuro magari più lontano, voleva una famiglia con me.
Shirley, invece, otto anni fa, ha deciso di tenergli nascosta la gravidanza, perché sapeva che nel loro rapporto non c’era amore, che è l’elemento più importante per crescere un figlio.
Ma se invece Shirley avesse preso una decisione diversa? Se avesse voluto rischiare e dirgli tutto??
Sì, forse Christian avrebbe urlato, tirato pugni nel muro, fatto a pezzi lo studio di Flynn… Però poi magari si sarebbe calmato, avrebbe pensato a mente lucida. Sicuramente si sarebbe assunto tutte le responsabilità sotto il punto di vista economico… e poi, chissà, forse con il passare dei mesi si sarebbe affezionato a quella pancia che cresceva e, forse, una volta nato il bambino, l’avrebbe guardato con quegli stessi occhi che aveva quando sono nati Teddy e Phoebe, colmi di emozione, felicità e amore.
Chiudo gli occhi, ricacciando indietro le lacrime, e mi stringo le braccia intorno al corpo, come a proteggermi da quei pensieri che mi soffocano mente e cuore.
“Perché adesso? Perché?” tuona la voce di Christian.
Shirley abbassa lo sguardo, torturandosi le mani in grembo, visibilmente a disagio.
Christian, spazientito dal suo silenzio, sbatte violentemente i palmi sul tavolino, ponendosi a pochi centimetri da lei.
“Che cosa vuoi da me? Soldi?”
Shirley alza di colpo la testa, puntando negli occhi di Christian uno sguardo di fuoco.
“Ti ho detto che non li voglio i tuoi soldi” dice in tono lento ma molto deciso “Se quello fosse stato il mio unico obiettivo, ti avrei detto la verità otto anni fa..”
“E allora perché sei qui? Dopo tutto questo tempo…”
Shirley chiude per un istante gli occhi, prendendo un profondo respiro.
“Quando Ben aveva quattro anni, mi sono fidanzata con un uomo, Jamie, che tutt’ora è il mio compagno. Vive con noi e ama Ben come se fosse suo figlio, ma Ben sa che lui non è suo padre.. Fino a qualche tempo fa la cosa non gli ha mai creato problemi, lui vuole bene a Jamie ed è felice, però nonostante ciò, da qualche mese ha cominciato a chiedere del suo papà, del perché lui non lo abbia mai visto.. e del fatto che vorrebbe tanto conoscerlo..”
Christian sospira, e si strofina nervosamente le mani sul viso. Poi rivolge posa gli occhi su di me, e in quello sguardo ferito leggo quasi una richiesta di aiuto. Un aiuto che io non posso dargli, perché il mio mondo si è fermato, congelato. Mi sento come in una dimensione parallela.
Christian cammina avanti e indietro, per poi rivolgersi nuovamente a Shirley.
“E tu per un capriccio di un bambino di sette anni vieni qui a stravolgere la mia vita??” domanda incredulo.
“Voler conoscere il proprio padre ti sembra un capriccio??”
Christian ride amaramente, scuotendo la testa.
“E quando otto anni fa hai deciso di tenermi nascosto tutto, non hai pensato che un giorno tuo figlio avrebbe voluto conoscere suo padre?”
“Ti ho già detto perché non ho voluto dirti la verità..”
“Allora se davvero ritenevi che io non avessi il diritto di conoscere la verità, perché non sarei mai stato in grado di amare tuo figlio, allora dovevi restare coerente!” ringhia Christian, frustrato e furioso “Avresti dovuto continuare a tenermi all’oscuro di tutto, e portarti questo segreto nella tomba! Perché tu non hai nessun diritto di fare quello che ti pare e giocare con la vita delle persone! Io sono sposato, ho due bambini, ti rendi conto quante persone ci vanno di mezzo in tutta questa storia??”
Mio marito respira affannosamente, come se avesse corso per chilometri. Il suo petto si alza e abbassa velocemente, mentre i suoi occhi si fanno lucidi e le gote rosse.
“Hai ragione. So di aver sbagliato. Mi sono arrogata il diritto di decidere per mio figlio, per te, e anche per la tua famiglia..” solleva su di me uno sguardo colpevole, quasi come se volesse scusarsi per lo tsunami che sta creando. “Credimi la decisione di presentarmi qui non è maturata dall’oggi al domani. Ci ho pensato a lungo, e se oggi sono qui è perché ho capito di aver sbagliato, nei tuoi confronti ma soprattutto nei confronti di mio figlio. Non posso negargli la possibilità di conoscere suo padre.
Ma la decisione finale spetta a te. Ho letto da qualche parte che hai due figli e.. ho capito che sei cambiato rispetto ad alcuni anni fa..”
Mi alzo, incapace di restare ancora lì seduta ad ascoltare oltre.
“Mamma..”
La voce di Teddy ci fa voltare di scatto. Il mio bambino è sulla porta ad arco del salone, con gli occhi ancora gonfi di sonno.
“Amore mio” mi avvicino a lui e, quasi grata per avermi salvata da quello scenario assurdo, lo prendo in braccio e lo stringo forte. “Ti va di andare a fare la doccia e mettere il pigiamino??”
Teddy annuisce, appoggiando la testa sulla mia spalla. Lancio un’ultima occhiata a Christian e Shirley, dopodiché esco dal salone e imbocco le scale.
“Chi è quella signora?” domanda mio figlio mentre lo spoglio.
“Una signora che lavora con papà, stanno parlando di lavoro..” rispondo, cercando di usare un tono più rilassato e disinvolto possibile.
Dopo aver fatto la doccia a Teddy ed essermi beccata i soliti due o tre litri di schizzi, gli infilo il morbido accappatoio di spugna e mi chino per asciugarlo.
“Sei triste mamma??” chiede ad un tratto Teddy, spiazzandomi.
A volte non ci rendiamo conto di quanto i bambini siano sensibili e si rendano conto di ogni minimo cambiamento d’umore che li circonda. Teddy sotto questo punto di vista ha sempre avuto una marcia in più. È dolce, sensibile, con un grande cuore e un grande spirito di osservazione, nonostante non abbia ancora neanche cinque anni. Mi siedo sullo sgabello bianco e lo faccio sedere sulle mie gambe.
“No cucciolo, non sono triste.. Sono solo un po’ stanca..”
“Hai la febbre??”
Sorrido e scuoto la testa. “No amore tranquillo, mi è passata.. E se mi abbracci mi sento subito meglio..”
Teddy mi mostra il suo meraviglioso sorriso e cinge il mio collo con le braccia. Lo stringo a mia volta e annuso il suo profumo di bimbo e di pulito, cercando di non lasciarmi sopraffare dalle emozioni.
Un tocco alla porta ci fa staccare.
“Posso entrare??” chiede la voce di Christian.
“Entra”
La porta si apre e vedo apparire mio marito con i lineamenti duri e tesi. Posa lo sguardo su di me, ma non scocca quella scintilla, quel calore, quell’intesa che si sprigiona ogni volta in cui i nostri occhi si incontrano. Questa volta credo che l’azzurro dei miei occhi non sia il mare o il cielo che Christian tanto ama, ma un azzurro ghiaccio, freddo, distante.
Vederlo entrare ha fatto crollare su di me tutto il peso di quella rivelazione e di quella conversazione di poco fa, che per qualche minuto avevo accantonato, quasi come se avessi voluto relegarlo in un angolo della mente e fingere che non fosse successo nulla.
Ad interrompere quella fredda e muta comunicazione tra i nostri sguardi è la voce di nostro figlio.
“Papà giochiamo con le costruzioni?”
Christian gli accarezza i capelli e si sforza di sorridergli. “Comincia ad andare in salone, io ti raggiungo tra poco..”
Teddy ricambia il sorriso e sgattaiola correndo dal bagno per scendere in salone.
L’atmosfera diventa di colpo pesante, satura di tensione e di quella consapevolezza di essere praticamente prigionieri di un discorso che è impossibile evitare.
“Ana..” mormora Christian, sfiorandomi il polso mentre rimetto a posto il bagno.
Sospiro, sull’orlo delle lacrime. Non mi sento pronta ad affrontare tutto questo, ma al contempo so che non possiamo rimandare.
“Ti prego guardami..” mi supplica.
Mi volto verso di lui, e quello sguardo tormentato, sconvolto, esasperato e forse anche un po’ impaurito, ha la capacità di far sanguinare ulteriormente la ferita aperta sul mio cuore.
Prendo un respiro e mi sforzo di attivare le corde vocali.
“Shirley s-se n’è andata?” sibilo.
Christian chiude gli occhi e annuisce, strofinandosi le palpebre, come a voler ritrovare la lucidità.
“Mi ha lasciato il suo numero, le ho detto che ho bisogno di pensare..”
Pensare.
Come se stessimo parlando di acquistare una macchina o una villetta a schiera.
Annuisco, non sapendo se e come commentare.
Christian mi solleva dolcemente il mento, costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Ti prego di’ qualcosa” sussurra.
Il grigio delle sue iridi è pervaso dal tormento di un mare in tempesta, dalla totale incertezza di quale possa essere la mia reazione.
Ma qual è la mia reazione? Mi sento così frastornata, confusa e incredula che non riesco a mettere a fuoco i pensieri.
“Di’ qualcosa?” replico “Di’ qualcosa??” ripeto ancora, alzando la voce. “Nel giro di dieci minuti ho visto la mia vita completamente stravolta!! Cosa ti aspetti che ti dica??” mi volto, dandogli le spalle, serrando le labbra per reprimere un singhiozzo.
“Credi che io mi senta sereno e tranquillo invece?? Ana, è la nostra vita ad essere stata sconvolta da un momento all’altro, non solo la tua.. Secondo te io sto bene in questo momento??”
Appoggio le mani al mobiletto, abbassando la testa e prendendo lunghi respiri, e senza che neanche me ne renda conto, gli occhi cominciano a lacrimare. Sento ad un tratto un tocco delicato e quasi timoroso sulle mie spalle.
“Ana..” mormora Christian, in un tono che sa quasi di disperazione.
Mi volto di scatto, come se quel tocco avesse suscitato in me una sorta di scossa.
“Che cosa pretendi da me, Christian?” chiedo, quasi in un sussurro, con le guance umide, una voce impregnata di tristezza, amarezza, frustrazione, e stanchezza.
“Non lo so” risponde scuotendo la testa e posandosi le mani sui fianchi. “E’ solo che.. mi sento così.. perso, confuso, sconvolto..” sospira, facendo vagare lo sguardo un po’ ovunque tranne che su di me. “Non so che cosa fare..”
Se crede che io abbia un minimo di lucidità o di fermezza più di lui, ha proprio sbagliato. Non sono in grado di fare ordine nella mia mente, figuriamoci nella sua.
“E questo non posso dirtelo io, Christian..” faccio per uscire dal bagno, ma lui mi blocca con una presa decisa ma non possessiva sul mio braccio.
“Ana, per favore..”
Quella voce così profonda e supplichevole non fa altro che far scorrere nuove lacrime dai miei occhi.
Christian mi prende il viso tra le mani, passandomi i pollici sugli zigomi e costringendomi a guardarlo negli occhi. “Non ti chiudere così a riccio.. dobbiamo affrontarlo insieme quest’ostacolo..”
Prima che possa rispondere, la voce di nostra figlia mi chiama dalla cameretta.
“Arrivo subito amore!” esclamo a voce alta, dopodiché torno a guardare mio marito. “Io.. io non so se ce la faccio..” farfuglio, reprimendo un singhiozzo, per poi uscire dal bagno e dirigermi verso la cameretta dei bambini.
Per fortuna la luce è spenta, e ad illuminare la stanza è solo il bagliore del televisore che trasmette un episodio di Baby Looney Tones. Mi asciugo velocemente gli occhi e le guance e mi avvicino al lettino di Phoebe, sedendomi sul bordo.
“Cucciola” dico accarezzandole i capelli, e notando così che la fronte per fortuna non è calda “Come ti senti? Ti fa male la testa??”
Phoebe scuote la testa, stiracchiandosi.
“E la pancia??”
“Nono” risponde.
“Aaaah bene, allora posso farti un po’ di solletico!!” scosto la coperta e comincio a farle il solletico, e la sua risata infantile e gioiosa è un balsamo per la mia anima, in questo momento più che mai.
“Batta, battaaa!!” protesta la mia piccolina dimenandosi.
“Se mi dai un bacio fortissimo e un abbraccio fortissimo, la smetto”
Phoebe sorride e allunga le braccia verso di me, stringendomi forte e stampandomi un sonoro bacio sulla guancia. La stringo a mia volta e affondo il naso nel suo collo, respirando il suo profumo di bambina. Mi perdo nell’abbraccio di mia figlia e chiudo gli occhi per trattenere le lacrime. Mi sento così fragile in questo momento, senza appigli, senza certezze. L’unica sicurezza della mia vita adesso sono i miei bambini, ho bisogno più che mai di sentire il loro amore.
La serata, neanche a dirlo, scorre lenta, tesa e difficile. Christian ed io concentriamo le attenzioni principalmente sui bambini, cercando di mostrarci come al solito, per non far capire loro che c’è tensione, ma tra noi a stento ci rivolgiamo la parola, e quando lo facciamo comunichiamo a monosillabi, con sorrisi forzati e silenzi che vorrebbero urlare.
So che dovremmo parlare, affrontare insieme tutta questa situazione, ma in questo momento per me è praticamente impossibile intavolare questo discorso. Ho bisogno di un po’ di tempo, ho bisogno di capire, di riflettere, di fare ordine nella mia mente; senza tutto questo non posso essere lucida per parlare con Christian.
Dopo cena vorrei aiutare Gail a sparecchiare, ma dopo aver fatto rovesciare la bottiglia d’acqua e rotto due bicchieri, decido che è meglio lasciar perdere e mi siedo sul divano con i bambini a guardare un cartone animato, mentre Christian si dilegua nel suo ufficio.
Se lo conosco bene, sta sguinzagliando Welch e tutto il suo staff per ottenere quante più informazioni possibili su Shirley, per cercare di capirci qualcosa in tutta questa situazione assurda.
Phoebe e Teddy si accoccolano sul mio petto, e tenendo i miei bambini stretti a me riesco per un’oretta a rilassare i nervi, anche se solo in minima parte. Un’alta percentuale della mia attenzione è rivolta a Chrisitan, a cosa starà facendo, pensando, programmando. Ai suoi occhi persi, che solo Dio sa quanto mi abbiano ferito. Ma adesso non sono in grado di tirare lui su dal baratro, perché nel baratro ci sono anche io. E non so davvero cosa fare…
Dopo neanche un’ora i bambini cominciano a sbadigliare, così spengo il televisore e li porto nella loro cameretta, li metto a letto e poi scorro i titoli nella loro libreria per scegliere la favola da leggere stasera.
“Ma stasera tocca a papà” mi fa notare Teddy.
Da qualche mese Christian ed io abbiamo preso l’abitudine di alternarci per leggere la favola ai bimbi, una sera lui e una sera io, qualche volta anche insieme. Ieri sera era il mio turno, per cui adesso dovrebbe leggerla Christian; e ai nostri figli non sfugge nulla.
“Tesoro papà sta lavorando..”
“E non fa niente” ribatte il mio piccolo uomo.
“Dai mammaaa!!” si aggiunge Phoebe, mostrando il labbruccio e gli occhioni da cerbiatta.
Sospiro, consapevole che insistere sarebbe inutile, vincerebbero sempre loro.
“Vado a chiamare papà” dico, facendoli sorridere.
Scendo al piano inferiore e, arrivata fuori al nostro studio, tentenno un attimo prima di decidermi a bussare.
“Sì?” domanda Christian pacatamente.
Apro la porta e mio marito solleva subito lo sguardo dal monitor per puntarlo verso di me.
“Phoebe e Teddy vogliono che sia tu a raccontargli la favola stasera..”
Christian annuisce e si lascia andare contro lo schienale della sedia, massaggiandosi le palpebre degli occhi, stanchi per le troppe ore davanti al computer.
“Vado subito da loro..” spegne il pc, chiude le cartelline e si alza.
Mi allontano senza aspettare che raggiunga la porta e salgo di nuovo dai bambini.
“Papà sta salendo” dico con un sorriso.
Mi avvicino prima a Teddy e poi a Phoebe per rimboccargli le coperte e dargli il bacio della buonanotte.
“Allora, chi vuole sentire una bella favola stasera??” domanda Christian entrando in camera.
“Io ioooo!” urlano i bimbi.
Christian si avvicina alla libreria e scorre i vari titoli. Mi rende orgogliosa il fatto che i nostri figli amino comprare non sono i giocattoli, ma anche i libri. Certo, sono libri di favole, di principesse, di animali e di supereroi, i libri adatti alla loro età insomma, ma è sempre bellissimo vederli sfogliare le pagine, guardare le figure, incantarsi ad ascoltare me o Christian quando leggiamo. Mio marito, soprattutto, sa essere molto espressivo.
“Io.. vado a fare una doccia..” annuncio, torturandomi le mani.
“Va bene” risponde freddo Christian, scegliendo un libro e sedendosi sulla poltroncina.
Lancio un ultimo bacino ai bambini e poi mi sposto in camera da letto, prendo al volo un pigiama e la biancheria e mi chiudo in bagno. Finalmente, sotto il getto dell’acqua calda della doccia, do sfogo alle lacrime che finora ho dovuto trattenere.
Chiudo gli occhi e mi lascio scuotere dai singhiozzi mentre nella mia testa risuonano prepotenti le parole di Shirley e appare in tutto il suo straziante dolore lo sguardo perso, ferito e confuso di Christian.
Lo so, sono una codarda. Dovrei affrontarlo faccia a faccia e parlare insieme a lui di quello che ci sta succedendo, cercare di capire, magari discutere anche, ma non chiudermi in questo modo, ostentando freddezza e indifferenza.
Pur essendo consapevole dei miei errori, più rimugino su questa situazione e più al pensiero di parlarne a voce alta mi viene voglia di scappare, di urlare, di piangere, di pigiare un tasto da qualche parte e tornare indietro a prima che suonasse quel maledetto campanello.
Un figlio.
Il mio Christian ha un altro figlio.
Un figlio che non è nato dal nostro amore. Un figlio con un’altra donna. Un figlio del quale non ha mai saputo l’esistenza.
Per quanto io sappia bene che Christian ama da impazzire me e i nostri bambini, sono anche realista abbastanza da capire che questa notizia lo condizionerà parecchio, e avrà delle ripercussioni importanti anche sulla nostra famiglia. Come potranno reagire i bambini ad una cosa del genere? Sono così piccoli, così ingenui, come potremmo fargli accettare una nuova e assolutamente inattesa presenza nella loro vita?
 
Il giorno successivo, nonostante i postumi dell’influenza, mi reco a lavoro, in parte per non rimandare un paio di incontri importanti, e in parte per tenermi impegnata, perché so che se restassi a casa tutto il giorno impazzirei. In ufficio sono davvero un disastro, non so proprio come farei senza Elizabeth che, senza chiedere nulla, ha capito che c’è qualcosa che non va, e mi sta aiutando e supportando in qualsiasi modo.
Ho la testa completamente da un’altra parte, e in più questa notte ho dormito poco e male. Continuavo a fare sogni strani, a svegliarmi ogni mezz’ora, e una volta sveglia la mente si perdeva nei suoi labirinti, e riaddormentarmi era un’impresa.
Questa mattina, quando ho aperto gli occhi pochi minuti prima che la sveglia suonasse, mi sono accorta di essere tra le braccia di Christian, e mi è parso incredibile che, a prescindere dalle menti, i nostri corpi in qualche modo si cercano e si trovano sempre. Prima che lui potesse accorgersene, però, sono sgusciata via e sono scappata in bagno a prepararmi. È stata la seconda volta da quando siamo sposati che al nostro risveglio non ci siamo dati il buongiorno con un bacio. La prima è stata la mattina dopo la sua sfuriata quando gli avevo detto di essere incinta di Teddy.
Sembra passata un’eternità, ed io ho sempre sperato che mai più ci saremmo sentiti così distanti. Invece adesso mi sento anche peggio di allora. Perché cinque anni e mezzo fa si trattava di nostro figlio, di qualcosa che ci apparteneva, e sapevo che nonostante tutto Christian mi amava, quindi avremmo trovato il modo di uscirne. Adesso, invece, mi sento assolutamente impotente, perché si tratta di qualcosa che non dipende da me, che non posso controllare; e, sebbene sappia che non dipende neanche da Christian, perché mai avrebbe potuto immaginare un avvenimento simile, in qualche modo ce l’ho con lui, e questo mi fa sentire in colpa.
Un bussare deciso alla porta mi ridesta dai miei pensieri.
“Avanti!” esclamo, con la voce più ferma possibile.
La porta si apre e si materializza davanti ai miei occhi il principale oggetto dei miei pensieri.
“Christian..” mormoro “Cosa ci fai qui?”
Mio marito entra nel mio ufficio e si chiude la porta alle spalle.
“Visto che a casa non fai altro che evitarmi, ho pensato che l’unico modo per parlare con te fosse venire qui..” dice sedendosi sulla poltroncina davanti alla mia scrivania “Almeno qui non puoi fare scenate e cacciarmi via..”
Ha maledettamente ragione. A casa lo evito, perché non ho la forza di sostenere il suo sguardo e affrontare un discorso così importante, e credo che probabilmente non l’avrò mai. Sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, e lo spazio del mio ufficio comincia seriamente a starmi stretto, perché so di non avere via di fuga. Non posso dare spettacolo davanti ai miei dipendenti.
“Christian.. ti prego, sto lavorando.. E questo non mi sembra proprio il posto adatto..” cerco di farlo ragionare.
“E no Ana, basta scuse!!” esclama, a voce bassa ma ferma “E’ da ieri che non fai altro che scappare. Ce l’hai con me? Bene, urla, insultami, picchiami anche se vuoi, ma non evitarmi in questo modo, perché mi stai uccidendo..”
Le sue parole alimentano ulteriormente il mio senso di colpa. In passato più volte l’ho accusato di chiudersi a riccio quando c’era qualche problema, e adesso sto facendo esattamente la stessa cosa.
Sospiro, consapevole che non posso continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.
“Hai ragione, ma io non.. non riesco ancora a crederci.. Mi sembra tutto così surreale..”
Christian allunga le mani sulla scrivania per prendere le mie. In un primo momento l’istinto è quello di ritirarle, ma, cavolo, quanto mi mancava il calore delle sue mani, la sicurezza della sua stretta.
“Anastasia, anche a me sembra impossibile. Il mio mondo da ieri è come se si fosse fermato.. Non faccio altro che riflettere, collegare, cercare di capire.. Ma ti giuro che non riesco a dare una logica a tutto..”
“Hai.. hai chiesto a Welch di fare qualche ricerca??”
Sul viso di Christian si disegna un leggero sorriso. “Mi conosci troppo bene, eh?” dice, facendo sorridere anche me. “Comunque sì, gli ho telefonato ieri sera e già questa mattina avevo il dossier sulla scrivania. L’ho letto e riletto almeno sei volte, ma non è venuto fuori nulla di anomalo..”
“E quindi cosa vuoi fare??”
“Non posso buttarmi tutto alle spalle e fingere che la giornata di ieri non sia mai esistita.. Non ci riuscirei e non me lo perdonerei..”
Annuisco. Per quanto anche a me piacerebbe che si potesse annullare tutto, so che Christian ha ragione. Neanche io riuscirei a far finta che non sia accaduto nulla, ma soprattutto mio marito non è mai scappato dalle responsabilità e dalle difficoltà.
“Ma secondo te perché? Dopo otto anni..”
“E’ l’interrogativo che mi perseguita più di tutti.. Non riesco a spiegarmi il motivo di quest’apparizione dopo così tanto tempo.. Sono assalito da mille dubbi, e il primo è se realmente quel bambino sia mio figlio..”
Quell’ultima parola è un pugno allo stomaco, ma cerco di non darlo a vedere.
“E quindi come vorresti muoverti?”
“Per prima cosa chiederò a Shirley di fare un test di paternità, una volta ottenuti i risultati poi agirò di conseguenza..”
Preferisco non immaginare i risultati né le possibili conseguenze, altrimenti rischio di ritrovarmi vittima di un attacco di panico.
Calma.
Respiro profondamente e annuisco, in fondo Christian ha ragione. Se Shirley si fosse inventata tutto?
Christian continua a tenere le mie mani tra le sue, e giuro che quel tocco così tenero e per me così importante in questo momento mi provoca anche una strana forma di dolore; come se non riuscissi a godermelo fino in fondo quel tocco, come se sentissi costantemente il peso di questa situazione incombere su di noi.
Per fortuna, a salvarmi è Hannah che annuncia attraverso l’interfono l’arrivo dell’agente di un’autrice italiana della quale vorremmo acquisire i diritti per tradurre i suoi libri in inglese.
“C’è altro?” domando a Christian, vergognandomi di me stessa.
Riesco per un istante a vedere il lampo di delusione nei suoi occhi, prima che lui distolga lo sguardo da me.
“No, il fatto di essere riuscito a scambiare con te più di due frasi è già tanto..” osserva, visibilmente abbattuto. “Vado..” dice alzandosi e avviandosi verso la porta.
Prima di aprirla, però, si blocca e si volta nuovamente verso di me.
“Posso chiederti un favore??”
“Dimmi” rispondo, seppur leggermente timorosa di cosa stia per chiedermi.
Si avvicina lentamente, facendo ruotare la mia poltrona di novanta gradi e chinandosi davanti a me. Solleva la mano e dolcemente accarezza il mio viso, sfiorando le mie labbra con il pollice. Ho i brividi e il cuore che batte a mille, come se la sua pelle non sfiorasse la mia da mesi e mesi.
“Un bacio” sussurra “Mi manca da morire sentire le tue labbra, sentirti vicina a me..”
Quella rivelazione così semplice e sincera, quegli occhi colmi di dispiacere hanno il potere di farmi venire le lacrime agli occhi. Anche a me manca da morire sentirlo vicino a me, toccarlo, stringerlo, baciarlo. Ed è per questo che gli prendo dolcemente il viso tra le mani e chiudendo gli occhi appoggio le labbra sulle sue, ed ecco che per pochi istanti ritrovo il mio ossigeno, nella morbidezza di quella bocca, nel suo profumo di uomo, nella pelle leggermente ruvida del suo viso.
Stacco le labbra dalle sue, e Christian bacia i palmi delle mie mani prima di rialzarsi e lasciarmi un ultimo bacio sulla fronte, dopodiché esce dal mio ufficio, ed io mi ricompongo per tornare nei panni della direttrice editoriale, cercando di ignorare l’enorme senso di vuoto dentro di me.
 
Quando esco dalla GIP, alle 18 in punto, trovo Christian ad attendermi accanto al SUV. Non appena mi vede uscire, mi viene incontro e mi tende la mano, non posso, e a dirla tutta non voglio, fare a meno di afferrarla e seguirlo in auto.
“Com’è andata la giornata?” mi domanda, mentre Taylor si immette nel traffico di Seattle.
“Tranquilla..” rispondo inespressiva. “E la tua?”
“Al solito..”
Restiamo per qualche minuto in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Ad un tratto Christian rompe il silenzio.
“Ho telefonato a Shirley..” afferma.
Deglutisco a fatica e sospiro, prima di trovare la forza di parlare.
“E cosa…??”
Christian mi risponde prima che possa terminare la frase.
“Le ho detto che vorrei fare il test di paternità, e lei non è parsa per nulla sorpresa, se lo aspettava..”
“E quindi?”
“Quindi, ho già prenotato per domani al laboratorio del Seattle Hospital, e Taylor domattina si accerterà che tutto verrà svolto nel massimo della privacy. Dovranno sapere che se la notizia trapelerà all’esterno, farò causa all’ospedale..”
Annuisco, rabbrividendo al solo pensiero che la notizia possa venirsi a sapere e inevitabilmente giungere alla stampa.
“Qui-quindi.. d-domani vedrai anche.. il bambino..” osservo, sorprendendomi di come sia riuscita a trovare il coraggio di dirlo.
So che quel bambino non ha assolutamente nessuna colpa, ma non riesco a non avvertire un senso di avversione al pensiero. Se penso alla madre poi, provo quasi un sentimento d’odio. Perché non solo si è presa la briga di decidere della vita di suo figlio e di Christian, ma otto anni dopo di punto in bianco pretende di riparare i danni di allora, sconvolgendo la vita di Christian, mia, dei nostri bambini, e anche di suo figlio. Odio il fatto di sentirmi una pedina nelle mani del destino, un destino che si presenta sottoforma di una provetta da analizzare, che stabilirà se quel bambino è figlio di Christian o meno.
Quando rientriamo a casa, Teddy e Phoebe ci corrono incontro come sempre, tuffandosi tra le nostre braccia. Il momento in cui riabbraccio i miei figli dopo una giornata di lavoro riesce sempre ad accantonare la stanchezza, i problemi, le preoccupazioni.
“Cucciola, come ti senti??” domando a Phoebe, passandole la mano sulla fronte. Per fortuna è fresca, e anche dal viso si vede che sta bene.
“Bene mamma!” risponde, e poi mi mostra le treccine che le ha fatto Gail.
“Ma sono bellissime!!” esclamo accarezzandole. Devo dire che, per l’età che ha, Phoebe ha i capelli belli lunghi, ed è anche parecchio vanitosa, per cui adora farseli spazzolare e sistemare.
“Mamma!” attira poi la mia attenzione Teddy, sventolando un foglio “Guarda che ho fatto per la zia Mia!” mi mostra un disegno che raffigura una donna stilizzata accanto ad uno pseudo cerchio con delle palline sopra che dovrebbe essere una torta.
“Ma sei stato bravissimo!!!”
“Glielo posso portare stasera??”
Cavolo! Questa sera c’è il compleanno di Mia, l’avevo completamente rimosso.
“Certo tesoro, glielo portiamo stasera..” Christian viene in mio soccorso.
Lo ringrazio con un leggero sorriso, dopodiché mi dirigo in cucina per bere un bicchiere d’acqua, mentre i bambini continuano a disegnare seduti al tavolo in salone.
Christian mi raggiunge, versandosi due dita di vino rosso in un calice.
“Ana.. se.. se non te la senti, possiamo telefonare a mia sorella e dire che magari Phoebe ha ancora la febbre..”
Non mi sento molto propensa a stare insieme ad altre persone, ma non mi va neanche di isolarmi dai nostri familiari o, peggio ancora, di insospettirli.
“No Christian, dobbiamo andarci.. Sarebbe semplice addurre una scusa, ma non sarebbe giusto.. E’ il compleanno di Mia e lei ci tiene molto.. Non dobbiamo lasciare che tutto questo condizioni anche la nostra famiglia..”
“E noi?” chiede, spiazzandomi.
“N-noi.. cosa??”
“Dobbiamo lasciarci condizionare?”
So bene a cosa si riferisce: da circa ventiquattro ore probabilmente vede in me un’altra persona, fredda, distaccata, sfuggente, anche un po’ vigliacca.
“Christian, che cosa pretendi da me? Che mi comporti come se nulla fosse successo? Che sia felice, sorridente, tranquilla? Cosa devo fare..??”
“No, non pretendo questo. So che sei sconvolta, ma vorrei che capissi che lo sono anche io, anche io ho il mondo che mi sta crollando addosso.. e credimi se potessi ti eviterei tutto questo strazio.. Ma non posso fare nulla, non dipende da me..”
Poso il bicchiere sul bancone e sospiro. “Lo so..” sibilo.
“E allora perché sei così distante? Perché a stento mi parli? Come se fosse colpa mia..”
Poche volte da quando lo conosco ho visto Christian così perso, forse perché fin’ora qualsiasi difficoltà l’abbiamo affrontata insieme, lui con me, ed io con lui. Adesso, forse per la prima volta, la prima difficoltà di Christian sono proprio io, il suo punto debole.
“Christian.. io proprio non.. non riesco ad accettarlo..” rispondo, non sapendo cos’altro aggiungere.
“Cosa vorresti che facessi? Che mi lasciassi tutto alle spalle come se niente fosse?”
“No.. Io.. io vorrei solo che la giornata di ieri non fosse mai esistita.. Ma purtroppo né io né te possiamo farci nulla.. Ed è questa la cosa che mi ferisce di più: il fatto di essere completamente impotente..”
Lo vedo sospirare, perso in chissà quali meccanismi mentali. Tento di frenarlo subito, so bene Christian quanto sappia viaggiare con la mente e, puntualmente, le mete dei suoi viaggi sono sempre negative.
Così mi avvicino a lui e gli poso una mano sul viso. “Questa sera cerchiamo di non pensarci, dobbiamo festeggiare Mia..”
Christian accenna un sorriso e annuisce, dopodiché salgo in camera per prepararmi.
 
Il proposito di non pensarci, però, a livello pratico non è facilmente attuabile. Per quanto adori stare con la nostra famiglia, per quanto i nostri cari riescano a farmi distrarre, e i bambini facciano il loro solito casino, la mia mente alla fine ritorna sempre sullo stesso argomento. E so che per Christian è lo stesso. Lo percepisco dal suo sguardo in certi momenti assente, dai suoi sorrisi che non coinvolgono gli occhi, dal suo scarso appetito, dalle sue risposte a monosillabi.
“Hey” mi volto e vedo Kate sedersi accanto a me. “Tutto bene??”
“Sì” rispondo, sorridendo.
“Sicura?” indaga la mia amica. Mi conosce davvero bene, c’è poco da fare.
“Sì, tranquilla. Sono solo un po’ stanca perché mi è appena passata l’influenza e stamattina sono andata a lavoro..”
“Non potevi restare un altro giorno a casa?”
“Avevo degli appuntamenti importanti!”
“Aaah” sospira la Kate “Sei sempre stata una stakanovista..” commenta, appoggiando la testa al mio braccio.
Sorrido e appoggio la testa sulla sua, lottando contro l’istinto di raccontarle tutto. Ho davvero tanto bisogno di sfogarmi con qualcuno, ma non mi sembra il luogo né il tempo adatto per parlarne.
Osserviamo Ethan che gioca con i piccolini e gli fa fare il vola vola.
“Non trovi che mio fratello si sia rincoglionito completamente da quando è diventato padre?” mi fa notare poi la mia amica.
Rido divertita. “Io trovo che sia semplicemente adorabile invece” affermo.
Ed è la verità. Ethan è sempre stato un ragazzo dolce e affidabile, ma da quando sono nati i gemellini sembra essere costantemente immerso in una piscina di zucchero. Stravede per i suoi bambini; quando li tiene in braccio o semplicemente li guarda, ha negli occhi una luce, una dolcezza e un orgoglio che fanno venire i brividi, e Mia non è da meno. La differenza tra i due è che Ethan rispetto a sua moglie è leggermente più apprensivo, anche se bisogna dire che rispetto ai primi mesi ha allentato un po’ la presa.
Dopo un paio di mesi dalla nascita di Elliot e Christian, infatti, decidemmo di organizzare un pomeriggio a casa mia tra sole donne; mentre i bambini più grandi giocavano in giardino tra le casette e le giostrine, e i più piccoli sonnecchiavano, Kate, Mia, Roxy ed io eravamo spaparanzate sulle sedie sdraio, a bere cocktail di frutta, mangiucchiare e spettegolare.
La mia povera cognatina, però, difficilmente riusciva a portare a termine un discorso, disturbata dai continui messaggini di suo marito. Vedendoci un po’ perplesse, per non dire scioccate, Mia decise di sfogarsi con noi sul fatto che Ethan, sebbene fosse un marito e un padre fantastico e premuroso, stava rasentando l’esasperazione. Oltre al fatto che le telefonava e inviava sms cinquecento volte al giorno, quando tornava a casa non aveva occhi che per i bambini, e lei cominciava a sentirsi un po’ trascurata. Aveva anche provato a proporgli di trascorrere qualche ora da soli, magari il tempo di un pranzo o di una passeggiata, ma lui non riusciva neanche a tollerare l’idea di affidare i suoi figli a qualcuno che non fosse lui o Mia.
Quel pomeriggio vidi mia cognata davvero persa, perché amava (e ama) alla follia i suoi figli, ma al contempo avvertiva la mancanza di momenti di intimità con suo marito, e questo non certamente a causa dei bambini, perché sono sempre stati degli angioletti.
Così decidemmo di aiutarla: quel pomeriggio stesso Roxy, che adora maneggiare con i capelli, le creò dei boccoli che le incorniciavano deliziosamente il viso. Telefonammo a Grace, che per fortuna non aveva il turno di sera, e si mostrò più che felice di tenere i bambini per la notte; dopodiché spedimmo Mia prima ad accompagnare Elliot e Christian da sua madre, e poi a casa a farsi bella per suo marito.
Il giorno dopo, che era sabato, mi presentai a casa di mia suocera molto presto, proprio per aspettare con lei che Mia ed Ethan venissero a riprendere i piccolini. Li baciarono e abbracciarono come se non li vedessero da un anno, ma era chiaro come il sole che le cose tra loro andassero molto molto meglio. Prendendomi in disparte in cucina, Mia mi raccontò in breve che ad Ethan stava quasi venendo un infarto quando si era accorto che i bambini non c’erano, e sua moglie facendosi coraggio gli aveva confessato chiaro e tondo il proprio stato d’animo, aprendogli il cuore. E da lì Ethan aveva capito, aveva aperto a sua volta il proprio cuore, e finalmente avevano cercato di stabilire un equilibrio. E poi… l’espressione di beatitudine e felicità sul viso di Mia la diceva lunga su come avessero trascorso il resto della notte.
“Uffa!!” la voce del mio piccolo uomo mi distrae dai ricordi.
Lo vedo sbuffare e sedersi sul divano con le braccia conserte e un adorabile broncio sul viso.
“Tesoro, cosa c’è?” domanda Mia, chinandosi davanti a lui.
“Ava, Phoebe e Liz vogliono fare solo i giochi delle femmine e io mi annoio..” si lamenta Teddy.
Scambio uno sguardo con Elliot e Kate e non posso fare a meno di soffocare una risata: con una sorella e due cugine femmine era inevitabile che prima o poi cominciasse a sentirsi schiacciato dall’inferiorità numerica.
Ethan sorride e si siede accanto a lui. “Hai ragione tesoro, dai che tra un po’ anche Elliot e Christian cominceranno a camminare, a parlare.. e giocheranno loro con te..”
“Oppure magari mamma e papà potrebbero fare un bel fratellino..” commenta Elliot.
Ed ecco che basta quella semplice frase, detta con leggerezza, per scherzare, per farmi ripiombare nuovamente nel mio vorticoso labirinto di pensieri. E se Teddy quel fratello lo avesse già? Al solo immaginarlo mi manca l’aria.
“Certo che tu non perdi mai l’occasione di dire stronzate..” Christian rimprovera suo fratello.
“Hai la luna storta stasera? Ho fatto semplicemente una battuta..”
“Una battuta sgradita..” commenta Christian, per poi avviarsi ad ampie falcate verso la porta finestra e uscire sul terrazzo.
Per diversi secondi sento addosso il peso degli sguardi interrogativi dei nostri familiari. Ormai è chiaro a tutti che c’è qualcosa che non va, e l’aria è pregna di un silenzio carico di domande non dette, domande alle quali in questo momento non sono assolutamente in grado di rispondere.
“Scusate..” mormoro, per poi allontanarmi da loro e raggiungere Christian in terrazza.
È di spalle, con le mani che stringono convulsamente l’elegante ringhiera bianca e lo sguardo puntato nel vuoto. Ha le spalle tese, e non è difficile immaginare la sua espressione in questo momento.
Cammino lentamente verso di lui, desiderando al contempo di urlare e di sparire. Non doveva andare così, non dovevamo lasciar sospettare nulla alla nostra famiglia, invece adesso sono sicura che staranno scalpitando per sapere cosa stia succedendo; non credo ci abbiano mai visti così tesi.
“Christian..” sussurro, avvicinandomi a lui.
Raggiungo la ringhiera e vi appoggio le mani, sfiorando con la sinistra la mano destra di mio marito. Christian sospira, ma non si volta verso di me, né sposta la mano. So che, anche se non mi sta guardando, la sua attenzione è rivolta a me, quindi decido di parlargli.
“Ci eravamo promessi di comportarci normalmente, di non lasciar trapelare nulla..” dico, in un tono quasi accusatorio.
Christian sospira di nuovo, e poi finalmente si volta verso di me. “Evidentemente non siamo bravi a fingere.. Forse non saremmo neanche dovuti venire qui stasera..”
“Non è vero!” ribatto “Stava andando tutto bene..”
“Tutto bene?” ripete, alterato, puntando gli occhi nei miei “Non ci siamo sfiorati una volta, scambiati un sorriso, guardati negli occhi.. Come fai a dire che stava andando tutto bene??”
Ha ragione, ha maledettamente ragione.
Sospiro rumorosamente e distolgo lo sguardo dal suo, fissando un punto indefinito nello spazio.
“Lo vedi? Non riesci neanche a reggere il mio sguardo..” constata, con una voce che, più che di accusa, sa di amarezza.
“Io..” faccio per dire qualcosa, non so davvero cosa, ma vengo salvata in calcio d’angolo dal rumore della porta finestra che si apre.
Christian ed io ci voltiamo contemporaneamente e vediamo Grace venire verso di noi. Non ha un’espressione molto serena: lei più di tutti conosce suo figlio e sa che, sebbene Christian non abbia un carattere semplicissimo, una reazione come quella di prima non è da lui.
Arrivata a poche decine di centimetri da noi, Grace si sforza di sorridermi.
“Tesoro, mi lasceresti un attimo da sola con mio figlio?” domanda, passandomi teneramente una mano tra i capelli.
Volgo lo sguardo verso Christian, che con un rapido cenno del capo mi fa segno di andare tranquillamente.
“C-certo..” farfuglio, e poi, seppur un po’ titubante, mi allontano da loro.
Da un lato mi dispiace lasciare Christian da solo a svelare a sua madre una cosa così importante, ma dall’altro mi sento anche sollevata, perché non so se sarei stata in grado di restare lucida e affrontare quel discorso. In questo modo, invece, Christian potrà sfogarsi senza riserve.
Quando rientro in casa, avverto l’atmosfera tesa, ma nessuno mi fissa in modo strano, né fa domande; quasi sicuramente Grace deve averli istruiti a dovere prima di raggiungerci.
A stemperare un po’ la tensione ci pensano i bambini, con il loro chiasso, le loro risate, la loro gioia. Quando si ritrovano tutti e sei insieme sono un vero esercito, anche Christian ed Elliot che non hanno nemmeno un anno.
Nonostante il casino, è bellissimo vederli giocare tutti insieme, e soprattutto vedere dipinta sui loro volti la felicità di stare insieme, condividere gli spazi. Alla fine anche Teddy, che si annoiava con i giochi delle femmine, ha trovato qualcosa da fare: mentre le bambine giocano con le loro bambole, lui si occupa del cane di peluche, gli ha messo una ciotola a terra per farlo mangiare, e Mia gli ha legato un nastro intorno al collo a mo’ di guinzaglio.
“Ti piace il mio cane mamma??” chiede poi il mio cucciolo, mostrandomi la bestiola di peluche.
“E’ bellissimo! Come si chiama?”
Mio figlio riflette per qualche istante. “Peter, come il mio amico dell’asilo..”
Sorrido e gli accarezzo i capelli.
“Senti!” interviene Elliot “Il tuo cane ha morsicato le mie scarpe..” dice fingendosi arrabbiato.
“E comprale nuove..” risolve Teddy, facendo ridere tutti.
È incredibile, non ha neanche cinque anni, ma ha sempre la risposta pronta e l’ultima parola deve essere sua. Beh, tra la mia lingua biforcuta e il caratterino di Christian non mi sorprende che nostro figlio non la mandi a dire..
Christian.
Inevitabilmente finisco sempre per pensare a lui.
È ancora fuori con Grace, e ad ogni minuto che passa sento lo stomaco contrarsi sempre di più. Mi piacerebbe tanto sapere cosa si stiano dicendo, ma allo stesso tempo non vorrei più sentir parlare di questa storia. Mi sento una persona orribile nel formulare questi pensieri, ma non riesco proprio ad accettare tutto questo, anche se quel bambino non ha alcuna colpa. 
Kate, intuendo forse che la mia mente sta partendo per la tangente, si siede sul bracciolo del divano e mi avvolge in un abbraccio.
“Qualunque cosa sia successa, non ti preoccupare tesoro, andrà tutto bene..” mormora.
Lo spero tanto, amica mia. Lo spero tanto.
“E’ stato.. difficile parlare con tua madre?” domando a Christian, una volta in macchina.
Quando lui e Grace sono rientrati, si sono comportati come se nulla fosse, e così tutti gli altri. Abbiamo saggiamente deciso di non raccontare nulla ai ragazzi, in primis per non rovinare il compleanno a Mia, e poi perché vogliamo aspettare i risultati del test di paternità.
“Le parole non mi hanno mai fatto paura..” risponde “Anzi, posso dire che è stato liberatorio parlarne, ne avevo bisogno..”
Le sue parole sono una stretta al cuore. Dovrei essere io la persona con cui mio marito possa sentirsi libero di sfogarsi, invece di fare muro. Ma, per quanto consapevole che il mio comportamento peggiori solo le cose, non riesco a fare diversamente, non riesco a scrollarmi di dosso questo senso di inadeguatezza, amarezza, delusione, avversione.
“E.. tua madre cosa ti ha detto??”
“Più o meno quello che sappiamo già.. Aspettiamo il test di paternità e poi decideremo il da farsi..” risponde, ermetico.
So che sicuramente Grace gli ha detto molto altro, ma capisco perfettamente la sua volontà di tenerlo per sé.
Quando rientriamo a casa, mettiamo i pigiamini a Teddy e Phoebe e li mettiamo a letto. Questa sera la favola tocca a me, così, mentre io scelgo un libro e comincio a leggere, Christian si chiude in bagno. Dopo poche pagine i bambini stanno già dormendo, così mi alzo, gli rimbocco le coperte e do ad entrambi un bacio. Mi fermo ad osservarli per qualche minuto, e come ogni volta in cui li guardo, mi sento in pace con il mondo.
Arrivo in camera proprio nel momento in cui Christian sta uscendo dal bagno, lasciandosi dietro un profumo di bagnoschiuma alla vaniglia.
Entro in bagno e, dopo aver fatto una doccia veloce e aver indossato il pigiama, ritorno in camera. Christian è disteso sul fianco, con le spalle rivolte verso di me; non so se stia dormendo o finga, e non ho il coraggio di parlare. Mi infilo a letto cercando di fare meno rumore possibile, mi distendo sul fianco, dando a mia volta le spalle a Christian, e tiro su la coperta fino alle spalle.
Qualche minuto dopo sento il fruscio delle coperte e il movimento del materasso. Senza neanche rendermene conto, sento il braccio di Christian che circonda la mia vita, e il suo petto che si appoggia alla mia schiena. Sorpresa, sussulto e mugugno qualcosa.
“Ssshh..” sussurra Christian, accostando le labbra al mio orecchio “Ti prego, lasciati stringere..”
Quella voce al contempo dolce, disperata e supplichevole mi fa venire letteralmente i brividi e mi fa tremare. Sono troppo stanca, fisicamente ma soprattutto psicologicamente, per non ammettere che è esattamente ciò che desidero e di cui ho bisogno anche io. Così mi volto fino a ritrovarmi con la testa appoggiata al petto di mio marito, avvolta nel suo abbraccio.
Christian sospira, rilassandosi e posandomi un bacio sulla testa.
Solo ora mi rendo conto di quanto le sue braccia, la sua stretta, il suo profumo mi fossero mancati in questi due giorni, e quasi sento gli occhi inumidirsi. Respiro a pieni polmoni l’essenza del mio uomo, lasciandomi andare contro di lui, senza pensare al domani, ai problemi, ai dubbi e alle paure.
Sono tra le braccia di mio marito, a casa, nel mio porto sicuro. E, adesso, non ho bisogno di altro.
“Ti amo” mormora Christian stringendomi più forte.
E crogiolandomi nella melodia di quelle parole, lentamente mi addormento.
 

POV CHRISTIAN

Guardo Seattle scorrere lenta dal finestrino. Non sono uno che ama il traffico urbano, soprattutto quando devo tornare a casa; sono sempre impaziente di rilassarmi, insieme a mia moglie e ai miei figli, e questo flusso di vetture che avanzano così lentamente mi rende sempre nervoso.
Ma oggi no.
Oggi questo traffico è quasi protettivo, rassicurante, perché ritarda sempre di più il momento in cui metterò piede in quel maledetto centro analisi per effettuare il test di paternità. Il cielo è ricoperto di nuvole grigie, preludio di un temporale che scoppierà quasi sicuramente in tarda serata o nella notte.
Il mio umore rispecchia esattamente quello del cielo di Seattle. Mi sento cupo, nervoso, irrequieto e assolutamente non pronto a quello che dovrò affrontare.
Da quando è scoppiato tutto questo casino, due giorni fa, mi sento quasi estromesso dal mio corpo, come se qualcun altro stesse vivendo questa situazione al posto mio. Anche mentre fronteggiavo Shirley, la bocca si muoveva e i suoni uscivano in automatico, non controllati dal mio cervello.
La prima cosa logica che sono riuscito a fare, dopo essere riuscito a mettere a fuoco ciò che stava accadendo, è stata sollecitare immediatamente Welch affinchè scoprisse tutto lo scibile, ma dal dossier che ho trovato la mattina dopo sulla mia scrivania non è emerso nulla di anomalo. 
A fare più male, però, è la tensione che si è creata tra me e Anastasia. Lo sguardo perso, confuso, deluso, e la freddezza che riserva nei miei confronti da due sere a questa parte, mi spezzano il cuore ogni volta in cui cerco di rivolgerle la parola.
Davanti ai bambini cerchiamo di comportarci nel modo più naturale possibile, ma quando siamo soli diventiamo due entità indipendenti, come due pile della stessa carica, che anziché attrarsi si respingono. Non la biasimo per ciò che sente, ha tutte le ragioni del mondo a sentirsi arrabbiata, sconvolta, delusa; solo vorrei che capisse che anche io mi sento allo stesso modo, anche io vedo il mondo crollarmi addosso, ma che non posso comportarmi diversamente, non posso fingere che Shirley non sia mai venuta a casa nostra, che non mi abbia svelato una notizia che, se fosse vera, cambierebbe inevitabilmente la mia vita, la nostra vita.
Se me ne lavassi le mani come nulla fosse, non potrei mai perdonarmelo, e sono sicuro che neanche Anastasia me lo perdonerebbe, perché lei mi conosce meglio di chiunque altro e sa che non potrei mai sottrarmi alle mie responsabilità.
Solo a mia madre sono riuscito a confessare i miei pensieri e le mie sensazioni, ed è stato più semplice di quanto pensassi. Ieri sera, a casa di mia sorella, ho avuto una reazione un po’ esagerata ad una cazzata che aveva detto mio fratello. Quando mi sono reso conto di aver esagerato, era ormai troppo tardi: il radar-Grace aveva già intuito che qualcosa non andasse, e sono sicuro che anche il resto della famiglia lo abbia capito, anche se si sono comportati normalmente come nulla fosse.
A mia madre.. beh.. è bastato sussurrare un “Christian”, e da lì sono partito in quarta. Ho cominciato a raccontare a ruota libera tutto ciò che era successo, le mie sensazioni, le mie paure, senza neanche rendermene conto.
Mia madre –non so come faccia– pur non mascherando lo sconvolgimento iniziale, è riuscita a rimanere lucida e pragmatica, quello che io non sempre riesco ad essere in questi giorni. Mi ha detto di stare tranquillo, di non costruire giganteschi castelli in aria prima di sapere effettivamente il risultato del test. E per quanto riguarda Ana.. mia madre non la biasima, probabilmente anche lei si comporterebbe allo stesso modo; secondo Grace non dovrei farle sentire troppa pressione, lasciare che sbollisca un po’ tutta la rabbia, il risentimento, la frustrazione. In questo momento lei si vede minacciata da qualcosa che non può combattere, non può affrontare ad armi pari, e quindi sviluppa un’avversione anche nei miei confronti, come se volesse far ricadere tutta la responsabilità su di me, per avere una valvola su cui sfogare tutto il malessere che questa notizia le ha provocato.
So che mia madre ha ragione, ma mi manca da morire la mia Anastasia. Mi manca la nostra intimità, e non mi riferisco al sesso: mi mancano i nostri sguardi colmi d’amore, la nostra complicità, le nostre coccole, le nostre battutine sottili. Nel giro di quarantotto ore tutto ciò è mutato in freddezza e distanza.
Ana mi tratta come se al mio posto vedesse un’altra persona: non riesce a reggere il mio sguardo, il mio tocco, anche se in realtà lo desidera con tutta se stessa. L’ho avvertito ieri, quando nel suo ufficio l’ho supplicata per un bacio, e ieri sera quando l’ho stretta forte a me. Una parte di lei avrebbe voluto ritrarsi, ma alla fine ha messo a tacere il cervello e si è arresa, lasciandosi andare tra le mie braccia. E solo in quel momento sono tornato a respirare, e il mio cuore ha ripreso a battere.
Ho sperato che in qualche modo mi avesse perdonato, che si stesse riavvicinando a me, che volesse in qualche modo dirmi “Non ti preoccupare, qualunque cosa accada, io sono con te”; invece, questa mattina, quando mi sono svegliato lei si era già alzata, l’ho raggiunta in cucina e l’ho trovata di nuovo ricoperta dalla sua corazza di ghiaccio, fredda e impenetrabile.
Da questa mattina ci siamo scambiati solo qualche sms, e solo per parlare dei bambini.
Ero indeciso se ricordarle o no che sarei andato via dall’ufficio un’ora prima per andare al centro analisi, ma poi ho lasciato perdere: conoscendola, se lo ricorderà benissimo e probabilmente non starà pensando ad altro.
“Siamo arrivati, Mr Grey” la voce di Taylor mi distoglie dai miei pensieri.
Sollevo lo sguardo verso l’imponente edificio bianco e grigio all’interno del quale nelle prossime ore si deciderà della mia vita e di quella della mia famiglia.
Strofino le mani sudate sui pantaloni, cercando di acquisire il coraggio necessario per aprire questa portiera. Per fortuna ci pensa Jason al mio posto, altrimenti chissà quanto tempo sarei rimasto qui.
Con un respiro profondo mi decido ad uscire dall’auto e mi sistemo la giacca. Guardo Taylor, che con un incoraggiante cenno del capo mi incita ad entrare.
Percorro i metri che mi separano dalla porta principale ed entro nell’edificio. Mia madre mi ha già spiegato dove devo andare, in modo da non dover chiedere informazioni e destare sospetti. Proprio per questo motivo mi sono accordato con Shirley per incontrarci direttamente qui: se fossi passato a prendere lei e Ben in albergo avrei pesantemente rischiato di scatenare la fantasia dei media, se qualche paparazzo mi avesse riconosciuto o qualche impiegato dell’albergo avesse voluto guadagnare qualche dollaro extra fornendo informazioni sotto banco a qualche giornalista.
Qui, invece, c’è l’obbligo della privacy e tutti, dal direttore sanitario all’ultimo degli operatori socio-sanitari, sanno che se dovesse fuoriuscire la minima indiscrezione, dovranno vedersela con i miei avvocati.
Attendo qualche minuto l’ascensore, e non appena arriva pigio il pulsante del settimo piano, sperando che lo raggiunga più lentamente possibile. Non mi sento pronto a conoscere Ben, né tantomeno a rivedere sua madre.
Lo ammetto, provo una qualche forma di odio verso Shirley, perché otto anni fa avrebbe dovuto dirmi la verità: era mio diritto sapere ed avere libertà di scelta su cosa fare. Seppur a fatica, posso anche comprendere i motivi che l’hanno spinta a non dirmi nulla, ma a quel punto doveva restare coerente con se stessa: doveva sparire per sempre e portarsi questo segreto nella tomba.
Invece, dopo otto anni, di punto in bianco di presenta qui e si permette di stravolgere la mia vita, senza badare al fatto che io abbia una moglie e due figli, prendendosi così il diritto di decidere per tutti. Ed è questa la cosa che mi fa imbestialire di più.
Il classico dlin dell’ascensore che preannuncia l’apertura delle porte è per me il suono più fastidioso del mondo in questo momento. Prendendo un lungo respiro, metto piede fuori, ritrovandomi nel bel mezzo del reparto, caratterizzato da pareti verde chiaro, pavimenti grigio perla, porte verdi e sedie in sala d’attesa grigio scuro, il tutto permeato da quell’odore di medicine e disinfettante tipico degli ospedali. Imbocco il corridoio di destra e intravedo Shirley fuori ad una stanza; non appena mi vede mi viene incontro e, giunta ad un metro da me, si ferma.
“Ciao Christian..”
“Ciao” rispondo atono; non ho la minima voglia di fare conversazione con lei.
Mi guardo un attimo intorno prima di formulare una domanda che mi costa non poca fatica. “Ben è qui?”
“Sì, è dentro a disegnare.. E.. a questo proposito, volevo dirti che.. lui non sa nulla del perché siamo qui. Gli ho detto semplicemente che deve fare delle analisi.. Lui non.. non sa chi sei..”
Annuisco. Avevo immaginato che fosse così, non è di certo una cosa semplice da spiegare ad un bambino di sette anni e mezzo. E poi, finchè non avremo certezze, è meglio non dire nulla.
Proprio in quel momento esce dalla stanza un bambino con i capelli scuri e una sgargiante felpa verde fluo.
“Mamma, dobbiamo aspettare ancora tanto tempo?”
Shirley gli accarezza i capelli. “Credo che tra poco sia il nostro turno tesoro” risponde con un sorriso.
Io fisso inebetito quel bambino: ha un’aria sveglia ma allo stesso tempo dolce.
“Tu chi sei?” domanda poi rivolgendosi a me, con la schiettezza dei suoi sette anni.
Io però non riesco ad emettere alcun suono. Semplicemente fisso Ben e, forse per la prima volta in questi due giorni, la consapevolezza e il peso della rivelazione di Shirley mi investono come un treno in corsa.
Questo bambino probabilmente è mio figlio, una parte di me.
In questo momento la mia mente è un violento vortice di pensieri: una realtà che fino ad ora sembrava così lontana, astratta, si presenta adesso in tutta la sua concretezza; allo stesso tempo, però, più guardo Ben e più tutto questo mi sembra impossibile, assurdo, irreale.
“Non hai la voce??” insiste Ben.
“Tesoro, lui è un amico della mamma..” spiega Shirley.
Ben mi squadra per qualche secondo, dopodiché mi porge la mano. “Io sono Ben!” si presenta.
Il suo modo di fare mi fa inevitabilmente sorridere. “Io sono Christian” gli stringo la mano.
Quando la lascio andare, mi sento particolarmente destabilizzato. Non so cosa mi aspettassi, ma nello stringere la mano di Ben, credevo che avrei provato qualche brivido, qualche vuoto allo stomaco, qualunque sensazione che mi facesse avvertire un senso di appartenenza. Invece.. nulla. Non ho avuto lo stesso calore al cuore che mi pervade ogni volta in cui Teddy e Phoebe mi sorridono, mi abbracciano, mi parlano. Anche se, mi rendo conto, paragonare le due situazioni sarebbe una follia: Teddy e Phoebe sono nati per amore, sono stati desiderati. Ho sentito i loro cuori battere e i loro movimenti mese per mese prima che nascessero, ho visto crescere la pancia di mia moglie, l’ho coccolata, baciata, protetta da tutto e da tutti; tremando e piangendo di gioia li ho tenuti in braccio quando sono venuti al mondo, e dal momento del loro primo respiro la mia vita ha come obiettivo solo ed unicamente la loro felicità e quella della meravigliosa donna che ho al mio fianco.
Sono consapevole che, per quanto sia brutto da ammettere, se il test dovesse confermare che Ben è mio figlio, lui non potrà avere tutto ciò che hanno avuto Teddy e Phoebe, e non sto parlando di beni materiali..
“Mr Grey” una delicata voce femminile attira la mia attenzione, mi volto e vedo venire verso di noi quella che presumo sia un’infermiera “Può accomodarsi” dice con gentilezza.
“S-sì..” mormoro.
La ragazza fa strada ed entra in una stanza. È abbastanza anonima: tutto bianco e grigio con qualche dettaglio verde; tipico degli ospedali. Un’infermiera un po’ più grande mi stringe la mano e mi indica una sedia accanto ad un lettino. Prendo un lungo respiro, cercando di infondermi coraggio, e mi siedo. Noto sul lettino un contenitore d’acciaio a forma di fagiolo, con all’interno un pacchetto sigillato contenente una provetta e un lungo cotton-fioc; e una bustina trasparente con sopra un’etichetta con i miei dati anagrafici.
“Non si preoccupi, Mr Grey, sarà questione di pochi secondi..” mi rassicura l’infermiera, notando probabilmente la mia espressione tesa.
Mostro un debole sorriso di cortesia. La procedura del test è l’ultimo dei miei problemi; potrebbero anche operarmi senza anestesia, e non sarebbe mai doloroso quanto il peso che mi opprime il cuore.
L’infermiera infila rapidamente i guanti ed indossa la mascherina, allacciandola con cura dietro la testa, dopodiché apre il pacchetto ed estrae il cotton-fioc.
“Apra la bocca” mi ordina gentilmente.
Faccio come dice e lei, tenendomi delicatamente il mento, passa l’estremità del cotton-fioc nel mio interno guancia, strofinando ripetutamente.
Una volta terminata l’operazione, tira fuori il cotton-fioc e lo infila nella provetta, che nel frattempo l’altra infermiera ha provveduto ad aprire. Spezza l’asticella, in modo che la lunghezza del bastoncino equivalga quella della provetta, e poi la tappa accuratamente.
“Abbiamo finito, Mr Grey” dice, inserendo la provetta nella bustina trasparente e togliendo la mascherina dal viso. “I risultati saranno pronti entro ventiquattro ore..” si sfila i guanti e li getta in un cestino giallo lì accanto. Di norma per un test del genere i risultati sono disponibili dopo 4-6 giorni lavorativi, ma il mio cognome servirà pure a qualcosa…
“Grazie” mormoro alzandomi e porgendole la mano.
Le due infermiere sorridono e cordialmente stringono entrambe la mia mano.
Le congedo e finalmente posso uscire da quella stanza. Nonostante lo spazio ampio e ben ventilato del corridoio, non riesco a respirare a pieni polmoni; è come se una morsa di ferro stringesse la mia gabbia toracica.
Il mio destino è racchiuso in una provetta con un tappo rosso lunga dieci centimetri. Il mio rapporto con Anastasia, con i miei bambini, con la mia famiglia, con la stampa; tutto è racchiuso lì dentro, e ci sono solo ventiquattro ore a separarmi dalla verità, ore che vorrei volassero, e allo stesso tempo che non passassero mai.
Mi avvicino ad una macchinetta e prendo una bottiglietta d’acqua frizzante, bevendo a piccoli sorsi. Lentamente riacquisto il controllo di me, e mi avvio verso gli ascensori il più velocemente possibile, in modo da non rischiare di incontrare nuovamente Shirley e Ben.
Giunto al piano terra, quasi corro verso l’uscita e, una volta fuori, sollevo il viso verso il sole, lasciandomi accecare dai suoi raggi, sperando che possano riscaldarmi l’anima e lenire la morsa dentro di me.
Almeno fino a domani.
 
Accendo il piccolo lume a forma di orsetto, rimbocco le coperte ai miei bambini e li bacio entrambi. Dio, quanto sono belli. Quando dormono poi, trasmettono un senso di pace ineguagliabile.
Ripongo sulla mensola il libro che ho letto loro stasera, li guardo ancora una volta e poi esco dalla loro cameretta.
Mi sposto in camera da letto, e noto che Anastasia non è lì, né in bagno. Sfilo l’orologio e la fede e li appoggio sulla cassettiera, dopodiché mi siedo sul letto, prendendomi la testa tra le mani e desiderando di poterla svuotare completamente, per non sentire il fiume di pensieri che mi tartassa il cervello.
Anastasia questa sera è tornata più tardi del solito, non mi ha dato spiegazioni ed io non le ho chiesto nulla, non volevo che si sentisse sotto pressione. Mi sono rivolto direttamente a Sawyer, il quale mi ha spiegato che Ana, una volta uscita dall’ufficio, gli ha semplicemente chiesto di andare in giro, ovunque pur di non tornare subito a casa.
Quando è rientrata, le sue attenzioni sono state solo ed unicamente concentrate sui bambini, i quali, per fortuna, sono ancora troppo piccoli per comprendere quanto la situazione tra noi sia tesa, e quanto la nostra vita potrebbe essere stravolta da qui a poche ore.
Mi alzo e scendo al piano inferiore a cercarla. Non devo faticare molto: non appena mi affaccio in salone, la vedo appoggiata alla vetrata che dà sul giardino, a fissare un punto non ben definito all’esterno. Conosco perfettamente quella postura: è quella di quando è pensierosa, preoccupata, quando vuole chiudersi in se stessa.
Ma io non posso permetterlo, non posso lasciare che mi escluda ancora più di quanto non stia già facendo. So che in questo momento probabilmente mi odia, ma so anche che, nonostante questo, se la lasciassi sola crollerebbe definitivamente, e non posso assolutamente permettere che accada.
Mi avvicino lentamente e lei, forse udendo i miei passi o scorgendo il mio riflesso nel vetro, si volta e mi viene incontro. Noto che ha un bicchiere di vino in mano, giunta a pochi passi da me, me lo porge. Mi rendo conto che effettivamente un po’ d’alcol non mi farebbe male, così lo afferro e bevo un sorso, appoggiandolo poi sul tavolino.
“Come mai sei.. sei tornata più tardi oggi? Giornata dura in ufficio?”
Lei mi fissa con le braccia conserte e accenna un sorrisino sarcastico. “Che me lo chiedi a fare se ti sei già informato tramite Sawyer?”
Imito il suo sorriso, cercando di intercettare il suo sguardo. Cosa darei per entrare nella sua mente, scoprire i suoi pensieri, attutire il suo dolore.
“Hai ragione.. Solo che.. volevo sentirlo da te..”
“Sentirti dire cosa per l’esattezza? Che avrei voluto girare tutta Seattle pur di tornare a casa il più tardi possibile?”
Beh, sì, ero già arrivato da solo a questa conclusione, ma sentirla da lei risulta cento volte più amara.
“Mi odi fino a questo punto?” mormoro, con un nodo che mi serra la gola.
Anastasia sgrana gli occhi. “No, Christian, non ti odio.. E’ solo che.. Io.. io non ce la faccio..”
È stanca, glielo si legge negli occhi quanto sia esausta.
“Non ce la fai a fare cosa?” lo so che è una domanda stupida, ma devo farla parlare.
Lei ha bisogno di aprirsi ed io ho bisogno di scovare dentro di lei.
“Non ce la faccio ad affrontare questo discorso.. ma allo stesso tempo non ce la faccio a comportarmi come se nulla fosse..” 
“E invece scappare ti fa stare meglio? Rende le cose più semplici??”
Ana abbassa lo sguardo, e sbatte rapidamente le ciglia, tipico gesto di quando vuole trattenere le lacrime. Le poso due dita sotto al mento e delicatamente le sollevo il viso, costringendola a guardarmi negli occhi.
“Christian.. niente è semplice..” dice, con la voce incrinata “Solo che.. fuori da qui mi illudo di.. non lo so.. di poter relegare tutto questo in un angolo della mente.. Anche se, alla fine è solo una mera illusione.. Non c’è un singolo minuto in cui il peso di questa situazione non mi opprima il petto..”
Quanto vorrei cancellare quell’ombra dai suoi occhi, quegli occhi che da sei anni sono il mio rifugio, lo specchio della mia anima, quegli occhi che quando si illuminano sono capaci di far impallidire il più bel cielo del mezzogiorno estivo.
“Oggi hai.. hai fatto il test??”
Annuisco, senza dire nulla.
“Quando.. quando avrai i risultati?”
“Domani, nel pomeriggio..”
“Non si aspettano almeno quattro o cinque giorni di solito?” domanda, sorpresa.
“Ho i miei agganci..” rispondo semplicemente.
Ana, accennando un sorrisetto, si avvicina di più a me, posando le mani dietro la mia nuca. Porta il mio viso verso il suo, e chiudendo gli occhi sfiora delicatamente il mio profilo con la punta del naso, come se volesse imprimere per sempre il mio profumo.
“Tra meno di ventiquattro ore la nostra vita potrebbe cambiare per sempre..” osserva risoluta, con un pizzico di tristezza.
Sospiro, annuendo e inebriandomi del suo profumo.
“Ana..” sussurro.
“Sssshhh” mi zittisce, dopodiché congiunge le nostre labbra, labbra che, inizialmente, si sfiorano e si saggiano con delicatezza.
Dopo qualche secondo, però, Anastasia schiude le labbra, e invita me a fare altrettanto. Le nostre lingue si incontrano e danno vita alla loro danza segreta, mentre le mie mani corrono a stringere i fianchi di mia moglie, e le sue si intrecciano ai miei capelli, tirandoli forte, quasi con disperazione, strusciandosi contro di me.
“A-Ana..” farfuglio, staccandomi a fatica dalla sua bocca “Che cosa..?”
Non faccio in tempo a finire la frase che lei mi posa due dita sulle labbra.
“Ti prego.. fammi dimenticare.. almeno per questa notte.. Non pensiamo a niente..” mi supplica, con la fronte contro la mia.
Respiro pesantemente, tentando di recuperare un minimo di lucidità.
So bene che Ana in questo momento non è in sé, vorrebbe solo liberare la mente, sentirsi più leggera, dimenticare per qualche ora tutto questo gigantesco casino che stiamo attraversando. E il sesso non credo sia il modo più giusto per farla stare meglio, non credo sia ciò di cui Ana ha realmente bisogno.
Ma io sono uno stronzo, e riesco a dare ascolto più al mio amichetto dei piani bassi, che si sta prepotentemente risvegliando all’interno dei boxer, piuttosto che al mio cervello, che mi urla invece che il sesso in questo momento non serve a risolvere l’attrito tra me e mia moglie.
Anastasia approfitta della mia titubanza e riprende a divorare le mie labbra, lasciandosi sfuggire un gemito non appena si accorge della mia erezione che preme contro il suo ventre.
Senza staccare le labbra dalle sue, la sollevo e lei mi cinge il collo con le braccia e i fianchi con le gambe. Tenendola stretta a me, mi dirigo verso le scale e senza alcuna fatica raggiungo la nostra camera. La metto giù, staccando a malincuore le mie labbra dalle sue per scendere a baciarle il collo, e contemporaneamente tiro giù la zip della sua gonna attillata, facendola cadere ai suoi piedi. Ana mi prende il viso tra le mani e mi dà un ultimo bacio prima di spingermi per le spalle a sedermi sul bordo del letto; calcia via la gonna e poi, parandosi davanti a me, lentamente sbottona la camicetta rosa che le accarezza le curve del seno e dei fianchi come seta. Si sfila la camicetta, lanciandola sulla sedia accanto alla gonna, e poi si scioglie i capelli; Dio mio, quanto è bella.
Ancora in intimo, Anastasia fa qualche passo, e si siede a cavalcioni su di me, facendo salire la mia eccitazione a livelli sovrumani. Le mie mani trovano subito i suoi fianchi, e li carezzano con la punta delle dita, facendola rabbrividire.
“Credo tu sia ancora troppo vestito..” osserva la mia splendida moglie, sbottonando anche la mia camicia e sfilandola velocemente, passando poi con delicatezza i polpastrelli sui miei pettorali.
Il suo tocco mi incendia, mi brucia, mi fa sentire vivo. Incapace di resistere ulteriormente, le prendo il viso e la attiro contro le mie labbra, tentando di infonderle in un bacio tutto l’amore che mi scoppia dentro.
Le mani di Ana si spostano dal mio petto alla cintura dei miei pantaloni, la slacciano e tirano giù la zip. La sento tastare l’elastico dei miei boxer e, prima che le sue mani arrivino a sfiorarmi e a farmi raggiungere il punto di non ritorno, la afferro per i fianchi e la adagio di schiena sul letto, portandomi sopra di lei. La guardo negli occhi per un lunghissimo istante prima di ricominciare a baciarla e contemporaneamente ad accarezzare il suo splendido corpo. La sento sorridere contro le mie labbra mentre le solletico leggermente il fianco, per poi accostare le dita al bordo dei suoi slip.
Ad un tratto, però, Ana mi ferma, allontanando le mie mani dal suo corpo.
“Che cosa c’è piccola?” mormoro, con il respiro affannoso.
“Spogliati” mi ordina, in un sussurro.
Sorrido e mi alzo in piedi, sfilandomi scarpe e pantaloni, mentre mia moglie mi osserva tenendosi sui gomiti. Il suo sguardo che percorre avidamente tutto il mio corpo fa accelerare notevolmente il mio battito cardiaco, e il sangue convoglia tutto all’altezza dell’inguine.
Ascolta si alza a sua volta, lentamente si avvicina a me e altrettanto lentamente si china davanti a me per sfilarmi i boxer, accarezzandomi le gambe. Li lancia sul pavimento e accarezza le mie gambe in senso inverso rispetto a prima: dalle caviglie sale verso i polpacci, poi l’incavo delle ginocchia e infine le cosce; me ne accarezza la parte posteriore mentre mi bacia quella anteriore, salendo lentamente e facendomi perdere un battito ad ogni sfioramento delle sue labbra.
Nel momento esatto in cui la sua bocca avvolge il mio membro, mi sembra di attraversare direttamente la linea che separa inferno e paradiso. Nei minuti successivi sento il mio corpo liquefarsi, il cuore battere impazzito e le gambe cedere.
“Ana” ansimo, a pochi istanti dal baratro.
Mia moglie si alza e sostituisce la mano alle labbra, baciandomi mentre il piacere mi consuma, catturando nella sua bocca i miei gemiti.
Porto le mani ai lati del suo viso, impiegando un po’ per riprendermi da un orgasmo che mi ha letteralmente squassato corpo e anima. Sarà che erano un paio di giorni che Ana ed io non eravamo in intimità, o forse che entrambi vogliamo lasciarci alle spalle tutti i pensieri, almeno per questa notte, ma mi sento più eccitato e smanioso del solito, e mia moglie non sembra affatto da meno.
Poso un braccio dietro la schiena di Anastasia e l’altro sotto le ginocchia per poi prenderla in braccio e adagiarla sul letto.
“Chris..”
Le poso un dito sulle labbra. “Ssshh, adesso tocca a me” sussurro, ammirandola in tutta la sua bellezza.
Le slaccio il reggiseno, lanciandolo da qualche parte; la libero anche dell’ultimo indumento intimo rimasto, e poi la accarezzo con lo sguardo, vedendola rabbrividire. Mi porto su di lei, che allarga istintivamente le cosce per accogliere il mio corpo. Le bacio il viso, il collo e poi l’incavo tra i seni, cercando di essere lento e dolce, senza badare alla mia nuova erezione già pronta per lei.
“Christian.. ti prego..” sussurra, ansimando e contorcendosi sotto di me.
Adoro avere questo tipo di controllo sul suo corpo, adoro vederla alla mia mercè, preda delle mie carezze.
Le mie labbra e la mia lingua scendono timidamente a baciarle il ventre, mentre i suoi gemiti sempre più forti ed intensi riempiono la stanza. Giunto alla mia meta preferita, porto le sue gambe divaricate sopra le mie spalle e, tenendole le cosce, mi dedica alla mia e sua fonte di piacere.
Anastasia inarca la schiena per donarsi sempre di più a me. La combinazione dei suoi talloni che premono contro la mia schiena, delle sue mani che si intrufolano tra i miei capelli, tirandoli e avvicinando ancora di più il mio viso al suo Eden e del suo respiro affannoso mi fanno letteralmente impazzire, mi incitano a darle di più.
Le accarezzo le cosce, i fianchi, fino al seno; la sento tremare, segno che è vicina al precipizio.
“Christian..” mormora, inarcando ulteriormente il bacino.
“Vieni piccola, vieni per me..” mormoro a mia volta.
E come sempre, in risposta al mio dolce ordine il suo corpo esplode. Le mani di Anastasia stringono forte i miei capelli, mentre le ondate di piacere scuotono il suo corpo. Mi riporto su di lei, baciandola ed impedendole di gridare.
Sento il suo respiro pian piano tornare regolare, mentre la stringo tra le braccia e appoggio la guancia alla sua.
“Guardarti venire è sempre uno degli spettacoli più belli del mondo” dico, baciandole con dolcezza una tempia.
Ana mi prende il viso tra le mani, guardandomi negli occhi con una profondità che fa sparire tutto ciò che abbiamo intorno. Tutto il mio essere è concentrato sull’oceano in tempesta delle sue iridi; gli occhi di mia moglie sono sempre stati un libro aperto per me, ma in questo momento darei tutto me stesso per riuscire a coglierne anche la minima sfumatura. Eccitazione, amore, delusione, rimpianto, rabbia; c’è tutto e c’è niente in quello sguardo che illumina il buio.
Vorrei dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma Anastasia non me ne dà il tempo: con un gesto rapido ribalta le posizioni, facendomi stendere di schiena e sedendosi a cavalcioni su di me. La visuale del suo seno pieno, dei suoi capelli bruni che le accarezzano sensualmente le spalle, del suo viso preda dell’eccitazione mi mandano fuori di testa. Non so quanto potrò resistere senza farla mia.
È lei a togliermi il dubbio, divaricando ancora un po’ le gambe e calandosi lentamente sul mio membro. Istintivamente sollevo il busto e la stringo a me, mentre lei comincia pian piano a muoversi su di me.
“Ana” ansimo.
“Ssshh, stai zitto” mi ammonisce, prendendomi il viso tra le mani e baciandomi quasi con violenza.
Dopo poco si stacca da me e mi bacia il collo, io invece le bacio l’incavo tra i seno e le solletico i capezzoli, accelerando le mie carezze mano a mano che lei accelera il ritmo.
Raggiungiamo il piacere estremo nello stesso istante, riversandoci l’uno nel corpo dell’altro. Stringo mia moglie forte a me: ho bisogno di sentire il suo calore contro il mio, i nostri cuori che battono all’unisono.
Ad un tratto, però, sento qualcosa che mi spinge a staccarmi da lei: un singhiozzo.
Prendo il viso di Anastasia tra le mani, le scosto i capelli all’indietro e la guardo negli occhi. E quello che vedo mi spezza letteralmente il cuore.
I suoi occhi sono colmi di lacrime, carichi di un dolore che non so decifrare, come se fin’ora fosse stata in uno stato di trance, fuori dal tempo e dallo spazio, e solo ora stesse tornando in sé.
“Ana, amore mio.. Che succede?” le chiedo, agitato, scuotendola leggermente per le spalle.
Ana mi guarda, ma è come se non mi vedesse. Si alza da me e corre in bagno, chiudendosi dentro.
“Ana!” urlo, alzandomi velocemente e indossando al volo i boxer giacenti per terra.
Mi avvicino alla porta del bagno e busso insistentemente.
“Ana, ti supplico aprimi!!”
Sento l’acqua della doccia scorrere, per cui decido di non insistere e aspettare che sia lei ad aprire.
Non capisco davvero cosa sia successo nel giro di pochi secondi e, a dire il vero, ho anche paura di scoprirlo. In questi giorni Ana è una vera e propria bomba orologeria: basta un minimo tocco sbagliato per farla esplodere.
Dopo pochi minuti sento finalmente scattare la serratura, la porta si apre e vedo uscire Anastasia con i capelli legati e un asciugamano avvolto intorno al corpo.
“Ana” mormoro.
Lei solleva il viso, consentendomi di vedere i suoi occhi rossi e le guance ancora umide dalle lacrime.
Sollevo una mano per accarezzarla, ma lei si scosta, facendomi fermare il cuore per un istante.
“Ana..” ripeto in un sibilo “Ti prego parlami..” la supplico.
“Christian.. io non ce la faccio..” dice abbassando il viso.
Sconfitto, arrabbiato e frustrato, raccolgo la mia camicia, la infilo e senza neanche abbottonarla esco dalla nostra camera e scendo al piano inferiore.
Raggiungo il mio ufficio e mi chiudo dentro, sbattendo la porta. Cammino nervosamente avanti e indietro, non riuscendo a togliermi dalla testa l’espressione di Anastasia.
Si è comportata come se si fosse trattato solo di… una sveltina, un po’ di sesso frettoloso, un modo per sfogarsi. In sei anni che Ana ed io stiamo insieme, non c’è stata una sola volta in cui al sesso non si siano accompagnate coccole o battutine sottili.
Adesso, invece, lo sguardo freddo di mia moglie mi ha gelato l’anima.
Mi siedo sul divanetto prendendomi la testa tra le mani, sperando con tutte le fibre del mio corpo che il test di domani sia negativo, perché in caso contrario ho paura di quali possano essere le conseguenze.
Il solo pensiero che il nostro matrimonio possa risentirne, con epiloghi impronunciabili, mi fa mancare l’ossigeno nei polmoni.
Mi appoggio allo schienale, fissando il soffitto e respirando profondamente.
E piango. 


Il giorno seguente…

Non appena scorgo dall’auto il vialetto di casa, provo al contempo l’impulso di entrare e di scappare. Le ore di questa giornata sembravano non trascorrere mai. In ufficio ho reso pochissimo, al punto che ho dovuto annullare una riunione, poiché la mia concentrazione è andata a farsi benedire. Non ho fatto altro che pensare ai risultati del test che avrei dovuto ritirare, e a ciò che è successo ieri sera con Anastasia.
Questa mattina, al risveglio, ero ancora sul divanetto del mio ufficio; per non insospettire i bambini sono corso in bagno a vestirmi. Prima di svegliare Teddy per la scuola e scendere a fare colazione, Anastasia ha cercato a modo suo di chiedermi scusa. L’ho tranquillizzata, anche se tranquillo non lo ero per niente.
E non lo sono neanche adesso, che stringo tra le mani un pezzo di carta che deciderà della nostra vita.
Non appena Taylor me lo ha consegnato, sono balzato su dalla poltrona e ho deciso di tornare a casa: non potevo aspettare ancora, ma non volevo aprirlo da solo. Ho bisogno di mia moglie, anche se tra noi c’è tensione, anche se non riesce neanche a sentir parlare di tutto questo.
Non appena Taylor parcheggia, scendo dall’auto e tiro fuori le chiavi dalla tasca. Dopo aver appoggiato giacca e ventiquattr’ore in atrio, mi dirigo in salone, trovandolo vuoto; mi sposto così in cucina, dove trovo Gail ad armeggiare ai fornelli.
“Buonasera Mr Grey!” mi saluta con un sorriso.
“Buonasera Gail! Mia moglie?”
“E’ in giardino a bere un tè..”
“E i bambini?”
“In cameretta a giocare..”
“Grazie, salgo dopo a salutarli”
Detto questo, raggiungo Ana in giardino. È sotto al gazebo, seduta con le spalle verso di me; udendo i miei passi, si volta di scatto, e il suo sguardo si incupisce non appena nota la busta che ho tra le mani.
Mi avvicino a lei, e lei a sua volta si avvicina a me. Le do un bacio leggero sulle labbra, dopodiché i nostri occhi si concentrano su quella busta bianca che reca sopra il mio nome.
Sospiriamo quasi nello stesso istante.
“E’ arrivato il momento..” 


Angolo me.
Buonasera mie splendide lettrici e, ormai, posso dire anche un po’ amiche. Inizio col farvi gli auguri di Buona Pasqua, seppur un po’ in ritardo; ma, soprattutto, voglio chiedervi immensamente SCUSA per l’immane ritardo con cui pubblico questo nuovo capitolo.
Come tutte ben sapete, il mese scorso ho avuto la sessione d’esame, quindi a febbraio e marzo ho vissuto praticamente quasi in simbiosi con i libri xD Ma posso dire che ne è valsa la pena: sono riuscita a dare tutti gli esami della sessione, con risultati anche migliori di quanto sperassi.
Una volta terminati gli esami, però, scrivere il capitolo non è stato semplice: come potrete immaginare, è stato un passaggio difficile da scrivere. Pur avendo la trama delineata in mente, non è stato semplice rendere nero su bianco i pensieri e le sensazioni dei nostri protagonisti. Spero di essere riuscita a farvi immergere nei loro cuori e nelle loro menti, chiarendo i loro sentimenti e i loro conflitti interiori.
Il prossimo capitolo, per quanto anch’esso più o meno strutturato nella mia mente, non sarà facile da scrivere, quindi vi chiedo di pazientare un attimo; in più sono ricominciati i corsi all’Università e quindi il tempo che ho per scrivere è poco. Vi confesso che alcuni passaggi arrivo a scriverli sugli appunti del cellulare durante la pausa pranzo o mentre aspetto i mezzi pubblici xD
Intanto, durante la mia assenza, è successa anche una cosa che aspettavamo da ben due anni: l’uscita di “Cinquanta sfumature di nero”!!! L’avete visto?? Io sì, e devo dire che mi è piaciuto molto di più del primo film. Sarà che sono una romantica (ma davvero?? Chi l’avrebbe mai detto!), e in questo film è venuta fuori la vera storia d’amore; sarà che l’ho trovato più attinente al libro; saranno i costumi, le musiche, la trama, non lo so, ma l’ho adorato davvero tanto e non vedo l’ora di acquistare il DVD.
Venendo a noi, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e mai come ora è importante per me sapere le vostre opinioni. Non odiatemi per averlo interrotto proprio sul più bello, un po’ di suspense ci vuole, no?
Voglio dirvi IMMENSAMENTE GRAZIE per la straordinaria pazienza che avete con me, per il grande affetto che mi riservate ormai da così tanto tempo.
Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile, nel frattempo vi ringrazio in anticipo per la pazienza.
Ancora un enorme grazie a tutte, un abbraccio forte.
A presto. Mery.
P.S. Chiedo scusa per eventuali errori, ma è tardissimo e non ho riletto il capitolo.
 
 
 
   
 
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